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Vittorio Alfieri - Del Principe e delle lettere libri tre


..... VIRTUS, ET SUMMA POTESTAS NON COEUNT. LUCANO, LIBRO VII. VERSO 444.

DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE LIBRI TRE DI VITTORIO ALFIERI

DA ASTI.

Secordiam eorum inridere libet, qui presenti  potentia  credunt  extingui  posse
etiam sequentis ævi memoriam. TACITO, ANNALI, LIBRO IV.





DALLA TIPOGRAFIA DI KEHL CO' CARATTERI DI BASKERVILLE. MDCCXCV.



TAVOLA DEI CAPITOLI

LIBRO PRIMO.

Ai principi che non proteggono le lettere.

CAPITOLO PRIMO. Se il principe debba protegger le lettere.

CAPITOLO SECONDO. Cosa sia il principe.

CAPITOLO TERZO. Cosa siano le lettere.

CAPITOLO QUARTO. Qual fine si proponga il principe, e quale le lettere.

CAPITOLO QUINTO. In qual modo i letterati protetti giovino al principe.

CAPITOLO SESTO. Che i letterati negletti arrecano discredito al principe.

CAPITOLO SETTIMO. Che i letterati perseguitati riescono  d'infamia  e  danno  al
principe.

CAPITOLO OTTAVO. Che il principe, quanto a se stesso, dee poco temere chi legge,
e nulla chi scrive.

CAPITOLO NONO. Che gioverebbe  al  principe  di  estirpar  le  lettere  affatto,
potendo.

CAPITOLO DECIMO. Non potendo il principe estirpare affatto le lettere, gli giova
parerne il rimuneratore, e l'appoggio.

CAPITOLO UNDECIMO. Quai premj giovi più al principe di dare ai letterati.

CAPITOLO DUODECIMO. Conclusione del primo libro.

LIBRO SECONDO.

Ai pochi letterati che non si lasciano proteggere.

CAPITOLO PRIMO. Se i letterati debbano lasciarsi protegger dai principi.

CAPITOLO SECONDO. Se le lettere, che sembrano inseparabili dai costumi corrotti,
ne siano la cagione, o l'effetto.

CAPITOLO TERZO. Che le  lettere  nascono  da  se,  ma  sembrano  abbisognare  di
protezione al perfezionarsi.

CAPITOLO QUARTO. Come, e fin dove, gli uomini sommi possano  assoggettarsi  agli
infimi.

CAPITOLO QUINTO. Differenza totale che passa, quanto alla protezion principesca,
fra i letterati e gli artisti.

CAPITOLO SESTO. Che il lustro momentaneo si può ottenere per via dei potenti; ma
il vero ed eterno, dal solo valore.

CAPITOLO SETTIMO. Quanto sia importante, che il letterato stimi con  ragione  se
stesso.

CAPITOLO OTTAVO. Qual sia maggior cosa; o un grande  scrittore,  o  un  principe
grande.

CAPITOLO NONO. Se sia vero, che le lettere debbano maggiormente  prosperare  nel
principato che nella repubblica.

CAPITOLO DECIMO. Quanto  il  letterato  è  maggiore  del  principe,  altrettanto
diviene egli minore del principe e di se stesso, lasciandosene proteggere.

CAPITOLO UNDECIMO. Che tutti i premj principeschi avviliscono i letterati,

CAPITOLO DUODECIMO. Quai premj avviliscano meno i letterati.

CAPITOLO DECIMOTERZO. Conclusione del secondo libro.

LIBRO TERZO.

All'ombre degli antichi liberi scrittori.

CAPITOLO PRIMO. Introduzione al terzo libro.

CAPITOLO SECONDO. Se le lettere possano nascere,  sussistere,  e  perfezionarsi,
senza protezione.

CAPITOLO TERZO. Differenza  tra  le  belle  lettere  e  le  scienze,  quanto  al
sussistere e perfezionarsi senza protezione.

CAPITOLO QUARTO. Se abbia giovato maggiormente la perfezione  delle  scienze  ai
popoli servi moderni, o la perfezione delle lettere ai liberi antichi.

CAPITOLO QUINTO. Dei capi-setta religiosi; e dei santi e martiri.

CAPITOLO SESTO. Dell'impulso naturale.

CAPITOLO SETTIMO. Dell'impulso artificiale.

CAPITOLO OTTAVO. Come, e da  chi  si  possano  coltivare  le  vere  lettere  nel
principato.

CAPITOLO NONO. Quale riuscirebbe un nuovo secolo letterario, che,  sfuggito  non
meno alla protezione che alla persecuzione di ogni principe, non venisse  quindi
a contaminarsi col nome di nessuno di essi.

CAPITOLO DECIMO. Che da tali nuove lettere nascerebbero a poco a poco dei  nuovi
popoli.

CAPITOLO UNDECIMO. Esortazione a liberar la Italia dai barbari.

CAPITOLO DUODECIMO. Ricapitolazione dei tre libri, e conclusione dell'opera.


PREFAZIONE.

PAREAMI, in sogno, al sacro monte in cima Venir per l'aure a voi sovr'ali snelle
Fra il coro delle vergini sorelle, Per cui l'uom tanto il viver suo sublima,

Quì t'abbiam tratto, (a me dicea la prima) Non perchè invan  del  tuo  volar  ti
abbelle, Ma perchè appien, quanto il saprai, scancelle Un rio volgar parer,  che
mal ci estima.

Sia malizia, o ignoranza, o sia viltade, Giove per padre ognun ci da;  ma  tace,
Che vera madre nostra è Libertade.

Tu vanne, e dillo, espertamente audace, In suon sì forte,  che  in  più  maschia
etade Vaglia a destar chi muto schiavo or giace.

DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE LIBRO PRIMO

AI PRINCIPI, CHE NON PROTEGGONO LE LETTERE.

La forza governa il mondo, (pur troppo!) e non il sapere: perciò chi  lo  regge,
può e suole essere ignorante. Il principe dunque che protegge  le  lettere,  per
mera vanità e per ambizioso lusso le protegge. Si sa, che  le  imprese  mediocri
vengono a parer grandi in bocca degli eccellenti scrittori; quindi,  chi  grande
non è per se stesso, ottimamente fa di cercare chi grande lo  renda.  Ma,  tutti
gli uomini buoni si debbono bensì dolere, e non poco, che queste  penne  mendaci
si trovino, ed anche a vil prezzo; e che spesso i più rari ed  alti  ingegni  si
prostituiscano a dar fama ai più infimi; e che, in somma, tentando d'ingannare i
posteri, gli scrittori disonorino la loro arte e se stessi.  Principi,  che  non
proteggete le lettere, a voi indirizzo questo primo mio libro, che  specialmente
tratta dell'aderenza principesca coi letterati. A dedicarvelo mi trae una vera e
piena gratitudine: poichè, non corrompendo  voi  scrittori  di  specie  nessuna,
schiettamente pervenite a mostrarvi tali appunto quai siete, sì  alle  presenti,
che alle future età; se quelle pur mai nominare vi udranno.



CAPITOLO PRIMO.

SE IL PRINCIPE DEBBA PROTEGGER LE LETTERE.

Protezione, onori, incoraggimenti, mercede; odo per  ogni  parte  gridare  dalla
ingorda turba, che delle sacre lettere (come d'ogni più rea cosa) vuol  traffico
fare e guadagno. Ma, che altro per lo più da queste grida  ridonda,  se  non  la
viltà del chiedere e l'obbrobrio delle ripulse?  Risponde  il  principe:  Che  i
letterati sono inutili al ben pubblico (il quale da lui vien tutto riposto in se
stesso); che riescono talvolta dannosi e nocivi alla perfetta  obbedienza,  come
indagatori di cose che debbono rimanere nascoste; e che  ad  ogni  modo  sono  i
letterati più assai da temersi che non da pregiarsi. Io mi propongo di  trattare
profondamente, per quanto il saprò, queste politiche questioni qui accennate.  E
da prima, investendomi io, per quanto il potrò, del pensare del principe, anderò
investigando in questo primo libro le ragioni che militano in  lui  a  favore  e
contro alle lettere; e se debba egli quindi proteggerle, o no.



CAPITOLO SECONDO.

COSA SIA IL PRINCIPE.

Ma, prima d'ogni altra cosa, per intendersi, e spiegarsi, mi par  necessario  il
definire esattamente le due parole, che saranno per così dire il continuo  perno
di questo trattato. E, dovendo io definire cosa intender si voglia per principe;
dico, che ai tempi nostri la parola PRINCIPE importa: Colui,  che  può  ciò  che
vuole, e vuole ciò che più gli  piace;  nè  del  suo  operare  rende  ragione  a
persona; nè v'è chi dal suo volere il diparta, nè chi al  suo  potere  e  volere
vaglia ad opporsi. Costui, che in mezzo agli uomini sta come starebbe  un  leone
fra un branco di pecore, non ha legami con la società, se non quelli di  padrone
a schiavo; non ha superiori, nè eguali, nè parenti, nè amici;  e,  benchè  abbia
egli per inimico l'universale, le  forze  tuttavia  sono  tanto  dispari  stante
l'opinione, che si può anche asserire che egli non abbia nemici. Costui  non  si
crede di una stessa specie che gli altri uomini; e veramente troppo diverso  dee
credersi, poichè gli altri tutti, che hanno pure (quanto all'apparenza almeno) e
faccia  e  atti  e  intendimento  umano,  soggiacciono  a  lui   ciecamente,   e
nell'obbedirlo fan fede ad un tempo e della loro inferiorità,  e  della  di  lui
maggioranza. Costui, per lo più  poco  avvezzo  a  ragionare,  e  molto  meno  a
pensare, non conosce e non prezza altra  distinzione  fra  gli  uomini,  che  la
maggior forza: e non la forza di corpo, (che egli per se non ne ha niuna) ma  la
forza  che  sta  nella  opinione  dei  molti  uomini  esecutori  venduti   delle
principesche volontà. Il  principe  vede  soggiacere  a  lui  qualunque  merito,
qualunque dottrina, qualunque virtù, che in eminente grado distinguano l'un uomo
dall'altro: il dotto non meno che l'ignorante, il  coraggioso  non  men  che  il
codardo, il fortissimo non men che il più debole;  tutti  egualmente  egli  vede
tremare di lui: quindi, senza sforzo veruno d'ingegno, il principe fra se stesso
conchiude, (e ottimamente conchiude) che l'uomo veramente sommo è quel solo, che
comanda e atterrisce un maggior numero d'altri uomini. Posato questo  principio,
giustissimo nel capo di chi regna, verrà dunque il principe a stimare se  stesso
sopra ogni cosa, e ad accarezzare, e proteggere infra il suo  branco  quei  soli
che più l'obbediscono, e che più s'immedesimano nelle di lui opinioni.



CAPITOLO TERZO.

COSA SIANO LE LETTERE.

Ma, che sono elle le vere lettere? Difficilissimo è il  ben  definirle:  ma  per
certo elle sono una cosa  contraria  affatto  alla  indole,  ingegno,  capacità,
occupazioni, e desiderj del principe: e in fatti nessun principe non fu mai vero
letterato,  nè  lo  può  essere.  Or  dunque,  come  può  egli   ragionevolmente
proteggere, e favorire una sì alta cosa, di cui, per non  esserne  egli  capace,
difficilissimamente può farsi egli giudice? E se giudice competente non  ne  può
essere, come mai rimuneratore illuminato può farsene? per giudizio d'altri. E di
chi? di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le  lettere  sono  l'arte
d'insegnar dilettando, e di commuovere, coltivare, e bene indirizzare gli  umani
affetti; come mai il toccare ben addentro le vere  passioni,  lo  sviluppare  il
cuore dell'uomo, l'indurlo al bene, il distornarlo dal male, l'ingrandir le  sue
idee, il riempirlo di nobile ed  utile  entusiasmo,  l'inspirargli  un  bollente
amore di gloria verace, il fargli conoscere i suoi  sacri  diritti;  e  mille  e
mille altre cose, che tutte pur sono di ragione delle sane e vere lettere;  come
mai potranno elle un tale effetto operare sotto gli auspicj di  un  principe?  e
come le incoraggirà a produrlo, il principe stesso? L'indole predominante  nelle
opere d'ingegno nate nel principato, dovrà dunque necessariamente  essere  assai
più la eleganza del dire, che non la sublimità e forza del pensare.  Quindi,  le
verità importanti, timidamente accennate appena qua e là, e velate anche  molto,
infra le adulazioni e l'errore vi appariranno quasi naufraghe. Quindi è,  che  i
sommi letterati (la di cui grandezza io misuro soltanto dal  maggior  utile  che
arrecassero agli uomini) non sono stati mai pianta di principato. La libertà  li
fa nascere, l'indipendenza gli educa, il non temer li fa grandi; e il non essere
mai stati protetti, rende i loro scritti poi utili alla più lontana posterità, e
cara e venerata la loro memoria. Fra i letterati di principe saranno  dunque  da
annoverarsi Orazio, Virgilio, Ovidio, Tibullo, Ariosto, Tasso, Racine,  e  molti
altri moderni, che sempre temono che il lettore troppo senta  quando  vien  loro
fatto di toccare altre passioni che l'amore. Ma, que' tuoni di verità, i  quali,
perchè pajono forse meno eleganti, sono assai meno  letti,  e  che  essendo  più
maschi,  più  veritieri,  incalzanti,  e  feroci,  sono   assai   meno   sentiti
dall'universale, perchè appunto fan troppo  sentire;  quelli  non  sono  mai  di
ragione di principe. Tali in alcuna o in  tutte  le  parti  sono,  per  esempio:
Demostene, Tucidide, Eschilo, Sofocle, Euripide, Cicerone, Lucrezio,  Sallustio,
Tacito,  Giovenale,  Dante,  Machiavelli,  Bayle,  Montesquieu,  Milton,  Locke,
Robertson, Hume, e tanti altri scrittori del vero, che  se  tutti  non  nacquero
liberi, indipendenti vissero almeno, e non protetti da nessuno.



CAPITOLO QUARTO.

QUAL FINE SI PROPONGA IL PRINCIPE, E QUALE LE LETTERE.

Se comunanza può esservi, amistà, concordia, e legami fra gli uomini, la  parità
del fine che si propongono, e la reciprocità d'interesse,  li  generano  sole  e
mantengono. Ma, che pari siano il fine e l'interesse del principe, e quelli  del
vero letterato, chi asserirlo ardirebbe? Vuole, e dee volere  il  principe,  che
siano ciechi, ignoranti, avviliti, ingannati ed oppressi i suoi sudditi; perchè,
se altro essi fossero, immediatamente cesserebbe  egli  di  esistere.  Vuole  il
letterato, o dee volere, che i suoi scritti arrechino al più degli uomini  luce,
verità, e diletto. Direttamente dunque opposte sono le loro mire. Si propone  il
principe per fine dell'arte sua  la  illimitata  ed  eterna  potenza;  mista  di
gloria, se gli vien fatto; se no, a ogni modo potenza ed  impero.  Il  letterato
null'altro si propone (nè proporre si dee) se non se  schiettissima  gloria;  ed
ogni altra cagione  che  il  muova,  lo  toglie  tosto  dalla  classe  dei  veri
letterati. Alla pura e intera gloria di  scrittore  necessariamente  va  annesso
l'utile dei più; perchè senza esso non basta il solo diletto a  procacciar  vera
gloria. Ora, l'utile dei più, manifesta cosa è  che  egli  non  può  essere  mai
l'utile del principe, il quale d'altro non sussiste, se non della cecità e danno
dei più. Sono dunque costoro, per necessaria conseguenza dell'arte  loro,  amici
degli uomini gli uni, nemicissimi gli altri: in nulla  quindi  non  possono,  nè
debbono, tra lor concordare. Ma,  qual  ragione  pure  li  riunisce  sì  spesso?
desiderio di gloria non meritata, nei principi; desiderio di falsi  onori  e  di
ricchezze non lecite, nei letterati. Quelli, col mendicare i non dovuti  encomj,
manifestano a tutti che sono appieno convinti in  se  stessi  di  non  gli  aver
meritati: questi, col procacciarsi le ricchezze non necessarie, o gli  infamanti
onori, si manifestano indegni dell'alto incarico di giovare  all'universale  col
loro ingegno.



CAPITOLO QUINTO.

IN QUAL MODO I LETTERATI PROTETTI GIOVINO AL PRINCIPE.

Ma pure, poichè  al  principe  oltre  ogni  cosa  rileva  il  parer  buono,  più
ch'esserlo, gran mezzo si è, per ottener tale intento, il tenersi  dintorno,  il
premiare, onorare, e proteggere scrittori d'un qualche merito, che lo pongano in
fama; e che ne abbiano già acquistata una tal quale a se stessi, o con opere,  o
con parole, o con impostura: che questa, per alcun  tempo,  equivale  al  merito
vero, se pur non lo supera. Gli uomini grandi davvero, in ogni  età  e  contrada
rarissimi nascono: ma quei mediocri, che con indefesso studio  acquistatasi  una
certa felicità di stile, son giunti a farsi leggere ed ascoltare, abbondano oggi
giorno in ogni colto paese d'Europa; e sono questi  la  base  della  letteratura
cortigiana. Se sorge alcuno  scrittore  più  grande  di  loro,  dottissimi  sono
costoro nell'arte di tenerlo talmente avvilito, che talvolta  dalla  impresa  il
rimuovono, se non è in lui un Iddio, che lo spinga a viva forza  innanzi  contra
ogni ostacolo. Il principe, per naturale sua indole, pende  sempre  maggiormente
per i mediocri; o come più vicini alla capacità sua, e perciò meno offendenti la
sua ideale superiorità; o come più arrendevoli al tacere, o al  parlare  a  modo
suo. Ma pure, anche i grandissimi ingegni, per onta loro e dei  tempi,  si  sono
spesse volte imbrattati fra il lezzo delle corti:  e  quel  principe  protettore
dovea tacitamente in se stesso applaudirsi, e non poco, di aver loro scemata co'
doni ed onori quella preziosa libera bile, che sola è madre  d'ogni  bell'opera.
Accorto dunque, e veramente saputo è quel principe,  che  non  meno  protegge  i
sommi letterati che i mediocri: perchè dai mediocri ne  ottiene  per  se  quella
glorietta, che è la giusta misura del merito sua, poich'egli se ne  appaga;  dai
grandi ne ottiene spessissimo il disonor di se stessi, o  almeno  la  tregua  di
quella loro guerra, che gli arrecherebbe danno assai  più,  che  utile  non  gli
arrechi lo smaccato lodar di quegli altri.



CAPITOLO SESTO.

CHE I LETTERATI NEGLETTI ARRECANO DISCREDITO AL PRINCIPE.

Glorietta dunque, e splendore,  e  lustro,  e  quiete  arrecano  al  principe  i
letterati protetti: ma negletti, gli apportan discredito. Nel  sistema  presente
della nostra Europa, quasi tutti i principi  mantengono  degli  accademici,  non
altrimenti che due secoli addietro soleansi mantener dei buffoni,  di  cui  però
assai più si valevano. Quindi un principe che trascuri le lettere, corre rischio
oggidì, che un qualche suo suddito letterato e negletto da lui,  non  cerchi,  e
ritrovi pane ed onori in casa d'altro principe; del che a lui sarà per  tornarne
grand'onta. Gli uomini, sempre ciechi, sempre leggieri al credere,  e  paghi  di
quel che pare, sono presti tutto dì a dar lode a quel principe, il quale, non si
valendo in nulla dei letterati, e in ogni cosa operando il contrario  di  quello
che van predicando le lettere, le oltraggia perciò maggiormente col proteggerle,
nutrirle, e ogni giorno svergognarle. Alla pubblica voce del volgo fanno  eco  i
letterati stessi, i quali, parlando di cosa che li tocca da presso, non vogliono
schiettamente dire la verità. Eppure, ben  pesato  il  tutto,  qual  più  atroce
insulto può  egli  farsi  alle  lettere,  che  di  pascerle  ed  impedirle?  Ma,
certamente, se i letterati negletti pongono il principe moderno  in  discredito,
conviene pur anche confessare che i letterati protetti pongono se stessi  in  un
discredito assai maggiore; e più fatale di tanto, che alla  sublimità  dell'arte
loro una tal protezione può nuocere e  nuoce,  senza  che  alla  mediocrità  del
principe proteggente quasi niuno accrescimento ne ridondi. Del che  nel  secondo
libro mi riserbo a ragionar lungamente.



CAPITOLO SETTIMO.

CHE I LETTERATI PERSEGUITATI RIESCONO D'INFAMIA E DANNO AL PRINCIPE.

Che dirò poi del principe, che,  non  pago  di  lasciargli  alla  necessità,  li
perseguita? Egli si apparecchia molta infamia, e molto più  danno.  Se  le  cose
deboli per se stesse (o almeno di una forza non palese a  tutti,  come  lenta  e
lontana), possono pure  mai  nuocere  al  potente,  l'unico  mezzo  affinch'elle
nuocano, si è lo  inimicarle,  mostrando  di  temerle.  Gli  uomini  per  natura
inclinano  dalla  parte  del  debole;  e  gli  oltraggi   fatti   dal   principe
all'universale sono già tanti, che a farsi egli biasimare e abborrire, ci  vuole
assai meno che il perseguitar letterati. Ma, dirà il principe: "Mi biasimino  in
voce costoro; poco, e sommessamente il faranno: ma, se io non gli opprimessi,  o
cacciassi, o affliggessi, mi biasimerebbero in iscritto, il  che  sarebbe  assai
peggio". E molto bene ragionerebbe costui, se alcun cantuccio non rimanesse  sul
globo, donde  il  letterato  potesse  poi,  ricovratosi  in  sicurtà,  scagliare
contr'esso di ogni sorta scritti, e ridersi dei suoi fulmini. Ma, poichè pure un
tale asilo vi rimane in Europa, quale altro guadagno farà egli il  principe  nel
costringere il letterato a rifugiarvisi, fuorchè la vergogna di  manifestare  in
quale brevissimo cerchio il  suo  potere  si  confini?  Visto  dunque  lo  stato
presente delle cose, politica sana e savia nel diciottesimo secolo, e adattabile
ad ogni principe e grande,  e  piccolo,  e  mediocre,  sarà  il  proteggere,  il
pascere, e premiando avvilire gli scrittori; e togliere così il valore e la fama
alle lettere, coll'infamarne preventivamente i prezzolati artefici.



CAPITOLO OTTAVO.

CHE IL PRINCIPE, QUANTO A SE STESSO, DEE POCO TEMERE  CHI  LEGGE,  E  NULLA  CHI
SCRIVE.

Ma, il timore dovendo pur sempre essere la tacita norma di ogni uomo, che  sotto
qualunque titolo ne costringa ad arbitrio suo molti  altri;  dico,  e  spero  di
provare, che anco lo stesso timore  dovrà  indurre  i  moderni  principi  a  non
perseguitare i letterati, altrimenti che coi loro doni, e col  loro  proteggente
disprezzo. Gli scrittori, per quanto esser possano caldi, ed  anche  entusiasti,
rarissimamente sono da temersi per se stessi; o sia, perchè la loro vita molle e
sedentaria li rende poco atti all'eseguire, o  tentare  azioni  grandi;  o  sia,
perchè lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e  minora  il  loro
sdegno. Da temersi dunque sarebbero soltanto i loro scritti  nella  persona  dei
diversi loro lettori. Ma, in questo secolo, in cui  pur  tanto  si  legge  e  si
scrive, esaminiamo rapidamente quali siano coloro che leggono; e quali  scritti,
e in qual modo, si leggano. Quale animo vediamo noi, infiammato  da  quei  tanti
generosi tratti di storia antica, dar segno  di  averne  ricevuto  una  profonda
impressione, col fare, o dire, o tentare, o almeno caldissimamente lodare alcuna
di quelle imprese alte e memorabili, che dai moderni col freddo e vile  vocabolo
di pazzie vengono denominate? Ma, poniamo anco, che tali  cose  si  vadano  pure
leggendo, e con qualche frutto; chi è, che le legge? non il popolo,  che  appena
sa leggere; che, sepolto nei pregiudizj, avvilito dalla servitù,  fatto  stupido
dalla povertà, non ha nè tempo, nè mezzi, nè ajuti, per imparare a discernere  i
suoi proprj diritti: ed  egli  pur  solo  potrebbe  farli  valer,  conoscendoli.
Leggono adunque veramente nel principato i pochi uomini rinchiusi nelle città; e
fra questi, il minor numero di essi; cioè quei pochissimi, che non bisognosi  di
esercitare arte nessuna per campare, non desiderosi di cariche, non adescati dai
piaceri, non traviati dai vizj, non invidiosi dei grandi, non vaghi di far pompa
di dottrina, ma veramente pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano  ne'
libri un dolce pascolo all'anima, e un breve compenso  alle  umane  miserie;  le
quali forse assai più vivamente  vengono  sentite  da  chi  il  minor  danno  ne
sopporta. E così fatti lettori (a questi soli attribuisco io un  tal  nome)  che
non sono uno in dieci mila, spaventare potrebbero il principe? Leggere, come  io
l'intendo, vuoi dire profondamente pensare; pensare, vuol dire starsi; e starsi,
vuol dir sopportare. Si esamini la storia,  e  si  vedrà,  che  i  popoli  tutti
ritornati di servitù in libertà, non lo furono già per  via  di  lumi  e  verità
penetrate in ciascuno individuo;  ma  per  un  qualche  entusiasmo  saputo  loro
inspirare da alcuna mente illuminata, astuta, e focosa: e neppur quella era  una
mente seppellita nell'ozio degli studj, ma pensante per se  stessa;  e  di  quel
pensare che nasce da un sentimento naturale e profondo; forse risvegliato da  un
tratto di tale, o tal libro, ma non mai accattato  dai  molti  di  essi.  Ed  in
fatti; Giunio Bruto, Pelopida, Guglielmo Tell, Guglielmo di Nassau,  Washington,
e altri pochi grandi che idearono  od  eseguirono  rivoluzioni  importanti,  non
erano letterati di  professione.  Crederei  anzi,  (e  l'effetto  finora  me  lo
dimostra vero, pur troppo!) che i lumi moltiplicati e sparpagliati fra  i  molti
uomini, li facciano assai più parlare, molto  meno  sentire,  e  niente  affatto
operare. Si parla e si legge e si scrive in  Parigi;  e  ci  si  obbedisce  pure
finora, quanto e più che a Costantinopoli, dove  nessuno  scrive,  e  pochi  san
leggere. Ma pure, fra' Turchi, come in ogni altro asiatico dispotismo, sorge  di
tempo in tempo un tal capo, che nessuna altra dottrina  conoscendo,  fuorchè  le
leggi di natura fortemente sentite, dice con energica rozzezza a molti di quegli
idiotissimi uomini: "Questo nostro principe è  irreligioso;  è  tiranno;  non  è
guerriero; si deponga, si uccida". E spesso viene egli e deposto, ed ucciso. Non
nego però, che a lungo andare, lo spirito dei libri non s'incorpori, direi così,
nello spirito dei popoli che nella loro  lingua  gli  hanno;  e  penetra  questo
spirito in  tutti  gl'individui,  o  sia  per  tradizione,  o  sia  per  lettura
effettiva, o sia per lo diverso pensare che si va facendo strada nel  discorrere
familiarmente; e penetra a tal segno, che in capo a qualche secolo si trova  poi
mutata affatto l'opinione di tutti. Ma, colla stessa lentissima progressione, si
trovano poi anche mutati i mezzi e l'arte  del  comandare;  e  gli  uomini  (pur
troppo!) non si vengono niente meno di prima a  tener  sotto  il  freno  da  chi
conoscere li sa e prevalersene. Parmi adunque, che i principi moderni,  visto  i
progressi non impedibili oramai delle lettere, non abbiano perciò a perseguitare
i letterati, perchè invano il farebbero: ma, che sapendo  essi  serpeggiare  fra
loro, e, per così dire, innestarseli, potranno  forse  riuscire  a  rendere  col
tempo le lettere non essenzialmente contrarie alla somma della  loro  illimitata
autorità, ed  appena  debolmente  sfavorevoli  a  un  certo  eccessivo  modo  di
esercitarla.



CAPITOLO NONO.

CHE GIOVEREBBE AL PRINCIPE DI ESTIRPAR LE LETTERE AFFATTO, POTENDO.

Se un solo principe vi fosse su questo globo;  o  se  nessun  altro  governo  vi
fosse, che il principesco; o se qualche isola così ben guardata vi fosse, da cui
nessun uomo uscire, nè alcuno entrar vi potesse; credo che in questi  tre  casi,
il principato potrebbe con suo manifesto  vantaggio  proscrivere  ogni  lume  di
lettere, e ogni qualunque libro, che non  insegnasse  il  servire.  Non  si  può
mettere in dubbio, che l'uomo che  si  trova  soggetto,  non  vuole  per  natura
obbedire, se non il meno ch'ei può; e così, quello che si  trova  sovrano,  vuol
comandare il più ch'egli può. Al  principato  dunque  gioverebbe  moltissimo  la
totale cecità e ignoranza dei sudditi tutti: nè mi par questa  una  proposizione
che abbisogni di prove. Ma dico di più:  che  in  un  tale  stato  di  cose,  la
ignoranza perfetta dei sudditi gioverebbe al principe assai più, che non possono
nuocergli nello stato presente i tanti lumi, che a noi pare d'avere. E di quanto
asserisco, ne trovo la prova nei  fatti.  Malgrado  questi  nostri  tanti  lumi,
malgrado che da molti di noi ben si sappia che ogni autorità illimitata non  può
avere altra base che la nostra debolezza,  e  non  mai  l'altrui  forza,  poichè
nessun uomo ne ha tanta in se stesso da poter tutti sforzare; ogni giorno  pure,
e ad ogni capriccio da noi ciecamente si obbedisce tacendo.  Al  contrario,  nei
paesi di perfetta ignoranza, l'autorità assoluta  vien  riputata,  o  di  dritto
divino, o privativa di quella tale stirpe, o necessaria e inerente  alla  natura
dell'uomo; e quindi ogni fantasia del dominante viene senza mormorare accettata,
come giusta, inviolabile, e sacra legge. Certo è, che per gli animi volgari, più
queta e secura cosa riesce il comandare a chi non dubita punto  se  obbedire  si
debba: ma, questo prezioso dubbio, trasmesso alle nazioni  moderne  europee  per
via dei libri antichi, non si può da nessun principe con niuna  forza  estirpare
del tutto.  Ed  in  fatti,  per  quanto  siano  mai  state  perseguitate,  o  si
perseguitino le lettere e i letterati, non si  potrà  però  mai  annichilare  un
Tacito; e questo solo è più che bastante per rivelare agli uomini  ogni  segreto
dell'arte  principesca.  Mi  pare  dunque  chiarissima  cosa,  che  il   tentare
d'impedire a mezzo ogni seme di  vera  letteratura,  non  sia  nè  prudenza,  nè
ragione, nè astuzia, nel moderno principe. Nel mostrare egli di molto temere ciò
che l'effetto e l'esperienza debbono avergli insegnato oramai che  poco  si  dee
temere da chiunque lo sa deviare, il principe non accresce di nulla  la  propria
sicurezza; ma bensì in molto maggior dose si va egli procacciando in tal guisa e
l'odio  e  il  disprezzo   di   tutti.   Maometto   secondo,   nell'impadronirsi
d'Alessandria fece ardere tutti i libri raccolti dai Tolomei, come  inutili  per
chi sapeva obbedire, e dannosissimi per chi nol sapeva. Ma molti secoli innanzi,
quegli stessi Tolomei regnando assoluti in Egitto; molti secoli  dopo,  Lodovico
decimoquarto, e assai altri principi, regnando assoluti  in  Europa,  premiarono
pure ed onorarono infiniti scrittori. Ora io domando: Que'  Tolomei  in  Egitto,
questi Luigi, o Carli,  o  Franceschi  in  Europa,  volevan  eglino  esser  meno
obbediti, che quel Maometto? nol credo: ma stimavano essi, che  alla  obbedienza
dei sudditi, o niente, o pochissimo nuocessero e gli scrittori, ed i libri. Né i
principi nostri, in ciò credere, s'ingannavano punto, visto i moderni tempi ed i
costumi europei. Questi nostri costumi, che ogni cosa  a  mezzo  ci  danno;  che
coll'educazione indeboliscono sempre a  metà  la  natura,  e  colla  metà  della
rimanente natura corrompono e  annichilano  spesso  quanto  avrebbe  operato  la
educazione; questi stessi costumi, dai quali non può andare esente il  principe,
poichè vi è nato egli pure, lo costituiscono un ente, che non si accorda mai con
se stesso. Ed in fatti, egli riunisce  contradizioni  massime  e  perenni;  egli
vorrebbe e non vorrebbe; egli è feroce, ed umano; despota, e  privato;  e  mille
altre cose miste, e contrarie tutte fra loro: da cui nondimeno sempre ne risulta
l'intero nostro obbedire e tremare; e  il  non  esser  noi,  per  dir  vero,  nè
Egiziani nè Turchi, ma nè tampoco Romani, nè Greci.



CAPITOLO DECIMO.

NON POTENDO IL PRINCIPE ESTIRPARE AFFATTO  LE  LETTERE,  GLI  GIOVA  PARERNE  IL
RIMUNERATORE, E L'APPOGGIO.

I viaggi, il commercio, e l'arte del cambio, hanno emancipato per così dire  gli
abitatori d'Europa: quindi i nostri padroni e pedagoghi politici non ci  possono
più tenere come bambini del tutto. In oltre, il rimanervi alcuna picciola  parte
d'Europa, in cui l'uomo nasce, o libero, o meno oppresso,  sforza  anche  i  più
risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili risguardi coi sudditi. In
questo stato di cose, facilmente (pur troppo  pe'  principi)  si  promulgano  le
opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorchè  da  eccellenti
uomini vengono poste in iscritto. L'amore di novità,  l'ozio,  la  curiosità,  e
anche il dolce fine di render se stesso migliore, sono le  cagioni  per  cui  da
alcuni altri non volgari uomini si legge: e, fra tutti i libri, pare che  quelli
che scuotono il cuore dell'uomo, siano i più  universalmente  letti  e  gustati.
L'autore  ottiene  questa  commozione  in  molte  maniere;  ma  in  nessuna  più
efficacemente, che illuminando con colori nobili patetici  e  forti  le  imprese
grandi in se stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti. E suole ciò
farsi, o fingendo per via di  poesia,  o  traendo  dai  fonti  della  storia,  o
perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando. Toltane dunque
la passione d'amore, che sotto ogni governo può allignare, e più  sotto  i  meno
virtuosi, se l'autore vorrà maneggiarne alcuna dell'altre allegandone  splendidi
esempj, bisognerà pur sempre ch'egli ricorra ai popoli liberi. Quindi è, che  ai
giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e  di  Sparta,  ma
raramente o non mai si favella a loro di Persia, d'Assirja, d'Egitto, e dei loro
tiranni. Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtù, è  dunque  sforzato  lo
scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne, o accennarne le cagioni; a
narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i  lettori  alla  imitazione  di
essa. Perciò non mi pare, che abbisogni di prove l'asserire; che libro  di  sane
lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi  arrivi)  non  abbia
però sempre per fine principalissimo ed unico, l'insegnar la  virtù.  E  intendo
qui per virtù; Quella  nobile  ed  utile  arte,  per  cui  l'uomo,  col  maggior
vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo  la  maggior  gloria  sua.  Ammessa
questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di
scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dee  necessariamente  in  quasi
tutti i suoi principj offendere l'autorità illimitata; poichè, per quanto voglia
anche lo scrittore essere discreto, e serbare riguardi, non può pure mai laudare
il vizio; nè, molto meno, può  insegnare  la  vera  virtù,  senza  dimostrare  o
accennare, che il fonte di essa non può essere e non è stato mai, nè  l'obbedire
al capriccio di un solo, nè il servire, nè il  tremare.  Ciò  posto,  io  dunque
dico; che nessuna vera sublime epica poesia, nessuna tragedia, nè  commedia,  nè
storia, nè satira, nè opera filosofica, nè arte oratoria, nè in somma alcun ramo
di belle lettere (tolto  il  madrigale,  il  sonetto  puramente  amoroso,  e  la
pastorale) potrà mai riempire nel principato il suo proprio dovuto scopo, e dare
nel vero, senza offendere o più o meno l'autorità assoluta. E,  se  non  volessi
esser breve, e massimamente in questo primo  libro,  potrei  ampiamente  provare
quanto asserisco. Ma, per mille ragioni mi vaglia una sola;  e  siano  i  fatti.
Domando: Qual è il buon libro, (veramente stimato tale)  che  sviluppando  altre
passioni umane che l'amore, o tutto o  in  parte,  da  qualche  principe,  o  in
qualche tempo, non sia stato proibito, o screditato, o schernito, o  calunniato,
o perseguitato? Ma, che pro? i libri  sussistono,  e  durano  contra  ogni  ira,
potente o impotente sia ella, purch'essi sian ottimi.  Non  potendo  adunque  il
moderno principe europeo assolutamente impedire che  i  libri  buoni  già  fatti
continuino ad esistere, e ad esser letti; nè che alcuni altri buoni,  ma  sempre
pochi, se ne vadano scrivendo; accortamente farà egli, se  saprà  non  mostrarsi
interamente contrario alle lettere, e se saprà premiarne a tempo  gli  artefici;
anteponendo però sempre i mediocri ai sommi; e astutamente cercando di fare  che
i sommi rimangano o paiano mediocri, coll'impedir loro cortesemente di  pensare,
e di scrivere, fin dove bisognerebbe. Per la stessa ragione egli farà  benissimo
di fingere di onorare gli scrittori morti, col ristamparli; ancorchè tali siano,
che se avessero scritto a tempo  suo  sotto  lui,  gli  avrebbe  egli,  potendo,
piuttosto soffocati, che non mai dati in luce. In tal guisa  perverrà  forse  il
principe a persuadere ai più, che egli non teme l'effetto di una  certa  libertà
di scrivere e di pensare. E quella stessa apparente sua non curanza  sarà  anche
uno scoraggimento grandissimo a  chi  sperasse  di  farsi  un  nome  liberamente
pensando e scrivendo; perchè una certa persecuzione contro ai libri fortemente e
luminosamente veraci, costituisce per lo più la base della loro  prima  fama;  e
quindi maggiormente e più presto propagandogli, assai più utili in  minor  tempo
li può rendere.



CAPITOLO UNDECIMO.

QUALI PREMII GIOVI PIÙ AL PRINCIPE DI DARE AI LETTERATI.

Insorta dunque a poco a poco in Europa questa classe  d'uomini,  che  si  assume
l'incarico, pensando e scrivendo, di far pensare gli altri; e che, comunicando a
tutti le proprie idee, perviene pure a  spandere  fra  molti  una  semi-luce;  i
principi, che ereditariamente si assumono l'incarico d'impedir  di  pensare,  si
sono di necessità ritrovati nemici degli  scrittori.  Ma  la  vicendevole  paura
(come in tante altre occorrenze umane il vediamo) gli  ha  tosto  rapprossimati.
Gli autori, come già accennai, mossi dal bisogno dal timore e dalla  vanagloria,
per acquistar fama subita, ancorchè non durevole; i principi, mossi  da  vanità,
dal timore d'essere con ingegno derisi smascherati e screditati per sempre,  per
parer buoni, e per non potere in fine altrimenti operare, attesa la  gran  piena
presente de' letterati: sono queste, o mi  pajono,  le  ragioni  vere,  per  cui
questi fra loro naturali nemici si vengono a cangiare in protettori e  protetti.
La maniera con cui si ricompensano i letterati dai principi è  per  lo  più  con
provvisioni pecuniarie, che chiudono  loro  la  bocca  a  ogni  verità  luminosa
chiaramente  e  fortemente  esposta,  quale  deve  essere   per   farsi   strada
nell'instupidito intelletto  del  volgo  ignorante  e  servo.  Gli  scrittori  a
vicenda, contraccambiano i principi con le smaccate lodi, con  le  deificazioni,
co' falsi poemi, storie alterate, libri di diletto senz'utile, false massime  in
politica,  falsa  filosofia,  &cc.  &cc.  Da  questo  commercio   di   reciproca
dissimulazione il pubblico intanto ne rimane sempre più  cieco  e  ingannato;  e
sempre più allontanato dal forte sentire, e dal vero,  che  sono  i  soli  fonti
d'ogni alto operare. Ma siccome in questo primo libro io cerco (per  quanto  sia
pure possibile ad un uomo libero) di farmi principe e non letterato, dovrò dire,
che i principi fanno molto bene di operar  così;  poichè  finora  felicemente  è
riuscito loro, per via di mercede condita col timore, di spuntare in gran  parte
le saette dell'ira scrivana. Ed a provare anche questo, mi bastano i fatti.  Chi
può dubitare, per esempio, che Montesquieu e  Corneille,  non  ricompensati,  nè
onorati dal principe, e aventi una esistenza indipendente affatto  da  lui,  non
sarebbero andati molto più in là nelle loro massime, sviluppando  e  lumeggiando
col loro forte pennello  tante  importantissime  cose  spettanti  alla  felicità
umana, le quali si vedono appena accennate,  e  velate  assai  nei  loro  timidi
scritti? Ma pure, i principi non sanno  abbastanza  impedire  gl'ingegni  sommi,
colla loro bene adoprata protezione. E, più d'ogni altro ente,  il  principe  mi
conferma quel profondo assioma del divino Machiavelli: Che gli uomini non  sanno
essere nè del tutto buoni, nè del tutto cattivi. Dicesi  che  il  gran  Voltaire
nella sua  gioventù  avesse  mostrato  assai  desiderio  di  servire  il  re  in
commissioni estere; ed io facilmente m'induco a crederlo, poichè questo  autore,
immemore in ciò  di  se  stesso,  non  arrossì  di  sempre  firmarsi:  Voltaire,
gentiluomo di camera del re. Il principe, o il  ministro  che  non  lo  impiegò,
commise dunque nell'arte principesca un errore non picciolo: Voltaire, impiegato
dal re, e rappresentante il re, diveniva piccolo quanto  il  suo  rappresentato;
era vinto e legato per sempre; nulla avrebbe scritto, o poco, o quello  soltanto
che  si  sarebbe  voluto.  Così  un  autore  sommo  veniva  trasfigurato  in  un
ambasciatore mediocre, o forse anche ottimo; così si accresceva la gloria al re,
e si diminuiva luce al popolo; così, finalmente, non si sarebbe  dovuto  soffrir
poi per parte dei dominanti quell'umiliante confronto di veder Voltaire ne' suoi
ultimi giorni in Parigi  applaudito,  seguitato,  acclamato,  e  trionfante  più
assai, che nessun principe il fosse mai stato. E verrà un tempo, in cui  non  si
saprà altrimenti come fosse numerato quel Lodovico che allora  regnava,  se  non
perchè trionfava a quel tempo in Parigi un  Voltaire.  I  principi  dunque,  che
vogliono sottrarre da tanta vergogna  se  stessi,  e  ad  un  tempo  sfuggir  la
tempesta, debbono, nel premiare gli scrittori, dar sempre  loro  tali  onori,  o
mercedi, che interamente li distolgano dallo scrivere cose veramente grandi:  e,
allacciandoli  colla  gratitudine,  direttamente  o  indirettamente  li  debbono
costringere a disonorare se stessi, e a screditare le loro filosofiche  massime,
contaminandole colle lodi dei principi inopportunamente frammiste.



CAPITOLO DUODECIMO.

CONCLUSIONE DEL PRIMO LIBRO.

Parmi fin qui aver brevemente toccato quanto può spettare ai principi  circa  ai
letterati. E benchè non poco mi sembri aver detto, più  assai  mi  rimarrebbe  a
dire, se non parlassi a lettori, ai quali non credo necessario il dir tutto. Ma,
se alcuno dubita di quanto ho fin qui asserito, legga nella  storia  le  vicende
della letteratura nel principato; e vedrà certamente che i principi hanno fatto,
o cercato di fare, quanto io ho esposto  qua  sopra:  ma,  che  la  più  o  meno
destrezza che hanno saputo impiegare in  questa  guerra  d'astuzia,  o  sorda  o
patente, ha, o generato, o soffocato, o contaminato più  o  meno  scrittori;  ha
lasciato spargere più o meno luce nei popoli; procacciato più o meno  gloria  od
infamia agli  scrittori  ed  ai  principi.  Quindi,  stimando  io  d'aver  detto
abbastanza in questo  primo  libro,  tutto  il  già  detto  ristringendo  in  un
brevissimo assioma, conchiudo: Che nei presenti tempi, benchè il principe sembri
quasi sforzato a parer di proteggere le lettere, pure,  se  principescamente  sa
rimunerarle, ne ritrarrà per se stesso (pur troppo!)  più  assai  vantaggio  che
danno.

DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE LIBRO SECONDO

AI POCHI LETTERATI, CHE NON SI LASCIANO PROTEGGERE.

A voi, non contaminati scrittori, parrà forse  ch'io  abbia  tradito  la  nostra
causa, avendo finora svelato alcuni maneggi, non  arcani  per  certo,  ma  quasi
tali, perchè non si osano mai discoprire: e alle cose che poco si  dicono,  meno
ci si suole  pensare;  e  quindi  la  ruota  della  fantasia  lavorandole  meno,
rimangono irrugginite ed inutili. Ma, se nel mio primo libro ho  insegnato  (per
così dire) ai principi, non i mezzi per distruggere o impedire le lettere, che a
loro già erano in parte ben noti, ma le ragioni che ad essi suggeriscono codesti
piccoli, eppur finora efficaci mezzi; ragioni ignote a loro stessi,  benchè  dei
mezzi si vagliano; ragioni ignote a molti dei sudditi,  benchè  gli  effetti  ne
provino:  mi  appresto  ora  a  scriverne  un  secondo,  in  cui  alquanto   più
distesamente esporrò i mezzi a mio parere migliori, affinchè i  pochi  scrittori
che veramente meritano d'esser liberi, vengano in parte o del  tutto  ad  uscire
dai vergognosi ceppi, che allacciando loro l'intelletto e la penna, la loro fama
impediscono, o guastano



CAPITOLO PRIMO.

SE I LETTERATI DEBBANO LASCIARSI PROTEGGER DAI PRINCIPI.

Lo scrivere, è una necessità di bisogno in  molti;  e  questi  per  lo  più  non
possono essere veramente scrittori, nè io li reputo tali:  lo  scrivere,  è  una
necessità di sfogo in alcuni; e  questa,  ben  diretta,  modificata,  e  affatto
scevra di ogni altro bisogno, può spingere l'uomo ad essere quasi  che  un  Dio.
Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi di
pane. Né io certamente imprendo qui a fare l'apologia dei ricchi; i quali  anzi,
per lo più nascono di assai meno robusta natura, così di corpo, come  d'ingegno:
vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori tutti, che non  possono  essi
mai ottenere gloria verace con fama intatta e durevole, nè quindi mai  cagionare
utilità vera e massima nei loro lettori, se il loro scrivere  non  riesce  alto,
veridico, libero, e interamente sciolto da ogni secondo meschino fine.  Parlando
io dunque ai grandi ingegni (ma ai soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia
di fortuna si trovano esser nati poveri, dico loro; che se vengono  a  conoscere
se stessi in tempo, debbono da prima, ove sia  possibile,  con  qualunque  altra
arte migliorare la loro sorte, per poi potersi, per  mezzo  della  indipendenza,
valere del loro ingegno liberamente. E di ciò  gli  scongiuro,  per  quel  sommo
utile, che dai loro scritti ne può ridondare agli uomini  tutti;  e  per  quella
purissima gloria, che ad essi ne dee ridondare. Ma, se non possono assolutamente
procedere nel modo su divisato, li consiglio a desistersi  dalla  impresa  dello
scrivere, e a cercare altri mezzi per  campare;  che  tutti,  in  ogni  tempo  e
governo, riescono a ciò più atti che non il mestier delle lettere. In una parola
in somma, io dico; che all'ingegno dee bensì la ricchezza servire,  ma  non  mai
alla ricchezza l'ingegno. Se il più nobile, se il più elevato, il più  sacro,  e
quasi divino ufficio tra gli uomini si è quello di voler  loro  procacciare  dei
lumi, dilettare la loro mente, infiammarli d'amore di vera virtù,  e  di  nobile
gara in ben fare; ardirà egli mai  eleggersi  ad  una  così  importante  impresa
colui, che per necessità vien costretto ad essere, o a farsi vile? In molte e in
quasi tutte le democrazie, sono esclusi dai voti i nulla tenenti; i Greci liberi
proibivano ai servi l'esercitare per fino la pittura:  e  all'esercizio  di  una
così nobile arte quale è lo scrivere; in  una  repubblica  così  augusta,  quale
esser  dee  quella  delle  sacre  lettere,  si  ammetteranno  i  desideranti,  i
domandanti, o gli abbisognosi d'altro, che di schietta  e  sublime  gloria?  Non
credo ingiusta una tale esclusione; ed i fatti  mel  provano.  O  i  grandissimi
scrittori erano agiati per se stessi; o erano contenti della loro povertà; o, se
da ciò sono stati diversi, essi sono stati meno grandi di tutto quel più, che  a
loro è toccato di fare per migliorar la  propria  fortuna.  E  chi  togliesse  a
Virgilio le lodi d'Augusto, e dei Cesari; all'Ariosto e al Tasso le Estensi; e a
tanti altri scrittori le  adulazioni  tutte,  o  i  timidi  loro  riguardi,  non
accrescerebbe egli di gran fatto la gloria agli autori, e  ai  lettori  di  gran
lunga la luce, il diletto, e  l'utilità?  Io  spingo  tant'oltre  questa  totale
indipendenza  necessaria  all'autore  per  ottimamente  scrivere,  che   ardisco
asserire; che se i principi, attese le loro circostanze  educazione  e  costumi,
potessero pur mai pervenire a ben conoscere gli uomini, e  a  bene  imparare  ed
eseguire alcuna cosa qualunque;  i  principi,  dico,  mediante  la  loro  totale
indipendenza, e mediante il non-timore di verun altro individuo più  potente  di
loro, potrebbero senza dubbio essere gli scrittori per eccellenza: perchè nessun
rispetto, prudenza, o timore gli sforzerebbe a tacere, o ad alterare la  verità;
ogniqualvolta però fosse loro stato possibile di superare in se stessi la innata
loro  avversione  per  essa;  e  ogniqualvolta  avessero  sortito  dalla  natura
un'indole generosa, e capace di svelare quelle stesse  verità  che  sarebbero  a
loro dannosissime. Ma, siccome questo non potrebbe esser mai, mi si perdoni  una
tale chimerica supposizione, da me introdotta come un semplice esempio;  di  cui
pure alquanto valendomi, verrò nel mio intento. Quell'uomo privato, che potrà in
se stesso riunire la indipendenza tutta del principe, (ma più  nobile  assai,  e
più legittima, col non obbedire che a moderate e savie leggi) e riunire in se la
educazione del cittadino, l'ingegno, i  costumi,  la  conoscenza  degli  uomini,
l'amor del retto e del vero; quegli, a uguale capacità, avanzerà di  gran  lunga
quanti altri ottimi scrittori ne siano in altre circostanze mai stati. In somma,
io non posso nel cuore di un vero scrittore dar adito ad  altro  timore,  che  a
quello di non far bene abbastanza; nè ad altro sperare, che a quello di riuscire
utile altrui, e glorioso a se stesso. Ammettendo un tale principio,  si  esamini
se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere un ente  vissuto  fra  i
chiostri; un segretario di cardinale; un membro accademico; un signor di  corte;
un abate aspirante a beneficj; un padre, o figlio,  o  marito;  un  legista;  un
lettore di università; un estensore di fogli periodici vendibili;  un  militare;
un finanziere; un cavalier servente: o qualunque altr'uomo in somma, che per  le
sue serve circostanze sia costretto a temere altro  che  la  vergogna  del  male
scrivere, o a desiderare altro  che  il  pregio  e  la  fama  della  eccellenza.
Rimanendo per se  stessa  esclusa  da  quest'arte  una  così  immensa  turba  di
non-uomini, a pochissimi uomini mi  rimane  a  parlare.  A  quelli  dunque,  che
letterati veri ardiscono e  possono  farsi,  dico;  che  senza  scapito  massimo
dell'arte, non possono essi lasciarsi proteggere da chi che sia. Ed ella è  cosa
certa pur troppo, che se essi faranno interamente il severissimo loro dovere, di
professar sempre e dire con energia la verità, non dureranno fatica  veruna  per
sottrarsi da ogni protezione: tolta però sempre quella del pubblico  illuminato,
quando perverrà ad esserlo; protezione, la sola, che  onoratamente  si  possa  e
bramare e ricevere.



CAPITOLO SECONDO.

SE LE LETTERE, CHE SEMBRANO INSEPARABILI  DAI  COSTUMI  CORROTTI,  NE  SIANO  LA
CAGIONE, O L'EFFETTO.


Ma, che vo io dicendo? vorrei che Catoni fossero gli scrittori, e vorrei  ad  un
tempo stesso la eleganza, l'armonia, e il terso favellare di colui,  che  lasciò
alla più remota posterità scritto di se stesso:  Relicta  non  bene  parmula:(1)
cioè di quel tribuno legionario romano, che scherza su l'aver  egli  abbandonato
il proprio scudo in battaglia; il che nei  nostri  costumi  equivarrebbe  ad  un
colonnello che in ottimi versi tramandasse ai posteri scherzando, di  aver  egli
ricevuto uno schiaffo. Per quale umana fatalità avvien dunque, che il bello dire
paja non si poter quasi mai raccozzare col bene operare? Atene sola riunì  tutto
ad un tempo; libertà, e belle arti; valor  militare,  e  scienze;  ricchezza,  e
costumi: e che non ebbe quella  terra  beata?  Poco  durò  nondimeno  quel  vivo
fermento di cose sì fattamente contrarie fra loro; le ricchezze il buon gusto  e
le arti preponderando, la libertà il valore i costumi ed il maschio animo a poco
a poco sparirono. Roma (in ciò, come in tutto,  diversa  dall'emula  e  non  mai
superata Atene) quanto alle lettere e all'arti, stette, direi così, fra i limiti
umani; nè mai potea riunire insieme questi pregi  diversi.  Non  ripulì  il  suo
parlare, non ebbe eleganti e puri scrittori, prima di Cicerone, Catullo, Orazio,
Virgilio &cc.: e, al sorgere di questi, ella vide a  poco  a  poco  menomare  le
patrie virtù, e dar luogo alla crescente servitù, e  alle  crescenti  lettere  e
belle arti. Gli scrittori in somma del secolo d'oro (cioè d'Augusto) quanto alla
favella,  sono  gli  scrittori  del  secolo  di  ferro  e  catene,  quanto  alla
repubblica. Ma, quegli eleganti e perfetti scrittori, erano essi  cagione  della
crescente effeminatezza, del cessante coraggio, del  vile  pensare,  del  servir
lietamente, del non conoscer più patria, del non temer che per se, del vivere in
corte temendo e sperando sempre, nè mai cose legittime e grandi davvero? Oppure,
tutte queste annoverate  sfortune,  furono  elle  cagione  che  gli  eleganti  e
perfetti scrittori fiorissero? Il pregio d'ogni scrittore  sta,  come  le  altre
cose tutte, nella opinione degli uomini: e, dividendo in due  parti  le  ragioni
per cui uno scritto riporta il pregio della eccellenza, dico che il pregio della
sublimità intrinseca, cioè della verità evidenza e forza dei pensieri,  non  può
esser mai se non uno; ma il pregio della sublimità nell'esporgli  e  lumeggiarli
può essere diviso in altrettanti aspetti, quante sono state, sono,  e  sian  per
essere le età degli uomini, le differenze dei governi, e le diverse  circostanze
dei popoli. Ed  in  fatti,  presso  le  nazioni  che  ebbero  lunga  vita,  mutò
l'eloquenza, mutando il governo e i costumi;  talchè  il  perfetto  genere  d'un
secolo è spesso diventato il genere ridicolo e mostruoso d'un  altro.  Ma  pure,
per quanto ancora si sappia e s'intenda la forza e bellezza della lingua latina,
da tutti si accerta essere ella arrivata al suo apice nel secolo  d'Augusto.  E,
per trarre esempj anche dai moderni, i Francesi, che non furono però  mai  popol
libero, debbono pur anche annettere l'epoca dei loro perfetti scrittori a quella
della loro più perfetta e  total  servitù.  Ma  gli  scrittori  d'Augusto  e  di
Lodovico, sono, o pajono perfetti agli occhi ed  orecchi  di  noi  popoli  anche
servi, e corrotti, e peggiori dei loro contemporanei. Chi però ci assicura,  che
a Catone, ad Ennio, a Lucrezio, ed ai popoli loro  coetanei  avrebbero  piaciuto
più gli scritti di Virgilio e d'Orazio che non i loro propri? Niuno certo ardirà
asserire, che Lucrezio fosse uno sciocco, rispetto a Virgilio:  ma  pure  quella
enorme differenza che passa fra loro, nella fluidità,  armonia,  e  varietà  del
verseggiare, a qual ragione attribuire si dovrà? alla ripulitura della  favella,
risponderanno i moderni: alla corruzione dei  costumi,  avrebbero  risposto  gli
antichi; alla snervatezza degli animi, alla pestifera influenza di una  assoluta
dominazione. Tuttavia, non volendo io mettere innanzi,  nè  sostener  paradossi,
ammetterò che la perfezione degli scrittori, quanto all'eleganza e  sottigliezza
dell'arte, possa esser quella  che  vien  giudicata  tale  da  uomini  di  gusto
sottile, usi al conversare, e, per lo molto servirsi dei sensi loro, inventori e
scopritori di molte nuove e quindi più deboli sensazioni. Che se  il  capo  d'un
popolo rozzo e selvaggio,  vedendolo  in  qualche  imminente  pericolo,  volesse
indurlo a una ostinata difesa, e destarlo  a  furore;  egli  per  certo  non  ci
dovrebbe impiegare altre parole, che  quelle  in  cui  fosse  semplicissimamente
esposto il fatto. "Costoro ci sono nemici da gran tempo; a ciascuno di noi hanno
ucciso a chi il padre, a chi il fratello, a chi il figlio. Se non ci  difendiamo
con forza e valore maggior del loro, uccideranno anche noi; prederanno  le  case
nostre; faranno schiavi i  nostri  figli;  contamineranno  le  nostre  mogli.  O
vincergli ed esterminargli, o morire noi tutti". Queste,  o  simili  parole,  ed
anche più rozze e sconnesse, verranno riputate sovrumana  eloquenza  infra  quel
popolo che noi chiamiam barbaro; e vi otterranno il loro pienissimo effetto. Ma,
se un capitano di nazione colta e libera vorrà  accendere  gli  animi  de'  suoi
soldati, gli bisognerà dire le stesse cose assai più lungamente, e  più  ornate.
Con mille figure egli  dovrà  procacciare  d'incendere  quegli  animi;  ora  con
immagini terribili dipingendo le stragi, le rapine, gli  oltraggi,  la  crudeltà
del vincitore insolente; ora, con liete e festose, dipingendo  i  trionfi  della
ottenuta vittoria, i dolci effetti della ricoverata pace, gl'immensi beni  della
assicurata libertà. Questo popolo colto viene a sentire meno fortemente, appunto
perchè con maggior sottigliezza egli sente;  ci  vogliono  perciò  in  doppia  e
triplice quantità, parole ed immagini per infiammarlo e  commoverlo.  Ai  popoli
colti e non liberi non perorano mai i loro capi; perchè a questi non riman nulla
a dire con le parole, che con assai maggiore efficacità non l'abbiano già  detto
ai popoli colla forza. E così  accadrà  d'ogni  altra  passione  che  si  voglia
destare negli animi d'un popolo, o interamente rozzo, o semi-barbaro, o colto  e
libero, o colto e non libero. Ma, se noi volessimo accertare, che più eccellente
oratore sia questo che quello, niun'altra ragione addurne potremmo,  fuorchè  il
dire che noi popoli di senso sottile così pensiamo e sentiamo; cioè, noi  popoli
di senso diminuito e indebolito dalle troppo moltiplicate sensazioni. Se fra  il
popolo  rozzo  favellasse  un  oratore  di  popolo   colto,   egli   tedierebbe,
stordirebbe, poco sarebbe inteso,  niente  gustato;  e  non  otterrebbe  il  suo
intento. Ma, se pure fra il popolo colto favellasse un rozzo sì, ma  energico  e
appassionato oratore, questi per semplice forza  della  nuda  verità  otterrebbe
forse qualche cosa più; essendo la semplicità grandezza, e  massimamente  quando
ella non è cercata con l'arte; perchè questa non isgorga mai da robusta e libera
vena, come quella che è figlia di forte ed infiammata natura.  Da  tutto  questo
concludo, che le lettere perfette come le intendiamo noi, e  per  l'uso  di  noi
popoli civili, colti, guasti, timidi, oziosi, molli, e  pressochè  tutti  servi,
non possono esistere, se non nell'ozio, e nella servitù che n'è madre; ma che le
lettere, quali le professavano i Greci, e quali con molto accrescimento  d'utile
potrebbero ricomparire sul globo presso  ad  un  qualche  ingegnoso  popolo,  il
quale, ancorchè men delicato e men colto, fosse però  interamente  libero;  tali
lettere otterrebbero un'altra specie di perfezione dalla severa  verità  esposta
agli occhi di tutti con energia, brevità, evidenza, e naturalezza. Si ridurrebbe
allora  l'arte  oratoria,  quale  dev'essere,  al  persuadere  ai  cittadini  le
politiche e morali virtù; l'istorica e poetica, a narrare e  descrivere  imprese
grandi, amori casti, amistà generose, tenerezze paterne, prodigi  dei  Numi;  la
filosofia in fine, camminando d'accordo con le massime  politiche  e  teologiche
già stabilite in quel popolo libero e felice, niun altro carico  si  assumerebbe
che di andar mantenendo e rettificando sempre più  il  giusto  pensare,  i  puri
costumi, e le savie leggi. Mi si dirà, che anche noi procuriamo di ricavar dalle
lettere tutti questi vantaggi. Ma io rispondo; che gli artisti nostri  non  sono
tali da poterceli procacciare; perchè, nè arte oratoria, nè storia, nè filosofia
vera non possono mai scaturire da un animo servo, nè penetrare gli orecchi e  il
cuore di popoli servi: e, molto meno la poesia, maneggiata  da  servi  artefici,
può altamente trattare alte cose, senza contaminarle coll'errore, col timore,  e
colla servile adulazione. Quindi è che fra noi, tutto il  fiore  del  bel  dire,
tutto il sapore della eloquenza, non divenendo mai per così dire l'ammanto della
verità, questa energia, brevità, evidenza, e naturalezza  dei  nostri  scrittori
pare sempre accattata e mancante, perchè non viene a comporre uno stile adattato
alle cose. Ma vi sono alcuni momenti, in cui un popolo, già stato libero  e  non
vile, all'uscire dalla sua rozzezza ed onestà di costumi,  e  all'entrare  nella
colta  corruzione,  riunisce  istantaneamente  in  se,  benchè  menomati  e  non
perfetti, i due semi della passata potenza e della  presente  coltura.  Scemando
poi ogni giorno più la virtù, e deviandosi l'eloquenza dal  vero,  quella  luce,
quasi un passeggero lampo, interamente tosto svanisce. Così Roma ebbe  scrittori
sublimi sì nel pensare che nella eleganza, in quel breve secolo, in cui rimembrò
ella ancora  la  perduta  libertà  e  la  grandezza  della  passata  repubblica:
inoltratasi quindi nella servitù, tanta era stata la primitiva  sua  forza,  che
diede ancora alle morenti lettere un Giovenale ed un Tacito; ma li  diede  soli:
invecchiata poi nel servire, non ebbe più nulla affatto di grande. E si  osservi
in  questa  universal  decadenza,  che  l'autorità  assoluta  degli   imperatori
consecutivi fu anche poi distruttiva  di  quella  stessa  vuota  eleganza  dello
scrivere, che andandosene ignuda d'ogni sublimità e verità di  pensieri,  e  che
avendo in Roma ricevuto vita e protezione da un  tiranno,  parea  doversi  sotto
altri tiranni almen mantenere: manifesta prova, che noi c'inganniamo  assai  nel
credere che il principato possa essere il vero protettore delle  lettere,  anche
deviate dal loro diritto e legittimo scopo. Finisco  dunque  col  dire;  che,  a
parer mio, la perfezione delle lettere quanto all'eleganza  (che  è  pur  troppo
sempre quella che intendiamo noi) più facilmente può nascere fra  un  popolo  di
costumi corrotti e non libero, che non fra un popolo libero e sano; benchè Atene
ci provi pur sempre il contrario. Ma se così è, io credo che codesta  perfezione
delle lettere sia una conseguenza del principio della corruzione di quel popolo;
il quale pure per alcun tempo ancora può durare corrotto e libero. Ed  ecco,  mi
pare, spiegata la contraddizione apparente fra Atene  e  tutte  le  altre  colte
nazioni da essa in poi conosciute. La corruzione divenendo in appresso totale ed
estrema, oltre alla già spenta libertà, ella poi corrompe e spegne in breve  del
tutto anche le lettere stesse, come ogni altra utile cosa. Se le lettere  allora
possono pure sottrarsi dalla universale rovina, pervengono anch'esse a tal segno
di viltà, che snaturandosi, per così dire,  si  fanno  elle  stesse  cagione  di
corruzione col farsi nemiche di verità: e sono esse allora, come  falsificatrici
delle politiche idee, la cagione veramente di altri costumi assai più  guasti  e
ammorbati, che quelli di cui erano figlie. Secondo le diverse epoche e posizioni
d'un popolo, e secondo la specie di gente che maneggia fra esso le lettere, elle
possono dunque a vicenda divenire effetto e  cagione  di  corrotti  costumi:  ma
possono altresì, e ben maneggiate il debbono,  farsi  efficacissima  cagione  di
libertà e di virtù.


CAPITOLO TERZO.

CHE LE  LETTERE  NASCONO  DA  SE,  MA  SEMBRANO  ABBISOGNARE  DI  PROTEZIONE  AL
PERFEZIONARSI.

Ella è passione innata nell'uomo, soddisfatti appena i bisogni di necessità,  il
volersi distinguere dagli altri, col far meglio e  maggiori  cose  in  altrui  e
proprio vantaggio. Fra le  nazioni  selvatiche,  questo  amor  della  gloria  si
manifesterà nel voler l'uomo farsi miglior  cacciatore  o  pescatore,  che  niun
altri; fra le guerriere,  miglior  soldato;  fra  le  colte,  miglior  politico,
filosofo, istorico, poeta, &cc. Ciò posto, il primo impulso alle  lettere,  come
ad ogni altra bell'arte, egli è pur sempre quel  naturale  innato  desiderio  di
distinguersi: e questa umana passione si dee posare per prima e vera base d'ogni
arte. Ma, se nei diversi  individui  questo  desiderio,  benchè  per  se  stesso
fortissimo, basti solo a far loro perfezionare le lettere, pare problematico;  e
dai più degli scrittori, e massimamente nel principato, è stato deciso e creduto
il no. Io sarei di contrario avviso; e tenterò di provarlo,  discutendo  appieno
una tal questione. Questa, a parer mio, è una delle tante cose che paiono, a chi
non ci si profonda ben addentro; e che non sono, a chi vuole molto  riflettervi.
Si dice ogni giorno: "Quel giovinetto ha  certamente  sortito  dalla  natura  un
grandissimo talento per la poesia; ma egli nasce di parenti non ricchi,  che  lo
sforzano a tirarsi innanzi colle leggi, onde non la potrà mai coltivare". A  ciò
rispondo io, domandando: "Codesto giovinetto, è egli povero  a  segno  di  dover
accattare? non è". Dunque  i  primi  bisogni  di  necessità  non  lo  incalzano.
Prosieguo, e domando: "Ha egli ricevuto  quella  bastante  istruzione,  per  cui
l'uomo si mette in grado di poter far da se stesso? benissimo  ha  fatto  e  con
somma lode i suoi studj; che se  altrimenti  fosse,  mera  temerità  sarebbe  la
nostra il giudicarlo capace di poter  egli  mai  scrivere  eccellentemente.  Ciò
basta; conchiudo io; e s'egli ha veramente quel genio, che  voi  gli  supponete,
quel genio lo infiammerà e lo costringerà più assai al far  versi,  che  non  la
necessità, o il garrire del padre, allo studiare e professare le leggi.  E  così
fecero il divino Petrarca ed il Tasso, ed Ovidio per dir degli antichi, ed altri
ch'io taccio. Se dunque è nato per esserlo, si farà codesto vostro giovinetto un
eccellente poeta mal grado di  tutti,  perchè  natura  può  più  di  tutto".  Ma
spessissimo il mezzo  ingegno  e  il  debile  impulso  vengono  scambiati  colla
ispirazione vera; e perciò si piange tante volte in erba la fama di molti futuri
grandi uomini, soffocati, per quanto si dice, dalle loro avverse circostanze,  i
quali, se  le  avessero  avute  favorevoli,  avrebbero  smentito  una  sì  dolce
aspettativa. Ciò mi fa credere, e non senza ragione,  che  la  protezione  possa
bensì giovare agli ingegni mediocri, i quali per mezzo di essa  poco  danno,  ma
niente affatto darebbero senz'essa; ma che ella  sia  assolutamente  nuociva  ai
sommi ingegni, in quanto questi assaissimo più darebbero se  non  l'avessero.  E
ritroviamo anche di ciò negli esempj le prove. Dante non fu protetto: che poteva
egli dar di più? Mi si dirà forse: "Più eleganza": ma egli ebbe tutta quella che
comportavano i tempi suoi; e l'ebbe di gran  lunga  superiore  a  tutti  i  suoi
predecessori, che scritto aveano nella stessa sua lingua. Ma Orazio  e  Virgilio
furono protetti: e diedero perciò quel tanto di meno, che  la  dipendenza  e  il
timore andavano ogni giorno togliendo alla  energia  già  non  moltissima  degli
animi loro. Mi si opporrà, che Dante in  una  corte  ripulita  e  delicata  come
quella  d'Augusto  non  avrebbe  adoprato  tante  rozze  e  sconce  espressioni.
Rispondo, che questo può essere: ma soggiungo, che Virgilio ed  Orazio  fuor  di
tal corte, non si sarebbero contaminati di tante vili adulazioni e falsità. Qual
è peggio? È anche vero però, che forse costoro nulla affatto avrebbero  scritto,
se non fossero stati protetti da Augusto: ma che si  verrebbe  egli  con  ciò  a
provare?  che  il  loro  impulso  era  debole  e   secondario.   Orazio   stesso
sfacciatamente e ingenuamente lo dice, parlando di se:

Paupertas impulit audax, Ut versus facerem. Sed, quod non  desit  habentem,  Quæ
poterunt unquam satis expurgare cicutæ, Ni melius dormire putem,  quam  scribere
versus?(2)

Chiaro è, che un autore che dice questo di se stesso, e che riconosce per  primo
motore del suo poetare la necessità, e che sovrana felicità reputa  il  non  far
nulla, non si sente certamente mosso da nessuna effervescenza d'animo, e non  ha
nè sublime il carattere, nè infiammato il cuore: e quindi non sublimerà egli mai
il carattere, nè infiammerà mai il cuore di chi lo legge. Orazio dunque, con  un
sì fatto motore, dovea scrivere con molta eleganza debolissimi pensieri: e  così
in fatti scrisse, e così pensò;  perchè  era  nato  per  così  scrivere  e  così
pensare. Ma Dante, dalla oppressione e  dalla  necessità  costretto  d'andarsene
ramingo, non si rimosse perciò dal far versi; nè con laide  adulazioni,  nè  con
taciute verità avvilì  egli  i  suoi  scritti  e  se  stesso.  Quella  necessità
medesima, che sforzava Orazio allo scrivere, e non gli permetteva di esser altro
che leggiadro scrittore, quella stessa necessità non potea pure impedir Dante di
altamente pensare, e di robustissimamente scrivere. Diversi dunque,  e  d'assai,
erano per loro natura gli animi di codesti due scrittori. Ma, che  vengo  io  da
questa lunga digressione a concludere? che la protezione principesca  può  forse
giovare, o almeno non nuocere, alla perfezione delle lettere quanto alla lingua,
e all'eleganza dei modi; ma che alla perfezione vera di  esse,  la  quale  nella
sublimità del pensare, e nella libertà del dire si dee  principalmente  riporre,
non solamente non giova, ma espressamente nuoce ogni qualunque dipendenza;  cioè
ogni protezione: eccettuandone però sempre quella,  che  accorderebbe  una  vera
repubblica, non per capriccio o favore, ma per giusta, ragionata,  e  imparziale
generosità. Un uomo che scrive per giovare veramente  al  pubblico,  può,  senza
arrossire,  ricevere  ricompensa  da  quel  pubblico  che  veramente  si   trova
beneficato da lui. Ma, come mai può egli riceverla da  un  potente,  il  di  cui
interesse è per l'appunto l'opposto di quello  del  pubblico?  e  come  mai  può
accordargliela quel potente? Ecco il come: se lo scrittore avrà  falsificato  le
cose agli occhi della moltitudine; ed in ciò egli avrà  manifestamente  meritato
l'odio o il  disprezzo  di  essa:  ovvero,  se  avrà  minorata  la  verità,  per
compiacere al potente: ovvero, se l'avrà mascherata e anche affatto taciuta, per
non offenderlo. Costui dunque, nei suddetti casi, come timido e vile  ch'ei  fu,
non può mai drittamente pretendere ad acquistarsi vera fama fra gli uomini:  ma,
per altra parte, se non si è mostrato nè timido nè vile, non può certamente  mai
temere di essere ricompensato dal principe. Ed in prova che le lettere  protette
parlano e influiscono diversamente dalle non protette, e a  voler  vedere  quali
maggiormente giovino agli uomini, si esamini una sola formola, usata da entrambe
diversa in parità di circostanze. Le lettere, sotto un principe che le protegga,
e che anche le lasci alquanto sfogare,  vengono  riputate  molto  ardite,  e  il
letterato pare un uomo di gran nervo e coraggio, allorchè si osa pronunziare  in
qualche libro, o  predica,  o  altra  pubblica  orazione,  le  seguenti  parole:
"L'ignoranza è al fine apertamente combattuta e  vinta;  è  giunto  quel  felice
momento, in cui si ardisce arrecare la nuda verità ai piedi del trono &cc.".  La
verità ai piedi dell'errore, e dell'inganno? la verità, che sussistere non  può,
nè trionfare, se non distruggendogli entrambi? Si può egli concepire un'idea più
falsa, una  frase  più  adulatoria  ed  iniqua?  All'incontro,  le  lettere  non
protette, e il veramente libero letterato, sarebbero pure costretti di dir così:
"È giunto al fine, o dee farsi giungere, quel felice momento,  in  cui  la  nuda
verità semplicemente manifestata ai popoli oppressi, viene da loro  riposta  sul
trono, ove sola dev'essere, e sovra tutti indistintamente, per via delle  giuste
leggi, sola regnare". Questo pensiero (anche rozzissimamente espresso,  se  pure
mai lo può essere) paragonato coll'altro, che fosse anche esposto  dallo  stesso
Cicerone, non proverà egli ampiamente, che le lettere sono assai più perfette  e
più utili dove così parlano, che non dove parlano nel modo contrario? Io  dunque
conchiudo in questo capitolo; che pare che le lettere abbisognino di  protezione
al perfezionarsi, ma che  così  non  è;  dovendosi  sempre  intendere  per  vera
perfezione d'una cosa qualunque, il maggior utile ch'ella arrechi a un più  gran
numero d'uomini. E non solamente dico, che le lettere non protette dal  principe
possono arrecare più utile a un maggior numero d'uomini,  ma  che  le  sole  non
protette lo arrecano veramente; in vece che  le  protette,  sotto  l'aspetto  di
giovare, assaissimo nuocono; poichè tolgono allo scrittore, e quindi al lettore,
la facoltà di spingere quanto più oltre egli possa il suo pensare e ragionare; e
poichè in somma, con quella loro nuda eleganza e felicità di stile,  elle  danno
credito e perpetuità a mille errori politicamente dannosi e mortiferi.



CAPITOLO QUARTO.

COME, E FIN DOVE, GLI UOMINI SOMMI POSSANO ASSOGGETTARSI AGLI INFIMI.

Ma pure, quella smania stessa che tormenta l'uomo, e  lo  sforza  a  tentare  di
farsi superiore ai suoi simili per via dell'opere  d'ingegno,  spesso  anche  lo
martìra sotto altri non nobili aspetti, inducendolo a tentare di superarli negli
agj, nella ricchezza, e  nel  lusso.  Il  grand'uomo,  è  pure  uomo;  e  quindi
picciolissima cosa è anch'egli; e quindi in mezzo al più sublime delirio di vera
gloria, ammette anch'egli benissimo il desiderio  d'una  miglior  mensa,  di  un
comodo cocchio, e in somma d'una più delicata e  morbida  vita.  Anzi,  la  vita
letteraria ha in  se  questo  veleno,  che  sfibrando  ella  il  corpo,  l'animo
ammollisce non poco. Da questo provengono  quei  tanti  immoderati  desiderj  di
migliorar sorte, che o tutti poi o in parte identificandosi,  minorano  di  così
gran lunga l'intrinseco pregio e la fama del  letterato.  E,  in  queste,  o  in
simili puerilità, sentendomi io più uomo  che  ogni  altro,  mi  mostrerei  pure
stolido e superbo, se a tali naturalissime debolezze non compatissi. Ma, ciò non
ostante, io sempre ridico ciò che sopra già  ho  detto:  che  questa  voglia  di
migliorar sorte può adattarsi, e non pregiudica, a qualunque altro mestiere;  ma
ch'ella è mortifera all'arte delle lettere.  Io  perciò  consiglierei  di  farsi
scrittori a  quei  pochi  soltanto,  che  non  hanno  bisogno,  o  non  vogliono
migliorare il loro stato quanto alla ricchezza: e, a chi non si trova in  queste
circostanze, consiglierei pur sempre di prescegliere ogni altra  arte  a  quella
dello scrivere. Nulladimeno, per non escludere pure così  assolutamente  di  mia
propria autorità dalle lettere i bisognosi di pane,  o  di  superfluità,  voglio
imparzialmente, e con lume di sana ragione,  esaminare,  se  un  letterato  vero
possa lasciarsi proteggere da un uomo più potente di tutti, e fino a qual punto:
ciò viene a dire; come e fin dove il più sommo uomo possa assoggettare se stesso
al più infimo. E, a voler provare che questi due opposti  in  superlativo  grado
sian veri, basta porre in contrapposto i  nomi  di  eccellente  scrittore  e  di
principe. Quegli, se veramente degno è di un tal nome, dev'essere l'apice  della
possibilità umana; questi, se nato è ed educato  al  trono,  dev'essere  il  più
picciolo prodotto di essa; e lo è quasi sempre. In  una  tale  aderenza  dunque,
passiva affatto per parte dello scrittore, ci fa egli più guadagno il  principe,
o più scapito il letterato? Si esamini. Che  può  egli  dare  il  principe  allo
scrittore? onori, parole, ricchezze; cose tutte, che da lui possedute in  copia,
nulla gli costano, e nessuno ingegno richiedono per darle altrui: vi sarebbe pur
quello del discernere il merito; ma siccome non lo  fanno  presso  che  mai,  nè
possono nè debbono farlo, io prescindo interamente da questo.  Che  dà  egli  in
contraccambio al principe lo scrittore?  s'egli  è  poeta,  lodi;  se  istorico,
menzogne; se filosofo, falsità; se politico, inganni: e così, di qualunque altra
provincia egli sia, (toltone però sempre le scienze esatte, di cui parlerò a suo
luogo) il letterato a ogni modo non può mai piacere, nè guadagnarsi, nè scontare
il suo debito col principe, se non sacrificando o  interamente  o  in  parte  la
verità, e quindi l'utile di tutti, al lustro e  al  soverchiante  potere  di  un
solo. Ed a ciò dimostrare, parlino per me i fatti. Socrate, Platone, e l'immensa
turba di Greci filosofi; Omero, Eschilo, Demostene, Sofocle, Euripide,  e  tanti
altri ottimi antichi scrittori; non cercarono  costoro  di  piacere  a  principe
nessuno; e quindi il loro divino  ingegno  se  n'andò  esente  ed  illeso  dalla
terribile protezion  principesca.  Così,  fra  i  moderni  che  hanno  veramente
illuminato il mondo, sviscerando le facoltà e i diritti dell'uomo, Locke, Bayle,
Rousseau, Machiavelli; e fra quelli che  l'hanno  dilettato  con  utile,  Dante,
Petrarca, Milton, e pochi altri; non ebbero costoro nulla che fare con principi.
E se pure alcuni degli ottimi ve ne furono, maculati  di  corte;  come  Moliere,
Corneille, Racine, Ariosto, Tasso, ed altri pochi,  che  la  sublimità  del  lor
temere e adulare colla sublimità del loro immaginare e  scrivere  rattemprarono;
convien pur confessare, che per tutto poi dove essi possono  mostrarla,  traluce
la loro indegnazione contra le circostanze,  contra  i  principi,  e  contra  se
stessi; spessissimo deplorando la necessità che  gli  avea  fatti  schiavi.  Ma,
siccome chi legge tien conto all'autore del solo suo libro, e non di veruna  sua
privata circostanza; (poichè se egli non avea  la  libertà  dell'alto  scrivere,
avea pur sempre quella del nulla scrivere) da ciò ne risulta, che codesti autori
vengono giudicati minori di se  stessi,  appunto  di  quel  tanto  che  vilmente
sagrificarono al proprio timore e all'altrui forza; ciecamente vendendo il  loro
intelletto, il lor tempo, i loro costumi, a quegli  insultanti  benefattori  del
corpo loro, ma micidiali ad un tempo fierissimi della lor fama. Io dunque penso,
e conchiudo; che il letterato tanto più  va  perdendo  delle  sue  intellettuali
facoltà quanto più accresce egli stesso la sua dipendenza, qual ch'ella  sia.  E
per contrario, conchiudo che tanto più l'animo, il pensiero, e lo  scrivere  gli
s'innalza, quanto egli più si fa libero e sciolto da ogni qualunque risguardo  o
timore; toltone però sempre quello, di non  offendere  le  giuste  leggi  e  gli
onesti costumi. "Ma il letterato  potrebbe  pure  ricevere  un'altra  protezione
assai meno insultante, qual è per esempio quella di un suo eguale ed amico: ora,
perchè dunque non potrà egli riceverla dal  principe,  quasi  da  un  suo  amico
privato?" Rispondo: "Il dipendere da un eguale può bensì  molto  amareggiare  la
vita allo scrittore, ma può non influire affatto sul  pensare  e  scrivere  suo;
poichè quell'eguale od amico, può pur pensare com'egli su le cose umane,  e  non
abborrire nè temere la verità che a lui può giovare altresì, come a tutti. Ma il
principe non ha nè amici nè uguali; e non può mai essere nel sopraddetto  caso".
In nessun'altra maniera dunque potrebbe il  letterato  lasciarsi  protegger  dal
principe, senza guastare nè se, nè  il  suo  libro,  nè  la  sua  fama,  fuorchè
cavandone quelle tanto desiderate necessità superflue della vita, vivendo ad  un
tempo sempre fuori degli stati suoi, e non gli facendo mai  capitare  alcun  de'
suoi scritti. Questa inurbana e stravagante aderenza, che io  do  per  una  pura
chimera, prova bastantemente, che sotto niuno aspetto vi  può  essere  commercio
onesto e legittimo fra il letterato ed il principe. Ma, posto pure, che  un  tal
principe proteggente e non inquirente potesse esistere, quel  letterato  che  ne
trarrebbe mercede, senza null'altro restituirgli che oltraggi, (lo  scrivere  il
vero è un continuo oltraggiare chi vive del falso)  non  vi  scapiterebbe  forse
come scrittore; ma moltissimo vi scapiterebbe come  uomo  onorato,  in  riga  di
gratitudine. Non si può onoratamente cercare di nuocere a chi ti giova:  e  come
si può egli scrivere un buon libro qualunque, che alle massime, all'esistenza, e
al potere del principe non contraddica? e che  quindi  non  lo  offenda?  e  che
quindi, in tutto o in parte, immediatamente o col tempo, non gli riesca dannoso?
Tra il principe dunque e il letterato vero,  che  facciano  e  sappiano  amendue
l'arte loro, non vi  può  essere  comunanza,  nè  reciprocità,  nè  armonia,  nè
assolutamente legame nessuno giammai.



CAPITOLO QUINTO.

DIFFERENZA TOTALE CHE PASSA, QUANTO ALLA PROTEZION PRINCIPESCA, FRA I  LETTERATI
E GLI ARTISTI.

Ma un'altra classe d'uomini  sublimi  a  me  si  appresenta,  che  io  chiamerei
letterati muti. Questi, con tele, bronzi, marmi,  o  altri  simili,  grandissima
fama acquistano a se stessi, e moltissimo  diletto,  misto  pur  anche  d'alcuna
utilità, procacciano altrui. Costoro, come  imitatori  anch'essi,  e  ritrattori
della natura, vanno quasi del pari coi letterati. Le opere loro vengono poste in
cielo dall'opinione universale, e dagli stessi scrittori; i più grandi tra  essi
vengono paragonati ai maggiori letterati. Si dice in  oltre,  e  si  crede,  che
l'impulso dei sommi artisti fosse  assolutamente  lo  stesso  che  quello  degli
scrittori: talchè, a stringere in una parola, le arti e le lettere sarebbero una
cosa stessa; e tra Michelangelo, e Dante non passerebbe altro divario che d'aver
l'uno spiegato i suoi sensi con lo scarpello e pennello, l'altro con la penna  e
l'inchiostro. Agli artisti sublimi io tributo quel rispetto e ammirazione  tutta
che loro è dovuta; ma non penso interamente così. E volendo  io  investigare  il
fonte di questo moderno e tardivo entusiasmo, che si professa per le arti  assai
più che per le lettere, principalissima cagione di esso ritrovo pur anche essere
l'assoluta potenza, che non teme in nulla le arti, e quindi le favorisce; mentre
le temute lettere disturba, se può, o almeno le svolge, o le  discredita,  o  le
impedisce. Ma pare, che anche l'arti stesse, smentendo in questo  nostro  secolo
la loro dipendente natura, concorrano a gara  con  le  lettere  a  schernire  la
protezion  principesca;  poichè  in  questi  tempi,  ove  elle  sono  pur  tanto
ricompensate, incoraggite, e protette, elle negano assolutamente di dare  nessun
sommo artista, mentre pur tanti ne diedero allorchè assai meno ci si pensava. Ma
tornando al mio tema, che è di provare la differenza che passa fra l'arti  e  le
lettere, dico, e sempre dirò; che un ottimo quadro non volta però mai il foglio;
onde egli è pur sempre un assai minore sforzo d'invenzione, di composizione,  di
condotta, di giudizio, di combinazioni, di abbondante e maturo pensare, di  quel
che lo sia un buon libro qualunque, e massimamente un poema: quindi è pur sempre
assai minore l'effetto, che egli produce nell'animo altrui. Che se in  vece  dei
libri antichi greci e latini, pervenute ci fossero soltanto le greche pitture  e
sculture, noi certamente  saremmo  ignorantissimi  e  barbari;  poichè  la  vera
grandezza dei Romani sta nelle cose che di loro ci narra Tito Livio, e  non  già
nel Panteon, o nel Colosseo: anzi le opere grandiose, e perciò  di  gran  costo,
fanno sempre fede di un'assoluta sterminata autorità, di molto ozio politico,  e
di gran corruzione. Le  altre  imprese,  al  contrario,  e  gli  uomini  che  le
condussero, fanno fede di un popolo libero e grande.  Perciò,  anche  ammettendo
che uno stesso impulso per diversa via spinga e il sublime artista e il  sublime
scrittore, si dee pure sempre anteporre l'opera di colui che ha trascelto la più
utile, la più durevole, difficile, e pericolosa impresa. Onde, a chi  guarda  le
umane cose con occhio filosofico e  sano,  non  ripugna  affatto  il  confondere
insieme e pareggiare i letterati e gli artisti; ma intieramente ripugna bensì il
confondere o pareggiare in nulla le lettere e l'arti. E  per  sola  prova  della
immensa differenza, che passa tra l'effetto di quelle e di  queste;  si  esamini
imparzialmente qual cosa utile e grande potrebbe  sapere,  operare,  o  pensare,
quell'uomo, che non sapendo leggere,  nè  usando  con  gente  colta  di  nessuna
maniera, avesse tuttavia sortito dalla natura un gusto finissimo  per  le  belle
arti, e avesse visto ed esaminato e sentito tutti i prodigj di esse.  Costui  al
certo nulla saprebbe; e tutti i più dotti dipinti non gli potrebbero  mai  aprir
l'intelletto; anzi ignorandone i soggetti, non  li  potrebbe  nè  intendere,  nè
gustare. Ma, che vo io perdendo le parole in cosa che non  abbisogna  di  prove?
Dico bensì; che se l'artista stesso non si è  fatto  dotto  quanto  basti  su  i
libri, ancorchè dalla natura avesse egli ottenuto il  dono  del  più  eccellente
pennello o scarpello, riuscirà pur sempre un  ignorante  e  mediocre  pittore  o
scultore: nè da una vera, ma sterile imitazione della natura, perverrà egli  mai
a ricavarne quel vero e perfetto sublime a cui può  giungere  l'arte  sua.  Ogni
bell'arte è figlia del molto pensare; il che vuol dir, leggere,  o  parlare  con
chi ha letto: poichè il pensare altro non è che il  combinare  il  già  detto  e
pensato; ed una idea che chiamiam nuova, non può essere se non figlia  di  cento
antiche. Tra le lettere dunque e le arti corre, a mio parere,  il  divario,  che
corre tra lo sviluppo intero  della  facoltà  pensatrice,  e  l'esercizio  della
potenza degli occhi e delle mani. Si può benissimo non aver visto mai quadro, ed
esser Dante, e farne dei maravigliosi con poche righe d'inchiostro:  ma  non  si
può essere  Michelangelo,  senza  avere  in  molti  Danti  imparato  a  pensare,
inventare, e comporre. E a voler provare questa primazía delle lettere, non solo
su le arti mute, che troppo chiara cosa ella è, ma anche su tutte le cose grandi
e grandissime che gli uomini possono  eseguire,  si  dimostri  soltanto  che  lo
scrivere è la sola arte che basti a se medesima, e il  di  cui  artista  ritrovi
tutta in se stesso la materia per eseguire.  Onde,  non  solamente  il  pittore,
scultore, e architetto, abbisognano di tele, di colori, di marmi, e di chi  loro
commetta e paghi il lavoro; ma il legislatore, il politico, il capitano, ove non
abbiano e stato e popolo e soldati, nulli affatto per se stessi riescono: o,  se
pure adombrare vogliono i loro vasti e negati disegni,  si  fanno  scrittori;  e
così all'immortalità arrivano per via più lenta, ma più durevole. E  non  mi  si
dica, che appunto per lo aver  tutto  in  se  stesso,  lo  scrittore  abbia  più
facilità, che non è per certo così; anzi,  tanto  è  severo  il  mondo  per  gli
scrittori, che ai soli eccellenti accorda la fama; in  vece  che  anche  ai  non
sommi artisti ne accorda pure una certa;  perchè  un  quadro,  una  statua,  una
reggia, od un tempio, ancorchè non siano  eccellenti,  non  costano  però  niuna
fatica a chi li rimira, e di alcun utile riescono a  chi  se  ne  prevale.  Così
anche una certa fama si accorda ai legislatori,  benchè  mediocri;  ed  una,  ma
assai meno durevole, ai capitani felici. Tanto può più, presso al  comune  degli
uomini, il fare che il dire. Non pensano essi, che il dire altamente alte  cose,
è un farle in gran parte; e  che  per  lo  più  chi  ben  disse,  in  parità  di
circostanze, di tanto avrebbe superato chi ben fece, di quanto dovea il dicitore
aver avuto un ben maggior impulso per darsi interamente ad esaminare, conoscere,
innovare, o rettificare una cosa, da cui, non  potendola  egli  eseguire,  niuno
altro frutto per allora sperava, che la semplice gloria dell'averla ben  ideata,
e ben detta. Non si può fortemente  ritrarre  ciò  che  fortissimamente  non  si
sente; ed ogni gran cosa nasce pur sempre  dal  forte  sentire.  Esemplifico,  e
domando; Omero in parità di circostanze non avrebbe egli  potuto  essere  quello
stesso Achille, o quell'Agamennone, o quel Priamo, che con tanta  fantasia,  con
tanta dignità e verità egli immagina e ritrae? Ma  Omero  è  maggiore  assai  di
costoro nella più lontana memoria degli uomini, perchè, oltre la possibilità che
si vede in lui di far cose grandi in valore ed in senno, riunisce anco in se  la
divina arte di ben inventarle, e di  ottimamente  colorirle  ed  esprimerle.  Io
perciò credo, che lo scrittore grande  sia  maggiore  d'ogni  altro  grand'uomo;
perchè oltre l'utile che egli arreca maggiore, come artefice di cosa che non  ha
fine, e che giova ai presenti ed ai lontani, si dee pur anche confessare che  in
lui ci è per lo più l'eroe di cui narra, e ci è di più il sublime narratore.  Ed
in fatti, gli eroi nati dopo quell'Achille (interamente forse  fabbricato  nella
testa d'Omero) tutti vollero  più  o  meno  rassomigliarsi  a  lui.  Ma,  se  un
eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da se;  dunque  lo  ritrova
egli in se stesso. L'uomo in somma non può perfettamente  inventare  e  ritrarre
ciò che egli non potrebbe (avendone però i mezzi  necessarj)  eseguire:  ma  può
bensì l'uomo eseguire ciò che ritrar non saprebbe. Onde io nell'esecutore di una
impresa sublime ci vedo un grand'uomo; ma nel sublime inventore e descrittore di
essa, a me pare di vedercene due. Ritornando ora al mio proposito, (da cui  pure
mi son forse dilungato assai meno di quel che si paia) dico;  che  se  innegabil
cosa è che lo scrittore di cose sublimi debba essere di  sublimissimo  animo,  e
ch'egli abbia tutti in se stesso i mezzi dell'arte  sua;  innegabilissima  sarà,
ch'egli disonora l'arte e se stesso, cercando o ricevendo protezione o  soccorsi
di cui non ha egli bisogno; poichè i suoi mezzi per eseguire sono  semplicemente
poca carta, inchiostro, ed ingegno; mezzi che nessun principe gli può dare, se a
lui gli ha negati natura. Ma, non è già delle arti così.  Da  prima,  per  esser
elle opera di mano, raramente vi si acconciano  persone  altamente  educate,  ed
agiate dei beni di fortuna; poi, perchè l'esecuzione di esse ne riesce faticosa,
dispendiosa, ed incomoda, non ne può essere mai indipendente  l'artefice.  E  in
fatti, la pittura, che pure è la meno incomoda di tutte le belle  arti,  si  può
ella vantare di aver avuto mai alcuno eccellente artefice,  che  prezzolato  non
fosse? Una cosa che si fa per vendersi, abbisogna di compratore; ed  ecco  tosto
la dipendenza e servitù di quell'arte. E benchè si vendano  anche  i  libri,  si
possono pur fare senza venderli; e prima della stampa così accadeva per lo  più.
Ma un pittore, che abbia e molto e bene dipinto per serbare o  donare  i  proprj
quadri, non vi è stato mai; così, nè scultore delle sue  statue;  e  molto  meno
architetto; che questo artefice più di tutti ha bisogno d'altrui  per  esercitar
l'arte sua; ove però non si voglia egli contentare di dar vita alle sue idee nei
semplici disegni. La musica, nobilissima arte anch'essa, e la  prima  forse  per
muovere, e per esprimere  (benchè  passeggeramente)  le  passioni  tutte  e  gli
affetti; la musica potrebbe, in un certo aspetto, bastare ella pure a se stessa.
Ma nei nostri tempi da alte persone non viene esercitata,  se  non  per  proprio
diletto; inoltre, le sue creazioni abbisognano pure d'esecutori,  poichè  quelle
carte notate sono mute per se  stesse,  se  a  farle  parlare  non  vengono  gli
strumenti. E la musica vocale, che dee pur preferirsi a tutte l'altre, le  quali
altro non sono che una imperfetta imitazione di essa, la musica vocale è schiava
nata dello scrittore; ed anzi (come già  era  in  Grecia  per  lo  più)  non  si
dovrebbe ella mai  scompagnar  dal  poeta.  Si  lascino  dunque  proteggere  dai
principi queste quattro arti, che per se stesse o sussistere non possono, o  non
abbastanza fiorire;  e  che,  anzi,  dalla  protezione  e  dai  premi  ottengono
incoraggimento e miglioramento, senza che all'artefice ne scemi punto  la  fama.
Ma le alte e sacre lettere, sdegnino, abborriscano, e sfuggano ogni  protezione,
come a loro mortifera; poichè pur  tanto  debbono  elle  scapitarvi,  e  per  se
stesse, e per gli artefici loro. I principi, senza avvedersi  forse  della  vera
ragion che li muove, ricompensano in fatti le arti, e le  fanno  anzi  stromento
della loro grandezza. Non possono dissimulare a se stessi, che una vasta e  bene
architettata reggia, in cui, fra l'oro e i ben ideati arredi,  campeggino  molti
dipinti e statue sublimi, ella è la maggiore e la  più  nobile  parte  del  loro
essere. Ben sanno i principi, che la stoltezza del volgo reputa veramente grande
colui che in mezzo a cose preziose e grandi si ricovera. Ma sfuggono essi  bensì
di proteggere, di ricompensare,  e  d'accogliere  i  veramente  alti  scrittori;
perchè al confronto di questi, appariscono vie più sempre minori essi stessi. Se
il tiranno Dionisio avesse albergato nella sua reggia Platone, chi  avrebbe  più
badato a Dionisio? E benchè la scultura e pittura con una certa maschia  libertà
e filosofia possano lumeggiare  i  più  utili  tratti  della  storia  antica,  e
consecrare le più libere imprese, nulladimeno,  come  arti  mute,  elle  vengono
lasciate fare, e di esse poco si teme. Un principe non darà forse per tema a  un
pittore la morte di Lucrezia; ma pure ne ricompenserà l'autore, e ne  collocherà
il quadro nella sua reggia, ancorchè il gran Bruto col ferro in mano, e pieno di
mal talento contra i tiranni, nel quadro  primeggi.  Ma  quello  scrittore,  che
sovra Bruto dicesse tutto  ciò  che  l'eccellente  pittore  dee  e  vuole  farne
pensare, e che la maestà di un tanto uomo richiede, non sarebbe  certamente,  nè
egli nè il suo libro, egualmente ricompensato ed accolto  nella  reggia.  E  ciò
perchè? perchè assai più dicono sopra Bruto le poche parole di Livio, di  quello
che mai esprimerà o farà pensare un Bruto dipinto, o scolpito; e  il  fosse  pur
anco da Michelangelo stesso, il quale solo era degno di ritrarlo. E le parole di
Livio son queste: Juro, nec illos, nec alium quemquam regnare Romae passurum.(3)



CAPITOLO SESTO.

CHE IL LUSTRO MOMENTANEO SI PUÒ OTTENERE PER VIA DEI  POTENTI;  MA  IL  VERO  ED
ETERNO, DAL SOLO VALORE.

Io non saprei dar principio migliore  a  questo  capitolo,  che  citando  alcune
parole di Tacito. Meditatio et labor in posterum valescit; canorum et profluens,
cum ipso scriptore simul extinctum est.(4) Non credo io, nè pretendo asserire ed
espor cose nuove; benchè forse non siano state trattate finora con questo stesso
ordine: anzi, a me pare, che i medesimi artefici, così delle lettere, come delle
arti, le sappiano tutte, quanto e più di me. E così mi fo io a  credere,  perchè
altro non si legge nelle loro vite,  fuorchè  ora  gli  uni  per  compiacere  ai
principi protettori li lodarono non gli stimando; ora gli altri  ricevettero  da
essi il tema dei loro poemi, libri,  o  quadri;  questi  lasciarono  guastare  i
proprj disegni  di  templi,  di  palazzi,  di  pubbliche  moli,  dal  capriccio,
dall'ignoranza e presunzione dei protettori, ordinatori, o pagatori di  esse:  e
tutti si vedono, in somma, aver  sempre  maladetto  l'ora  e  il  momento  e  la
necessità, (dicon essi) che gli avea condotti a impacciarsi con gente che  nulla
intendendo,  e  tutto  potendo,  assai  più  atta  riesce  ad  atterrire  che  a
consigliare altrui. Da codeste loro stesse moltiplicate e giuste  doglianze,  io
dunque ne ritraggo la certezza, che gli uomini per lo più, anche riflettendo,  e
conoscendo, e palpando la vera cagione delle cose, pure ci si ingannano  poi  se
medesimi; e rimane lor dubbio tuttavia se sappiano essi o  no,  che  pur  vi  si
ingannano. Questo accade semplicemente, perchè i più degli uomini  non  vogliono
riconoscere nel presente il passato,  e  nel  passato  l'avvenire:  o,  per  dir
meglio, perchè non vogliono essi per lo più veder  altro  che  il  presente,  ed
anche male osservarlo. E la ragione trivialissima, messa in campo da tutti;  che
il presente ci tocca assai più da presso; non si può assolutamente tollerare  in
bocca di nessun artefice di cose grandi: d'un uomo cioè, in cui suppongo, e deve
albergare, una nobile e ardentissima fiamma d'amor di gloria, la quale,  se  non
sola, almeno prima motrice a lui sia. Che se il poeta, l'oratore, o lo  storico,
o il filosofo, ardiscono pur pronunziare, ch'essi hanno  bisogno  di  pane,  con
viso  giustamente  adirato  rispondono  loro  i  non  vili:  "E  perchè  dunque,
abbisognando di pane, non vi destinaste  voi  da  prima  ad  una  qualche  opera
servile di mano? più certo era il pane; non era infame il mezzo; e  non  avreste
così dovuto arrossire in riceverlo". Ma,  ben  mi  avveggo  che  dai  più  degli
uomini, sotto il nome sacrosanto di pane, si ricercano, e  vogliono  acquistarsi
molti superflui comodi. Così, sotto il nome di fama, null'altro si  va  cercando
dai più che un'aura passeggiera di vana glorietta, per cui correndo il loro nome
per bocca dei loro contemporanei, accarezzati e considerati da essi ne  vengano.
E questa effimera distinzione, a cui non so qual nome si aspetti, per  mezzo  di
una mediocre virtù protetta da una assoluta potenza, si ottiene.  Ma  il  tempo,
vendicator d'ogni torto, la riduce anche in  polve  ben  presto,  insieme  colla
stolta superbia e colla debile fama del protettore. L'uomo  che  è  nato  capace
d'esser sommo in un'arte, se alla naturale  capacità  egli  aggiunge  la  tenace
risoluzione di volersi far tale, io credo che prima d'ogni altra cosa egli debba
piacere a se stesso; e per ciò, innanzi tutto, conoscere, stimare, e  temere  se
stesso. Gli altri, sono uomini anch'essi; ma i più son minori di lui, e i  pochi
suoi eguali, o sono da invidia e da altre passioncelle acciecati, o  essendo  in
tutto  dediti  a  speculazioni  diverse  dalle  sue,  raramente   sono   giudici
competenti, illuminati, e  caldamente  spassionati,  dell'arte  sua.  Il  bello,
sinonimo perfettamente del vero, è uno in ogni arte: ciascun uomo più o meno  lo
sente; ma chi può mai tanto sentirlo, quanto colui che lo  può  eseguire?  Mille
ostacoli impediscono il retto giudizio degli  altri;  ma,  freddato  interamente
quell'impeto che allo scrittore era necessario pur tanto al  creare,  nulla  può
impedire in appresso il suo retto giudizio su le proprie opere; purchè  soltanto
egli voglia giudicarle  da  quella  prima  impressione  che  ne  riceve  il  suo
intelletto nel rileggerle, o farsele rileggere, allorchè non  sono  più  affatto
presenti alla di lui memoria.  Il  che  può  accadere  facilmente  a  quel  tale
scrittore che avrà il savio metodo di far succedere l'una sua  opera  all'altra,
per modo che lungamente le prime riposino. Ma, e dove vò io d'una in altra  cosa
saltando? al mio fine vò sempre; e troppo l'ho io nel cuore, perchè dalla  mente
ei mi sfugga. Il sommo artefice, cioè l'imitatore e ritrattore della natura, più
forse quale ella potrebbe essere, che quale ella è pigliandola a parte a  parte;
l'artefice, dico, dee ascoltar quasi tutti, e non dispregiar  mai  nessuno;  ma,
formato ch'egli ha se stesso su gli ottimi che lo han preceduto, dee, più che ad
ogni altro, piacere a quegli ottimi,  e  a  se  stesso;  e  ciò  necessariamente
importa, che egli piacerà poi a venti nazioni, a venti generazioni di uomini, in
vece di piacere alla parte guasta di una. Né il sommo artefice dee così fare per
orgoglio, ma per l'intima conoscenza del cuore  umano  ch'egli  avrà  acquistata
leggendo, riflettendo, e pesando le passate cose; e per una intima conoscenza di
se stesso, e delle proprie  forze,  ch'egli  avrà  acquistata  esercitandole,  e
comparando se ai grandi di cui legge, e le cose sue alle loro, e le loro vicende
alle sue. Ed ecco come il sublime sguardo dell'uomo che sommo vuol farsi, vede e
misura ad un tratto il passato, il presente, e  l'avvenire;  conosce  se  stesso
negli altri; gli altri in se stesso; e la natura, la verità,  il  retto,  ed  il
bello conosce nella loro maggiore estensione, per quanto ad uom si conceda. Ora,
un  artefice  che  così  fattamente   pensa,   si   lascierà   egli   proteggere
nell'esercizio di un'arte per se stessa sublime, a cui vede palpabilmente  dagli
esempj passati che la protezione ha arrecato minoramento  di  fama,  e  nel  suo
autore, e nell'opera? E colui, che ha necessità di appoggio per sostentarsi, può
egli avere spinto tant'oltre  il  suo  imparziale  ragionare  e  riflettere?  ed
essendosi pure spinto fin là, non sceglierà egli piuttosto ogni altra  via,  che
quella di  un'arte  sublime,  per  procacciarsi  il  più  infimo  indispensabile
sostentamento? L'uomo, che con qualche dritto si lusinga di conoscere il vero, e
che si sente il nerbo di esporlo con forza ed eleganza, o dee avere il  bastante
per vivere, o contentarsi del pochissimo, o rinunziare all'impresa, o guastarla.
Ma io dicitor di paradossi parrò, se esemplificando  non  provo,  o  almeno  non
identifico il mio pensiero. "La  fama  di  Virgilio  è  somma;  chi  non  se  ne
appagherebbe? chi l'ha agguagliato, non che superato? ed egli era pure  protetto
e pasciuto da Augusto." Rispondo: "La fama dei libri  di  Virgilio  è  somma;  e
tale, quasi per tutti i lati, la meritano; e quelle parti di essi,  che  possono
essere combinabili colla timidità  dell'autore,  e  coll'avvilimento  della  sua
dipendenza, vi si scorgono  tutte  perfette;  sceltezza  e  maestà  di  parlare,
varietà e imitazione d'armonia, vivacità di colori, evidenza, brevità,  costume,
e mill'altre: ma la principalissima parte d'ogni scritto, che  dee  essere  (per
metà almeno) l'utile misto col dilettevole; quella parte divina, che ha per base
il vero robusto pensare e sentire, totalmente quasi  manca  in  Virgilio".  Alle
prove. Discende Enea nell'inferno, e gli  vien  fatta  la  rassegna  dei  grandi
uomini che sono per illustrar Roma, e per farla poi un giorno signora del mondo.
Quale scrittore di verità, qual pensatore, qual gelido cronologista  per  anche,
si attenterebbe  fra  questi  di  mentovarvi  primi  Cesare  ed  Augusto?  e  di
mentovarli con ben altre lodi, che gli Scipioni, i Regoli, i Fabrizi, ed i Fabj,
i quali seguono col misero corredo di pochissimi versi.  Non  contento  di  ciò,
Virgilio spende diciannove  altri  eccellenti  e  toccantissimi  versi  per  far
menzione d'un Marcellotto nipotino d'Augusto, morto nell'adolescenza,  il  quale
sarebbe affatto sconosciuto, se non era la vile sublimità di quei versi. Ma, per
Catone, un mezzo verso basta a Virgilio; tre  soli  per  Giunio  Bruto;  nè  una
parola pure per Marco Bruto.  Molti  altri  grandi  vi  sono  appena  accennati;
moltissimi preteriti del tutto, e  fra  questi  (chi  'l  crederebbe?)  il  gran
Cicerone; perchè quel sommo oratore recentemente allora caduto  era  vittima  di
quella stessa tirannica mano d'Augusto, che, sanguinosa  ancora  e  fumante  del
sangue dei cittadini romani, pasceva ed avviliva il niente romano  poeta.  Anzi,
Cicerone dalla codardia di Virgilio viene  espressamente  insultato  con  quelle
infami parole: Orabunt (alii)  caussas  meliùs;(5)  nelle  quali  uno  scrittore
latino eccellente, con vile e menzognera sfacciataggine,  gratuitamente  accorda
la palma della eloquenza ai Greci,  o  a  chi  la  vorrà;  e  ciò  soltanto  per
toglierla a Cicerone. Il lettore, a tai passi, ripieno di giusta indegnazione, è
sforzato a gridar fra se stesso: "Ecco il pane di  Augusto;  ecco  l'utile,  che
arrecano i principi  protettori  alle  lettere;  ecco  l'inganno,  la  viltà,  e
l'errore, che non mai da essi, nè dai clienti  loro,  scompagnare  si  possono".
Parmi innegabile, che Virgilio in questo luogo, e in mille altri  simili,  abbia
voluto piacere ad Augusto più che a se stesso; e che in ciò  solo  abbia  ardito
scostarsi da Omero, il quale non tradì mai il vero e se stesso  per  adular  chi
che fosse; e che poco si sia egli ricordato della  grandezza  di  Roma,  e  meno
curato della propria fama fra i posteri. Virgilio dunque, nell'atto  di  scriver
tal cosa, o non sentiva, o, (che peggio è) sentiva egli e  tradiva  l'importanza
del sublime suo incarico fra i suoi coetanei; di essere il poeta nazionale di un
popolo, il primo che mai fosse stato sul globo, e che ridottosi  allora  schiavo
di fresco, non ne era ancora certamente divenuto l'ultimo. Virgilio non conoscea
dunque se stesso, poichè non si supponeva da tanto, di potere, con  la  bellezza
ed energia del suo verseggiare divino, riaccendere a  libertà  e  a  virtù  quel
popolo, qual ch'ei si fosse. E se egli anche non potea pure lusingarsi di  tanto
ottenere, un poeta veramente romano avrebbe soddisfatto almeno a se stesso, alla
patria, e alla fama e gloria d'amendue, col solamente tentarlo. Ma, potremmo noi
credere mai, che Virgilio, quel sovrano scrutatore degli umani  affetti,  queste
cose tutte al par di noi non sapesse? no certo. Eppure ei fece il  contrario;  e
perchè? perchè non seppe, o non ardì egli  conoscere  e  stimare  se  stesso.  E
perciò egli ha fatto il suo libro assai minore di quello che avrebbe pur  potuto
e dovuto essere; e perciò egli ha fatto se stesso minor del suo libro.  Se  egli
dunque non  avesse  avuto  nell'animo  quella  viltà,  che  sempre  dà  il  pane
principesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso, e quindi  assai  maggiore
il suo libro. Che niuna cosa non viene chiamata mai somma,  finchè  si  ha  pure
idea di un meglio, eseguibile. In un poema che ha per titolo, ROMA; quale, senza
però darglielo, ha preteso di fare Virgilio; egli vi poteva  e  dovea  inserire,
per la parte robusta pensante e giovevole, una  grandezza,  verità,  libertà,  e
forza, che invano vi si cercano. Virgilio dunque ha tradito in ciò la gloria  di
Roma, scambiandola (e non a caso) con quella dei Cesari; e ad  un  tempo  stesso
egli ha di gran lunga menomato la propria. E tutto ciò, perchè Virgilio  non  ha
pienamente conosciuto, o voluto, o ardito conoscere, stimare,  e  piacere  a  se
stesso. E questa  parola  SE  STESSO,  ch'io  tanto  ribatto,  si  dee  talmente
dall'artefice in tutta la sua immensità  immedesimare  colla  parola  VERO,  che
quando egli dice dopo il maturo esame d'una opera sua, come d'una altrui, NON MI
PIACE, equivaglia ciò per l'appunto al dire,  NON  CI  È  IL  VERO:  con  quelle
picciole restrizioni però, che le  facoltà  limitate  dell'uomo  richiedono  pur
sempre; ma, che non sostituiscono tuttavia mai il falso  al  vero.  Alcuni,  per
distruggere in una parola quanto io finora  ho  ragionato  intorno  a  Virgilio,
diranno;  che  egli  non  avrebbe  forse  scritto  nulla,  senza  la  protezione
d'Augusto. Rispondo; che così può essere, e ch'io stesso così  credo;  e  che  a
ogni modo noi dobbiamo pur essere molto tenuti ad Augusto di un tanto poema,  in
cui ciò che manca non si suol mettere in contrappeso dai più con tutto quel  che
vi abbonda. Gli amatori  principalmente  di  poesia,  che  con  tanto  trasporto
leggono e debbon leggere l'Eneide, così dicono; e  così  debbono  dire.  Ma  chi
specula in grande, è sforzato a giustamente conchiudere, che il bene di una cosa
non ne toglie però il male; e che dovendosi cercare,  per  quanto  è  possibile,
sempre quella perfezione che sta sola nel maggior utile, indispensabilmente ella
si dee sempre originare o dalla schietta verità, o dalla finzione  che  venga  a
concludere in qualche utile verità. Quindi,  anche  gli  amatori  più  caldi  di
Virgilio (e mi vanto io d'esser  uno  di  quelli)  debbono  pur  confessare,  se
intendono ed amano il vero, che Virgilio, nato cent'anni prima con le stesse sue
doti, avrebbe fatto di tanto migliore  il  poema,  di  quanto  quella  Roma  era
miglior della sua; ovvero, che  essendo  anche  nato  sotto  Augusto,  se  egli,
provvisto delle prime necessità, avesse avuto sì  fatta  altezza  nell'animo  di
tornarsene a scrivere liberamente il  poema  nella  sua  nativa  palude,  e  che
scrivendolo avesse avuto sempre in vista di piacere  al  vero  e  a  se  stesso,
Virgilio in tal modo sarebbe pervenuto a piacere e a giovare assai più  a'  suoi
coetanei, e a' suoi posteri: e tessuto avrebbe un poema tanto  maggior  di  quel
suo, quanto l'animo, i costumi,  la  vita,  e  la  sublimità  d'un  vero  saggio
indipendente avanzano i costumi, la vita, e la bassezza d'un tiranno, e dei suoi
cortigiani. Quale romana storia agguagliare si potrebbe ai più luminosi e  forti
tratti di essa, espressi coi sublimi versi di Virgilio? A far  rinascere  Romani
in Italia, quali insegnamenti più alti e più caldi si potevano mai  lasciare  ai
venturi giovanetti, che le imprese dei Bruti, dei Fabj, e dei Deci, da  Virgilio
pennelleggiate? E se i diciannove versi da lui consecrati ad eternare la nullità
di un Marcelluccio cesareo, con  miglior  senno  consecrati  gli  avesse  ad  un
Regolo, o ad uno Scipione romani, la immensa, e purissima  gloria  che  glie  ne
ridonderebbe da tanti secoli; la soddisfazione, più cara ancora che  la  gloria,
di avere con egregio stile laudata la egregia  virtù;  non  gli  sarebbero  elle
state più nobile e desiderabil guiderdone, che non quella disonorante mercede di
non so quanti talenti da Livia donatigli? I versi eccellenti, consecrati a lodar
la virtù, hanno la loro mercede in se stessi. Nessuno eroe  romano  ricevea  mai
guiderdone di danari dalla patria sua per aver  fatto  una  nobile  impresa;  ed
ardirebbe riceverla colui, che degnamente cantandola si mostra degno e capace di
bisognando eseguirla? L'amore dunque della fama presente e non vera,  spesso  fa
perdere, e talvolta scemar, la futura, che sola è verace, e  durevole.  I  sommi
scrittori lascino per tanto ai mediocri godersi  questa  picciola  e  momentanea
fama, che è veramente la loro, poichè se ne  appagano,  e  poichè  dalla  altrui
potenza si ottiene. Ma essi, caldi proseguitori della vera fama che sta in  loro
stessi, e che dal vero e dal tempo soltanto si ottiene,  nessuno  altro  termine
pongano alla loro virtuosa e nobile brama di giovar dilettando,  se  non  se  la
infinita serie delle future generazioni. E sempre abbiano presente, che un Omero
ha dato e vita e fama perenne ad Achille; ma che nessuno Achille mai, non che un
Omero creare, bastato sarebbe colle proprie forze a dar vita e perenne fama a se
stesso.



CAPITOLO SETTIMO.

QUANTO SIA IMPORTANTE, CHE IL LETTERATO STIMI CON RAGIONE SE STESSO.

Avendo io nel precedente capitolo, per  quanto  mi  pare,  dimostrato,  che  dal
conoscere se stesso con intimo e pieno senso delle  proprie  facoltà,  nasce  la
perfezione del letterato, e quindi la sua durevole fama; piacemi  in  questo  di
ragionare a lungo su la stima  di  se  stesso,  che  dee  necessariamente  nello
scrittore originarsi dalla intima e assennata di lui  securtà  nei  proprj  suoi
mezzi. E dico da prima, che da una tale stima vivamente sentita,  e  alle  volte
anche spinta alquanto oltre al vero, ne nasce il divino effetto di valere l'uomo
assai più che non varrebbe per se stesso, se egli meno si stimasse. Questa  idea
di se, per quanto si può osservare dai fatti, ha  generato  sommi  effetti,  non
solamente in alcuni individui, ma  perfino  nei  popoli  interi.  Gli  Spartani,
Ateniesi, e Romani, attesa la smisurata  opinione  di  se  stessi,  saputa  loro
infondere dai savi governi, fondata però su alcune vere basi, divennero in fatti
per sì gran tempo superiori ai popoli tutti con cui ebbero che fare. E nei  loro
primi tempi, l'opinione di se stessi certamente avanzava la realità  della  loro
forza: ma si verificò in appresso una tale opinione, perchè nel più delle  cose,
il crederle fortemente, le fa essere; come il debolmente  crederle,  cessare  le
fa. Ma, di nessuna si vede  più  pronto  e  sicuro  questo  effetto,  che  della
opinione avuta da ciascuno individuo di se stesso. Non dico io per ciò,  che  ad
essere un uomo grande basti il credersi tale; anzi, chi lo è, tale  per  lo  più
non si reputa: ma dico bensì, che a  volerlo  divenire,  bisogna  essere  in  se
stesso convinto di averne  tutta  la  capacità;  e  aggiungervi  un  intenso,  e
incessante volere; e il tutto corredare poi di quella saggia diffidenza  di  se,
che non è nè viltà,  nè  coscienza  della  propria  debolezza,  ma  un  profondo
sentimento  della  difficoltà  e  sublimità  della  perfezione.  Se  dunque   il
letterato, uomo per se privatissimo e  oscuro,  senza  nessun'altra  potenza  nè
autorità, che quella del proprio ingegno; se il letterato osa pur  concepire  il
sublime disegno di voler da se solo persuadere gli uomini,  rettificare  i  loro
pensieri, illuminarli, difenderli, dilettarli, convincerli, e far forza ai  più;
chiara cosa è, ch'egli dovrà aggiungere al molto ingegno naturale, alla dottrina
necessaria e bastante al soggetto, al caldo e puro parlare, una altissima  stima
di se stesso: e non solamente la stima del proprio ingegno, ma della illibatezza
dell'animo,  del  severo  costume,  della  virtuosa  e  libera  sua  vita,   non
contaminata (per quanto si può) da nessuna macchia di timore, di dipendenza,  nè
di viltà. Che se egli non si reputa e conosce per tale, come ardirà lo scrittore
insegnar la virtù, che non ha praticata? altro non sarebbe, che uno  svergognare
e condannare se stesso. Ma, se egli tal non si  reputa,  come  potrà  egli  tale
mostrarsi? Lo scrittore crede, e pretende, di parlare  a  tutti.  Uno  scrittore
onorato non dee commettere alla carta veruna cosa,  che  egli  in  savia  e  ben
costituita repubblica non ardirebbe pronunziare di bocca ad  un  popolo  intero.
Non dee dunque mai porre in iscritto cosa, che non creda esser vera e  retta;  e
che, come tale, non segua primo egli stesso, per quanto è possibile. Una moderna
opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che  il  lettore  dee
giudicare il libro e non l'uomo. Io dico,  e  credo,  e  facile  mi  sarebbe  il
provare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore; e che,
se non è tale, egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita,  e  di  effetto
nessuno. Ed eccone rapidamente le prove. A voler fare vivamente sentire  altrui,
bisogna che vivissimamente senta  lo  scrittore  egli  primo:  non  si  può  mai
fortemente  esprimere  ciò  che  debolmente  si  sente:  un  pensiero   espresso
debolmente perchè non è fortemente sentito da chi il concepisce, non  potrà  mai
fare neppure una mediocre impressione in colui  che  lo  legge:  da  queste  tre
verità, parmi che ne risulti una quarta; che se lo scrittore non  è  intimamente
persuaso di ciò ch'egli dice, non persuaderà, nè commoverà mai nessuno; e quindi
sarà per lo meno inutile il suo libro. E sempre io parlo di calda, di  forte,  e
di vivissima impressione, come della più importante  parte  d'ogni  buon  libro;
perchè gli uomini tutti per lo più, e maggiormente i più schiavi (come siam noi)
peccano tutti nel poco sentire. Credo, che ciò  provenga  (almeno  in  noi)  dal
troppo parlare, dal  poco  pensare,  e  dal  nulla  operare;  esistenza  affatto
passiva, che ci è singolarmente toccata in sorte a questi tempi, come ho già più
sopra osservato; sorte, di cui dobbiamo  pure  esser  degni,  poichè  con  tanta
disinvoltura la sopportiamo: ed i più la sopportano, senza neppure  avvedersene.
A così fatti popoli non si ardisce in nessun modo annunziare il vero  di  bocca;
conviensi dunque a lor  favellare  per  via  degli  scritti.  Ma  così  forte  e
inveterato deve essere il loro callo, ch'io credo  necessario  il  tuonare,  per
fargli appena appena sentire. Ogni lievissimo cenno  è  troppo  per  aizzare  la
tigre e il leone; ma qual pungolo è mai troppo acuto per inferocire  il  placido
aggiogato bue? Quindi, ogni libro debole di pensieri, e di stile,  riuscirà  fra
noi di nessunissimo effetto; ed  ogni  forte  libro,  di  picciolissimo  effetto
riuscirà. Non potendo dunque lo scrittore  ottenere  una  commozione,  che  egli
fortissimamente non provasse prima in se stesso; nè potendola egli in  tal  modo
provare, e causare in altrui, se le cose da lui  inculcate  non  praticava  egli
primo; ne risulta, che uno scrittore non ha fatto mai un  forte  e  buon  libro,
senza stimare se stesso moltissimo. Ma, può egli moltissimo stimare  se  stesso,
senza essersi fatto assolutamente libero  da  ogni  servitù  di  coloro  ch'egli
stimare non  debbe,  nè  può?  Ed  essendo  egli  ingegnoso,  libero,  virtuoso,
costumato, eloquente, potrà egli mai mancar d'alti sensi, nè di  giusto  ardire,
nè di luminose idee, nè di forti, splendidi, e sublimi colori per esprimerle? Si
osservi, che se a Virgilio (come già dissi) è  mancata  l'energia  d'animo,  che
richiedeasi in un Romano che a Romani parlava, la cagion principale ne  fu,  che
egli debolmente sentiva, e se stesso non istimava, nè stimare potea.  Quindi  è,
che oltre il timore d'Augusto, anche la vergogna di se stesso lo  trattenea  dal
dare certi tocchi risentiti, feroci, e verissimi, i quali smentito avrebbero pur
troppo la sua vita servile. E se alcuno volesse anche trovare da  ridere  in  un
autor così grave, l'osservi in quei pochi suoi passi, dove egli pur vuole  parer
cittadino; e lo vedrà procedere con timidità tanta, e con tante cautele, che  la
di  lui  pusillanime  cittadinanza  lo  svela,  anche  più  che  le  ardite  sue
adulazioni, per un vile liberto di Augusto. Ma,  chi  vorrà  pur  trovarvi  onde
piangere, e con ragione, da quegli stessi passi ne ricaverà non picciolo dolore,
riflettendo che da quei mezzi tocchi, e  da  quelle  massimette  di  semilibertà
snervate in versi eleganti, ne nasce assai più danno che utile alla universalità
dei lettori. Dal poco dire, ne risulta il  meno  sentire;  e  dal  sentir  poco,
allorchè un tale effetto si trae da un autore di grido  com'è  Virgilio,  se  ne
cava questa falsa induzione; che in un buon libro (e massime  di  poesia)  molte
cose importantissime vi si debbano piuttosto tacere,  o  appena  accennare,  che
scolpire. Non mancava a Virgilio null'altro, che  l'alto  e  robusto  pensar  di
Lucano; ma questa mancanza ad ogni pagina vi si fa grandemente sentire.  Se  non
isbaglio, gli epiteti sono quelli che meglio svelano l'animo, le circostanze,  e
il più o men forte sentire dello scrittore. Esaminiamo rapidamente, sotto questo
aspetto, l'epitetar di Virgilio. Nel sesto libro, parlando  egli  d'Augusto,  ne
dice in diciotto versi ciò che mai  d'uomo  nessuno  dir  non  potrebbesi  senza
sfacciata menzogna, e senza che parimente non  arrossissero  il  lodatore  e  il
lodato: ma in quei diciotto versi non ci osservo altro che il vile. Proseguiamo.
Nominando egli i  Tarquini,  cioè  quegli  abbominevoli  tiranni,  la  cui  sola
espulsione di Roma la fece poi grande, Virgilio dice: Tarquinios reges(6); e non
vi aggiunge epiteto nessuno: perchè ogni giusto epiteto che  avesse  loro  dato,
veniva ad essere per  l'appunto  l'epiteto,  che  in  vece  dei  diciotto  versi
sopraccennati, meritamente e solo spettava ad Augusto. E si noti,  che  il  buon
Virgilio dice: Tarquinios reges; neppure osando dire tyrannos; ed ecco il timido
e ingannevole poeta, che scrive, non pei Romani, no,  ma  pel  principe  che  lo
pasce. Più oltre, menzionando Giunio Bruto, cioè  il  liberatore,  e  quindi  il
fondatore vero di Roma, dice il  leggiadro  poeta:  animamque  superbam  ultoris
Bruti; ed ecco il non cittadino, il traditor  della  gloria,  della  libertà,  e
dell'utile verace di Roma. Falsissimo, vile, ed iniquo pensiero fu  il  suo,  di
non dire, per la patria liberata da un Bruto, altro che animamque superbam(7); e
di avvelenare ancora  quell'epiteto  già  improprio,  coll'aggiunto  di  ultoris
Bruti; come se Bruto non fosse stato mosso da altro impulso, che  dalla  privata
vendetta; e altra impresa non avesse egli a fine condotta, che il  vendicare  la
contaminata Lucrezia. Ma, per i figli  condannati  dal  padre  (tratto,  la  cui
ferocia non può essere scusata, nè abbellita, se non dalla riacquistata libertà)
ci impiega egli maliziosamente quattro versi, sparsi di veleno cortigianesco; in
cui dovendogli sfuggire per forza l'epiteto di pulcra a libertate,  intieramente
lo cancella tosto coll'aggiungervi in fine il laudumque immensa cupido;(8) e con
ciò Virgilio viene a dipingerci Bruto, non come un cittadino liberatore, ma come
un vendicatore crudele e vanaglorioso. Che ne risulta da un così fatto scrivere?
o il lettore, che non conosce Bruto altrimenti che  da  Virgilio,  piglierà  più
avversione che amore per  Bruto;  e,  stimando  più  le  private  virtù  che  le
pubbliche, abborrirà il parricida,  senza  badare  al  liberator  della  patria;
tollererà gli Augusti; li crederà per anche necessarj  alla  pubblica  felicità:
ovvero il lettore, iniziato già  nelle  cose  romane  da  Livio,  nulla  potendo
aggiungere alla stima e venerazione ch'egli avea già concepita per Bruto,  molto
aggiungerà pur troppo al disprezzo ch'egli giustamente anche concepito avea  per
Virgilio ed Augusto, nel leggerne le sopra mentovate lodi, non  meno  indiscrete
che vili. Ma questo falso e  debole  pensare,  potea  egli  forse  provenire  in
Virgilio dall'avere egli stimato in suo core  maggiormente  Augusto  che  Bruto?
niuno è,  che  ciò  creda.  Non  proviene  dunque  questa  virgiliana  viltà  da
null'altro, se non dall'aver Virgilio anteposto gli agj e gli  onori  del  corpo
alla altezza e chiarezza della  propria  fama;  dall'aver  egli  temuto  più  la
povertà che l'infamia; dall'aver egli riguardato Augusto come il tutto,  e  Roma
come il nulla; dall'avere egli in somma tenuto se stesso minor d'un tiranno.  Il
sublime letterato, a parer mio, si dee dunque stimare più che uomo  nessuno,  se
egli non vuol tradire la sacrosanta causa dei più, che sempre dev'essere quella,
che in mille diversi modi egli tratta. E gli orgogliosi re,  che  scambiando  la
loro illimitata potenza con se stessi, si credono essere il  tutto,  e  sono  il
perfettissimo nulla, debbono ai sani occhi del letterato il  nulla  parere:  che
tanto divario corre per l'appunto fra un illustre scrittore  ed  un  volgar  re,
quanto ne correa tra un cittadino romano ed un servo asiatico eunuco. Ma, parole
al vento gittate sarebbero le mie, se altro aggiungessi per provar la supremazia
del sublime ingegno su la volgare potenza: mi pare bensì di  dover  dir  qualche
cosa su la preeminenza tra un principe grande, e un grande scrittore;  rarissime
e sublimi piante l'una e l'altra, ma assai più rara, e sempre meno  sublime,  la
prima.



CAPITOLO OTTAVO.

QUAL SIA MAGGIOR COSA; O UN GRANDE SCRITTORE, O UN PRINCIPE GRANDE.

Se tutti i pregi che si richiedono per fare il sublime scrittore, si  trovassero
pure riuniti in un principe, di quanto non dovrebbe egli primeggiar sovra tutti,
poichè egli può operar tante cose, che lo scrittore può appena accennare? Questa
mi pare una questione  da  doversi  esaminare  profondamente,  per  la  semplice
soddisfazione e persuasione dei più; che se  io  dovessi  parlare  a  quei  soli
pochi, che giudicano per forza d'intimo sentimento, non la tratterei altrimenti.
Ricapitolerei soltanto tutti  i  pregi  dello  scrittore  sublime;  cioè,  sommo
ingegno, integrità somma, conoscenza piena del vero, e  non  minore  ardire  nel
praticarlo  e  nel  dirlo.  Da  questo  solo  novero,  verrei  bastantemente   a
dimostrare, che se tali e tante doti potessero  per  semplice  forza  di  natura
trionfare degli ostacoli annessi al nascimento e  educazione  del  principe,  un
uomo che se ne trovasse fornito, inorridirebbe  tosto  dell'esser  principe,  ed
immediatamente cesserebbe di esserlo; e, divenendo facitore di così savie  leggi
che impedissero per sempre ogni futuro  principe,  egli  verrebbe  in  tal  modo
(senza avvedersene) ad essere ad un tempo il primo degli scrittori tutti,  e  il
solo vero gran principe che vi fosse mai stato. Dei tali non  ne  conosco  dalle
storie, che un solo: Licurgo, che di re si facea legislatore, poi  cittadino;  e
quindi finalmente esule si faceva della riprocreata sua patria,  per  dare  così
più valore alle proprie leggi,  acquetando  con  la  sua  lontananza  l'invidia.
Agide, e Cleomene, tentarono la stessa cosa più secoli dopo: il primo perì nella
impresa; il secondo non la riuscì interamente. Per ciò la gloria loro  è  minore
di quella di Licurgo; ma di gran lunga maggiore di quella d'ogni altro principe.
Ma si lasci a parte questa specie  di  grandezza,  principesca  ad  un  tempo  e
cittadinesca ed umana, la quale, per essere troppo  sublime,  se  non  vi  fosse
stato un Licurgo, verrebbe riputata più ideale che vera. Parliamo per ora  delle
tre specie di principi grandi di grandezza principesca soltanto; che appunto  di
tre sorti ce ne somministra alcuni, ed anche rari esempli, la storia. Scegliendo
dunque un principe grande di ciascuna classe, e  paragonandolo  a  un  veramente
grande scrittore, (e di questi non ve n'è  se  non  d'una  sola)  mi  affido  di
evidentemente dimostrare la verità. La  esatta  misura  della  fama  meritata  e
acquistata, innegabilmente sta nel maggiore o minore utile  che  si  è  arrecato
agli uomini con imprese difficili,  ardite,  laboriose,  e  grandi,  sì  per  se
stesse, che pe' loro effetti. I principi che noi chiamiamo grandi, erano  eglino
conquistatori? La loro virtù è dunque stata utile soltanto  ai  pochi  dei  loro
sudditi, dannosa ai più, distruttiva pei moltissimi uomini vicini,  incognita  o
di nessun effetto ai lontani, di debole esempio o di tristo incitamento ai  loro
successori, e in fine di sterile maraviglia alle susseguenti generazioni.  Erano
eglino legislatori? ma essi fondavano assoluti  principati,  e  non  repubbliche
mai. E, fondando governi assoluti, hanno insultati  ed  oppressi  i  più;  hanno
innalzati, insuperbiti, e fatti o lasciati essere oppressori i pochi e  malvagj:
quindi la loro fama, in proporzione dell'utile arrecato agli uomini, riesce  pur
sempre  picciolissima  o  nulla  agli  occhi  dei  savj;  ed  agli  occhi  della
moltitudine è durata quanto l'imperio loro, o poco più. In fatti, per quanto sia
stato grande Numa, credo che la fama di Giunio Bruto in Roma avanzasse  di  gran
lunga, e giustamente, la sua; poichè Numa con tante savie leggi  non  avea  però
potuto o voluto impedire le seguenti tirannidi,  che  avvilita  ed  oppressa  la
tennero;  e  Bruto  all'incontro,  con  una  sola  generosissima  impresa,  avea
stabilito quella libertà da cui nacque la vera Roma, che fu poi per  tre  secoli
la maggiore e la più perfetta cosa pubblica di cui si abbia esempio  nel  mondo.
O, finalmente, grandi  erano  codesti  principi  per  avere,  in  un  regno  già
stabilito, governati i lor popoli con somma politica, umanità, e dolcezza?  ora,
qual trista specie di uomini è dunque codesta dei principi, a cui viene ascritto
come somma virtù, a cui acquista immensa fama ed eterna, il  semplice  esercizio
del loro più stretto dovere? esercizio, al quale (se  essi  ben  distinguono  le
cose) va annessa ad un tempo con il maggior loro utile la loro propria intera  e
sola felicità. Fu egli mai riputato sommo  verun  giudice,  pel  non  commettere
evidenti ingiustizie? verun pastore, per non disperdere il proprio gregge? verun
padre, pel non trucidare i suoi figli? un uomo, in somma, è egli tenuto maggiore
degli altri, soltanto per non esser egli e scellerato e  crudele?  Così  è,  pur
troppo! Tanta è la facilità, la possibilità, e l'invito al mal fare per chi  sta
sul trono, che chi, nol facendo, ha operato, o lasciato operare dalle  leggi  un
certo anche minimo bene, è stato riputato grandissimo. E, vista la nostra debile
ed insolente natura, allorchè alcun freno possente  non  la  corregge,  un  tale
principe si dee pur troppo  riputare  grandissimo.  Fra  queste  tre  specie  di
principi magnati, piglierò per esempio della prima, Alessandro;  della  seconda,
Ciro; della terza, Tito: e paragonerò l'utile da essi arrecato  agli  uomini,  e
quindi la somma della loro fama, alla  fama  ed  utilità  arrecata  da  un  solo
valente scrittore; e sia questi il più antico; il gran padre Omero.  Alessandro,
le cui vittorie e conquiste da nessun principe non furono mai  agguagliate,  non
giovò ai Macedoni; perchè, della infinita gente  ch'egli  estrasse  dal  proprio
regno, il più gran numero ne periva nell'Asia; e dei pochi che  si  arricchirono
della preda dei Persj, niuno quasi ne ritornava in  Macedonia:  e  questa,  allo
svanire di quell'aura prima di gloria che al popolo  conquistatore  si  aspetta,
rimanea un picciolo regno da se, poco o nulla serbando di quelle sue  già  tante
conquiste. Alessandro ai Greci  non  giovò,  poichè  dalla  epoca  sua  si  deve
ripetere la intera cessazione della lor libertà, per cui sola i Greci  si  erano
creati il primo popolo della terra: ai Persj non  giovò,  poichè  distruggea  il
loro impero, smembrandolo: agli altri popoli del globo non arrecò nè  utile,  nè
danno: ai principi nati dopo lui, e che senza le sue virtù imitare  lo  vollero,
gran danno arrecò; e più ancora ai popoli posteriori, che furono di  quelle  mal
nate abortive ambizioni la vittima: Alessandro, in fine, alla universalità delle
successive generazioni null'altro lasciò di se stesso, se non il terrore,  o  la
maraviglia,  del  nome.  Ciro  giovò  ai  Persj  fondando  il  loro  impero,   e
assicurandolo con savie leggi;  per  quanto  pure  elle  siano  combinabili  col
governo d'un solo. Ma Ciro, come avviene in ogni principato, assai più giovò  ai
suoi successori re, che non ai suoi popoli. E in prova di ciò, tolta  una  certa
disciplina militare, che neppur molto durava, e che in nulla era da  paragonarsi
alla greca e  romana  dappoi,  in  qual  virtù,  in  quale  arte  divennero  mai
eccellenti i Persiani? quai lumi ebbero? quali  ne  arrecarono  alle  soggiogate
nazioni? quai tratti di sublime grandezza d'animo ci hanno  tramandati  le  loro
storie? dove sono le loro storie? Un vasto e  muto  silenzio  di  molti  secoli,
interrotto di tempo in tempo da milioni di schiavi armati, e sempre disfatti  da
poche centinaia di  Greci  liberi,  ogniqualvolta  all'Europa  affacciavansi;  è
questa la storia della nazione che nacque dalle leggi di  Ciro:  e  se  i  greci
scrittori stati non fossero, nè di  Ciro,  nè  de'  suoi  Persj,  il  nome  pure
pervenuto sarebbeci. L'utile arrecato da  questo  conquistatore  legislatore  a'
suoi popoli, fu dunque assai picciolo;  alle  remote  nazioni  fu  assolutamente
nullo; alle postere, nullo: ed il nome di Ciro, per  essere  più  antico  e  non
Greco, è anche rimasto assai minore di quello d'Alessandro. Tanto  è  vero,  che
negli imperj assoluti non viene nulla più riputato chi fonda che chi  distrugge:
ed è questa una tacita giustizia degli uomini, che con ciò dimostrano, che negli
assoluti imperj anco il fondare è un mero distruggere. Tito,  appellato  delizia
del genere umano, giovò per pochi anni a Roma col rispettare alquanto  le  leggi
da' suoi predecessori barbaramente straziate; ma non  ne  fece  pur  niuna,  che
saldamente impedire potesse ai successori suoi di  commettere  le  atrocità  dei
suoi antecessori. Qual utile effimero fu dunque  mai  questo?  Perdonò  Tito  ad
alcuni congiurati; ma ciò fece anche Augusto, e lo stesso  Tiberio.  Potea  Tito
giovare grandemente a Roma, tentando almeno di rifarla libera e virtuosa; ma  ad
una tal cosa neppure ei pensava. All'universale degli uomini non giovò egli,  nè
nocque; null'altro di lui rimane, che il nome; e questo si  va  proponendo  ogni
giorno per modello ai principi tutti. Tito non è perciò imitato; ma se  pure  il
fosse, quale utile ne risulterebbe ai popoli sudditi? un brevissimo  istante  di
precario respiro, per poi risoffrire al doppio le oppressioni del successore. Ed
in fatti, se anco da noi tutti non si dovesse aver mai altri principi,  che  dei
simili a Tito, ne saremmo quindi  noi  forse  maggiormente  uomini?  nol  credo;
poichè i Romani  non  ridivennero  maggiormente  Romani  sotto  Tito,  nè  sotto
Trajano, nè sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto Augusto, Tiberio,
e Nerone. I veri Romani, cioè l'adunanza di tutte le virtù possibili in un  ente
umano, erano quella tal pianta, che allignar ben doveva a tempo dei  Bruti,  dei
Catoni, e dei Fabj; ma, all'ombra dei Titi e dei  Trajani,  non  mai.  Esaminate
queste tre specie di principi grandi, veniamo presentemente al grande scrittore.
Omero, verde e fresco dopo più di  due  mille  anni,  come  se  ier  l'altro  ei
vivesse, agli uomini tutti presenti e futuri giova e gioverà; nè ad  alcuno  mai
nocque, se non a chi volle, senza averne l'ingegno, imitarlo.  La  virtù,  e  la
sublimità egli insegna; il cuore dell'uomo sviluppa e commove: guerriero egli  e
legislatore, amico degli uomini e del vero, gli  illumina  discoprendolo.  Ed  a
così immenso giovamento quanto dal suo insegnare si trae, vi si aggiunge di  più
quell'immenso diletto che a tutti egli arreca; cosa che  nessun  gran  principe,
neppure giovando, non arrecava ai popoli mai. Omero fu invidiato da  Alessandro,
senza accorgersene questi, nello invidiargli Achille:  ma,  se  Omero  rivivendo
paragonasse la sua propria fama a quella d'Alessandro, non credo io che egli mai
Alessandro invidiasse. Ma, quando anche in vita fossero essi stati,  o  sembrati
uguali il gran principe e il grande scrittore, eguale  non  può  mai  essere  in
appresso la loro memoria e fama, per due potentissime  ragioni.  Prima;  che  il
principe non può aver giovato che ai soli suoi popoli, e per un dato  tempo;  lo
scrittore a tutti, e per sempre. Seconda; che il principe ha tratto  la  propria
grandezza da mezzi che non erano in lui stesso; poichè, se non avesse egli avuto
e stato e potenza, nessuna delle sue imprese  avrebbe  potuta  condurre  a  buon
fine: ed inoltre, di cotesta sua propria  grandezza  niuno  stabile  effetto  ai
posteri ne può il principe tramandare; null'altro  del  suo  alla  voracità  del
tempo involandosi, fuorchè la memoria ed il nome: e  questi  anche,  se  debbono
rimanere grandi davvero,  abbisognano  pur  sempre  d'un  grande  scrittore.  Al
contrario lo scrittore sublime, tutto in se stesso, ed  in  se  solo,  trovando;
fabro egli solo della propria grandezza, non meno che  dell'utile  altrui;  alle
seguenti età tramanda eternamente la viva sua fama, non quasi un vuoto nome,  ma
corroborata e giustificata dal proprio libro.


CAPITOLO NONO.

SE SIA VERO, CHE LE LETTERE DEBBANO MAGGIORMENTE PROSPERARE NEL PRINCIPATO,  CHE
NELLA REPUBBLICA.

Ragionando io da  sì  gran  tempo  di  letterati  e  di  principi,  mi  si  para
naturalmente innanzi una questione che par meritare capitolo da se; benchè molte
parti di essa io ne sia venute accennando nel corso di questo libro secondo. "Le
lettere,  debbono  elle  veramente  più  prosperare  nel  principato  che  nella
repubblica? e, se così è, quale ne può essere la trista e  lamentevole  cagione?
il difetto di tal cosa sta egli nelle lettere stesse, o  nei  letterati,  o  nei
popoli fra cui, e per cui questi scrivono?" Di queste cose tutte,  quanto  potrò
più brevemente sviluppandole,  discorrerò.  Ecco  da  prima,  che  se  ai  fatti
ricorro, trovo pur troppo, che dei quattro secoli, in cui con lunghi  intervalli
fiorirono le lettere, tranne il primo e il più fecondo, quello di Atene  libera,
gli altri tre furono senza dubbio promossi e per così dire covati  dai  principi
di cui conservano i nomi. Quindi, se imprendo ad esaminare la non lunga rassegna
degli altissimi scrittori d'ogni nazione e d'ogni secolo, trovo  il  numero  dei
nati in principato per lo meno eguale al numero dei nati  in  repubblica;  e  la
loro eccellenza trovo pur anche divisa; ma non però tanto, che la vera e massima
eccellenza (cioè la massima utilità) non si debba originare quasichè  tutta  dai
letterati nati in repubblica. Gradatamente poscia ritrovo la  seconda  e  minore
eccellenza presso i nati in principato, ma non fattisi nè lasciatisi proteggere.
La terza ed infima eccellenza finalmente ritrovo  per  lo  più  negli  scrittori
nati  schiavi,  rifattisi  poi  doppiamente  schiavi;  e,  come  tali,   pagati,
inceppati, e protetti. E venendo agli esempj, se fra  gli  scrittori  tutti  noi
poniamo in prima riga i sommi filosofi, che,  come  padri  d'ogni  lume,  ci  si
debbono di necessità collocare; bisogna pur confessare, che questi  erano  tutti
Greci; cioè liberi: e non erano, nè Egizi, nè Indiani, nè Persj,  nè  Assirj.  E
bisogna aggiungere, che non solamente erano liberi, ma anche sprotetti, e spesso
anzi perseguitati. Tali furono Socrate,  Platone,  e  Pittagora.  A  questi  tre
seguita e cede, a parere del retto giudizio, Aristotile; che la macchia d'essere
stato pedagogo di Alessandro, e d'esserne nato suddito in Stagira, non poco pure
oscurare dovea la sua fama fra i  Greci,  e  alquanto  forse  la  sua  filosofia
indebolire e minorare. Ma non credo necessario di annoverare  i  tanti  e  tanti
altri  filosofi  capi-setta,  di  cui  la  Grecia  libera  abbondò,  per   darla
interamente  vinta  per  questa  parte  di  letteratura  alle  repubbliche.   Lo
investigare altamente le cagioni delle cose, e principalmente le morali, non fu,
nè potea esser mai l'arte, non che promossa e protetta, ma nè pur tollerata  ne'
suoi cominciamenti, dal principe; il quale, fra le cagioni d'ogni male politico,
non può ignorare d'esser egli la maggiore e la prima. Se la filosofia seguitiamo
traspiantata di Grecia in Italia, i veri romani filosofi  troviamo  pure  essere
stati quasi tutti anteriori ad Augusto: Panezio, Varrone, Lucrezio,  Catone;  ed
in ultimo, maggiore di tutti, il gran Tullio; figlio, a  dir  vero,  di  morente
repubblica, ma scrittore pure, e pensatore, non  degno  di  nascente  tirannide.
Filosofi investigatori di politiche e morali verità, l'Italia non ne ebbe dappoi
quasi niuno di vaglia, infino al Machiavello. Questi, profondissimo in tutto ciò
che spetta ai governi, nella sublime e intera cognizione  e  sviluppo  del  cuor
dell'uomo inimitabil maestro, è stato e merita d'essere capo-setta fra  noi.  Ma
il Machiavello è pure anche figlio di una tal quale  agonizzante  repubblica:  e
benchè con alcune dediche  ai  medícei  tiranni  disonorasse  egli  alquanto  se
stesso, pure  da  essi  per  somma  ventura  sua  non  essendo  stato  protetto,
luminosamente perciò scrisse il  vero.  Ciò  non  ostante,  come  pianta  troppo
straniera alla Italia serva e avvilita, poco fu egli considerato, e poco  letto,
e assai meno meditato e  inteso  finch'egli  visse;  dopo  morte,  rimase  assai
screditato ed egli e il suo libro. E circa a quest'autore  mi  conviene  qui  di
passo osservare una strana bizzarria dell'ingegno umano; ed è, che dal solo  suo
libro del principe si potrebbero qua e là ricavare  alcune  massime  immorali  e
tiranniche; e queste dall'autore sono messe in luce (a chi ben  riflette)  molto
più per disvelare ai popoli le ambiziose e avvedute crudeltà dei  principi,  che
non certamente per insegnare ai principi a praticarle; poichè essi  più  o  meno
sempre le adoprano, le hanno adoprate, e le adopreranno, secondo il loro bisogno
ingegno e destrezza. All'incontro, il Machiavello nelle storie, e  nei  discorsi
sopra Tito Livio, ad ogni sua parola e  pensiero,  respira  libertà,  giustizia,
acume, verità, ed  altezza di animo somma: onde  chiunque  ben  legge,  e  molto
sente, e nell'autore s'immedesima, non può riuscire se non un focoso  entusiasta
di libertà, e un illuminatissimo  amatore  d'ogni  politica  virtù.  Eppure,  il
Machiavello, proscritto dai principi per mera  vergogna  di  se  stessi,  e  dai
popoli poco letto e niente meditato, volgarmente viene da tutti creduto un  vile
precettore di tirannia, di vizi, e di viltà. Né sarà  questa  una  delle  minori
prove in favore di quanto asserisco; che  i  filosofi  non  possono  essere  mai
pianta di servitù; poichè la moderna Italia, in ogni servire  maestra,  il  solo
vero filosofo politico ch'ella abbia avuto finora, non lo conosce, nè  stima.  A
voler poscia seguitare le tracce della  filosofia  ne'  suoi  lenti  e  luminosi
progressi, ci conviene varcar monti e mari, per ritrovar Bacone, Locke, e  pochi
altri, ma tutti figli di libertà. La Francia,  così  colta  pel  rimanente,  non
potea pure mai, come serva ch'ella era, procreare filosofi sommi, e  massime  in
politica; o se pur li creò, non poteva allevargli e serbarli. Bayle ne fa prova,
il quale, per poter essere  filosofo  vero,  e  scrivere  come  tale,  si  trovò
costretto di cessar d'essere Francese, e di ricoverarsi  in  Olanda.  Montaigne,
oltre lo stemma gentilizio, (che in quei tempi serviva ancora  d'usbergo)  dalle
due tirannidi e principesca e pretesca si sottrasse anche dietro alla scorza del
pirronismo, e di un certo molle faceto,  che  tutti  i  suoi  scritti  veramente
filosofici avviluppa, senza punto contaminarli. Montesquieu,  in  questi  ultimi
tempi, alquanto più ardiva, ma non però mai abbastanza; il che di tanto più gran
macchia alla sua fama riesce, quanto si vede benissimo da ciascuno, che egli per
solo timore tacque, o adombrò, o intralciò quelle semplici ed  alte  verità,  le
quali egli pure assai vivamente nel più profondo del cuore sentiva. E, senza più
dire dei filosofi, parmi dagli  esempli  aver  provato  abbastanza,  che  quella
filosofia, ch'io volentieri chiamerei LA SCIENZA DELL'UOMO, e  che  è  la  prima
parte e base d'ogni vera letteratura, viene sbandita, perseguitata, ed  oppressa
dal principato; e sarebbe oramai dal mondo estirpata, se  in  diversi  tempi  le
diverse repubbliche ricoverata non l'avessero.  E  quella  parte  di  essa,  che
diviene poi il necessario condimento d'ogni qualunque libro, si vede più o  meno
negli scritti abbondare, secondo che più o meno è schiavo l'autore, ed il popolo
nella cui lingua egli scrive. Esaminiamo ora gli oratori. Da prima, se  io  miro
ai due sommi, Demostene e Cicerone, erano pur nati in repubblica:  e  di  quanti
altri ottimi la Grecia e Roma non abbondarono? Ma,  se  lo  sguardo  rivolgo  ai
moderni oratori di principato, li trovo esser pochi,  e  assai  meno  grandi,  e
vuoti di cose, e neppure sanamente adorni di faconde  e  sublimi  parole;  e  in
somma, di politici li veggo trasfigurati interamente in sacri, o in panegiristi:
ottimi forse in tal genere, ma molto meno conosciuti,  e  letti,  e  gustati;  i
sacri,  per  essere  la  materia  che  trattano,  più  venerata  che  amata;   i
panegiristi, nauseosi quasi sempre, come vili menzogneri tributarj o del  vizio,
o dell'errore potente; e come tali, meritamente obbliati. E quali altri  oratori
può esservi nel principato? che hanno eglino a dire?  dove  a  parlare?  chi  ad
ascoltarli? Passiamo agli storici. Tra la  inutile  folla  di  essi,  pochi  pur
sempre ritrovo essere stati gli storici sommi; ed erano Greci, ed eran Romani, e
sono Inglesi; cioè sempre,  e  liberi,  e  non  protetti  scrittori.  E  chi  si
attenterà di mettere gli storici schiavi  e  protetti  a  confronto  dei  liberi
sprotetti?  Tucidide,  Polibio,  Senofonte;  Livio,  Sallustio,  Tacito;   Hume,
Robertson, Gibbon; si udiranno forse a fronte di costoro rammentare i Patercoli,
i Flori, i Varchi, i Segni, gli Adriani, i Guicciardini, i Du Thou, i d'Orleans,
o che so io? E tralascio tante migliaja d'altri storici non saputi, non letti, e
non apprezzati; sì, perchè timidi tessitori erano di storie  di  paesi  che  non
avendo prodotto uomini nulla insegnano all'uomo, e non meritano quindi  d'essere
conosciuti; sì, perchè in ogni parte costoro si mostravan minori  del  loro  già
niente alto tema. Ma, se ai poeti vengo; oimè! che io  veggo  questa  sublime  e
prima classe di letterati contaminata  quasi  sempre,  e  deviata,  e  spogliata
d'ogni utilità, ed anzi fatta espressamente dannosa, dalla  pestifera  influenza
del principato. Né mi si apponga ora a contraddizione, se i  poeti  vengono  qui
da me intitolati la prima classe di letterati; avendo io pur  dianzi  attribuito
il primato alla filosofia. Giustamente io reputo la classe dei poeti  essere  la
prima, in quanto giudico che debbano essi, secondo  l'arte  loro,  essere  anche
profondi filosofi; e dovendo pur anco essere caldi efficaci  oratori,  e,  sopra
tutto questo, poeti; a loro si  aspetta  certamente  (allor  che  son  tali)  la
primazía fra i letterati, come alla filosofia spetta il primato fra le  lettere.
Pure, anche traendo esempj di poeti, troverei, annoverandogli, e  la  loro  vita
adducendo, che i più, e i  maggiori,  se  non  erano  nati  liberi,  erano  però
liberissimi d'animo, giusti estimatori della politica libertà, e abborritori nel
loro cuore di quella stessa tirannide che spesso li proteggeva  o  pasceva.  Ma,
fra gli altri esempj, giova pure non poco a provare  il  mio  assunto,  l'essere
stato e libero e non protetto il principe e padre di tutti i poeti. Omero, cieco
e mendico, non si sa pure, e non apparisce da' suoi scritti, che  egli  tremasse
di nessun principe, nè che da alcuno di essi cercasse, o  ricevesse  protezione;
non è contaminato di adulazione nessuna il suo libro; e la sua fama non  è  meno
pura, che immensa ed eterna. Esiodo parimente, non si sa ch'egli  soggiacesse  a
protezione principesca. Ed ecco a buon conto i due, che per essere stati  i  più
antichi si possono riguardare come inventori e fondatori  dell'arte;  ecco,  che
ritrovata pur l'hanno, e cotant'oltre portata,  senza  la  macchia  di  principe
proteggente. Esaminando poi i progressi di quest'arte divina, si trova la poesia
fatta gigante nella Grecia, dove non v'era  principe  niuno  a  promuoverla.  La
lirica fra le mani di Orfeo, d'Alcéo, di Saffo, e sommamente di Pindaro, ritrova
e fissa la sua inagguagliabile perfezione. Così la drammatica,  da  Eschilo,  da
Sofocle, da Euripide, e da Aristofane, riceve principio e  compimento  perfetto,
senza che protezione di principe unico non v'entri per nulla: ma  v'entrava  per
molto bensì la onorevole, e non mai rifiutabile protezione del principe  popolo;
e tale era, fortunatamente per l'arte, il  popolo  d'Atene.  E  così  la  egloga
pastorale, le satire, ed ogni specie in somma di poesia, nacque e si  perfezionò
fra i Greci, senza l'insultante mortifero ajuto di  nessuna  assoluta  ed  unica
potestà. Che se gli altri tre secoli letterarj  videro  crescere  all'ombra  del
principe quei sommi poeti di cui si fregiarono, la maestà e  sublimità  di  quei
primi Greci varrà ben tanto (io spero) da potere ella sola starsene a fronte  di
tutti questi altri poeti; i quali di ogni cosa sono debitori più assai alla loro
imitazione di quei sommi Greci, che non  all'ajuto  dei  loro  sozzi  ed  inetti
protettori. E se a Virgilio avesse mancato l'appoggio d'Omero, di Esiodo,  e  di
Teocrito, che avrebbe egli creato col solo appoggio d'Augusto? E  che  sarebbero
in somma pressochè tutti i poeti nostri moderni, e i teatrali specialmente, se i
Greci, inventori d'ogni cosa perchè erano liberi, non avessero a loro  insegnato
ogni cosa; e se, in tal modo, non gli avessero protetti di necessaria, verace, e
non vergognosa protezione? Dagli esempj ricavati da ogni  specie  di  letterati,
parmi dunque aver chiaramente provato; che le lettere tutte, come  semplicemente
dilettevoli,  hanno  tanto  maggiormente  prosperato  in  repubblica   che   nel
principato, di quanto è di gran lunga superiore l'inventare al solo  imitare;  e
che, come utili, le lettere vi hanno tanto maggiormente  prosperato,  quanto  la
filosofia, storia,  e  oratoria,  prese  in  se  stesse,  possono  riuscire  più
giovevoli che la nuda poesia. Ma  questa  sola  può  allignare  nel  principato,
massimamente allorchè nulla dice: ed anco allignare vi può dicendo  pur  qualche
cosa; e ciò, mercè il velo sotto cui ella  le  tre  altre  nasconde.  La  trista
cagione, per cui la poesia (ma deviata sempre moltissimo dal suo vero fine)  può
sola prosperare nel  principato,  parmi  essere,  da  prima,  il  lenocinio  del
diletto, che anche sovra i  duri  cuori  dei  dominanti  può  molto;  in  oltre,
dall'essere la poesia finzione, ne nasce la lusinga nel principe, che  seducendo
egli o corrompendone l'artefice, potrà ottenervi luogo a se stesso, e  sorrepire
in tal modo presso ai posteri una fama non meritata. L'attribuisco,  oltre  ciò,
all'essere necessariamente arte del poeta il  parlar  d'ogni  cosa,  ma  il  non
discuterne nè dimostrarne alcuna; all'essere la poesia per lo più molto maggiore
motrice di affetti nell'animo, che di pensieri nella mente; al potere il  poeta,
mercè delle imagini, parlare agli occhi; mercè del numero, agli  orecchi;  mercè
dell'eleganza, alla sottigliezza del gusto; e tutto ciò, senza che  l'intelletto
pensante gran parte vi prenda: lo attribuisco in fine al potere il  poeta  esser
sommo (o almeno parerlo) senza che sommo sia ciò ch'ei dice, purchè  lo  sia  il
modo con cui lo dice. E tali erano in fatti  quasi  tutti  i  moderni  poeti:  e
indistintamente tali sono stati, e  saranno,  tutti  i  non  liberi  e  protetti
scrittori. Credo, che tutte queste allegate ragioni fan sì, che agli  occhi  del
principe la poesia sola trovi grazia; e che perciò ella sola  possa  fino  a  un
certo segno prosperare, e prosperato abbia, nel  principato:  ma  non  però  mai
quella sublime poesia, che al proprio immenso diletto l'utile della filosofia, e
l'impeto della oratoria aggiungendo, non può nè nascere mai, nè fiorire, se  non
in vera repubblica. E chi  s'ardirebbe  negarmi,  che  se  alle  immagini,  agli
affetti, armonia, eleganza, e giudizio del poeta di principe, annessa venisse la
sublime robustezza, l'amor del vero, l'ardire, la fierezza, l'indipendenza, e il
forte e giusto pensare del poeta  di  repubblica,  quello  solo  che  tutto  ciò
raccozzasse, sarebbe veramente il sommo poeta? il  sommo,  sì,  quello  sarebbe;
poichè da quello soltanto verrebbero ad un tempo  commossi  tutti  gli  affetti,
dilettati tutti i sensi, sviluppate ed accese tutte le virtù. Ma, se tale  poeta
vi fu mai, tali, o quasi tali, erano senza dubbio i poeti principali d'Atene. Ed
in fatti (se pur mi dicono il vero quei che sanno di greco e latino; che io  del
primo nulla so, e nell'altro piuttosto indovino che intendere) nessuno  desidera
in Omero, od in Pindaro, la eleganza di Virgilio e d'Orazio;  poichè  quanta  ne
hanno costoro, tutta da quelli per imitazione l'han tolta; ma,  chi  è  che  non
desideri sotto il divino pennelleggiar di Virgilio il fecondo inventare d'Omero;
il dignitoso e libero dialogizzare di  Sofocle,  d'Euripide,  e  di  Lucano;  il
robusto conciso pensare e sentire di Tucidide e di Tacito? Quindi,  a  me  pare,
che il principato permette, nudrisce, intende, e assapora i mezzi poeti; cioè  i
molto descriventi narranti e imitanti, ma poco operanti, e  nulla  pensanti;  ma
che degli interi poeti (quali alcuni ne sono stati, o essere possono in  natura)
non gli ebbe mai, nè gli avrà, che la sola repubblica. Se dunque le lettere  non
sono ciò che per se stesse elle dovrebbero essere, il difetto non sta certamente
nelle lettere. Altro limite non conoscono  elle  che  il  vero;  e  solo  se  lo
propongono per fine. Ma, e gli uomini che le trattano, e gli uomini  che  se  ne
prevalgono, quando son trattate dagli altri; e gli uomini che, governando, o  le
lasciano fare, o le impediscono, o le deviano; questi  uomini  tutti,  imprimono
alle lettere il marchio, direi così, del loro proprio intimo valore.  Quindi  è,
che da un principe proteggente, da pochi e non liberi lettori, da  molti  autori
tremanti o protetti (che sinonimi sono) si viene a procreare una tale specie  di
letteratura, che non eccedendo lo stato di convalescenza degli animi di costoro,
dee perciò rimanere di gran  lunga  indietro  dalla  intera  pompa  delle  umane
intellettuali facoltà. E però ci convien  pure,  vergognando,  tergiversando,  e
sommessamente mormorando, dalle sole ben costituite repubbliche ripetere in ogni
qualunque genere i più alti sforzi dello ingegno dell'uomo.



CAPITOLO DECIMO.

QUANTO IL LETTERATO È MAGGIORE DEL PRINCIPE, ALTRETTANTO DIVIENE EGLI MINORE DEL
PRINCIPE E DI SE STESSO, LASCIANDOSENE PROTEGGERE.

La maggioranza del letterato sul principe consistendo, più  che  in  ogni  altra
cosa, nella intima conoscenza ch'egli ha del principe e di se stesso, non  potrà
veramente esser egli il maggiore, se per intima convinzione egli il maggior  non
si reputa. Ma tale non potrà riputarsi per certo, se egli colle  opere  sue  non
arreca, o non tenta di arrecare agli uomini assai più vantaggio, che il principe
non arrechi lor danno. Ora, uno scrittore che così  opera  e  pensa,  non  potrà
assolutamente mai soggiacere alla protezione di chi egli crede (e  con  ragione)
essere tanto minore di se; di chi egli odia, come  facitore  di  cose  contrarie
alle sue; di chi egli spregia, come privo per lo più d'ogni virtù, d'ogni  lume,
e d'ogni ingegno; di chi in somma egli teme e abborrisce, come  esercitatore  di
una soverchia potenza, la quale è morte d'ogni verità e  di  ogni  sublimità  in
qualunque uomo sconsigliatamente a lei si avvicina. Con questa giusta e  precisa
idea del principe e di se stesso, il letterato potrà  egli  mai  seppellirsi  in
tanta vergogna, coprirsi di tanto obbrobrio, quanto fia quello che giustamente a
lui tocca, se egli riceve o mendica ajuti o  sostegno  da  una  persona  temuta,
abborrita, e sprezzata non poco da tutti, e sovranamente da lui?  Gli  scrittori
dunque che così non ragionano, oltre la infamia, ben ampia pena  del  volontario
loro errare ne riportano; così in se stessi  finchè  son  vivi,  come  nei  loro
libri; ove pure i lor libri rimangano. I posteri giudicano il valore  del  libro
dallo schietto utile che ne traggono; cioè dal vero che vi si  contiene,  e  che
solo può esser fonte dell'utile: e giudicano in oltre il  valore  dell'uomo  dal
libro: ma nè l'uno  nè  l'altro  mai,  dalle  loro  circostanze.  Ed  in  fatti,
circostanza nessuna vi può essere, che nelle cose non necessarie a farsi,  scusi
il mal farle, o il farle meno bene della propria capacità; il che in letteratura
è un malissimo fare; mentre tutte le circostanze  si  poteano  pure  interamente
domare, col non far nulla. Quanto a se stessi poi, i letterati protetti  portano
nel loro cuore l'orribile martirio di essere costretti a tenersi minori di  quel
principe, che essi, e tutti, a giusto dritto, egualmente  dispregiano.  Costoro,
col fero supplizio di  Tantalo,  in  mezzo  alla  propria  passeggera  fama,  ne
patiscono in se stessi una tormentosissima sete: che nessuna  propria  fama  può
esistere agli occhi di quell'uomo, il quale,  se  stesso  non  potendo  stimare,
diviene per forza minor di se stesso.


CAPITOLO UNDECIMO.

CHE TUTTI I PREMII PRINCIPESCHI AVVILISCONO I LETTERATI.

Il primo premio d'ogni alta opera è la gloria. La gloria è: Quella stima che  il
più  degli  uomini  concepiscono  d'un  uomo,  per  l'utile  ch'egli   ha   loro
procacciato; quelle laudi che il mondo glie ne tributa; quella tacita maraviglia
con cui lo rimira; quel sorridergli dei buoni  con  gioja  e  venerazione;  quel
sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de' rei; quell'impallidire degli  invidi;
quel fremere dei potenti: che tutti questi sono i corredi della nascente  gloria
fin che l'uomo in  vita  rimane.  Ma,  l'apice  di  essa  non  s'innalzando  mai
totalmente che su la di lui tomba, io credo che la più vera e  pura  gloria  non
sia già quella che viene  riposta  nelle  altrui  lodi;  ma  quella  bensì,  che
consiste nella intima  divina  certezza  dall'uomo  portata  con  se  stesso  al
sepolcro morendo, di veramente meritarla. A chi con forte ed intenso  volere  si
propone un tale sublime premio, niun altro premio non può cader nella mente; ma,
se pure ad alcun altro guiderdone intendono le sue brame, ogni qualunque ch'egli
ne riceva o ne speri, oltre la gloria, minoramento gravissimo diviene di quella.
I premj tutti adunque, che gloria e  gloriosi  non  siano,  macchiano  sempre  e
minorano la sublimità d'ogni impresa. Ma, poichè nell'uomo l'ingegno è tanto più
nobil cosa che la  forza,  innegabile  sarà  che  le  opere  della  mente  siano
altrettanto maggiori  di  quelle  della  mano.  E  ogni  premio  dovendo  essere
conveniente e degno della fatica, sarebbe cosa ingiuriosa a un  tempo  non  meno
che obbrobriosa, se, per ricompensare l'ingegno, si venisse il corpo a premiare.
L'opera dello scrittore, è opera intera di mente;  della  mente  dunque  sia  il
premio. Ora, nessun principe al mondo può dare un tal premio, per cui  la  mente
soltanto ne venga ad essere veracemente  onorata.  Può  darlo  bensì  un  popolo
libero; e col semplice applauso può darlo. Il guerriero ha esposto  la  vita,  e
benchè il capitano operi del pari colla mano e col senno, pure,  per  aver  egli
con ferite, con pericoli e travagli menomato il suo corpo,  egli  può  oltre  la
gloria accettare altresì tali altre ricompense, che quella rimanente sua vita  e
più comoda  e  più  larga  e  più  dolce  gli  rendano.  Ma  lo  scrittore,  che
coll'intelletto soltanto lavora, per quanto anche ne venga  a  soffrire  il  suo
corpo, egli però non lo espone mai a nessuno  evidente  pericolo.  Il  guerriero
serve alla patria; e, a ciò eletto da lei, lavora per  essa,  E  noterò  qui  di
passo, che guerrieri, altri che per la vera patria, io non ammetto fra i  sommi:
e i condottieri dei principi, se sommi pure  sono  stati,  o  sembrati  tali  ai
nostri occhi, non l'erano essi certamente ai lor  proprj;  che  un  Turenne,  un
Montecuccoli, o tale altro simile, non potea mai nel suo intimo core stimare  se
stesso, quanto un Scipione, un Annibale, un Fabio,  o  tanti  altri  sommi,  che
capitani erano per la loro  vera  e  libera  patria.  Ma  lo  scrittore,  eletto
all'arte sua da se stesso, non serve a nessuno, altro che al vero;  e  non  solo
per la patria sua, ma per gli uomini tutti e presenti e futuri  ei  lavora.  Chi
dunque avrà e dritto ed ardire di ricompensarlo, se non se gli uomini  tutti?  E
in qual modo? coll'accordargli la nuda gloria, che era la sola ricompensa da lui
già propostasi. Parmi dunque,  che  tutti  i  grandi  uomini,  che  in  un  modo
qualunque giovano agli altri, si possano degnamente ricompensare con  aggiungere
loro giusti premj alla gloria; ma, che da questi tutti eccettuare si  debbano  i
soli letterati; perchè la loro arte è spontanea; perchè si esercita con la mente
soltanto, e senza pericoli; e perchè in somma, abbracciando questa  per  la  sua
utilità tutti gli uomini, non ne risguarda pure mai particolarmente  nessuno.  A
chi mi dirà; che lo scrittore potrebbe pure abbisognare d'altro che  di  gloria;
risponderò: "Scrittore eccellente non sarà questi mai, nè lo poteva mai  essere;
poichè  egli  si  è  pure  proposto  per  fine  dell'arte  sua,  per  se  stessa
nobilissima, dei premj che tali non erano: premj, che stanno in mano  di  pochi,
che glie li possono negare come dare; che  possono  ingannarsi;  a  cui  bisogna
piacere e compiacere per ottenerli: e il piacere e compiacere a codesti assoluti
premiatori, non si può certamente accordare col piacere a se stesso,  al  retto,
ed al pubblico." La gloria all'incontro, essendo un premio ideale,  ed  un  mero
nome, nulla toglie a chi la dà; per essere ella data dai molti, non si  può  mai
dir sorrepita; e per essere ella legittimamente ottenuta in  semplice  dono  dai
molti datori, ella porta con se  ai  pochi  che  la  ottengono  l'impareggiabile
eterna prova, che quei soli pochissimi erano pur riusciti  nella  difficilissima
impresa di  piacere,  compiacere,  e  giovare  ai  molti  uomini.  Lo  scrittore
veramente sublime, non può  dunque  mai  abbisognar  d'altro,  che  di  semplice
gloria; perchè, se egli  d'altro  abbisognava  prima  d'esser  sublime,  non  ha
certamente potuto divenir tale, appunto perchè proponevasi egli un  fine  niente
sublime; ma s'egli è caduto in bisogno dopo di avere ottimamente composto i suoi
libri, la intatta sua fama, e le  immacolate  egregie  sue  opere,  gli  avranno
certamente procacciato qualche virtuoso amico, che, prevenendo i  bisogni  suoi,
lo impedirà di contaminarsi in appresso. Ma, se pur fosse possibile, che egli un
tale amico non ritrovasse, lo scrittor d'alte cose, in qualunque  stato  ridotto
ei si veda, non potrà mai apporvi rimedio che alto non sia.  Pascano  adunque  i
principi e i loro sgherri e soldati, e i loro  giumenti,  cortigiani,  servi,  e
buffoni; si ricompensino con ricchezze onori e gloria i  sommi  guerrieri  dalle
vere repubbliche; ma, con la sola e purissima gloria si guiderdonino i letterati
dagli uomini tutti.



CAPITOLO DUODECIMO.

QUAI PREMII AVVILISCANO MENO I LETTERATI.

Pure, non voglio io per una severità, che in  questi  snervati  secoli  parrebbe
soverchia, (benchè soverchio non sia mai ciò ch'è vero) privare  gli  scrittori,
che uomini sono anch'essi pur troppo, della dolcezza di tanti altri  premj,  che
gloria non sono,  ma  che  non  pajono  alla  gloria  nocivi.  Mi  giova  perciò
l'investigar brevemente quali siano codesti premj, e chi dargli e chi  riceverli
possa. Premj, che non siano gloria, e che pure non la vengano a contaminare  con
la loro mistura, altri non so vederne, fuorchè certi onori, tributati,  quasi  a
nome di tutti, dagli uomini, costituiti in una legittima dignità, a  chi  se  ne
sia fatto degno. Questi  onori,  che  mi  pajono  essere  i  soli  veraci,  sono
raramente concessi nelle  repubbliche;  perchè  l'autorità  essendovi  divisa  e
permutabile in molti, non v'è mai fra i dignitarj una tale persona e sì  grande,
(parlo di estrinseca grandezza) che venga stimato un onore appo  gli  uomini  il
sederglisi accanto, il coprirsi, il mangiare alla  mensa  sua,  o  simile  altra
principesca puerilità. Oltre ciò, le repubbliche volendo,  e  con  ragione,  che
ogni loro individuo cooperi  all'atto  pratico  del  presente  vantaggio,  hanno
tenuto per lo più gli scrittori per una gente oziosa e poco utile. E  in  fatti,
le lettere possono parere meno utili assai in  una  sana  repubblica,  dove  gli
uomini son buoni già dalle giuste e ben eseguite leggi, che non in un principato
dove già sono pessimi dal servire. Ma, per una  trista  fatalità,  elle  possono
nondimeno più facilmente allignare là dove il  bisogno  di  esse  è  molto  meno
incalzante. Ove però le repubbliche  volessero  pur  dare  alcuni  onori  a  chi
ottimamente scrive, innegabile è ch'elle sole  li  potrebbero  dare  veraci.  Se
Sofocle, per esempio, avesse ottenuto dalla  sua  città,  per  legge  vinta,  di
sedersi infra i più alti magistrati, o alcun'altra simile  distinzione;  essendo
una tale particolarità accordata dai molti là dove i molti negarla  o  impedirla
poteano, vero ed importantissimo onore, nobile e sovrano premio si dovea un  tal
privilegio riputare. Ma, se un solo, a cui  nessuno  può,  nè  osa  contraddire,
accorda una qualunque distinzione, ella dee intitolarsi favore, e non mai onore;
perchè non fa prova di merito niuno; e quindi potendola ottenere  un  inetto,  e
assai  più  facilmente  che  un  sommo  uomo,  necessariamente  diviene   questa
distinzione una macchia alla vera virtù. Le  sole  repubbliche  adunque  onorare
possono davvero i loro scrittori; i  principi  null'altro  possono,  se  non  se
favorire e distinguere i loro schiavi. Quindi, l'essere scrittore  pubblicamente
onorato in repubblica, attesta l'aver dilettato e giovato ai più; l'esserlo  nel
principato, attesta l'aver forse dilettato i  più,  ma  l'avergli  ad  un  tempo
traditi, cercando con false massime di giovare ad un  solo.  Ciò  posto,  se  io
risguardo Cicerone come semplice letterato, non  lo  biasimo  quindi  moltissimo
dell'essersi voluto far console: eppure, per acquistare una tal dignità in  quei
tempi, molti raggiri, pratiche, e viltà, gli sarà  convenuto  adoprare;  il  che
senza dubbio gli sarà riuscito di molto minoramento alla  stima  di  se  stesso,
all'altezza dell'animo suo, e quindi ai suoi libri,  alla  sua  fama,  alla  sua
gloria. Ma la maestà e importanza di una tale e fin allora legittima dignità; la
nobil fermezza con cui la esercitò Cicerone; la difficoltà  dei  tempi;  l'esser
egli nato libero ancora, e perciò necessario membro della repubblica; e in fine,
l'aver egli fra tanti torbidi con tanto calore e felicità  coltivato  sempre  le
sacre lettere; tutto questo ammirare e scusare e  venerare  mi  fa  Cicerone.  E
credo, che ad ogni letterato perdonare e concedere si potrebbe, il volersi delle
lettere far base e scala a divenir console in Roma a quei tempi: cioè, a divenir
più grande, più importante, e possente di assai più  largo  nobile  e  legittimo
dominio, che nol sono dieci dei nostri moderni re, presi a fascio. Ma pure,  nel
perdonargli una tale ambizione, bisognerebbe confessare ad un tempo, che codesto
scrittor-consolo nuocerebbe  non  poco  alla  perfezione  dell'arte  sua;  e  si
dovrebbe pur sempre riguardare da chi è ben sano di  mente,  come  un  traditore
delle lettere. Costui dunque in suo cuore avrebbe creduto essere maggior cosa un
console, che uno perfetto scrittore; e  che  quella  pubblica  carica,  data  da
altrui, fosse più importante cosa che non la sua  privata  altissima  carica  di
scrittore; carica che niuno può dare, nè torre: non si sarebbe ricordato costui,
che dei consoli ve ne erano stati a centinaja, e che gli eccellenti scrittori ad
uno ad uno e pochi si annoverano: e da questa sola  colpevole  dimenticanza  del
primato innegabile dell'arte sua sovra tutte,  ecco  tosto  lo  scrittore  fatto
minore della propria arte. Tolta adunque ai letterati ogni speranza ambiziosa, o
nociva nelle repubbliche; tolta loro ogni ambizione di onori e di ricchezze  nel
principato; ad essi non resta, oltre  alla  gloria,  altri  premj  che  non  gli
avviliscano, fuorchè i semplici onori nelle repubbliche. E dico espressamente, i
semplici onori; e non le  cariche  o  dignità;  perche  queste  non  si  possono
ottenere senza gareggiare coi concorrenti; e il gareggiare,  allorchè  in  virtù
schiettamente non si gareggia, suppone sempre un raggiro, e delle  pratiche  non
letterarie affatto, e indegne perciò d'un  vero  letterato.  Nè  si  possono  le
cariche o dignità  esercitare  a  dovere,  senza  abbandonare,  o  sospendere  e
guastare gli studj. Non è dunque scusabile mai, nè merita gloria quell'uomo, che
sprezzatore si fa della propria arte. E si avverta, che  le  Muse  sdegnose  non
sublimano mai sovra gli altri colui, che non le apprezza e  sublima  sopra  ogni
cosa. Dolce e grandioso spettacolo sarebbe stato, se Atene, in vece di  uccidere
Socrate, lo avesse fatto sedere  pubblicamente  in  mezzo  agli  arconti,  senza
esserlo: così, se gl'Inglesi avessero a Locke e  a  Milton  assegnato  luogo  in
parlamento, senza formalità di elezione, nè esercizio di carica alcuna;  ma  ivi
collocatili, quasi nazionali gemme, degne di rilucere tra il fiore di un colto e
libero popolo. Sono questi gli onori, che per essere parte di  schietta  gloria,
potrebbero soli  desiderarsi  e  riceversi  dai  letterati,  senza  veruno  loro
minoramento. Se io potessi insegnar precetti di cosa non degna, circa agli altri
premj tutti possibili ad ottenersi dal principe,  a  quei  letterati,  che  poco
degni  di  un  tal  nome  volessero  pure  ottenerne  alcuno,  consiglierei  che
accettassero  quelli  soltanto,  i  quali  più  dalla   persona   del   principe
allontanandoli, meno d'alquanto gli avvilirebbero. Ma, tra i premj e  gli  onori
tutti che il principe può dare allo scrittore, il primo, il sommo, il  solo  che
desiderare degnamente dallo scrittore si possa sia questo: "Che il principe, non
togliendogli il pensare ed il dire, non approvi, non impedisca, e  non  legga  i
suoi libri."



CAPITOLO DECIMOTERZO.

CONCLUSIONE DEL SECONDO LIBRO.

Mi pare, che risulti da quanto ho detto in questo  secondo  libro,  che  i  veri
letterati non possono, nè debbono  lasciarsi  proteggere  dai  principi;  perchè
nessuno di essi ha soggiaciuto a tal protezione, senza un gravissimo  scapito  e
delle lettere, e della propria eccellenza e fama. E parmi anche aver dimostrato,
che, a eguale  ingegno,  lo  scrittore  sprotetto  soverchierà  il  protetto,  e
d'assai. Ma le principali ragioni da me finora addotte, mi pajono venirsi  tutte
a ristringere in quest'una: "Che il principe e il letterato, e le arti  loro,  e
il loro fine, essendo cose in tutto  diverse  e  direttamente  opposte,  non  si
possono mai ravvicinare il protettore e il protetto, senza che il più debole  vi
scapiti e ceda." Vero è, che la penna in mano di un eccellente scrittore  riesce
per se stessa un'arme assai più possente e  terribile,  e  di  assai  più  lungo
effetto, che non lo possa mai essere nessuno scettro, nè brando, nelle mani d'un
principe. Ma, verissimo è altresì, che la penna  perde  ogni  sua  forza  natía,
ogniqualvolta non viene impugnata da uno scrittore non meno  libero  ed  ardito,
che ingegnoso, trasportato, ed esperto  nell'arte  sua.  Quindi  è,  che  se  il
letterato ed il principe si fanno amici, il principe ne  diventa  tosto  il  più
forte; ma se rimangono lontani, e nemici, quali la natura ed  il  vero  gli  han
fatti, il più forte, il più terribile, il  vincitor  trionfante  della  onorevol
battaglia, riuscirà pur sempre a  lungo  andare  l'imperturbabile,  impavido,  e
verace scrittore; ove per la illustre causa della umanità oppressa e  schernita,
soltanto ei combatta.

DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE LIBRO TERZO

ALLE OMBRE DEGLI ANTICHI LIBERI SCRITTORI.

Nessuno certamente di voi, onorati scrittori, che o liberi nascevate, o tali con
più vostra gloria facendovi, liberamente scrivevate; nessuno di voi, certamente,
crederebbe che in  questi  nostri  tempi  non  solamente  sorgesse  la  politica
questione; Se le lettere possano per se stesse sussistere  e  perfezionarsi;  ma
che definitivamente dai più venisse creduto e sentenziato pel no. E,  per  somma
disgrazia nostra, col tristo e continuo esempio  degli  odierni  scrittori,  pur
troppo si va finora confermando ogni giorno nel pensiero dei più questa falsa  e
funestissima impossibilità. Io perciò a voi indirizzo questo  mio  terzo  libro,
come cosa vostra del tutto; poichè da  voi  soli,  dalla  energia  dell'animo  e
dell'opere vostre, dalla  forza  primitiva  dei  lumi  con  che  rischiaraste  i
contemporanei vostri ed i posteri, io spero trarre argomenti invincibili, che mi
vagliano a combattere e distruggere questo universale servile assurdo:  "Che  le
lettere,  non  possono,  nè  perfezionarsi,  nè  sussistere,   senza   protezion
principesca."  Voi  dunque  o  Socrati,  Platoni,  Omeri,  Demosteni,  Ciceroni,
Sofocli,  Euripidi,  Pindari,  Alcéi,  e  tanti  altri  incontaminati  e  liberi
scrittori, inspiratemi or voi, non meno che salde ragioni,  virile  e  memorando
ardimento. Quanto, necessarj mi siano, sì l'uno che l'altro, per convincere  una
così acciecata gente, ve lo potete argomentar  da  voi  stessi,  paragonando  la
presente questione a quella che ai  tempi  vostri  si  sarebbe  più  giustamente
potuta innalzare, opposta in tutto alla nostra; e stata sarebbe: "Se le lettere,
o  nessuna  virtuosa  cosa,  nascere,  sussistere,  e  prosperare  potesse   nel
principato." Instrutti voi ora da me pienamente quale sia  la  total  differenza
dei tempi, piacciavi non solo di compatire  a  questa  mia  forse  non  meritata
infelicità, del nascere servo; ma piacciavi ancora di porgermi  ajuto,  affinchè
io uscire possa di servitù, e  trarne  i  miei  contemporanei  scrittori,  od  i
posteri. Se io ardisco pur supplicarvi di rimirarmi con  benigno  occhio,  e  di
scevrarmi dalla moderna turba dei  letterati,  una  tale  audacia  in  me  nasce
soltanto dalla mia propria coscienza; che se il destino mi  volle  pur  nato  in
queste moderne età, per quanto in mio potere è stato, io  sono  tuttavia  sempre
vissuto col desiderio e con la mente nelle età vostre, e fra voi.



CAPITOLO PRIMO.

INTRODUZIONE AL TERZO LIBRO.

Benchè nei due superiori libri  convenuto  mi  sia  di  toccare  qua  e  là  per
incidenza  la  quistione  che  ora  mi  propongo  di  trattare,  SE  LE  LETTERE
ABBISOGNINO DI PROTEZIONE, non credo io perciò di dovermi esimere dal ragionarne
ora più lungamente, e profondamente per quanto il  saprò.  E  siccome  io  dovrò
munire il mio assunto di esempj e di prove, imploro preventivamente l'indulgenza
de' miei lettori per alcune cose che mi bisognerà  forse  ripetere,  a  fine  di
togliere  così  del  tutto  le  apparenti  contraddizioni,  che  dai  due  libri
antecedenti potrebbero alle volte risultare. Avendo io nel primo consigliato  ai
principi di proteggere le lettere al modo loro, e nel secondo, ai  letterati  di
non sottoporle a protezione veruna, spero di conciliare in questo terzo  codesti
due diversi pareri. Ma certamente, ogni attento e scaltro lettore gli avrà anche
già conciliati da se. Avrà  osservato  che  nel  consigliare  io  i  principi  a
proteggerle, ho bastantemente  accennato  di  quali  lettere  io  intendessi  di
parlare, e di qual protezione: ed era, di quelle mezze lettere, che  per  essere
oggimai sparse ed allignate per tutto, impedire più non si possono; lettere, che
per essere elle, non già il sommo prodotto  dell'umano  ingegno,  ma  il  saggio
appena di esso, e che nascendo già avvilite, e inceppate, non  possono  mai  per
ricevuta protezione menomarsi. Così parimente avrà rilevato il lettore,  che  io
nel consigliare, supplicare, e dimostrare ai letterati, che mai non debbono essi
lasciarsi protegger dal principe, ho inteso di parlare soltanto a quei pochi,  i
quali avendo ali proprie per trarsi dalla classe volgare, se stessi e le lettere
farebbero  scapitare  d'assai,   se   da   vergognosa   protezione   invischiati
rimanessero.



CAPITOLO SECONDO.

SE LE LETTERE POSSANO NASCERE, SUSSISTERE, E PERFEZIONARSI, SENZA PROTEZIONE.

Il solo titolo che promuove una sì fatta quistione, mi pare a  bella  prima  una
cosa interamente degna di riso. Egli è lo stesso per l'appunto, come il  muovere
quest'altra: Se sia  vero  che  abbiano  esistito  e  scritto,  un  Platone,  un
Cicerone, un Locke, e la lunga serie di  tanti  altri  e  Greci,  e  Romani,  ed
Inglesi sommi; i di cui libri rimanenti e palpabili immediatamente la sciolgono.
Ma la viltà moderna, che si fa riparo ed usbergo di se  stessa,  non  osa  pure,
abbenchè sfacciatissima, negare che tali lettere e sì perfetti  letterati  senza
protezione nessuna esistessero; ma ella afferma bensì,  ciò  non  potere  oramai
esser più, vista la differenza dei tempi e degli uomini. Ed in prova  di  quanto
asserisce, ne arreca gli esempj di diciotto secoli consecutivi; ed armandosi dei
venerandi  nomi  di  Virgilio,  di  Orazio,  e  degli  altri  dell'aureo  secolo
Augustano; e quindi dei nomi a noi non men  cari,  dell'Ariosto,  Tasso,  Bembo,
Casa, e degli altri molti benchè inferiori posti pure a confronto co' grandi del
secolo Leonino; ed in ultimo armandosi dei recenti nomi dei  Corneille,  Racine,
Moliere, Boileau, ed altri del bel secolo gallico; a  conchiudere  ne  viene  la
moderna viltà, che senza  gli  Augusti,  i  Leoni,  e  i  Luigi,  codesti  sommi
scrittori non sarebbero stati; e che altri simili non ne  potrebbero  rinascere,
senza dei simili protettori.  Io  discuterò  da  prima,  se  non  ne  potrebbero
esistere dei simili a questi, senza protezione veruna; quindi, se non  sarebbero
molto migliori, cioè più utili, que' sommi scrittori,  che  in  quasi  nulla  si
assomigliassero a questi, e in quasi  tutto  si  assomigliassero  a  quelli  del
secolo d'Atene. E incomincio, col domandare:  "Qual  parte  dell'ingegno  e  del
libro di Orazio e  di  Virgilio  era  loro  somministrata  da  Augusto?"  Mi  si
risponde: "L'ozio, e gli agj, e quella pubblica stima, necessaria pur  tanto  al
ben fare: e n'ebbero in oltre, i molli costumi di una splendida corte, la purità
ed eleganza di un aureo sermone, che soltanto si può creare o perfezionare nelle
corti." Cioè (interpreto io la parola, nelle corti) in que' tristi luoghi,  dove
gli uomini pel troppo desiderare e  temere,  nulla  vagliono;  dove,  pel  molto
conoscersi ed odiarsi fra loro, e dal non ardirsi mostrare a  viso  scoperto  il
loro vicendevole dispregio, ne cavano i sottili e delicati modi di offendere, di
lusingare, di chiedere, di negare, e di prendere. E questi sottili  modi  dappoi
(perchè la tirannide, finchè non è giunta al sommo, non  ritorna  mai  indietro)
dai popoli, che nascendo  dopo,  nascono  più  schiavi  ancora  dei  precedenti,
vengono qualificati e reputati in appresso come la vera perfezione dell'eleganza
del favellare. Ecco dunque quanto può aver somministrato Augusto a Virgilio e ad
Orazio. Ma poniamo, che Virgilio  ed  Orazio,  fossero  nati  cavalieri  romani,
bastantemente provvisti dei beni di fortuna, e altamente educati, non  avrebbero
essi potuto senza Augusto scrivere con la stessa  eleganza,  e  pensare  qualche
cosa più? Così l'Ariosto ed il Tasso, senza  gli  Esti,  in  Italia;  Corneille,
Racine, e Moliere, senza i Luigi, in Francia? Costoro dunque avrebbero,  per  se
ed in se stessi, avute tutte le facoltà del loro ingegno per iscrivere, e ad  un
tempo tutti i mezzi che a loro venivano somministrati dai protettori; ma di  più
avuta ne avrebbero tutta quell'altezza d'animo che è sì necessaria al fortemente
pensare, al fortemente sentire, ed al  dir  fortemente:  e  questa  suole  esser
figlia soltanto degli indipendenti natali; e questa mai non s'impara: ma  questa
bensì dai protettori necessariamente  si  viene  a  togliere  a  chi  da  natura
l'avesse; nè questa in somma si potrà mai da nessun protettore  prestare  a  chi
non l'avesse. Degli scrittori adunque simili a Virgilio Orazio, Ariosto,  Tasso,
Racine, Moliere, &cc., ne possono nei nostri, come in tutti i tempi,  sussistere
e fiorire senza protezione veruna, tosto che bisognosi di essa non nascono. Ora,
perchè dunque sempre gridare, che non vi sono Mecenati? che, se vi  fossero.....
Quanto più ragionevole grido sarebbe il dolersi, che nella classe dei  ben  nati
ed agiati uomini non vi siano degli animi forti innestati sopra forti  ed  acuti
ingegni: poichè chiarissima cosa è, che alto animo,  libere  circostanze,  forte
sentire, ed acuto ingegno, sono i quattro ingredienti che compongono il  sublime
scrittore; ma non mai la mediocrità innestata su  la  protezione.  Ma,  se  pure
alcuno di questi sopra nomati, avvedendosi in tempo d'avere queste quattro doti,
si riscuote, e si pone all'impresa, chi può negare  che  quegli  senza  Mecenate
nessuno il tutto farà? e che tanto maggiormente  il  farà,  che  niuno  protetto
schiavo? Ora, perchè mai questi  nobili  o  ricchi,  e  non  stolti,  che  tanto
orgoglio insultatore dispiegano nella pompa del loro servaggio; perchè  costoro,
con più vera nobiltà d'animo, non si fanno  eglino,  non  protettori  inetti  di
lettere, ma valenti letterati e  scrittori  essi  stessi,  e  protettori  quindi
efficaci della verità e degli uomini? Ben  altri  mezzi  avrebbero  costoro  nel
principato, che ogni  altr'uomo  natovi  umile  e  povero.  Ma  il  timore,  che
maggiormente può in chi più ha, li disvia e impedisce; oltre che il nascere, per
opinione stolta, fra i primi, toglie lor quell'impulso e quel divino  furore  di
volersi far primi per realità. Ma, se pure il timore non concederà ai  nobili  o
ricchi di divenire nel principato sublimi scrittori di feroci verità, qual  cosa
mai potrà loro impedire di assomigliarsi ai Virgilj, agli Orazj, Ariosti, Tassi,
Racine, e simili? Si noti in oltre, che questi  nobili  facendosi  scrittori,  a
eguale ingegno, tosto maggiori sarebbero di quelli non nobili e poveri:  poichè,
come non necessitosi, e assai men dipendenti, mondati sarebbero ed essi e i loro
libri dalla feccia della vile adulazione e della sfacciata menzogna. Ma i nobili
e i ricchi nel principato, non vogliono essere (pur troppo!) nè poeti  filosofi,
nè semplicemente poeti. Quindi, vedendo io che in tale governo, chi ha più mezzi
per coltivare le lettere, meno le coltiva; e vedendo, che vi si danno  solamente
coloro che a ciò fare hanno tutti gli  ostacoli;  o  quelli,  che  mossi  da  un
mediocrissimo impulso d'ingegno, sospinger si lasciano da un impulso  assai  più
incalzante, dalla necessità, che è morte in parte del primo; verrei facilmente a
conchiudere: "Che le lettere nel principato, ancorchè protette, non  vi  possono
sussistere se non a stento, e male, e posticcie; appunto, per quella  necessaria
protezione che elle vi ricevono." Il che mi pare assai diverso  dal  non  potere
esse sussistere senza protezione. Venendo quindi  alla  seconda  parte  del  mio
assunto, brevemente  dimostrerò,  che  quegli  scrittori  che  farsi  saprebbero
dissimili dai sopra mentovati scrittori cortigiani, sarebbero assai migliori  di
essi. Chi vuole con imparzialità riflettere ed attribuire gli effetti alle  vere
cagioni, ed a ciascuno restituire il suo, è pur costretto a  dire;  che,  sì  il
nascimento come la perfezione delle lettere,  sono  stati  frutto  da  prima  di
libertà, e non di principato: ma, che i principi trovandosele poscia tra' piedi,
le  hanno,  col  proteggerle,  assai  più  deviate  al  mero  diletto,  che  non
accresciutele col farle più utili. E gli esempj pure una tal  cosa  ci  provino.
Virgilio ed Orazio tolsero bensì le invenzioni ed  i  metri  dai  Greci;  ma  da
Augusto e dai loro tempi null'altro ne trassero che la timidità e la lusinga;  e
non ardirei aggiungervi, l'eleganza; poichè certamente questi due  autori,  come
tutti gli altri Latini, più assai ne accattarono e  ne  trasportarono  nel  loro
idioma dal Greco, che non dal bel favellare di Augusto e de' suoi cortigiani. La
più nobile parte di questi due eccellenti scrittori era dunque in loro trasmessa
dalla passata greca libertà; la peggiore e la men necessaria, dal loro  presente
servaggio. Così l'Ariosto ed il Tasso, che sono pure le due gemme del nostro bel
secolo, presero dai nostri antichi, Dante, Petrarca, e Boccaccio, le invenzioni,
i metri, e di più tutto il nerbo, il fiore, e la eleganza del favellare, che già
si era  perfezionato  in  Toscana,  senza  nè  l'ombra  pure  di  niuna  medícea
protezione. Ma, da essi stessi, e dai loro protettori, e dai  tempi,  altro  non
presero l'Ariosto ed il Tasso fuorchè  il  timore,  le  adulazioni,  il  poco  e
debolmente pensare. E così in Francia gli  eleganti  scrittori,  benchè  non  vi
appajano se non sotto l'apice della tirannide di Lodovico decimoquarto, non sono
per ciò figli di essa: ma, le lettere preparate già nel precedente meno avvilito
secolo, fiorirono poscia in quello; e, a dir vero, più assai  vi  fiorirono  per
forza  d'imitazione  dei  Greci,  Latini,  e  Toscani,  che  non  per  forza  di
protezione. Che la protezione, in somma, altro ajuto non può dare ai  letterati,
fuorchè i mezzi d'investigare, traspiantare, e farsi  (ma  deviandole)  proprie,
quelle lettere già nate, coltivate, e perfezionate  senza  protezione  nel  seno
della creatrice  libertà.  Ma  questo  triplice  incalzante  esempio  di  Dante,
Petrarca, e Boccaccio, che non fiorirono sotto nessun  principe,  più  che  niun
altro è atto a terminar la questione. La lingua toscana si è fatta colossale  in
mano di questi tre grandi, che per proprio impulso scrivevano, e  non  protetti:
nelle loro mani riuniva questa lingua  in  se  stessa  la  maggiore  eleganza  e
delicatezza alla maggior brevità ed energia: ed ecco che  la  toscana,  come  la
greca, perfezionavasi senza macchia di protezione. Ma nei due secoli susseguenti
l'italiana letteratura essendo dai protettori traviata, poco o nulla si accrebbe
la lingua quanto alla nuda eleganza, e tutto perdè quanto al  sugo,  brevità,  e
robustezza. In oltre, questi stessi tre sommi scrittori mi  vagliano  anche  per
una viva prova  della  immensa  superiorità  degli  ingegni  sprotetti  sopra  i
protetti,  A  volersi  convincere  di  quanto  questi  tre,  e  massime   Dante,
soverchiassero tutti i nostri seguenti scrittori, sì pel robusto pensare e forte
sentire, che pel libero e ardito inventare, e per la eleganza e  originalità  di
locuzione, credo che basti il metter loro a confronto l'Ariosto ed il Tasso come
i due migliori che a quelli succedessero. E lascierò anche  giudice  colui,  che
sarà il più parziale di questi, se ci sia in essi cosa, e  massime  quanto  alla
locuzione e al concepire, che si possa agguagliare all'Ugolino, e ai tanti altri
squarci non meno perfetti, ma meno conosciuti, di  Dante;  ovvero,  ai  perfetti
sonetti, canzoni, e squarci dei trionfi del Petrarca. E giudice lascio parimente
ciascuno, se il Tasso e l'Ariosto scrivendo fra  i  ceppi  di  corte,  avrebbero
ardito mai concepire quei veracissimi sonetti del Petrarca su Roma, o  le  tante
satiriche, ma vere e libere terzine di Dante; ed anche quel solo  suo  verso  su
Roma; Paradiso, canto 17, verso 49. Là dove Cristo tutto dì si merca:

e così, se l'Ariosto e il Tasso avrebbero  senza  l'ajuto  di  quei  nostri  due
primi, e con l'ajuto dei soli loro Esti, inventata e condotta a sì alto punto la
lingua. Ma giudichi pur anco chiunque all'incontro, se  quegli  stessi  Dante  e
Petrarca, nati due secoli dopo, e preceduti già da due altri Danti e  Petrarchi,
non avrebbero anch'essi potuto eseguire i due poemi dell'Ariosto e del Tasso,  e
forse qualche cosa anche meglio: mentre a me par dimostrato, che l'Ariosto e  il
Tasso, o sia per l'essere stati  protetti,  o  per  l'essere  nati  minori,  non
avrebbero potuto mai eseguire molte canzoni, trionfi, e squarci liberi  e  forti
del Petrarca, e nulla quasi del maschio, e feroce poema di Dante. E mi  conviene
pure osservare di passo, che in codesto poema di Dante era facile  a  chi  fosse
venuto dopo lui di emendare o sfuggirne le bizzarrie e le incoerenze; ma non mai
di agguagliarne le  infinite  stragrandi  bellezze.  E  circa  al  Petrarca,  si
osservi, che ancorchè andasse egli  vagando  di  corte  in  corte,  non  essendo
tuttavia inceppato in nessuna, non si contaminò quindi nè di adulazione,  nè  di
falsità. Attribuisco io ciò, al non essere egli nato suddito di nessun  di  quei
principi, in corte di cui praticava; al non  essere  i  principi  d'allora  così
immensamente assoluti, nè così oltraggiosamente distanti  dai  privati,  come  i
nostri; poichè il re Roberto di Napoli, che poetava egli stesso, (e Dio sa come)
più amico era e compagno, che non protettor del Petrarca: lo attribuisco in fine
all'animo stesso del poeta, che per non essere egli nato  in  servitù,  ancorchè
perseguitato poscia dalla fortuna e bisognoso d'ogni cosa, non potè pure mai  in
appresso in nessun modo smentire i suoi non servi natali. Il Tasso all'incontro,
nato figlio d'un segretario di un  principuccio  di  Sorrento,  ancorchè  d'alto
animo ei fosse, si trovava pure abbagliato dalla corte dei principotti  estensi,
che bisognoso di tutto lo  aveano  raccolto.  Ma  d'una  in  un'altra  prova,  e
seguendo io oramai più assai l'impeto del  cuore  che  l'ordine  delle  ragioni,
parmi pure che due se ne presentino a me così forti, che bastino sole a  provare
l'assunto di questo capitolo. Per convincere anche i  più  ostinati,  che  degli
scrittori simili a Virgilio ed Orazio ne possono pure nascere e sussistere senza
protezione, basta l'esempio del nostro Petrarca. Questi, per quanto  le  moderne
povere e inceppate  lingue  ardiscano  correre  a  prova  delle  due  bellissime
antiche, diede alla nostra una tale lirica sublimità ed  eleganza,  che  non  si
andò mai più oltre.  Il  divino  Petrarca,  nel  fraseggiare  imitato  con  poca
felicità, e con assai minore negli affetti, non è  tuttavia  niente  sentito  nè
imitato nell'alto e forte pensare ed esprimersi; anzi, sotto un tale aspetto non
è conosciuto se non da pochissimi. Così, a convincere che degli  scrittori  meno
simili ai sopraccennati dei tre ultimi bei secoli, ma più simili  a  quelli  del
secolo primo d'Atene sussistere potrebbero e perfezionarsi  nei  moderni  tempi,
basti soltanto l'esempio di Dante. Se questo  poeta  non  agguaglia  sempre  gli
scrittori d'Atene nell'eleganza o delicatezza, o sia che nol voglia, o  che  nol
creda necessario, o che inventando egli stesso la propria lingua nol possa;  non
resta certamente egli  mai  indietro  di  loro  nella  profondità,  nell'ardire,
nell'imitazione, evidenza, brevità, libertà,  ed  energia;  qualità,  che  quasi
tutte non ammettono principato, o che certo almeno protezion non ammettono. E se
in una  nazione  due  Danti  consecutivi  nascessero,  il  secondo  ritroverebbe
certamente il non plus ultra della letteratura; e tali due  scrittori  farebbero
pensare gli uomini assai più, che non  dieci  Orazj  e  Virgilj.  Da  quanto  ho
allegato finora, o siano ragioni, o sian fatti, mi pare (se pur  non  m'inganno)
che  non  solamente  possano  sussistere  le  lettere  e   perfezionarsi   senza
protezione, ma che la sublimità di esse non  possa  veramente  sussistere  sotto
protezione. E di Dante mi sono prevaluto per prova, perchè io molto lo leggo,  e
mi pare di sentirlo, e d'intenderlo: di Omero, di Sofocle,  o  di  altri  simili
massimi e indipendenti scrittori mi sarei pure prevaluto  per  prova,  se  nella
loro divina lingua mi fosse dato di leggerli. Ma in Dante solo mi pare d'aver io
bastantemente ritrovata la irrefutabile dimostrazione del  mio  assioma;  poichè
Dante senza protezione veruna ha scritto, ed  è  sommo,  e  sussiste,  e  sempre
sussisterà: ma nessuna protezione ha mai fatto, nè  vorrebbe,  nè  potrebbe  far
nascere un Dante. Potrebbe la protezion principesca bensì, dove  un  tanto  uomo
nascesse, impedirlo; pur troppo!



CAPITOLO TERZO.

DIFFERENZA  TRA  LE  BELLE  LETTERE  E  LE  SCIENZE,  QUANTO  AL  SUSSISTERE   E
PERFEZIONARSI SENZA PROTEZIONE.

Ma infino ad ora ho parlato delle lettere in tal guisa, che  ognuno  può  veder,
chiaramente, che sotto il nome di esse non ho  inteso  mai  di  comprendervi  le
scienze esatte. E facendo io la rassegna di tanti uomini sommi, lo  aver  finora
sempre taciuto i venerabili nomi di Euclide, di  Archimede,  di  Galileo,  e  in
ultimo del divino Newton, sia questa la maggior prova che io, nel  dir  LETTERE,
non ho mai preteso dire SCIENZE. Di queste mi  conviene  ora  parlare  tremando,
come quegli che è  intieramente  digiuno  di  tutte.  Ma  siccome  mi  tocca  il
ragionare, non delle scienze prese in se stesse, ma delle loro vicende influenze
ed effetti; io, guidato dal solo lume di verità e di ragione,  spero  in  questo
mio dire di non dovere errare molto più, che all'uomo non arrogante soglia venir
fatto di errare. Le scienze dunque, che io così definirei; Gli arcani e le leggi
della natura dei corpi, investigate e spiegate, per quanto il possa l'intelletto
dell'uomo; le scienze dico, mi pajono una provincia di  letteratura  affatto  da
se,  e  interamente  diversa  dalle  belle  lettere,  che  io  per  contrapposto
definirei: Gli arcani, le leggi, e le  passioni  del  cuore  umano,  sviluppate,
commosse, e alla più alta utile e vera via indirizzate. Diversissimo è dunque il
tema che trattano queste due arti;  e  quelle  avendo  ad  investigare  i  corpi
sensibili, queste a commuovere le intellettuali passioni;  consecrandosi  quelle
allo scoprimento di palpabili verità, queste al  rimettere  sempre  in  luce  le
verità morali già bastantemente dimostrate dai buoni ed alti esempj,  ma  sempre
pure dalla malizia e reità d'alcuni uomini  alterate,  nascoste,  scambiate  col
falso, impedite, perseguitate, o sepolte;  nasce  da  questo  diversissimo  loro
uffizio una diversità non picciola di vicende e di  effetti,  ancorchè  i  mezzi
dell'une e dell'altre ne siano pur sempre lo  ingegno  e  la  penna.  Di  questa
diversità di vicende e d'effetti mi conviene ora ragionar lungamente, per sempre
più munire di salde  incontrastabili  prove  quanto  finora  ho  asserito  delle
lettere. Le scienze, come ogni altra egregia cosa,  ci  derivano  anch'esse  dai
Greci: vale a dire da uomini liberi. E pare in fatti, che  al  ritrovamento  dei
principj nascosti e sublimi delle cose, si richiegga un così  grande  sforzo  di
pensare, che nel capo d'uno tremante schiavo sì alta e difficile  curiosità  non
sarebbe potuta entrare giammai. Ma pure,  posati  una  volta  i  principj  delle
scienze, la influenza delle fisiche verità sovra lo stato politico  riesce  così
lenta e lontana, e perciò vien così poco impedita  dalla  tirannide,  ch'io  non
dubito punto che se Newton con lo stesso suo ingegno e con la  dottrina  che  lo
precedeva, fosse anche venuto a nascere,  o  a  traspiantarsi  nel  più  servile
governo d'Europa, egli avrebbe nondimeno potuto creare  tutto  il  sistema  suo,
quale per l'appunto il creava nel seno della libertà dove nacque.  Ma  nel  dire
io, con la dottrina che lo precedeva, mi par  dimostrare  ad  un  tempo  che  la
libertà era pur sempre necessaria a quei primi scienziati scopritori delle leggi
dei corpi,  per  crearle;  ma  non  necessaria  ai  susseguenti  per  ampliarle,
spingerle all'ultima possibilità, ed anche, con gli stessi  già  scoperti  mezzi
affatto variandole, in un certo modo, di bel nuovo crearle. Il posare  dunque  i
loro principj, lo inventare, o il primo ritrovare, egli è quel  tal  pregio,  in
cui e le lettere e le scienze ebbero  tra  loro  comune  la  sorte;  pregio  che
ottener non poteano se non in un libero governo fra uomini molto  e  arditamente
pensanti. Ma, nel loro progredire poi, le une dalle altre si scostano, quanto  i
due scopi ch'elle si propongono dissimili sono fra se, e quanto sono  diversi  i
soggetti ch'elle trattano; cioè la materia, e il morale delle cose. E in  fatti,
le lettere sono pervenute al loro sommo apice nella libertà,  non  protette;  le
scienze, par che facessero lentissimi progressi fra  quei  due  sovrani  popoli,
greci e romani, mentre  altissimo  splendore  acquistarono  poscia  nei  moderni
principati, dove non libere crebbero e  protette.  Nè  a  questa  asserzione  si
abbisogna d'altra prova, fuorchè di paragonare nei  loro  libri  ed  effetti  la
fisica, la  geometria,  l'astronomia,  l'algebra,  la  nautica,  l'anatomia,  la
botanica, e quasichè tutte le altre scienze degli antichi,  con  le  simili  dei
moderni: e ad un tempo paragonare il valore, l'influenza  e  gli  effetti  delle
lettere nei moderni principati al  loro  valore,  influenza,  ed  effetti  nelle
antiche repubbliche. Non occorrendo dunque per ora il discutere quanto ai fatti,
parmi, che ne siano prima da investigar le cagioni. Tra queste, la più chiara ed
innegabile stimo, o credo almeno di ritrovarla da  prima,  nella  parola  da  me
soprammentovata nel definire le scienze: LEGGI DEI CORPI. Molti e  molti  secoli
di non interrotta applicazione divengono necessarj  al  bene  investigare  e  al
sanamente stabilire tai leggi; e chi ciò fa, nulla altro può nè dee fare.  Molte
generazioni  di  uomini  non  interrotti  nè  sturbati,  son  dunque  necessarie
consecutivamente, affinchè una legge qualunque di corpo riceva infallibili prove
ed evidenti dimostrazioni. È necessario quindi un  lungo  ozio,  ed  una  intera
quiete in quella nazione che  dee  progredire  nelle  scienze:  sono  oltre  ciò
necessarie  infinite  spese,  invenzioni  ed  esecuzioni  costose  di  macchine,
infinite esperienze, sterminati viaggi, espresso favore  dei  governi,  e  somma
tranquillità e protezione per gli osservatori: il che tutto, suppone  più  assai
principato, che repubblica, Le vere antiche repubbliche, non che premiarlo,  non
tolleravano un uomo che col consiglio e con la  mano  non  cooperasse  all'utile
presente di tutti. E l'utile che si ricava dalle scienze, è uno di quelli  (come
fra poco spero  di  mostrare)  che  appurar  non  si  possono  o  non  si  sanno
dall'universale, finchè  l'applicazione  della  scoperta  verità  praticata  non
venga. Nelle repubbliche dunque, quasi nessuna opera dell'ingegno ben  allignare
potea, fuorchè l'insegnare e il cantare la vera virtù; come nel principato tutte
allignare vi possono, e vi allignano,  meno  questa.  Ma,  che  le  scienze  per
veramente prosperare abbisognassero  di  molta  protezione  e  favore,  ne  sono
indubitabile prova i giganteschi progressi fatti da esse nei moderni principati.
Così il deterioramento delle lettere, o il loro scopo affatto scambiato, o tanto
più debolmente ricercato nelle moderne servitù, sono indubitabile prova, che non
solamente esse non abbisognano di protezione o favore, ma che immenso  danno  ne
ricevono. A corroborare  quanto  io  asserisco  concorrono  a  gara  le  diverse
accademie di scienze e di lettere, seminate  nei  principati  d'Europa,  che  di
effetto così diverso fra esse riescono: le prime diedero e danno in  ogni  parte
gran lumi e grandi scienziati; dalle seconde non è uscito mai un grand'uomo;  ma
se pure alcun grande è stato da esse allacciato e fatto entrar nei lor ceti,  di
tanto minore lo  han  fatto,  col  dargli  questa  cittadinanza  di  raddoppiato
servaggio. E ben vede  ciascuno,  semplicissimamente  osservando,  che  una  tal
differenza sta tutta nella sola definizione di questi due generi. Le  leggi  dei
corpi non offendono il principato; le leggi e passioni dell'uomo, alla loro  più
vera e utile via indirizzate, il principato annullano e sradicano. Dai  principi
quindi protette sono le scienze per veramente inalzarle;  protette  le  lettere,
per avvilirle, deviarle, ed opprimerle: poichè annichilare affatto elle pur  non
si possono, finchè ci son uomini che leggere sappiano, e passioni che  sovra  il
loro cuore ruggiscano. Provano dunque, e  con  prova  di  evidenza,  i  semplici
fatti; che la protezione non solamente non nuoce alla perfezione delle  scienze,
ma che le giova non poco; e che al contrario  sommamente  ella  nuoce  alla  più
divina parte delle lettere, cioè  alla  verità  e  all'utile  che  da  esse  può
ridondare. Ma ciò non mi  basta;  e  più  oltre  spingendomi,  dico;  che  senza
protezione non avrebbero mai prosperato le scienze; e che non  hanno  prosperato
mai vere lettere,  dove  protezione  elle  avessero.  E  di  passo  mi  conviene
osservare, che la protezion principesca  nuoce  moltissimo  alle  lettere  anche
nella persona di quello stesso scrittore, che non la ricerca.  Il  proteggere  è
sinonimo del potere; l'assai potere cagiona sempre il timore. Quel potente  che,
ricercato, proteggere può un dato scrittore menomandolo, pur troppo può, se egli
ne  vien  dispregiato,  impedir  lo  scrittore,  ed  opprimerlo.  Dalla   parola
PROTEGGERE non si dee perciò mai scompagnare la parola IMPEDIRE; poichè chi  non
vuole essere protetto, sarà certamente impedito; ove egli così  lontano  non  si
ricoveri, che non meno l'ira che la  protezione  arrivar  non  vel  possano.  Ma
un'altra evidentissima prova che niuna  scienza  avrebbe  mai  prosperato  senza
protezione, si è, che  nessuna  traccia  di  scienza  si  vede  allignare  nelle
contrade d'Oriente che totalmente son serve, e dove niuna util  cosa  non  è  nè
conosciuta nè protetta. Al  contrario,  a  provare  che  le  lettere  nascono  e
prosperare possono senza protezione, basta  il  vedere  che  fra  quelle  stesse
nazioni serve e barbare d'Oriente, vi sono pure nate e vi allignano  a  dispetto
di un sì mostruoso governo, in un certo modo, le lettere. Le nazioni tutte e  le
più oppresse dall'assoluta autorità, e fra le altre principalmente  la  ebraica,
hanno avuto poeti; e nei loro torbidi civili, hanno avuto oratori e politici;  e
benchè filosofi di professione la servitù non ammetta, pure una certa  filosofia
naturale si è anche fatto strada fra quei soggiogati poeti, oratori, e politici;
e forse era quella, che li trasmutava in profeti. E  quanti  altri  filosofi  vi
saranno stati e vi sono tuttavia fra quelle stesse barbare e  serve  nazioni,  i
quali conosciuti non sono perchè non sono stampati? Il conoscere e  studiare  il
cuore dell'uomo viene, o più o meno, concesso dalla natura a  tutti  gli  uomini
che ottusi non siano; nessun lo  può  togliere;  e  ognuno  per  semplice  forza
d'intelletto si può in così alta scienza perfezionare da se. Abbenchè raro e più
difficile, è dunque possibile  il  pensare,  il  sentire,  lo  inventare,  e  lo
scrivere da se, anche all'uomo che nasce il più schiavo. Ma non  si  sono  visti
giammai, nè mai si vedranno, sorgere degli alti matematici  dove  non  ci  siano
scuole e protezione di governo: nè si sono mai scoperte importanti verità  nelle
scienze, se i potenti non vi hanno prestato la mano.  I  moti  dei  pianeti,  la
forma del globo, la costruzione e armatura delle navi, le  virtù  dell'erbe,  la
meccanica analisi del corpo umano, la diversità degli animali e dei climi,  &cc.
&cc.; queste scoperte tutte, noi le dobbiamo non meno alla borsa  del  principe,
che all'ingegno dell'osservatore, il quale o nulla o pochissimo avrebbe scoperto
senza l'ajuto di quello. Ma il nudo corredo di  un  vero  letterato,  che  tutto
ritrova in se stesso, e quali per esempio furono Omero e Platone, altro mai  non
fu nè dev'essere, fuorchè ingegno, salute, pochi libri,  e  libertà  moltissima.
Cose tutte, che il principe può torre, impedire, o scemare, ma non mai dare,  nè
accrescere. Fra gli scienziati tuttavia il gran Newton è una eccezione  ad  ogni
regola; egli è figlio di se stesso; le sue scoperte non si ardiscono  intitolare
col nome dì progressi; elle sono creazioni: e quella somma di lumi, che i  dotti
in tale materia dicono aver egli attinta dal Galileo, e dal Bacone, o da  altri,
non mi risolvo io a crederla assolutamente la cagione di tutti i nuovi  lumi  da
lui ritrovati, ma una parte soltanto di detta cagione: talchè, se anche  mancato
gli fosse codesto ajuto, avrebbe egli con tutto ciò tentato  un  nuovo  sistema,
che  sarebbe  forse  riuscito  alquanto  meno  perfetto,   ma   sempre   grande,
straordinario, e ad ogni modo veramente ben suo. Ma, benchè questo  insignissimo
promotore delle scienze, non avendo  in  apparenza  altro  corredo,  che  quello
stesso che s'ebbero Omero e Platone, senza  nessuna  espressa  protezione  abbia
potuto scoprire e creare la vera anima  dell'universo;  con  tutto  ciò  non  mi
rimuovo io in nulla dal parer mio, che le scienze non possano fare da se; poichè
a Newton fu pure accordata (e necessaria gli era) quella tacita  protezione  che
sta nella quiete libertà e sicurezza.  Ma,  per  averla  egli  ottenuta  da  una
nazione libera, di tanto più  giovevole,  ed  onorevole  gli  è  stata  una  tal
protezione, che se ottenuta l'avesse dall'assoluto capriccio di un  principe.  A
convalidar quant'io dico, mi si appresentano tosto gli esempj di  Galileo  e  di
Cartesio, i quali,  o  per  non  aver  avuto  protezione,  o  per  averla  avuta
equivocamente dai principi, non andarono esenti da molte  altre  persecuzioni  e
disturbi; e quindi da infiniti ostacoli. Mi viene ora osservato, che parlando io
dei capi-setta innovatori nelle scienze, me li conviene in gran parte  sottrarre
dalle leggi, a cui ho sottoposto le scienze stesse; e chiaramente vedo,  che  le
loro vicende  accomunare  si  debbono  a  quelle  dei  letterati;  poichè,  come
filosofi, un così splendido loco riempiono degnamente  fra  essi.  Questi  pochi
innovatori-creatori si debbono dunque in tutto eccettuare da quegli altri tutti,
che nelle scienze esatte, dotti soltanto dello scibile, e  facendo  pure  alcuni
benchè impercettibili passi più in là del  di  già  saputo,  si  debbono  quindi
riputare come le vere  ruote  dei  progressi  delle  scienze.  Questi  sono  gli
scienziati proteggibili e  protetti:  ed  a  questi,  l'esserlo  può  sommamente
giocare. Ma gli altri, come Euclide, Archimede,  Newton,  Galileo,  e  Cartesio,
interamente corrono la vicenda dei letterati. Onde, se hanno avuto (come  i  tre
primi) la fortuna di nascere in paesi liberi, di poco altro abbisognano  che  di
essere lasciati fare; ma, se nati sono (come i due ultimi) in terra di  servitù,
facilmente saranno dalla civile e religiosa potenza perseguitati e impediti  più
assai che protetti; e in  fatti,  perseguitati  e  impediti  furono  questi  due
ultimi. Lo inventare dunque sistemi  nella  scienza  dell'universo  soggiace  in
tutto alle stesse vicende, a cui soggiace lo scoprimento delle  proibite  morali
verità: ma il semplice aggiungere alcuna  cosa  ai  già  scoperti  e  dimostrati
sistemi, e il far progredire le scienze, principalmente nella natura dei corpi a
parte a parte pigliandoli, in tutto soggiace alle vicende annesse  al  coltivare
le verità non offendenti l'assoluto potere, come quelle che in nulla influiscono
sopra lo stato politico, e in nulla migliorano la  proibita  scienza  del  cuore
dell'uomo.



CAPITOLO QUARTO.

SE ABBIA GIOVATO MAGGIORMENTE  LA  PERFEZIONE  DELLE  SCIENTE  AI  POPOLI  SERVI
MODERNI, O LA PERFEZIONE DELLE LETTERE AI LIBERI ANTICHI.

Paragonate ho fin quì le lettere e le scienze fra loro nella  origine,  cagioni,
mezzi, e vicende: mi resta ora a paragonarle nei loro diversi effetti. Da questi
principalmente  potrà  ogni  uomo  tra  l'une  e  l'altre  giudicare  quali  più
importanti  siano  ed  utili;  e  quali,  sotto   un   tale   aspetto,   debbano
necessariamente più apprezzarsi dagli uomini, e meno temersi dai principi. Dalla
dottrina di Euclide e di Archimede, ne risultava quasi perfezionata la geometria
sublime. Ma la geometria triviale e la più necessaria (cioè le  primitive  leggi
delle linee) era già ben conosciuta da tutte le  nazioni  anche  barbare,  senza
ch'elle ne sapessero pure il nome. Così ai nostri tempi, i popoli i più idioti e
rozzi fabbricano pure tuttavia e case, e tetti, e  carri,  ed  aratri,  ed  ogni
altra stromento di prima necessità; geometri in ciò, senza punto avvedersene. Da
quei grandissimi abbiamo noi dunque ricevuto la geometria  sublime,  che  d'ogni
altra scienza è base e radice. Per mezzo di essa  si  ebbe  poi  la  misura  dei
pianeti, se ne calcolarono i moti, e le cagioni di tai moti furono  assoggettate
a inalterabili leggi dall'ingegno dell'uomo, che certo più  oltre  giungere  non
potea. Quindi la perfezione di tante arti minori;  la  navigazione  spinta  alle
estremità tutte del globo, e i limiti di  esso  trovati  angusti  dalla  moderna
cupidigia:  quindi  la  Fisica  e  la  Storia  naturale  così  maravigliosamente
ampliate. Cose tutte in vero grandiose, e per cui, i Romani,  credutisi  signori
del mondo, assai piccioli si troverebbero se potessero ora convincersi co'  loro
occhi qual menoma  parte  di  questo  globo  occuparono,  e  qual  minima  parte
dell'universo è dimostrato  essere  questo  globo  stesso  dalla  investigazione
rettificata della universale  armonia  dei  corpi  celesti.  Gran  pascolo  alla
insaziabile umana curiosità; la quale pure, per quanto ai fonti della verità  si
disseti, vede e tocca ogni giorno con mano, che quanto più si sa, più ne  rimane
a sapersi. Che se le leggi dei moti dei corpi, scoperte e dimostrate,  lusingano
pur tanto la superbia dell'uomo, la ignota cagione di  esse  leggi,  e  la  sola
terrestre generazione delle piante e  degli  animali,  nascoste  entrambe  negli
arcani di una profondissima notte, assai più lo lasciano avvilito  e  scontento.
Risulta dunque dalle scienze perfezionate questo immenso  umano  sapere;  a  cui
nondimeno, affinchè il tutto si sappia, rimane assai più strada da farsi che non
se n'è fatta. E da questo sapere, qual ch'egli sia, risulta  ai  moderni  popoli
l'utile dimostrato della navigazione e del commercio, in cui superano pur  tanto
gli antichi. Ma, dalla navigazione e dal commercio ci derivano ad  un  tempo  le
infinite arti superflue, lo sterminato lusso, e i tanti infami suoi  figli,  per
cui siamo in ogni politica e morale virtù inferiori di tanto agli antichi. Nè da
questa universale perfezione delle scienze mi  pare  che  le  umane  società  ne
abbiano in quasi nulla ricevuto la perfetta o maggiore utilità delle  necessarie
instituzioni. Dalla meccanica più  raffinata,  e  quindi  dalla  perfezione  dei
rurali strumenti, L'AGRICOLTURA, quell'arte necessaria e divina che la base è di
tutte, non ha perciò ricevuto quell'accrescimento che ella promettere  parea:  e
perchè? perchè migliori erano le generose braccia di un libero  agricoltore  con
un pessimo aratro, che non con un ottimo le vili  braccia  di  un  mal  pasciuto
schiavo. Ed in fatti, in queste nostre scienziate e serve regioni, si  vede  per
lo più la stessa quantità di terrà nutrire un assai minor numero di uomini,  che
non ne  nutriva  fra  le  antiche  poco  scienziate,  ma  libere.  Dalla  Fisica
rettificata e ampliata, dalla Botanica così immensamente estesa, dalla  Anatomia
perfezionata, dalla Chimica tanto insuperbita, e da tante altre simili  scienze,
LA MEDICINA, che è la seconda arte necessaria ai corpi umani, non ne ha per  ciò
ricevuto dimostrabile accrescimento di utilità. Moltiplicati sono i libri, ed  i
medici, ed i malori; ma le mortalità sono pur sempre o le  stesse,  o  maggiori;
niente di più, o forse men lungamente, si vive fra noi popoli dotti moderni, che
fra i rozzissimi antichi; e dopo un lungo ragionare, osservate, e scrivere; dopo
la stessa circolazione del  sangue  scoperta  e  dimostrata;  bisogna  pure  con
certezza d'imparziale giudizio venirne a conchiudere, che la poca scienza medica
possibile a dimostrarsi, stava già quasi tutta nel libriccino di  Ippocrate.  LA
CHIRURGIA pare aver fatto molti più progressi; e certamente gli ha fatti sopra i
tempi barbari di mezzo infra i Romani e noi; tempi in cui ogni scienza  ed  arte
perduta si era: ma come sappiamo noi se  bene  o  male  operassero  gli  antichi
chirurgi delle colte nazioni? Ogni giorno, con lo scoprimento di inscrizioni,  o
di pitture, o di instrumenti, o di altro, ci disingannano gli  antiquarj  su  le
invenzioni di molte cose moderne, che privativamente ci andavamo attribuendo. Ed
ecco, a un di presso,  gli  utili  divini  effetti  che  le  scienze,  di  tanto
accresciute, hanno recato ai moderni popoli. Esaminiamo  ora  gli  effetti,  che
hanno arrecato le lettere ai popoli liberi antichi; e  fra  loro  paragonandoli,
poniamo in chiaro, se maggiormente giovassero a quelli le lettere, o  a  noi  le
scienze; e così, se più nuocesse a quelli la ignoranza nelle scienze, o a noi il
deviamento delle lettere. Atene, tal ch'ella fu colla sua sublimità e con i suoi
difetti; Atene madre d'ogni sforzo di politica  virtù,  madre  di  un  così  bel
vivere e libero e civile; Atene in gran parte era pur tale creata da  Solone.  E
Solone, non uomo scienziato, ma letterato era e filosofo; e  il  cuor  dell'uomo
profondamente studiato e conosciuto avea, più assai che le leggi dei corpi.  Ma,
Solone, in un tale e sì importante studio, quanto  non  avrà  egli  imparato  da
Omero profondo conoscitore, descrittore, e commovitore sovrano di tutte le umane
passioni ed affetti? E Socrate quindi, e Platone, e Aristotile,  e  Sofocle,  ed
Euripide, e Demostene, e Tucidide,  e  Pindaro,  e  tutti  in  somma  i  sublimi
filosofi e letterati di Grecia, figli essi stessi di libertà  e  dì  virtù,  non
furono poscia costoro in ogni tempo, a chi ben li lesse  e  sentì,  un  possente
stimolo un irresistibile incentivo al praticare, amare, e difendere la libertà e
la virtù? Ed ogni bel vivere civile, ogni virtuoso sforzo dell'uomo, ogni vera e
durevole felicità, ogni importante superiorità di un popolo su  l'altro;  queste
cose tutte, non sono elle nate pur sempre da libertà e da virtù? e non sono elle
sempre sparite all'apparire della schiavitù, e dei  vizj  che  di  necessità  ne
derivano? Veniamo ora a Sparta. Quella sua maschia feroce virtù e  libertà,  che
sì lungamente durò con maraviglia dei Greci stessi, avvezzi pure  a  raccogliere
il frutto delle ben fatte e ben osservate leggi; quella sublime Sparta, non  era
ella interamente figlia di Licurgo? E Licurgo, quale altra scienza  coltivò  mai
nè conobbe, fuorchè quella del cuore dell'uomo, e del retto? Che  se  Sparta  in
appresso non volle ammettere letterati nessuni, ciò fu, perchè inutili affatto i
veri letterati riuscivano là dove le  severe  leggi  accendendo  i  cittadini  a
virtù, insegnamento era e  diletto  il  praticarla  a  gara  con  sovrannaturale
furore; e perchè i falsi letterati sussistere non  poteano  certamente  là  dove
regnava  la  sola  vera  virtù.  Ma  i  poeti  nondimeno,  come  caldissimi   ed
efficacissimi encomiatori di virtù, o nascevano a Sparta, o vi erano  accolti  e
ascoltati, ancorchè stranieri. Tirtéo, e le sue maschie odi militari,  ne  fanno
prova. Oratori avea Sparta pur anche, e di ben altro  nerbo  forse,  che  Atene;
appunto, perchè a più maschi risentiti animi  più  forte  e  men  lungo  parlare
abbisognasi. Non avea Sparta, no, di quegli oratori e poeti, da' quali più assai
diletto che utile traendo si vada: e a ben costituita repubblica, non  solamente
necessarj costoro non sono, ma potrebbero anzi più nuocerle assai che  giovarle,
perchè in un tal governo il maggior diletto vien giustamente riposto nel  sempre
e bene operare; ed il molto leggere non si scompagna mai  dallo  starsi.  Quanto
alle scienze, Sparta nè i nomi pur ne conobbe. Roma, se non  per  istituzioni  e
virtù, per vicende e grandezza almeno, assai più illustre di Sparta e di  Atene;
Roma, ricevea pure l'impulso alla  virtù  militare  che  mai  non  perdette,  da
Romolo; alle civili e religiose virtù, da Numa; alla  libertà  e  grandezza,  da
Bruto. E Bruto, e Numa, e Romolo stesso, erano,  sovra  ogni  cosa,  conoscitori
profondi, e scaltri commovitori del cuore umano e delle sue tante passioni:  ciò
viene a dire, che costoro, in altre circostanze trovatisi,  sommi  scrittori  si
sarebbero fatti. A pochi uomini concede  il  destino  di  poter  operare,  e  di
giovare al pubblico in atto pratico col presente lor senno. Quindi, se alcuni di
quei pochi a ciò atti, ed a ciò non eletti, si trovano  dalle  loro  circostanze
impediti d'operare, questi colla lor penna  insegnano  agli  altri  ciò  ch'essi
eseguir non potevano; alle vacillanti pubbliche virtù soccorrono con dilettevoli
ajuti; ovvero al vizio già trionfante ed in trono, muovono essi quella  virtuosa
guerra di verità, che sola può, smascherandolo, felicemente combatterlo,  e  col
tempo distruggerlo. Sono questi a parer mio i veri, anzi i soli scrittori;  e  i
più perfetti reputo tra i loro libri, quelli che maggiormente  un  tale  effetto
producono. Onde, dividendo io questa stessa classe di uomini sommamente capaci a
commuovere  e  guidarne  molti  altri,  in  letterati  attori,  e  in  letterati
scrittori; osservo che Roma, nel fiore e nerbo della sua libertà, moltissimi dei
primi ne annovera; e sono, gli Orazj, gli Scevoli,  gli  Emilj,  gli  Attilj,  e
Regoli, e Scipioni, e Decj, e Catoni; e quei tanti altri in  somma,  grandissimi
tutti, bollenti a gara d'amor di virtù, di  libertà,  e  di  gloria;  tre  sacre
faville,  onde  si  dee  comporre  ed  incendere  l'animo  di  ogni  grande,   e
massimamente quello del vero e sublime  scrittore.  Ma  di  letterati  scrittori
incominciò poscia ad abbondar Roma nel suo primo decrescere; cioè in proporzione
che scemando andavano i letterati attori; e così avvenir pur dovea; poichè,  per
la nascente corruzione, diveniva necessario il predicare e l'insegnar  la  virtù
non meno con la voce e co' scritti, che con l'esempio. Quindi fra i più  antichi
grandi scrittori di Roma, alcuni dei massimi, come Catone e Cicerone,  riunirono
in loro stessi le due divine parti dell'alto operare e dell'altamente  dire:  ma
divenendo poi di giorno in giorno più difficile e pericolosa cosa  il  praticare
non meno che l'inculcare la virtù, gli scrittori romani da  Augusto  in  poi  si
assomigliarono pressochè tutti in ogni cosa agli scrittori nostri  moderni;  che
la virtù nè praticare omai sanno, nè inculcarla si attentano. Il  frutto  dunque
delle scienze, nei nostri principati perfezionate e promosse, siam  noi  moderne
nazioni; in ogni arte dottissime, fuorchè  nel  libero,  sublime,  e  necessario
esercizio dei dritti i più sacri dell'uomo. Ma delle antiche e vere lettere, non
distornate dal loro caldo ed unico fine, di render gli uomini sotto ogni aspetto
migliori, erano il nobil frutto le antiche,  libere,  ed  illustri  al  par  che
possenti e fortunate nazioni. Paragonando perciò con quelle i popoli  nostri,  e
in tutti i diversi aspetti, sia d'interna felicità, sicurezza e  virtù,  sia  di
esterna dignità, grandezza e potenza,  si  verrà  tacitamente  a  paragonare  il
diverso valore, la influenza, importanza,  ed  utilità  delle  scienze  e  delle
lettere. A me pare, che da questo paralello ben meditato si verrà apertamente  a
conchiudere; Che il vizio dei governi assoluti non osta alle scienze nè  in  chi
scrive, ne in chi legge, nè in chi le protegge: e che, anzi,  al  promuoverle  e
perfezionarle, è assolutamente necessaria  una  protezione  qualunque,  ancorchè
all'inventarle e crearle mortifera ella sia, come ad ogni altra util  cosa.  Ma,
da questo paralello ben meditato, si verrà, spero, altresì a conchiudere; Che al
ravviare le lettere, al far rivivere l'antica loro perfezione,  e  spingerla  di
qualche cosa più oltre, (il che impossibile non credo) assolutamente vuol essere
libertà, e bollente amor di  virtù,  almeno  almeno  in  chi  scrive;  ancorchè,
all'inventarle  e  crearle,  la  distruggitrice  tirannide,  e   la   insultante
protezione, d'impedimento  intero  riuscire  non  possano.  Ma,  un  così  forte
impedimento son  queste  alla  vera  perfezion  delle  lettere,  che  la  parola
perfezione esclude assolutamente per esse ogni protezione di principe, la  quale
può sola macchiarle.



CAPITOLO QUINTO.

DEI CAPI-SETTA RELIGIOSI; E DEI SANTI E MARTIRI.

Havvi un'altra specie di  uomini  sommi,  che  virtù  e  verità  insegnando,  al
pubblico talvolta giovarono, e a se stessi acquistarono quasi sempre gran  fama.
Son questi i fondatori delle sette diverse, i santi ed i martiri, così cristiani
che giudei, o di altre religioni. Costoro, o scritto abbiano, od  operato,  come
dottissimi nella scienza dell'uomo, io li ripongo pur sempre a ogni  modo  nella
classe dei sublimi scrittori. I nostri massimamente, come a noi  più  noti,  non
pochi nè deboli argomenti mi prestano per sostenere questo mio già  tante  volte
ripetuto assunto;  Che  alla  verità  e  virtù,  sotto  qualunque  aspetto  elle
s'insegnino, moltissimo pur sempre nuoce il principato. Nè di costoro parlerò io
più a lungo che non si aspetti a questo mio  tema;  perchè  troppe  cose  mi  si
appresenterebbero da dirsi su ciò, se deviar mi volessi. Osserverò dunque, che a
Mosè (il più antico tra questi, a noi noto) convenne pure scuotere il giogo  del
tiranno d'Egitto prima di poter egli dar leggi sì religiose che  civili  al  suo
popolo. Ed anzi, chi non vede, che egli, per dar corpo, libertà, ed esistenza  a
quel popolo errante e avvilito dal lungo servaggio,  del  sublime  velo  di  una
inspirata religione felicemente si valea? E all'operare e scrivere tai cose, non
lo avrebbe certamente mai protetto quel Faraone. Così Gesù Cristo, politicamente
considerato come uomo, volle pur anco, insegnando  la  verità  e  la  virtù  con
l'esempio, restituire al suo popolo ed a molti altri ad un tempo, per via di una
miglior religione, una esistenza politica indipendente dai Romani, che  servi  e
avvilitili teneano. Così Maometto, coll'abbattere la idolatria, volle, sotto  il
velo di una più semplice e pura religione, dar consistenza di nazione  a  popoli
barbari che non l'aveano; al che, oltre ogni credere,  riusciva  Maometto.  Come
legislatori, si debbono dunque costoro annoverare  infra  i  sublimi  scrittori,
poichè eran mossi dallo stesso impulso, di giovare altrui acquistando  gloria  a
se stessi. E tali erano certamente, nella Cina Confucio, e nell'Indie Zoroastro;
e fra altre nazioni molti altri, di cui non sappiamo.  I  nostri  santi  poi,  o
scrittori fossero, come Paolo, Agostino,  Grisostomo,  Girolamo,  ed  altri;  o,
colla parola, e più  coll'esempio,  predicassero  essi  virtù,  come  Francesco,
Domenico, Bernardo &cc; o, col loro eroico morire, nei  cuori  degli  uomini  in
note di fiamma e di sangue lasciassero essi scolpita la memoria del loro sublime
imperturbabile animo, e l'ardentissimo desiderio d'imitare la loro  virtù,  come
Lorenzo, Stefano, Bartolommeo, e  tante  altre  centinaja  di  martiri;  costoro
tutti, avendo  avuto  al  loro  operare  lo  stessissimo  sovrano  irresistibile
impulso, che debbono avere i veri letterati, alle stesse vicende  di  essi,  per
vie e cagioni  diverse,  soggiacquero.  E  mi  spiego.  Costoro,  finchè  furono
lasciati fare da se,  puri,  incalzanti,  e  severi  mostraronsi;  perseguitati,
divennero più luminosi, più forti, e  maggiori  direi  di  se  stessi;  protetti
finalmente,  accolti,  vezzeggiati,  arricchiti,  e   saliti   in   potere,   si
intiepidirono nel ben fare, divennero meno amatori del vero, e per  anche  sotto
il sacrosanto velo di una religione omai da essi scambiata e tradita, asseritori
vili si fecero di politiche e morali falsità. Una moderna non  curanza  di  ogni
qualunque religione, frutto anch'essa (come ogni altra rea cosa) del principato,
fa sì che i nostri santi non vengono considerati e venerati da noi  come  uomini
sommi e sublimi, mentre pure eran tali. Ciò nasce, per quanto a me pare, da  una
certa  semi-filosofia  universalmente  seminata  in  questo  secolo  da   alcuni
scrittori leggiadri, o anche eccellenti, quanto allo stile; ma  superficiali,  o
non veri, quanto alle cose. I libri di costoro, andando per le  mani  di  tutti,
stante la loro seducente facilità, imprestano una certa forza  d'ingegno  a  chi
non ne avea per se stesso  nessuna;  a  chi  poca  ne  avea,  un'altra  poca  ne
accrescono; ma a chi moltissima ne avea da natura, se  altri  libri  non  avesse
letti che quelli, riuscirebbero forse a deviargliela affatto dalla vera  strada.
Da questa semi-filosofia proviene, che non si sfondano le cose, e non si studia,
nè si conosce appieno mai l'uomo. Da essa proviene quella corta veduta, per  cui
non si ravvisa nei santi il grand'uomo e nei grandi uomini il  santo.  Per  essa
non si scorgono manifestamente negli Scevoli e nei Regoli i martiri della gloria
e della libertà; come nei bollenti e  sublimi  Franceschi,  Stefani,  Ignazj,  e
simili, non si ravvisano le anime stesse di quei  Fabrizj,  Scevoli,  e  Regoli,
modificate soltanto dai tempi diversi. E tutto ciò, perchè si rimirano i  nostri
con occhi offuscati  da  un  pregiudizio  contrario  ai  passati;  e  perchè  si
giudicano dagli effetti che hanno prodotto, non dall'impulso  che  li  movea,  e
dalla inaudita sublime tempera d'animo, di cui doveano essere  dotati,  abbenchè
con minor utile politico per l'universale  degli  uomini  l'adoprassero.  Ma  in
questi tempi, dai presenti scrittori (i quali mai non lodano, nè  destano  alcun
entusiasmo, perchè non ne hanno nessuno) vengono freddamente accennati con  lodi
poco sentite quei veri antichi santi di libertà; e  interamente  vengono  derisi
questi santi di religione. I moderni scrittori, in vece d'innalzare e  insegnare
la sublimità pigliandola per tutto dove la trovano, col loro debole sentirla,  e
col più debolmente lodarla, affatto la deprimono ed obbliar  ce  la  fanno,  Ma,
poichè i più leggiadri fra essi (fattisi interamente padroni  di  un'arme  tanto
possente quanto è la ingegnosa derisione) hanno  pure  scelto  di  migliorare  e
illuminar l'uomo col farlo ridere; minoramento grandissimo, a parer  mio,  hanno
recato alla loro propria fama, per non aver essi rivolto quell'acuta  leggiadria
del loro stile massimamente contro ai principi, i quali assai più  male  ci  han
fatto e ci fanno tuttavia, che non i santi ed i preti. Il  credere  in  Dio,  in
somma, non nocque a nessun popolo mai; giovò anzi a  molti;  agli  individui  di
robusto animo non toglie nulla; ai deboli è, sollievo ed appoggio. Ma il credere
nel principe, ha sempre tolto, e torrà, ai popoli ogni vera virtù, la  felicità,
la fama, le ricchezze, ed i lumi; agli individui ha tolto sempre,  e  torrà,  il
vero amore di gloria, la sublimità, la virtù, e l'ardire. Ed in prova di  quanto
io dico, la stessa religione cristiana,  ancorchè  acerba  nemica  della  gloria
mondana, si vede  pure  essere  ella  stata,  se  non  incitatrice  di  libertà,
compatibile almeno con essa, e con la felicità, ed anche con una certa grandezza
dei popoli, in tutte quelle regioni ove ella veniva modificata alquanto,  o  per
dir meglio ritratta verso i semplici  suoi  antichi  principj.  Il  che  vediamo
tuttavia fra gli Svizzeri, gli Olandesi, e gl'Inglesi. Ma mi si mostri  da  qual
corte di principe mai, (e siano pur anche i Titi, i Marc'Aurelj, i  Trajani,)  o
da qual principato mai, veramente costituito tale,  ne  ridondassero  (non  dico
popoli magnanimi e liberi, che impossibil cosa è) ma molti, o  alcuni  individui
liberi, sublimi, virtuosi ed arditi, i quali  con  opere  o  scritti  insegnando
virtù e verità, procacciassero utile vero a tutti gli uomini, e fama eterna a se
stessi. E siccome le religioni per lo più soggiacciono ai governi, non i governi
alle religioni; e siccome quanto  male  queste  possono  aver  fatto,  all'ombra
sempre e  per  mezzo  del  principato  lo  faceano;  si  viene  di  necessità  a
conchiudere, che agli uomini in ogni tempo è stato arrecato assaissimo più danno
dai principi, che non mai da' sacerdoti: e chiara  cosa  è,  che,  migliorato  o
cangiato il governo, si  può  facilmente  venire  a  migliorare  e  cangiare  la
religione, ad estirparne gli abusi, e adattarla alla libertà felicità  e  virtù.
Ora, perchè dunque questi nostri moderni  leggiadri  acuti  scrittori,  con  vie
maggior utile per gli uomini e assai più  gloria  e  fama  per  se  stessi,  non
combattevano  colle  armi  possenti  del  ben  adoprato  ridicolo  piuttosto  il
principato che la religione? perchè il principe armato era e  temevasi;  non  lo
erano più i preti, e schernivansi. Viltà è questa; viltà  inescusabile,  che  lo
scrittore, il libro, e per anco i lettori degrada. Se la penna può  pur  per  se
stessa combattere contra il cannone, e a lungo andare  trionfarne,  non  otterrà
ella mai per certo tal palma col far ridere gli uomini;  ma  ottenerla  potrebbe
bensì col farli pensare, piangere, fremere, e bollire di vendetta e  di  gloria.
Si potranno per tal via cangiare le loro opinioni: che  le  felici  rivoluzioni,
per cui alcuni popoli dalla oppressione risorgeano a libertà, nascevano  per  lo
più (pur troppo!) dalle parole tinte nel sangue, non mai dalle tinte  nel  riso.
Ma ecco, che io, nol volendo, mi sono pure alquanto allontanato  dal  mio  tema.
Non credo però di essermene sì fattamente deviato,  che  da  queste  ultime  mie
parole,  senza  sforzata  transizione,  io  non  possa  venire   a   conchiudere
coerentemente il presente capitolo. Dico adunque, che i  capi-setta,  i  profeti
(che sommi poeti erano) i santi, ed i martiri, nati per lo più, come ogni  altro
insegnatore di sublimità e virtù, acerrimi nemici d'ogni assoluta potestà, sotto
essa allignare non poteano senza molto scapitare  della  loro  forza  e  purità.
Aggiungo,  che  i  loro  fatti,  parole,  e   focosi   insegnamenti,   svelavano
indubitabilmente un animo innalzato, e insofferente  di  ogni  oppressione,  ove
pure non volessero farsi oppressori essi stessi. Onde costoro, come uomini senza
dubbio ad  ogni  modo  sublimi,  meritano,  anche  dai  meno  religiosi  uomini,
ammirazione culto, e venerazione.



CAPITOLO SESTO.

DELL'IMPULSO NATURALE.

Annoverate ho finora tutte le diverse classi di uomini sommi, che siano  da  noi
conosciute: letterati, scienziati,  politici,  legislatori,  artisti,  capitani,
capi-setta, santi; e per anche v'ho incluso i principi stessi;  per  quanto  mai
possa esser grande questa specie, che tanti grandi uomini  d'ogni  sopraccennato
genere impedisce e distrugge. Ma, di quanti ne ho annoverati, di tutti dico, che
sommi veramente non furono mai, nè sono, nè saranno, nè potranno mai  essere  in
nessuna delle nomate classi coloro, che a divenir sommi non  avranno  avuto  per
prima base l'impulso naturale. È questo impulso, un bollore di cuore e di mente,
per cui non si trova mai pace, nè loco; una sete insaziabile di ben  fare  e  di
gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da  farsi,  senza  però
mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o  di
esser primo fra gli ottimi, o di non essere  nulla.  Più  laudevole  e  maggiore
debb'essere questo impulso, in proporzione della grandezza del fine che egli  si
propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma  da  questo
immoderato amore di giovare a se stesso con  la  gloria,  non  dee  nè  può  mai
andarne disgiunto l'amore dell'utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato
coi  fatti,  si  aspetta  poi  in  premio  quella  testimonianza  della  propria
superiorità, che spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini  liberi,  sola
costituisce la vera fama  e  la  gloria  di  chi  n'è  l'oggetto.  Ardirei  pure
aggiungere, che i semi per così dire di una tale testimonianza  già  stanno  nel
cuore e nell'intelletto del grande, che veramente n'è degno;  ma,  che  il  solo
pubblico grido li feconda poscia e sviluppa. Questo divino impulso è una massima
cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. Ma  non  perciò  tutti
quelli che l'hanno (e son sempre pochissimi) riescono a farsi sommi davvero: che
pur troppo questo divino impulso può essere dai tempi, dall'avversa  fortuna,  e
da mille altre ragioni, indebolito, deviato, trasfigurato, ed anche  spento  del
tutto. Quest'impulso è una sovrana cosa, cui niuna potenza  può  dare,  ma  ogni
potenza bensì lo  può  togliere.  La  libertà  lo  coltiva,  lo  ingrandisce,  e
moltiplica; il servaggio e il timor lo fan  muto.  Quindi  tanti  uomini  grandi
sviluppansi  nelle  vere  repubbliche,  così  pochi  e  di  tanto  minori,   nei
principati; ancorchè dei capaci di farsi tali  ve  ne  nascano  pure.  Quindi  i
grandi in repubblica son sempre grandi di più utile  e  vera  grandezza,  che  i
grandi nel principato: quindi gli uomini, quasi eguali e simili per loro  natura
in ogni contrada, riescono così diversi da nazione a nazione, e da tempo a tempo
fra le nazioni stessissime: quindi, in somma, si vedono fra i popoli tenuti  già
barbari sorgere le stesse virtù e grandi opere,  di  cui  più  non  si  vede  nè
l'ombra pure fra i popoli, che  già  colti  e  liberi,  rimbarbariti  ora  dalla
servitù se ne giacciono. Lo stesso impulso naturale che creava  uno  Scevola  in
Roma nascente, creava un Decio in Roma perfetta, un Gracco in Roma  già  guasta,
un Mario in Roma morente, un Giulio Cesare in Roma già spenta; e forse anche  un
Sisto quinto in Roma ecclesiastica. Ora, chi potrà dubitare, che (mutati costoro
di tempi) Cesare, con quella stessa smisurata ambizione che lo sforzava a  farsi
da più degli altri, nato nei tempi della prima libertà, non potendo  primeggiare
in potenza, non avrebbe, come Scevola, voluto  soverchiar  gli  altri  tutti  in
virtù? e che Scevola, nato ai tempi di Cesare, vedendo la virtù inutile e vinta,
non avrebbe come egli cercato la maggioranza  e  la  fama  nella  sola  usurpata
potenza? Ma, parlando io quì delle lettere più che di ogni altro genere di umana
grandezza, mi conviene dimostrare  quale  e  quanta  influenza  abbia  sovr'esse
questo naturale impulso  negli  scrittori.  Ed  è  questo  un  raro  e  prezioso
privilegio delle lettere sovra tutti gli altri rami della umana  grandezza,  che
chi ha veramente questo impulso, e, avvedendosene in tempo, sottrar lo sa  dalle
ingiurie e danni che arrecare gli possono sì  l'altrui  autorità  e  protezione,
come il proprio ozio, bisogno, e timore; quegli può fare ogni più  eccellente  e
somma cosa da se  stesso.  Questa  divina  arte  dello  scrivere,  ella  è  pure
innegabilmente per se medesima  la  più  indipendente  di  tutte,  come  già  ho
dimostrato nel libro secondo; e la più innocente ad un tempo, poichè  a  nessuno
può recar danno, se non al vizio; e la più utile in somma, poichè a tutti può, e
dee voler sommamente giovare, Quindi è, che al fare, per esempio,  la  grandezza
di  Giunio  Bruto,  erano  necessarj  i  Tarquinj  tiranni,  Lucrezia  stuprata,
Collatino giustamente disperato, il furore dei cittadini, il molto sangue sparso
e nel foro e nel campo, e la uccisione in fine dei proprj  figliuoli  di  Bruto;
cose tutte lamentevoli, e lungamente riuscite dannose, prima che l'utile  ed  il
bene ne ridondasse: ma, al fare la grandezza di Omero, null'altro era necessario
che Omero stesso, e il naturale suo impulso. Il primo obbligo dunque di  chi  si
destina scrittore, egli è d'imparare a conoscere in  se  stesso  questo  sublime
impulso, e, conosciuto, a dirigerlo. Appurando così i  proprj  suoi  mezzi,  ove
egli senta vivamente in se stesso la  evidente  certezza  di  un  tale  impulso,
fermamente dee credere che egli tutto farà da se stesso; e che  ogni  protezione
potrà nuocergli, e nessuna giovargli. Ma,  come  potrà  il  candidato  scrittore
conoscere se egli abbia, o no, questo impulso? dai seguenti  sintomi.  Se  egli,
nel leggere i più sublimi squarci dei più sublimi  scrittori,  altro  non  sente
nascere in se che commozione e diletto, egli è come  i  molti  che  stupidi  non
sono; se vi si aggiunge la maraviglia, egli può  giustamente  riputarsi  qualche
cosa più; ma però ancora minore dello scrittore ch'egli ha fra le mani, e  delle
descritte cose; e quindi egli è nato soltanto per leggere, e pensare da se:  ma,
se egli, in vece della semplice maraviglia, si sente a quella lettura  accendere
nel cuore come da improvvisa saetta un certo sdegno generoso e magnanimo che  in
nulla sia figlio d'invidia, e che pure denoti assai più che  emulazione;  costui
chiuda il libro, si faccia libero  se  tale  ei  non  è,  che  egli  ben  merita
d'esserlo; e scriva costui, e non imiti, ch'ei sarà  grande  e  imitato.  Questa
nobile ira non può nascere, se non da un tacito  e  vivissimo  sentimento  delle
proprie forze, che a quel tratto di sublime si sviluppa e  sprigiona  dalle  più
intime falde dell'animo: ella è questa la superba e divina febre dell'ingegno  e
del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed  il  grande.  È  questa
quell'ira, che in ogni midollo d'Alessandro scorrea, nel solo udir profferire il
nome di Achille: è questa quell'ira che bolliva in petto di Cesare  all'udir  di
Alessandro; in quel di Temistocle, nel vedere i trofei di Milziade; in quello di
Cicerone, nel legger Demostene. E così ogni grande, che è nato  per  fare,  alla
semplice vista di chi fatto ha, rabbrividire si sente.  Ad  uomo  di  così  alto
animo non v'ha protezione al mondo, che nuocere non gli debba;  perchè  non  gli
può venir mai se non da un uomo  assai  minore  di  lui:  nessun  favore  gli  è
necessario; perchè nessuno può accenderlo mai  quanto  il  suo  proprio  impulso
naturale: pochissimi ostacoli impedire lo possono, ove  egli  abbia  superato  i
primi; perchè chi lo spinge è sempre più forte di chi lo ritrae. Ai pochi simili
potrà forse piacere e giovare questo libercoletto, quale ch'ei sia;  imparandovi
essi a conoscere, sentire, e apprezzare se stessi, ed altrui.



CAPITOLO SETTIMO

DELL'IMPULSO ARTIFICIALE.

Ma, quell'altro lettore da me quì sopra accennato, che  dalla  altrui  sublimità
solamente maraviglia, e non impeto di sdegno, ritrae; quello, nega per lo più di
conoscere e di giustamente apprezzare se stesso; e  supponendosi  le  forze  che
egli avere vorrebbe, si destina egli pure alla sublime arte di scrittore. Quindi
legge egli, e rilegge; più lingue impara, e tutte le gusta; di ogni cosa  si  va
facendo tesoro;  tutti  i  generi  tenta,  in  tutti  pretende,  ed  in  nessuno
primeggia; ma pure, cercando egli sempre ne' libri altrui ciò  che  nel  proprio
ingegno e nel proprio sentimento non trova, perviene a farsi poi  finalmente  un
certo capitaletto, e a risplendere ed ardere, come secondario pianeta, di fiamma
accattata. Costui, che dalla  immensa  fatica  sua  argomenta  doverne  riuscire
immenso utile e diletto ad altrui, suol essere sempre  assai  più  orgoglioso  e
risentito che il vero e semplice  grande.  Corre  tra  questi  due  il  seguente
divario: il sommo stima se stesso, direi così, senza quasi  avvedersene;  e  vie
più si estima nell'atto del comporre, che poscia parlando o esaminando tutto ciò
ch'egli ha fatto: il non sommo, col mostrar sempre agli altri un'altissima  idea
di se, cerca d'ingannare se stesso, e  di  costringersi  a  credere  di  averla.
Questi secondi vengono spessissimo dai vani giudizj del mondo preferiti  a  quei
sommi. Sono questi i letterati protetti; e  questi,  in  fatti,  i  proteggibili
sono. Ad essi non è tuttavia negato il bello del tutto; ma  è  sempre  un  bello
d'imitazione, in cui originalità nessuna non li tradisce pur mai. Ma, siccome la
minor parte degli uomini sono i lettori; e siccome la più gran parte dei lettori
o non ha impulso veruno, o (come i più degli scrittori, e massimamente  moderni)
da artificiale e debole impulso vien tratta; la fama che si  ottiene  da  questi
due così diversi impulsi scrivendo, viene per un certo tempo commista; ed  anzi,
quasi sempre il minore soverchia il massimo; così, per esempio, da molti, e  dai
più dei letterati, si antepone a Tacito, Livio. I proteggenti, e i protetti, e i
proteggibili, e i proteggendi, e i moltissimi poco sententi, costoro tutti fanno
eco tra loro ogni qualvolta si tratta di porre in  cielo  quella  tanto  gradita
mediocrità altrui, che in nulla non offende la loro. A voler conoscere qual  dei
due impulsi movesse un dato scrittore, molte volte basta, senza quasi leggere il
libro, il sapere chi fosse lo scrittore, ed in quali circostante tempi e  luoghi
ei scrivesse. Era  egli  nato  libero,  o  fattosi  tale?  era  egli  sprotetto,
indipendente, non bisognoso, di alto animo, di nobile e sano costume? milita  in
favor suo gran probabilità,  che  egli  allo  scrivere  s'inducesse,  unicamente
spinto dal proprio impulso naturale. Era egli, all'incontro,  nato  bisognoso  e
schiavo;  cioè,  schiavo  politicamente  e  civilmente?   era   egli   protetto,
incoraggito, e diretto? è da credersi, che, o egli sarà stato mosso  da  impulso
artificiale soltanto, o che egli avrà deviato, scambiato, menomato, e appena quà
e là conservato il naturale suo impulso, in quei pochissimi squarci dove nessuno
dei suoi tanti impedimenti gli avrà tolto di  ascoltarlo,  e  valersene.  Ma  in
questi scrittori, se pur de' tali ve ne possono esser fra i sommi, è sempre  più
assai da compiangersi il vero scapito loro, che non da godersi il  falso  nostro
guadagno. Così,  nei  nostri  tempi  e  governi,  a  voler  giudicare  dei  lumi
filosofici e delle verità che potrà contenere un nuovo libro, basta per  lo  più
di gittar gli occhi su la data del luogo in cui è stampato. Non dico perciò, che
di dove i buoni ed utili libri stampare si possono, nè tutti,  nè  i  più  escan
buoni; ma dico, che là dove i buoni stampar non si possono (cioè nei due terzi e
mezzo di Europa) buoni al certo  non  potranno  esser  mai  gli  stampativi.  Io
paragonerei il frutto di  questi  due  impulsi,  artificiale  e  naturale,  alla
diversità dei metalli. Colla moneta di argento  o  di  rame  moltiplicata  oltre
modo, si perviene pure a comporre una somma che a pochissimo oro equivaglia.  Ma
non però mai talmente, che la più corta  e  spedita  via  del  poco  e  prezioso
metallo non piaccia e non giovi assai più, che quel  nojoso  novero  e  peso  di
tanta mondiglia. Così, non può esser mai  paragonabile  l'effetto  d'una  verità
fortemente lumeggiata dalla energica penna  di  un  libero  scrittore  acceso  e
sforzato  dal  naturale  suo  impulso,  all'effetto  di  una  verità  debolmente
accennata, guasta, e in mille  tortuosi  giri  ravvolta  e  affogata  tra  mille
falsità dalla timida penna di un dipendente scrittore, strascinato più assai che
spinto dall'artificiale suo impulso.  Chi  vuole  di  ciò  convincersi  con  gli
esempj, paragoni Racine, dove egli non parla di amore (passione sola matricolata
nei nostri governi, e sola quasi dagli antichi sommi de' più bei tempi  taciuta)
lo paragoni, dico, ai tragici greci là dove d'amore ei non parla,  e  dove  egli
non traduce dal greco; credo che si convincerà  pienamente  che  quegli  antichi
Greci, spinti da impulso naturale, senza altra protezione che l'amor della lode,
nè altra imitazione che il vero, inventavano e scrivevano per  insegnare  virtù,
verità, e libertà ad un popolo libero, dilettandolo:  in  vece  che  il  tragico
francese, mosso da impulso artificiale, sotto la protezione e approvazione  d'un
principe, scriveva imitando, e tremando; e quindi, per dilettare e non offendere
un popolo non libero e snervato, egli traduceva in tratti sdolcinati di amore  i
più focosi e sublimi tratti della greca energia; tacitamente così  confessandosi
minore dei suoi modelli, non solo per le diverse circostanze, ma più  assai  pel
proprio sentimento ed impulso. Sia dunque l'artificiale impulso una delle  tante
false gemme del principato; e, il mezzo sentir propagandovi, l'intero sentire vi
vada egli, per quanto il può, soffocando. Ma il naturale divino impulso, o nelle
repubbliche non impedito, faccia quegli uomini vie più  degni  di  libertà,  con
alti insegnamenti ed esempj;  ovvero  nel  principato  (ancorchè  rarissimamente
sviluppare appieno vi si possa) soverchiando  pure,  quasi  impetuoso  torrente,
ogni inciampo ed ostacolo, con l'avvampante sua  luce  quelle  orribili  tenebre
squarci; e, con vie maggior fama per lo  scrittor  che  l'adopera,  vie  maggior
vantaggio procacci agli altri tanti suoi miseri ed  oppressi  conservi,  a  loro
insegnando e la verità, e i lor dritti. Così, se non altro,  un  tale  scrittore
gli anderà preparando almeno a ricevere poi dal tempo (il quale  ogni  cosa  già
stata finalmente pur riconduce) la loro perduta, o anche la  non  mai  posseduta
libertà, virtù, e grandezza.




CAPITOLO OTTAVO

COME, E DA CHI, SI POSSANO COLTIVARE LE VERE LETTERE NEL PRINCIPATO.

Dalla ignoranza totale dei proprj diritti e facoltà, nasce  indubitabilmente  la
durabile servitù di ogni popolo: ed è più o meno grave il servaggio, secondo che
maggiore o minore persiste questa ignoranza. Dunque, la  intera  conoscenza  dei
proprj  diritti  e  facoltà,  cagionando  nell'uomo  l'effetto  contrario   alla
ignoranza di essi, dee pur necessariamente divenire la cagione e la base di  una
durevole libertà. Fra i popoli liberi, si ardisce pensare, dire, e scrivere ogni
cosa, purchè non sia contra i savj costumi: fra i popoli  servi,  nessuna  altra
cosa si può forse impunemente offendere, fuorchè i savj costumi. Se  le  lettere
altro non debbono essere, che un incentivo  alla  verità,  e  alla  virtù,  vien
dunque dimostrato dai precedenti assiomi, che elle saranno o effetto di  libertà
stabilita, o prossima cagione di essa, ove però non  tradiscano  il  loro  sacro
dovere. Le lettere dunque potendo nelle vere repubbliche interamente essere  ciò
ch'elle esser debbono, pare che quegli uomini tutti, come  liberi  (ove  abbiano
pure l'ingegno a ciò richiesto)  possano  tutti  por  mano  alle  lettere  senza
avvilirle, nè deviarle. Ma nei principati, dove le vere lettere debbono essere e
farsi cagione di libertà e di  virtù,  pare  che  elle  non  abbiano  ad  essere
maneggiate se non da coloro che son  meno  schiavi.  Ora,  i  meno  schiavi  nel
principato, sì per una certa indipendenza data  dalle  ricchezze,  che  per  una
certa meno pessima educazione che dovrebbero aver ricevuta, e così anche per una
certa altezza di sensi che potrebbero aver bevuta col latte, e in fine per avere
col viver fra l'armi mantenuto un non so che di fierezza, e una dose di coraggio
(benchè pessimamente adoprato) non picciola; i meno schiavi nel principato, pare
che dovrebbero essere quei nobili che non sono contaminati di corte. Ma, se tali
non sono, se ne abbiano il danno. Io, nel parlare a loro, e nel supporti  capaci
di non maculare le lettere, perchè bisogno non hanno di macularle, vengo  ad  un
tempo stesso a parlare a chiunque benchè umilmente  nato  si  trova  pure  nelle
stesse loro circostanze, e pensa come il dovrebbero i  nobili.  Posti  dunque  i
nobili, ovvero gl'indipendenti ed agiati, tra il popolo e il  principe,  di  cui
sono stati pur troppo finora il maggior lustro e sostegno, possono  costoro  nei
presenti tempi, pienamente conoscendo  il  debole  ed  il  nulla  del  principe,
rivelarlo e dimostrarlo al  popolo:  ed  avendo  essi  imparato  a  conoscere  e
rispettare del  popolo  la  forza  ed  i  sacri  diritti,  rivelarli  possono  e
insegnargli ad un tempo al principe ed  al  popolo  stesso.  Ma,  non  lo  fanno
costoro, perchè educati per lo più fra le corti al servire, nessuna vera luce di
sane lettere introdurre si può fra i loro immensi pregiudizj ed errori, ancorchè
pajano essi, o parer vogliano e colti e saputi. Che se  tali  pur  fossero,  per
quanto schiavi sian nati del loro orgoglio, preferirebbero pur  sempre  di  gran
lunga di divenire in ben costituita repubblica ciò che era in Roma non guasta il
senato e i patrizj, o ciò che dovrebbero essere in Inghilterra i pari del regno,
all'essere  i  ciamberlani,  cacciatori,  capitani,  ambasciatori,  siniscalchi,
maggiordomi, o che altro so io, di  un  assoluto  loro  padrone.  Nulladimeno  i
nobili, o agiati indipendenti nel principato, tali ch'ei siano, hanno pur  anche
più assai luce che il popolo; perchè  hanno  l'ozio  ed  i  mezzi  per  leggere,
parlare, viaggiare, vedere, e  quindi  anche  un  pocolino  pensare.  Io  dunque
vorrei, che quella picciolissima sana parte di essi, a  cui  fra  le  universali
tenebre traluce un qualche barlume di verità, abbandonasse da prima ogni carica;
perchè tutte sono infami quelle che un solo può togliere e dare. E  massimamente
vorrei, che abbandonasse il mestiere dell'armi; il quale, quanto è onorevole  ed
alto dove patria vi ha e si difende, altrettanto è vergognoso  e  risibile  dove
per uno, cioè contro a se stessi  ed  ai  suoi,  si  viene  a  combattere.  Così
purificati costoro dal loro doppio originale peccato dell'esser nati e nobili, e
non cittadini, vorrei che unicamente alle lettere si consecrassero; poichè  esse
sole prestano all'uomo un vero ed onorevole mezzo di  fare  col  tempo  rivivere
quella patria, la quale poscia (esistente allora davvero)  con  vera  gloria  ed
onore difendere allor si potrebbe da essi con l'armi loro, e col sangue. Un vero
prode nel  principato,  ove  non  sia  egli  uno  stupido,  non  può  certamente
dissimulare a se stesso, che assai più coraggio si richiede ad impugnare  in  un
tal governo la penna, che non ad impugnarvi la spada.  Perciò  vorrei,  che  tra
questa piccolissima parte di nobili letterati, quei pochissimi  che  si  sentono
veramente mossi  da  quel  naturale  impulso  divino  quà  sopra  descritto,  si
destinassero  ad  essere  come  i  Decj  della  nascitura  repubblica;  e   che,
espatriandosi per cercar libertà dove ella si trova, ogni loro propria  presente
cosa sagrificassero alla futura lor patria. Riacquistato così l'intero esercizio
del loro intelletto e della lor penna, vorrei che tanta e tal  guerra,  e  sotto
così diversi aspetti, movessero alla assoluta ingiusta e mortifera potestà,  che
della loro divina fiamma venissero essi poi, quando che fosse, ad  incendere  le
intere  nazioni.  La  nobiltà  del  loro  nascere  grandissima  forza   e   peso
arrecherebbe ai loro argomenti. Avendo essi la possibilità di ottenere tutte  le
soprammentovate infamie di corte, lo averle  spregiate,  l'averne  conosciuto  e
svelato il distributore, tutto questo fa sì, che la loro ira  non  potrebbe  mai
venir tacciata di bassa invidia: cagion sempre vile, indegna sempre  di  operare
alti effetti, indegna sempre di annunziare la verità; e che moltissimo ognora la
va guastando e minorando, ove ella  l'annunzi.  Espatriati  dunque  e  posti  in
sicuro questi pochissimi sommi e illibati,  che  dal  loro  spontaneo  e  nobile
esiglio tuonano verità, una picciola repubblica  di  altri  letterati  pensanti,
leggenti, e non iscriventi, potrà rimanersi secura infra gli stessi artigli  del
principato; poichè la virtù sua, e l'effetto che ne dee ridondare,  non  saranno
se non negativi. Costoro, attese le loro ricchezze, il lustro del loro nome,  ed
i passati onori degli avi; costoro, per se  stessi  abbastanza  risplendono  nel
principato, senza mendicare appoggio veruno nel principe: onde, ancorchè signore
dell'opinione, il principe non li può far comparir vili, perchè non lo sono;  nè
li può opprimere, nè screditarli, perchè sono in bastante numero da dar ombra, e
da contrappesare i vili veri, che sono quei nobili che  servono  a  lui.  Questa
repubblichetta nel principato, da principio modesta e discreta, legge,  ragiona,
e pensa fra se, rimota affatto dal volgo profano: ogniqualvolta fra essa nasce e
si scuopre un vero uomo grandissimo, ella lo invia fuori del chiuso  a  predicar
da lontano senza riguardo nessuno la schietta e  divina  verità,  per  mezzo  di
convincenti, energici,  ed  eleganti  scritti.  Rimangono  gli  altri  frattanto
quasichè liberi nella loro natia servitù. Onorati  essendovi  dell'odio,  o  del
finto disprezzo del principe, vengono essi necessariamente rispettati dai  buoni
e dal popolo; perchè si mostrano, e sono, umanissimi, e  popolari,  e  d'intatto
costume: alcun pericolo vanno però  sempre  correndo;  ma  di  alto  animo  sono
costoro, e gli alti  esempj  che  nei  sublimi  libri  ritrovano,  accrescono  e
rettificano in loro ogni giorno quel nobile e  giusto  ardire,  i  di  cui  semi
innati già in essi, (ma diretti male) a loro ed ai lor maggiori,  per  la  falsa
causa del principe, faceano già esporre, ogni giorno e gli averi e la vita.  Ma,
ancorchè eccessiva sia,  e  sfrenata,  e  terribile,  ritorna  pur  sempre  vana
contr'essi la superba ira del principe; perchè costoro nulla affatto vogliono da
lui: e costoro di lui nulla temono, perchè delle sue leggi, quai ch'elle  siano,
nessuna ne infrangono; legge espressa non vi potendo mai essere,  che  proibisca
il giusto pensare, e che costringa gl'individui tutti a servire il  sovrano.  Nè
alcun principe mai avrebbe la sfacciatezza di punire chi non disturba  in  nulla
quell'universale letargo, che principescamente si appella, la  pubblica  quiete.
Perseguitano essi bensì sordamente e chi legge  e  chi  pensa;  ma  chi  non  ha
l'imprudenza di parlare co' satelliti suoi, securo quasi può starsi.  Inibiscono
per quanto possono i buoni libri, ma molti sempre ne passano, e  tutti  i  buoni
non sono inibiti. Tra questi,  come  ho  già  osservato,  il  solo  Tacito,  ben
riletto, e pesato, e ragionatovi sopra fra pochi, e aggiuntovi lo stare  lontani
sempre dal principe (lontananza, che quanto ai lumi dei nobili viene  ad  essere
il sommo dei libri;) il solo Tacito, dico, è più  che  bastante  per  se  a  ben
educare una privata società di profondissimi e giustissimi  pensatori.  Una  tal
società a poco a poco propagandosi con  irresistibile  progresso,  dev'essere  a
lungo andare la vera  legittima  e  vittoriosa  annullatrice  d'ogni  arbitraria
potestà. Al continuo esempio di virtù e d'indipendenza che danno  questi  nobili
letterati nel principato, si va  aggiungendo  di  tempo  in  tempo  il  possente
rinforzo dei pochi, ma buoni e caldi ed  incalzanti  libri,  che  gli  scrittori
esiliatisi dal principato v'inviano a far per loro e per tutti: e  benchè  corra
il proverbio, che ogni cosa è oramai stata detta, potranno pure  smentirlo  quei
tali scrittori, che sono da giusta e nobile ira spronati contro  la  servitù  in
cui nasceano, e che incoraggiti e protetti sono dalla libertà, in cui sapeano in
tempo ricovrarsi. Costoro certamente, o diranno più del già detto, o in  maniere
nuove affatto il diranno: e con eleganza scriveranno costoro, perchè la eleganza
aveano potuta imparare e gustare, come non proibita cosa,  nella  loro  pristina
servitù; ma con forza libertà e verità scriveranno pur anche, perchè di  schiavi
che nati erano, avuto aveano il coraggio di farsi uomini cittadini; e in  somma,
sublimi scrittori saranno, perchè  dal  solo  sublime  e  natural  loro  impulso
sforzati erano a divenire scrittori. Quindi allora il veramente epico poeta, che
in sublimi versi una impresa veramente sublime piglierà a descrivere,  sceglierà
certamente piuttosto di cantare la liberazione di Roma da Bruto, che  quella  di
Gerusalemme da Goffredo. Con questa scelta, verrebbe egli a vendicare  da  prima
l'onore dell'arte sua; perchè dei sommi epici poeti,  nessuno  finora  ha  tolto
argomento da popoli liberi, se non in parte Omero, a chi  considera  quei  Greci
come molti popoli  spontaneamente  riuniti.  Ma,  quanta  maggior  grandezza  ne
ridonderebbe ad un tema, di cui, in vece di Agamennone re, fosse  anima  e  capo
uno Scipion cittadino? sarebbe, ad egual eccellenza, di tanto superiore un  tale
poema, di quanto ad ogni altro popolo  fu  superiore  il  romano.  Ma  Scipione,
cantato da Ennio con ruvido carme  di  lingua  ancor  non  perfetta,  è  perito;
Augusto dalla divina tromba di Virgilio ottien quella vita,  che  Scipione  solo
meritava. Si osservi tuttavia nell'Eneide, che  Augusto  non  è,  benchè  paghi,
l'eroe di quel poema, nè lo poteva pur essere:  Scipione  all'incontro,  per  la
semplice forza della sua virtù, potea e può veramente, accendere di se un  epico
poeta, e ampiamente rimunerarlo colla semplice fama  d'amendue.  Che  la  parola
EPICO, parmi  che  debba  importare  alti  eroi,  alta  impresa,  alti  effetti,
altamente pensati e descritti; e qualunque di queste altezze vi manchi, io credo
che l'epico cessi. Quindi il moderno epico e libero  poeta,  invece  d'intrudere
nel suo tema episodiche lodi di Augusti,  o  di  altri  principi  meno  possenti
ancora e più vili, vi inserirà le lodi dei veri eroi, degli  illustri  cittadini
passati; sempre o poco o nulla dei viventi parlando, per rispettare ad un  tempo
e l'altrui modestia e la propria. Un  sì  fatto  poema  riuscirà  di  assai  più
giovamento che nessunissima storia, appunto perchè  dilettando  assai  più,  non
insegnerà niente meno: e gli uomini preferiscono sempre quell'utile che più vien
misto al diletto. Così gli scrittori che la tragedia maneggiano, potranno allora
alla antica sua maestà ritornare il coturno:  potranno  di  ben  altre  passioni
discorrere, e ben altre destarne, e con ben altre infiammare, che  col  solo  ed
anche snervatello amoruccio. Così la commedia imprenderà allora a  combattere  e
porre nel dovuto ridicolo i veri vizj, e più i maggiormente dannosi.  Perciò  si
verranno a trarre i soggetti di commedia non meno dalle stolte  e  superbe  aule
dei re, e dei loro scimmiotti, i potenti, che dalle case dei semplici ed  oscuri
privati. Non saranno queste tali tragedie e commedie  recitate  nel  principato:
che importa? introdotte pure vi saranno elle di furto, e tanto più lette, quanto
più  impedite;  e  approvate,  e  per  così  dire   affigliate   saranno   dalla
repubblichetta dei nobili letterati, finchè poi venga quel giorno, che in  pieno
teatro recitarsi potranno. E verrà quel tal giorno, perchè tutti  i  giorni  già
stati, ritornano. E allora, tanta più gloria ne riuscirà a quegli autori, quanta
più n'è dovuta a chi ha saputo disprezzare la falsa  glorietta  del  subito,  ed
anteposto ha di scrivere per uomini veri,  ancorchè  da  nascere  fossero,  allo
scrivere, degradando l'arte e se stesso, per quei mezz'uomini fra cui nato  era.
Così le satire, non a mordere  i  privati  vizj  e  laidezze,  e  molto  meno  a
nominarne gli attori; (niun uomo vizioso  meritando  mai  d'essere  nominato  da
sublime scrittore) ma le  satire  il  loro  veleno  tutto,  ed  i  loro  fulmini
rivolgeranno unicamente a smascherare, a trafiggere, atterrare, e distruggere il
pubblico vizio, da cui, come da impuro fonte, i privati tutti derivano. Così gli
oratori non intenderanno  a  laudar  la  potenza,  ma  la  sola  virtù;  non  al
persuadere i principi a giustizia e a clemenza, ma  al  persuadere  i  popoli  a
cercare con più stabilità nelle sole leggi la prima, e a non abbisognar  mai  di
quest'ultima: non al convincere e dimostrare  agli  uomini  con  ampollosità  di
parole, e con sottigliezza di tortuosi argomenti, che la  virtù,  nell'adattarsi
ai tempi consiste, ma al dimostrare che ella veramente consiste nel riadattare i
tempi a virtù. Così le storie, pochissime  allora  saranno,  e  di  quelle  sole
nazioni che di storia sian degne, e che possano servir di modello alle nostre, e
d'incitamento al meritare un giorno  storia  elle  stesse.  Onde,  non  di  vane
battaglie, non di leggende  di  nomi  di  principi  (nè  degni  pure  di  essere
nominati) non di raggiretti di corte,  non  di  puerili  insipidi  e  scostumati
aneddoti si intesseranno le storie; ma  le  vittoriose  pugne  di  pochi  liberi
uomini contro innumerabili eserciti di schiavi; le generose ed utili contese fra
la plebe ed i nobili; le atterrate tirannidi;  i  gastigati  tiranni;  gli  alti
esempj di ardire, d'amor patrio,  di  spregio  di  ricchezze,  di  severità  nei
politici costumi; le focose  concioni  di  magistrati  a  popoli,  e  di  liberi
capitani a liberi soldati: fian queste allora le  storie;  e  storico  veramente
sarà colui che le scrive. Così la lirica poesia, dalle vicende di amore risalirà
anche spesso a cantare altamente quelle della virtù e del coraggio. Si  udiranno
allora degli inni di tal forza, e una così  divina  fiamma  spiranti,  che  soli
basteranno a trasfigurare gli schiavi in cittadini, ed a spingergli in battaglia
per crearsi una patria, e creata, difenderla. Ed odi, e canzoni  si  udranno  di
così alto dettato, che, al rendere eterni i nomi dei guerrieri  estinti  per  la
patria, varranno più assai che le statue e i bronzi: ed a premiare la vera virtù
dei rimanenti liberatori della patria, le eccellenti ed  eterne  poesie  di  ben
altra possanza saranno, che i fragili infamanti onori e  le  viziose  ricchezze,
con cui possono  i  principi  pagare  soltanto  gli  oppressori  di  essa.  Così
finalmente, i filosofi di qualunque genere  e  setta,  liberamente  scrivendo  e
senza nessuno timido velo  la  verità,  o  quello  che  crederanno  esser  tale,
potranno, anche ingannandosi, giovar nondimeno moltissimo:  che  nessuna  verità
mai, nè morale nè fisica, non è nata, nè può nascere e dimostrarsi, se ella  dal
grembo di cento errori non sorge. Ma niuno errore è mai stato, nè esser può  più
fatale a una società d'uomini, che quello di non cercar  sempre  la  verità,  di
porre ostacoli a chi ne  va  in  traccia,  e  di  premiare  chi  la  nasconde  o
falsifica. Ecco dunque, quali esser potranno le lettere in questi moderni tempi,
ogniqualvolta maneggiate elle vengano da liberi  ingegni  in  terra  di  libertà
rifugiati; e ogniqualvolta coltivate,  accolte,  e  tacitamente  propagate  elle
vengano da ingegni liberi,  ancorchè  costretti  dal  peso  del  principato.  Il
sublime fine, che dalle lettere così maneggiate ed accolte ne  ridonderebbe  col
tempo, facil cosa è l'antivederlo: ne risulterebbe senza dubbio, ed in breve, la
intera conoscenza e la  severa  pratica  delle  vere  politiche  virtù:  il  che
chiaramente vuoi dir, LIBERTÀ.



CAPITOLO NONO

QUALE RIUSCIREBBE UN SECOLO LETTERARIO, CHE, SFUGGITO NON MENO  ALLA  PROTEZIONE
CHE ALLA PERSECUZIONE DI OGNI PRINCIPE, NON VENISSE QUINDI  A  CONTAMINARSI  COL
NOME DI NESSUNO DI ESSI.

Grande e singolar gloria dei Greci ella è, che il  loro  bel  secolo  letterario
porta il nome di secolo di Atene, e non di Pisistrato, nè di Alessandro;  nè  di
Pericle stesso; ancorchè la moderna letteraria viltà abbia pure  voluto  in  ciò
assomigliare gli Ateniesi a se stessa, così da  questo  ultimo  semi-tiranno  di
Atene intitolando quel secolo. E da ciò solo indubitabilmente nasceva la maggior
perfezione delle greche lettere, e la ben altra copia d'importanti  politiche  e
morali verità da quegli scrittori fortemente lumeggiate, e nel mondo intero  poi
sparse. Ma, per qual ragione  i  tre  seguenti  secoli  letterarj,  in  vece  di
intitolarsi da Roma, da Firenze, e da Parigi, si appellano da Augusto, da Leone,
e da Lodovico? perchè gli scrittori di questi tre secoli scrissero veramente per
li suddetti tre principi più assai che per le loro città. Mi  si  dirà  che  non
avrebbero prosperato le lettere in Roma, se elle non vi fossero  state  protette
da Augusto. Ma, di grazia,  si  rifletta  bene  a  queste  parole;  LE  LETTERE,
PROTETTE DA AUGUSTO; cioè, da  colui  che  con  orribile  ingratitudine  e  vile
perfidia vendeva ad Antonio la testa del primo scrittore e filosofo,  che  fosse
mai stato in Roma;  del  gran  Cicerone.  E  in  fatti,  da  un  tal  protettore
argomentar  si  poteva  quali  doveano  divenire  sott'esso  le  lettere.  Quale
scrittore d'alto animo si sarebbe mai potuto risolvere  a  lasciarsi  proteggere
dall'uccisore di Cicerone?  Ma  come,  volendone  pure  scansare  la  insultante
protezione, ne avrebbe egli  potuto  sfuggire  la  tirannica  persecuzione?  col
rimanersi egli sempre lontano da Augusto, e da tutti i suoi vili  satelliti.  Le
perfezionate lettere non sono  dunque  state  di  nessun  giovamento  ai  latini
popoli, poichè da Augusto per l'appunto comincia la loro viltà, e  la  decadenza
fra essi di ogni sublime costume e virtù. Mi si dirà, che  in  Italia  pure  non
sarebbero risorte le lettere, se i Medici non ve le avesser protette.  E  questo
assolutamente lo negano per me il divino Dante, Petrarca, e Boccaccio, che erano
stati prima di loro, e spinta aveano al più eccellente ed  alto  grado  la  loro
lingua, senz'essi. Mi si replica; che senza  i  Medici  si  perdeva  affatto  il
latino,  e  non  si  restituiva  certamente  la  piena  intelligenza  del  greco
all'Italia. E questo, su che potrei pur disputare, in parte lo voglio ammettere;
e gran perdita sarebbe stata per l'Italia. Ma pure, da quella così gran luce  di
lettere latine, greche, e italiane, quale accrescimento, qual virtù, qual  viver
civile e libero, qual grandezza, felicità, e ricchezza di popoli, quale  altezza
di sensi ne scaturiva per gl'Italiani dappoi? nessuna, ch'io sappia. Poco era la
fiorentina repubblica prima de' suoi medícei tiranni, e  nulla  divenne  dappoi;
così il rimanente d'Italia. E un vero letterato  potrà  egli  mai  intitolare  e
reputar veramente protettori  di  lettere  quei  Medici  stessi,  sotto  cui  il
Machiavelli viveva negletto; il Galileo, impedito e  perseguitato?  Di  Lodovico
decimoquarto non parlerò. Era  costui  il  primo  ritrovatore  in  Europa  degli
eserciti smisurati e perpetui: onde ben altro danno agli uomini moderni ha  egli
arrecato coll'accrescere e perpetuare quasi la lor servitù, di quello  che  alla
Francia ei giovasse col darle un teatro, che sospirando esclusivamente  d'amore,
ai Francesi insegnava a nè pure più sospirare d'amore.  Ed  in  fatti,  il  vero
amore sublime, che pure di tanto innalzar ci può l'animo, e che i  francesi  nei
tempi dei lor paladini  aveano  bastantemente  conosciuto  e  trattato,  non  si
ritrova più presso loro, dopo che ne è stata stabilita per così dire  in  teatro
la scuola. Tanto è più forte insegnator di ogni vizio  l'assoluto  governo,  che
insegnatore di una anche minima virtù il  teatro,  allorchè,  nato  egli  fra  i
ceppi, viene come tale dall'oppressore di tutti approvato  e  protetto.  Quindi,
l'accrescimento e splendore  apparente  della  monarchia  francese  da  Lodovico
decimoquarto in appresso, si deve in molto maggior parte attribuire alla forza e
agli eserciti loro, che non alle loro lettere  e  accademie;  le  quali,  benchè
molto perfezionassero la loro  lingua,  stata  fin  a  quel  punto  barbara,  di
pochissimo accrebbero la somma della luce per gli uomini tutti.  Nè  i  francesi
filosofi sono  stati  veramente  tali,  se  non  in  quanto  la  loro  filosofia
accattarono dai liberi e non protetti antichi, o inglesi, scrittori. Il prodotto
dunque di questi tre secoli letterarj era,  come  io  più  sopra  accennava,  il
seguente: del primo di Augusto, i Romani di Tiberio, di Nerone, di Caracalla, di
Costantino, e della lunga sequela dei susseguenti imperatori  in  nulla  romani:
del secondo e terzo letterario secolo dei Leoni e Luigi, ne sono il  prodotto  i
moderni Italiani e Francesi. Ma, del greco secolo era ad un tempo  e  cagione  e
prodotto, il popolo sublime di Atene;  e  quindi  in  parte  fors'anco,  per  la
influenza dei lumi e dell'imitazione, lo stesso  popolo  di  Roma  in  appresso.
Questi due popoli, presi insieme, vengono a comporre la grandezza,  felicità,  e
virtù tutta, quanta fra gli uomini allignare mai ne  potesse.  E  si  noti,  che
figli di quella stessa Atene (ancorchè spurj) si possono poi dir parimente tutti
quest'altri tre raggi di non così  pura,  nè  efficace  luce,  che  rischiarando
venivano alquanto, ma non abbastanza, le susseguenti nazioni. Ben  altro  dunque
era il fonte da cui nati erano codesti lumi e sforzi dell'umano ingegno,  poichè
così diverso ne riusciva l'effetto, e così possente ancora, tanti  secoli  dopo,
l'impulso. Quindi a me pare,  che  il  volere  originare  le  vere  lettere  dai
principi, e non dalla libertà, sarebbe come il volere qual più preziosa ed utile
pianta sul nostro globo si alligni, attribuirla piuttosto al freddo Saturno, che
all'almo vivificante pianeta. Ma, qual nuova ed altissima cosa non potrebbe egli
riuscire un quinto secolo letterario, che per  non  essere  protetto  da  nessun
principe, da nessuno di essi venisse appellato? e che, per essere le sue lettere
stesse procreatrici e protettrici di libertà, da essa sola  il  nome  assumesse?
Nuovo ei sarebbe per certo; nè perchè non sia stato  mai,  lo  credo  io  perciò
impossibile. L'invecchiare del mondo, e la influenza dei quattro passati  secoli
letterarj, hanno  oramai  moltiplicato  i  mezzi,  sminuzzato  i  materiali,  ed
appianate tutte le vie. Fissate sono le lingue, introdotta una certa  smania  di
leggere, rettificato più o meno il gusto dello scrivere, preparata in somma ogni
cosa; altro non si aspetta fuorchè sublimi, chiare, e  intere  verità,  che  con
semplice sublimità di stile annunziate, gli animi tutti più  o  men  sublimando,
fortemente gli incendano e sforzino a  riporre  sul  trono  la  verità  sola.  I
principi oramai non possono accrescere facilità,  ma  possono  bensì  accrescere
gl'inciampi, se  diversificargli  e  adattarli  sapran  destramente.  I  moderni
scrittori adunque, che vorranno essere  padri  di  verità,  di  virtù,  di  alto
diletto, e fondatori di un nuovo secolo letterario, essere dovranno pria  d'ogni
cosa, figli di se medesimi. La loro gloria sarebbe di tanto maggiore, di  quanto
l'impulso necessario per superare gli ostacoli debb'essere  sempre  maggiore  di
quello che si prevale dei favori. Ma la loro  utilità  tanto  maggiore  potrebbe
riuscire,  quanto  meno  aspettata  nel  secolo  della   oppressione,   in   cui
scriverebbero. Cotali scrittori, eleganti,  perchè  dalle  antecedenti  eleganze
ammaestrati; veraci e liberi, perchè amano gli uomini, la vera gloria conoscono,
e ardentemente oltre ogni cosa la bramano; caldi ed energici,  perchè  il  timor
non gli agghiaccia, ed anzi dagli impedimenti generoso  incitamento  ritraggono:
cotali scrittori, rinnovando la libertà la  forza  e  la  leggiadria  dei  sommi
Ateniesi, maggior della loro ne dovrebbero ritrarre la fama. Appunto perchè, non
avendo come quelli la proteggente e incentiva libertà per lor madre, hanno  pure
ardito  e  saputo  agguagliargli,  ancorchè  nati  in  servaggio.  Anzi,   nello
sviluppare le verità importanti, riuscirebbero costoro anche assai più  forti  e
feroci dei Greci: perchè la  natura  dell'uomo  è  di  maggiormente  sentire  la
privazione delle  cose,  che  non  il  godimento  di  esse.  Quindi  la  libertà
dottamente studiata da chi appunto per non vi essere nato  ardentissimamente  la
brama, verrà poi vestita da costui di ben altramente focose, terribili, e veraci
espressioni, che non da tal altro che tranquillamente già  la  possiede.  E  ben
altro scalpello ci vuole a scolpire negli umani petti la intensa  brama  di  una
cosa non mai posseduta, e quindi appena appena da tali  uomini  conosciuta,  che
non ad accrescere in altri il desiderio di mantenere e  difendere  un  bene  già
prima  conosciuto  e  lungamente  gustato.  Di  tanto  dovrebbero  in  somma,  e
potrebbero, i moderni sublimi scrittori superare nella forza e nell'utile i  più
sublimi d'Atene, di quanto per l'appunto i moderni  popoli  nella  conoscenza  e
pratica del vero minori sono del popol di Atene. Se dunque, in vece di  effimeri
foglietti, libri eccellenti di ogni specie, ed in copia, uscissero alla luce  in
questi nostri principati, sì per l'utile che arrecherebbero, sì per gli ostacoli
superati, un tal secolo letterario sarebbe certamente  da  pregiarsi  assai  più
d'ogni altro. Ed io insisto, e ripeto, e torno a ripetere; che non è vero che il
tutto sia stato già detto. Ma, se pure anche ciò fosse, non tutti leggono  tutto
ciò che è stato già detto; o per essere in lingue non  note  abbastanza,  o  per
essere sotto forme difficili e non dilettevoli appresentato, o per non essere in
fine adattato al gusto ed ai tempi. Quindi le verità già dette dai  Greci  nelle
loro tragedie, commedie, poemi, satire, storie  &cc.,  nuove  riappariranno  del
tutto in tali moderne composizioni, ove lo scrittore abbia in  se  stesso  assai
più pensato e sentito, che non imitato: e, parlando io  sempre  dello  scrittore
sublime, mai non dubito che ciò altrimenti possa essere. Un tale moderno  secolo
letterario, che può diventare maggiore d'ogni altro, io lo reputo  già  bello  e
nato. Basta, che i sommi ingegni moderni nati per iscrivere, vogliano  da  prima
ben conoscere e stimare se  stessi;  e  che  poscia,  la  loro  fama  assai  più
apprezzando che il loro corporeo ben essere,  rotti  i  loro  nativi  ceppi,  si
ricovrino in parte dove  adoprare  essi  possano  senza  tremare  tutte  le  lor
facoltà: e basta, che i  begli  ingegni  nati  soltanto  per  leggere,  vogliano
incontaminati  vivere  pensando  e  leggendo,  lontani  sempre  da   ogni   aura
pestilenziale di corte. In tal  modo,  le  lettere  torneranno  indubitabilmente
purissime, ed alte, e giovevoli; puri e sublimi essendone, come di alta deità, i
sacerdoti e i devoti. E si appellerà  questo  secolo  dalla  virtù  che  il  fea
nascere, e che proteggevalo sola; IL SECOLO DELLA INDIPENDENZA.



CAPITOLO DECIMO.

CHE DA TALI NUOVE LETTERE NASCEREBBERO A POCO A POCO DEI NUOVI POPOLI.

Roma, dall'aver cacciati i re, ricevea quell'impulso a virtù, che per tanti anni
la facea sempre poi crescere, e così sterminatamente grande al fin la faceva.  E
questo negar non si può, mirando agli effetti. Dall'avere  ella  poi  soggiogate
molte nazioni, e massime le  suddite  ai  re,  ne  riceveva,  insieme  coi  loro
monarchi in Campidoglio strascinati, le ricchezze, le morbidezze, i vizj  tutti,
ed i guasti costumi. Roma da queste regie pesti ben  tosto  poi  ricevea,  sotto
altro nome, dei novelli e ferocissimi re: e da questi  finalmente  poi  riceveva
ella  il  suo  ultimo  avvilimento  e  sterminio.  Così,   nei   tempi   nostri,
l'Inghilterra, dall'aver cacciata la regal  potestà,  serbando  tuttavia  dietro
l'infrangibile scudo delle leggi i suoi re, in meno di un secolo saliva ella  in
forza ed in gloria grandissima; e la vediamo ai dì nostri far fronte ella  sola,
e vincere spesso, e non mai soggiacere finora, a molte delle maggiori  monarchie
dell'Europa congiurate in suo danno. Perciò nove  milioni  appena  d'Inglesi  si
sono veduti in quest'ultima guerra di America stare a  fronte  di  venti  e  più
milioni di Francesi, di dieci o non so quanti di Spagnuoli, e di  cinque  o  sei
tra Olandesi e Americani. Politica maraviglia, di  cui  non  si  può  trovar  la
ragione, se non se confessando,  che  un  uomo  libero  equivale  almeno  a  sei
schiavi. Ma pure, combattendo gli Americani per la loro libertà non soggiacquero
in questa guerra agli Inglesi, i quali in America faceano assai più la parte  di
schiavi e tiranni essi stessi, che non di liberi uomini.  Ma,  lasciando  questo
(che al mio tema non spetta) se io in questi due popoli, nel moderno  Inglese  e
Americano, e nell'antico Romano, osservo le cagioni della lor libertà, e  quindi
dei loro progressi, felicità, virtù, e grandezza; trovo pur sempre esserne stata
principalissima origine la loro piena ottenuta conoscenza  dei  proprj  diritti.
Diritti, ad essi, come agli altri uomini tutti, dalla natura accordati,  ma  dal
principato che contro natura è, menomati, tolti,  scambiati,  e  corrotti.  Alla
custodia di tali  e  così  sacri  diritti  vegliavano  in  Roma  i  tribuni,  in
Inghilterra la camera dei comuni, e non so finora chi ci veglierà nella nascente
libertà dell'America: benchè, per non aver essa nè ottimati nè clero, assai meno
necessaria vi sarà tal custodia; poichè tutti non cercano mai di pregiudicare al
dritto di tutti. La libertà dunque nasce, e vièri promulgata conservata e difesa
da quegli uomini principalmente,  che  insegnando  ai  popoli  i  loro  diritti,
somministrano loro gli opportuni mezzi al difenderli. La libertà in oltre, è  la
sola e vera esistenza di un popolo; poichè di tutte le cose grandi operate dagli
uomini la ritroviamo sempre esser fonte. In Roma dunque ed  in  Londra  erano  e
sono necessariamente illuminati e sovrani oratori quegli uomini, cui con sì  bel
privilegio la libertà destinava e destina a stabilire conservare  ed  accrescere
le più sacre e legittime prerogative di tutti. Ma fra noi popoli servi, che  non
abbiamo tribuni, chi altri mai ci potrà insegnare a conoscere i nostri  diritti,
a ripigliarcegli, e a difenderli, se ciò  gli  scrittori  non  fanno?  e  se  le
lettere, più che ad ogni altra cosa, a questa non giovano; se anzi, fattesi esse
ministre di falsità e di lordura, sotto un aspetto pur tanto diverso dalla  loro
naturale istituzioni primitiva, si veggono appiè del trono in un  col  servaggio
nel fango bruttate; non debbono elle giustamente venir reputate dai  popoli  per
una delle più fetide pesti delle lor società? le sacre  lettere,  che  di  tanto
traviate, riduconsi pure  ad  insegnare  laudare  e  proteggere  il  falso,  con
quell'arte e lusinga così possente ognora  su  gli  uomini  tutti,  la  elegante
eloquenza. Ciascuno militi nel mondo sotto le proprie insegne. L'interesse e  lo
scopo dei principi si è il comandare quanto più essi possono; e, per ottener tal
vittoria, incontro ai popoli schierano l'ignoranza e gli eserciti. L'interesse e
lo scopo dei popoli, (e il solo degno di loro) si è, o dev'essere, il valersi di
tutte le proprie facoltà pel maggior vantaggio di ciascun individuo e di  tutti;
ma a questo alto scopo manifestamente si oppone il cieco obbedire  ad  un  solo.
Dunque, infin che venga quel giorno, in  cui  contra  i  principeschi  satelliti
schierare si possano degli  uomini  cittadini,  e  distruggerli,  incontro  alla
principesca ignoranza in copia schierar vi si debbono arditi e veraci scrittori,
che ai tremanti loro conservi insegnino a farsi uomini e  cittadini;  e  che  ai
tremanti principi ricordino, che, per se soli, degli uomini tutti i  minori  son
essi. Gli arditi e veraci scrittori son dunque gli onorati, naturali  e  sublimi
tribuni dei non liberi popoli. Eletti a così alto incarico dalla sola forza  del
natural loro impulso, sotto mille forme diverse, ma tutte calde  convincenti  ed
energiche, appresentano e scolpiscono nel cuor di quei popoli l'amor  del  vero,
del grande, dell'utile, del retto,  e  della  libertà,  che  necessariamente  da
questi tutti deriva. Il teatro, la storia, i  poemi,  l'eloquenza  oratoria,  le
lettere tutte in  somma,  e  sotto  gli  aspetti  tutti,  una  vivissima  scuola
divengono di virtù, e di libertà. Proibiti, è vero, e impediti,  e  perseguitati
verranno tai libri; ma quindi letti saranno,  e  meditati,  e  giovevoli.  Tutto
penetra nei presenti tempi; e se finora le verità tutte non  si  sono  fatte  la
dovuta strada, si dee ascrivere al timore, o al  non  bastante  ingegno  di  chi
assunto si era di svelarle. Ma principalmente ascrivere si debbe questo  indugio
di verità e di luce, a un deplorabile errore di alcuni moderni sommi  scrittori,
che licenziosi e non liberi,  anzi  degni  fabri  di  servitù,  il  loro  ardire
piuttosto rivolgeano ad offendere con laidezze i  costumi,  come  se  abbastanza
corrotti non fossero; ovvero tutte le loro deboli forze rivolgeano  a  schernire
ad abbattere una religione per la sua fievolezza  e  vecchiaja  già  vinta;  una
religione, i di cui  abusi  non  possono  nuocere  senza  il  principe  che  gli
acconsenta e fomenti; e i di cui abusi nuocono sempre  assai  meno  di  lui.  Ma
questi veri tribuni-scrittori, tanto più alto ufficio  si  assumerebbero,  e  ne
verrebbero a conseguire  una  gloria  tanto  maggiore  a  quella  degli  antichi
tribuni, quanto a ciò eleggendosi da se stessi, non ad un solo popolo  intendono
di giovare, ma ai popoli tutti; non ai loro soli coetanei, ma  alle  più  remote
generazioni. E da questo aspetto delle lettere (nuovo affatto per noi, ma antico
per esse, e sacro, e solo veramente legittimo e delle lettere degno) nascerne di
necessità col tempo ne dovrebbe  un  nuovo  aspetto  di  governi  e  di  popoli.
L'opinione è la innegabile signora del mondo.  L'opinione  è  sempre  figlia  in
origine di una tal qual persuasione, e non mai della  forza.  Ora,  chi  negarmi
ardirà, che gli eccellenti scrittori non siano stati sempre assai  più  fabri  e
padroni dell'opinione a lungo  andare,  che  i  principi?  Ragionano  quelli,  e
sforzano  questi:  ma  la  verità,  allorchè   vien   presentata   sotto   forme
intelligibili da ogni classe di uomini, può penetrare in ogni  uomo,  e  diventa
ella quindi propria di tutti: all'incontro la forza del principe,  che  per  via
del timore penetra pur anche nel cuore di tutti, e l'abborrimento e la rabbia vi
genera, in chi sta ella riposta questa sì temuta forza, fuorchè  nel  volere  di
tutti, o dei più? Ora, io domando; Come potrà esser mai, che i tutti, od i  più,
conoscendo essi appieno la ragione ed il vero, vorranno pure far male, paura,  e
danno a se stessi, per giovare ad un solo? il qual  uno,  dalla  stessa  ragione
vien loro rappresentato e dimostrato pel loro  primo  oppressore  e  nemico:  ed
impotente, e sprezzabile, e risibil nemico, ogniqualvolta i tutti, od i più, con
la loro ignoranza e cecità non lo  avvalorino  essi  soli.  Tali  per  l'appunto
venivano reputati i re da ogni più infimo popolano di  Roma  nei  tempi  sublimi
della repubblica:  e  di  un  così  retto  giudizio  cagione  sola  ne  era  pur
l'opinione, la quale, per via di libertà e dei tribuni, era stata infino nei più
infimi felicemente trasfusa. La ragione dunque e la verità, per via di scrittori
penetrando infino al più infimo di noi, tosto verremo a riguardare  i  re  tutti
per quello appunto ch'ei sono. E in  una  moltitudine  d'uomini,  dal  veramente
conoscere i proprj diritti al ripigliarseli e difenderli, egli è  brevissimo  il
passo. Ma tanta, a parer mio, può essere l'influenza degli eccellenti  scrittori
su la opinione, ch'io ardisco asserire, che se Roma, oltre  i  salutari  censori
che tanto l'accrebbero, e tanto ne prolungarono là virtù e la vita, avesse anche
instituito con grandi onori un magistrato composto  dei  più  sublimi  scrittori
riconosciuti già tali, e consacrati d'allora in poi unicamente allo scrivere;  e
se, mostrando così di farne grandissima stima, avesse Roma rivolto una parte dei
sublimi naturali ingegni a ricercare la gloria scrivendo; così fatti  magistrati
scrittori, coi libri loro più durevoli e convincenti che le tribunizie  concioni
nel foro, avrebbero combattuto in tanti modi e con sì  forti  armi  il  nascente
lusso, la insaziabile avidità d'impero, la venalità dei magistrati, e tutti  gli
altri abusi in  somma  che  a  precipitosa  rovina  la  traevano,  che  la  vera
repubblica sarebbe forse durata assai più. E di grazia si  rifletta,  che  se  a
Cesare già oltre il Rubicone varcato altro più non si poteva  opporre  che  armi
civili, o servile obbedienza; a Cesare giovinetto ancora, agli  individui  degli
eserciti suoi, come altresì a Mario a Silla ed ai loro eserciti,  e,  più  tempo
addietro, alle violenti risse dei Gracchi; a  tutte  queste  rovinose  pesti  si
sarebbe forse potuta vittoriosamente opporre la forza della  sana  opinione,  se
maestrevolmente ella fosse stata conservata,  rinnovellata,  e  corroborata  dai
continui ed alti insegnamenti della ragione e del vero, che sotto infinite forme
fatti penetrare dai molti eccellenti scrittori fin nel più infimo  cittadino  di
Roma, tutti nel dritto sentiero rattenuti più a lungo gli avrebbero. E  si  noti
per cosa  certissima,  che  la  influenza  degli  scritti,  allorchè  tendono  a
rinnovare o confermare una sana opinione, riesce molto superiore al poter  delle
leggi; appunto perchè il libro cortesemente soggioga col solo convincere,  e  la
legge  duramente  fa  forza  coll'assolutamente  costringere.   Io   perciò   mi
riprometterei piuttosto di pervenire più brevemente e efficacemente a  innestare
nel cuore di una moltitudine una qualunque verità, porgendogliela replicatamente
per via di diletto in una teatrale rappresentazione da tutti intesa  e  gustata,
che non per  via  di  una  diretta  concione,  e  molto  meno  per  via  di  una
costringente, ancor che giusta e legittima legge. La ragione  ed  il  vero  sono
quei  tali  conquistatori,  che,  per  vincere   e   conquistare   durevolmente,
nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni
diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma  la  sana
filosofia e i moderati governi, coi libri.



CAPITOLO UNDECIMO.

ESORTAZIONE A LIBERAR LA ITALIA DAI BARBARI.(9)

Ma, tra quante schiave contrade nella Europa rimiro, nessuna  al  nuovo  aspetto
delle lettere potrebbe più facilmente (a parer mio) assumere  un  nuovo  aspetto
politico, che la nostra Italia. Non so, se l'esservi io nato di ciò mi  lusinga:
ma, ragionando coi fatti,  codesta  penisoletta  è  pur  quella,  che  da  prima
conquistava con l'armi quasi tutto il rimanente del mondo allora  conosciuto,  e
che, conquistando, libera nondimeno ad un tempo  rimanea;  esempio  unico  nelle
storie. Ed era pure la stessa Italia, quella che,  più  secoli  dopo,  tutto  di
rimanente di Europa illuminava colle lettere e scienze,  ricovrate,  a  dire  il
vero, di Grecia, ma ben altrimenti oltre  ai  monti  trasmesse,  da  quelle  che
d'oltremare ricevute si fossero. Ed è  pur  dessa,  che  il  rimanente  d'Europa
ringentiliva dappoi con tutte le divine belle arti,  più  assai  riprocreate  da
lei, che imitate. Ed è  pur  quella  in  fine,  che  stanca,  vecchia,  battuta,
avvilita, e di tutte altre superiorità dispogliata, tante  altre  nazioni  ancor
governava, e atterriva per tanti anni, colla sola astuzia ed ingegno  tributarie
rendendole. Questi quattro modi con cui la Italia  signoreggiava  tutte  l'altre
regioni, abbracciano tutte le  umane  facoltà  e  virtù;  e  fanno  indubitabile
vivissima prova, che fra i suoi abitatori vi è stata in  ogni  tempo  una  assai
maggior copia di quei bollenti animi, che spinti da impulso naturale  la  gloria
cercavano nelle altissime imprese; e che diversa, secondo i  diversi  tempi,  ma
sempre pur somma riuscivano  a  procacciarsela.  Che  più?  la  moderna  Italia,
nell'apice della sua viltà e nullità, mi  manifesta  e  dimostra  ancora  (e  il
deggio pur dire?) agli  enormi  e  sublimi  delitti  che  tutto  dì  vi  si  van
commettendo, ch'ella, anche  adesso,  più  che  ogni  altra  contrada  d'Europa,
abbonda di caldi e ferocissimi spiriti, a cui nulla manca per  fare  alte  cose,
che il campo ed i mezzi. Ma il primo dei mezzi ad ogni alto ben fare essendo  la
verità e la ragione  appien  conosciute  e  fortemente  sentite,  agli  italiani
scrittori si aspetta per ora di procacciare ai loro conservi per via di  un  tal
mezzo tutti gli altri: alla giusta e nobile ira dei  drittamente  rinferociti  e
illuminati popoli si aspetta poscia il procacciarsi e campo e vittoria. L'Italia
è dunque stata sotto tutti gli aspetti ciò che non sono finora mai state l'altre
regioni del globo. E ciò attesta, che gli uomini suoi, considerati come semplici
piante, di più robusta tempra vi nasceano: e le piante,  nello  stesso  terreno,
rinascono pur sempre le stesse, ancorchè per alcun tempo le disnaturi a forza il
malvagio cultore. Parmi in oltre, che l'Italia dal presente suo  stato  politico
possa, più che niun'altra regione di Europa, ricever  favore.  Divisa  in  molti
principati, e debolissimi tutti, avendone uno nel suo bel centro,  che  sta  per
finire, e che occupa la miglior parte di essa, non  potrà  certamente  andare  a
lungo, senza riunirsi almeno sotto  due  soli  principi,  che  o  per  matrimonj
dappoi,  o  per  conquista,  si  ridurranno  in  uno.  Quell'uno  poscia,   come
potentissimo, oltre ogni limite abusando anche in casa del suo eccessivo potere,
dagli Italiani (che allora riuniti tutti ed illuminati avranno  imparato  a  far
corpo ed a credersi un solo popolo) dagli  Italiani  riuniti  verrà  poi  allora
quell'uno, e la sua fatale unità, abolito, e per molte generazioni  abborrito  e
proscritto. L'Italia in oltre, ha sempre racchiuse in se  stessa  (più  per  non
scordarsene affatto il nome, che per goderne i vantaggi) alcune repubbliche,  le
quali benchè affatto lontane da ogni vera libertà, avranno però sempre insegnato
agli Italiani, che esistere pur si può senza re; cosa, di cui la colta ma troppo
guasta Francia non ardirà forse mai persuadersi(10). L'Italia  non  è  spogliata
affatto, nè lo è stata mai, di un certo amore del grande e  del  bello,  che  ad
altro manifestar non potendosi, traluce pure nei suoi moderni sontuosi  edifizj,
così privati che pubblici. Serbano gl'Italiani una certa fierezza di  carattere,
ancorchè mista di servile viltà; e misto al timore della oppressione serbano  un
certo generoso implacabile sdegno contro all'oppressore; onde essi incensano sì,
e si prosternano all'assoluto potere,  ma  lo  esecutore  di  esso  ne  sfuggono
sempre, ed in cuor l'abborriscono. Gl'Italiani in ciò sono affatto  diversi  dai
Francesi.  Questi,  come  nazion  militare,  con  una  minore  apparente   viltà
corteggiano il re, ma con assai maggiore avvilimento il principato  vezzeggiano,
ed il  principe  adorano.  Tutti  questi  sovrammentovati  piccioli  sintomi  di
addormentato, ma non  estinto  grand'animo,  credere  mi  fanno,  e  sperare,  e
ardentissimamente bramare, che gl'Italiani siano per essere i primi  a  dare  in
Europa questo nuovo, dignitoso, e veramente importante aspetto alle lettere;  ed
i primi (come è ben giusto) a ricevere poscia  da  esse  un  nuovo  e  grandioso
aspetto di politica durevole società. E il credere, o il dire, che quanto già  è
stato  fatto  dagli  uomini,  non  si  possa  più  da  altri  uomini  rifare,  e
massimamente in quello stesso terreno, è questo un assurdo e debole  assioma;  è
questa la solita e ottusa arme  dei  timidi  e  vili  ingegni,  che  impossibile
affermano tutto ciò ch'essi non possono, e la loro inferma vista  non  estendono
più là, che a una o due sole generazioni di uomini. Ma, così certamente non vede
colui che sente e riflette davvero. Questi, se  egli  romano  nasce  nei  divini
tempi dei Decj e dei Regoli, già piange  in  se  stesso  nel  vedere  i  lontani
corrotti nepoti di quelli, che, per la successione naturale delle cose, peggiori
nascendo, fra pochi secoli la repubblica in perdizion manderanno. Ma, se egli al
contrario, nella presente Roma si trova esser nato, si allegra ed innalza in  se
stesso, nel rimirare col tempo i Decj risorti ed i Regoli; stante che tutto  ciò
che ha potuto essere, può ritornare e sarà: e al colmo della sua nullità essendo
giunta quasi oramai la moderna Italia, non potrà fra breve se  non  retrocedere.
Io dunque finirò questo capitolo con un assioma affatto diverso  da  quello  dei
più; ed è: Che la virtù è quella tal cosa, più ch'altra, cui il molto  laudarla,
lo insegnarla,  amarla,  sperarla,  e  volerla,  la  fanno  pur  essere;  e  che
null'altro   la   rende   impossibile,   quanto   l'obbrobriosamente   reputarla
impossibile.



CAPITOLO DUODECIMO.

RICAPITOLAZIONE DEI TRE LIBRI, E CONCLUSIONE DELL'OPERA.

Ma, giunto son io a quel segno oramai, oltre cui questo presente  mio  tema  non
comporta il trascorrere. Onde, tutti gl'immensi effetti, che dalle qui  proposte
lettere e dai loro scrittori e leggitori  deriverebbero,  immaginare  li  lascio
dalla fervida fantasia, e dal dritto umano  desiderio  di  chi  caldamente  avrà
letto questo mio libricciuolo; il quale  da  nessun'altra  dottrina  nè  impulso
nasceva, fuorchè dall'amor del bello,  dell'utile,  e  del  retto.  Riepilogando
intanto in brevissime parole il contenuto di questi tre libri, conchiudo: Che le
sublimi lettere (che altro non possono essere  fuorchè  la  verità  sotto  mille
diverse forme rappresentata) in tutto si assomigliano nelle loro vicende ai veri
virtuosi costumi, di cui nel principato si parla. Questi ogni giorno  si  vedono
con risibili  leggi  venir  comandati  dal  principe,  mentre  che  egli,  colla
influenza del principato, tacitamente sempre li corrompe e distrugge. Così,  col
protegger le lettere, risibilmente ed invano comanda il principe agli  scrittori
di farsi sublimi; perchè la mercede che da esso ritraggono,  necessariamente  da
ogni vera sublimità di pensieri gli svia; e  quindi  le  vere  lettere  invilite
rimangono, o poste in silenzio. Che se elle schiettamente parlare  potessero  ed
ardissero, elle sì, più che il principe, riprocreare saprebbero col  tempo  quei
virtuosi costumi, che il principe comanda e non vuole, nè può voler mai,  poichè
da essi soli dee  nascere  la  intera  cessazione  del  principato.  Il  moderno
principe dunque, il quale proteggendo le lettere le impedisce, fa l'arte sua,  e
la propria debolezza appieno conosce. Il letterato che proteggere si  lascia,  o
egli propria forza non ha, ed è nato allora per essere letterato di principe;  o
l'ha, e non l'adopera, e traditor del vero, dell'arte, e di se, tanto più merita
allora vitupéro, quanto era maggiore la gloria  che  egli  acquistata  sarebbesi
sentendo e adoprando la sua propria forza. Dovendo, in  somma,  lo  scopo  delle
lettere essere il diletto bensì, ma  non  mai  scompagnato  dall'utile;  non  vi
potendo esser utile, dove non è verità; e  ogni  moral  verità  essendo  per  se
stessa nemica d'ogni potere illegittimo; conseguenza chiarissima e semplicissima
da tutto ciò ne risulta: Che le vere lettere  fiorire  non  possono  se  non  se
all'aura di libertà. La pubblica  libertà,  là  dove  ella  è  già  collocata  e
stabilita su la base di savie leggi, proteggerle dovrebbe, e  il  potrebbe  ella
sola senza farle in nulla scapitare: ma forse,  un  libero  governo  non  se  ne
sentendo un bisogno così incalzante, quanto ne l'hanno (senza punto  sentirselo)
i popoli servi, disgraziatamente la pubblica libertà non protegge le lettere,  o
debolissimamente  le  protegge.  La  privata  libertà  politica,  e  civile,   e
domestica, dell'individuo scrittore non bisognoso d'altro che  di  gloria,  vien
dunque veramente ad essere  la  prima,  la  sola,  la  incalzante  e  caldissima
protettrice delle vere lettere: ed essa può sola  procreare  sublimi  scrittori,
che degni ad un tempo si facciano del sublime nome di cittadini.

FINE

Ignoscent, si quid peccavero stultus, amici.


NOTE:

(1) Abbandonato con poco mio onore il proprio scudo. ORAZIO, LIB. II. OD. VII.

(2) L'audace povertà mi spinse a far versi: ma se io mi ritrovava  agiato,  qual
elleboro sarebbe mai bastato a guarirmi di tal mattezza,  di  non  preferire  il
dolce sonno al far versi? ORAZIO, LIB. II. EPIST. II. VER. 51.

(3) Giuro, che nè i Tarquinj, nè uomo altro nessuno lascerò io giammai  in  Roma
regnare. LIVIO, LIB. I.

(4) L'opera meditata, e accurata, cresce fra i posteri; le facili e canore baje,
col loro stesso scrittore si spengono. TACITO. ANN. LIB. IV.

(5) Altri popoli avranno più  eccellenti  oratori,  che  non  ebbero  i  Romani.
VIRGILIO, LIB. VI, VERS 850.

(6) I Tarquinj re, VIRGILIO, LIB VI, VERS. 818.

(7) E il superbo animo di Bruto vendicatore. VERS. 819.

(8) E l'insaziabile desiderio di lode, VIRGILIO, LIB VI, VERS. 824.

(9) Così intitolò il divino Machiavello il suo ultimo capitolo del  PRINCIPE;  e
non per altro si è qui ripetuto, se non per mostrare che in diversi modi si  può
ottenere lo stesso effetto.

(10) Questo libro era scritto nel 1784.

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