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Alessandro Manzoni - Del romanzo e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione

Alessandro Manzoni


Del romanzo e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione


Intelligo te, frater, alias in  historia  leges  observandas  putare,  alias  in
poemate. Cic., De legibus I, 1.

[Capisco, fratello, che tu pensi che altre siano le  leggi  da  osservare  nella
storia, altre nel componimento poetico.]

dei   coi   quei   vai   nei



AVVERTIMENTO

L'autore sarebbe in un bell'impegno se dovesse sostenere che le dottrine esposte
nel Discorso che segue, vadano d'accordo con la Lettera  che  precede.  Può  dir
solamente che, se ha mutato opinione, non fu per tornare indietro. Se poi questo
andare avanti sia stato un progresso nella verità, o un principizio nell'errore,
ne giudicherà il lettore discreto, quando gli paia che la materia  e  il  lavoro
possano meritare un giudizio qualunque.

'Allude alla Lettera a Monsieur Chauvet, che, nell'edizione  delle  Opere  varie
(Milano, Redaelli, 1845) cui  il  Manzoni  qui  fa  riferimento,  era  collocata
immediatamente prima di questo Discorso.

196

DEL ROMANZO  STORICO  E,  IN  GENERE,  DE  I  COMPONIMENTI  MISTI  DI  STORIA  E
D'INVENZIONE

PARTE PRIMA

Il romanzo storico  va  soggetto  a  due  critiche  diverse,  anzi  direttamente
opposte; e siccome esse riguardano, non già qualcosa d'accessorio, ma  l'essenza
stessa d'un tal componimento; così l'esporle e l'esaminarle ci pare una bona, se
non la migliore maniera d'entrare, senza  preamboli,  nel  vivo  dell'argomento.
Alcuni dunque si lamentano che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o
in quella parte d'un romanzo storico, il vero  positivo  non  sia  ben  distinto
dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a mancare uno degli  effetti
principalissimi  d'un  tal   componimento,   come   è   quello   di   dare   una
rappresentazione vera della storia. Per mettere in chiaro quanta ragione possano
avere, bisognerà dire qualcosa di più di quello che dicono; senza però dir nulla
che non sia implicito e sottinteso in quello che dicono. E noi crediamo  di  non
far altro che svolgere i motivi logici di quel loro  lamento,  facendoli  parlar
così al paziente, voglio dire all'autore: «L'intento del vostro  lavoro  era  di
mettermi davanti agli occhi, in una forma nova e speciale, una storia più ricca,
più varia, più compita di quella che si trova nell'opere a cui si dà questo nome
più comunemente, e come per antonomasia. La storia che aspettiamo da voi  non  è
un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per  eccezione,  di
qualche avvenimento straordinario d'altro genere; ma  una  rappresentazione  più
generale dello stato dell'umanità in un tempo, in  un  luogo,  naturalmente  più
circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori  di  storia,
nel senso più usuale del vocabolo. Corre  tra  questi  e  il  vostro  la  stessa
differenza, in certo modo, che tra una carta geografica, dove  sono  segnate  le
catene de' monti i fiumi, le città, i borghi,  le  strade  maestre  d'una  vasta
regione,  e  una  carta  topografica,  nella  quale,  e  tutto  questo   è   più
particolarizzato (dico quel tanto che ne può entrare in  uno  spazio  molto  più
ristretto di paese), e ci sono di più segnate  anche  le  alture  minori,  e  le
disuguaglianze ancor meno sensibili del terreno, e i borri, le gore, i villaggi,
le case isolate, le viottole. Costumi, opinioni, sia generali, sia particolari a
questa o a quella classe d'uomini; effetti privati  degli  avvenimenti  pubblici
che si chiamano più propriamente storici, e delle leggi,  o  delle  volontà  de'
potenti, in qualunque maniera siano manifestate; insomma tutto ciò che ha  avuto
di più caratteristico, in tutte le condizioni  della  vita,  e  nelle  relazioni
dell'une con l'altre, una data società, in un dato tempo, ecco ciò che vi  siete
proposto di far conoscere, per quanto siete arrivato, con diligenti ricerche,  a
conoscerlo voi medesimo. E il diletto che  vi  siete  proposto  di  produrre,  è
quello  che  nasce  naturalmente   dall'acquistare   una   tal   cognizione,   e
dall'acquistarla per mezzo d'una rappresentazione,  dirò  così,  animata,  e  in
atto. «Posto ciò, quando mai il confondere è stato un mezzo  di  far  conoscere?
Conoscere è credere; e per poter credere, quando ciò che mi viene  rappresentato
so che non è tutto ugualmente vero, bisogna appunto ch'io possa  distinguere.  E
che? volete farmi conoscere delle realtà, e non mi date il mezzo di riconoscerle
per realtà? Perché mai avete voluto che queste realtà avessero una parte  estesa
e principale nel vostro componimento? perché quel titolo di storico, attaccatoci
per distintivo, e insieme per allettamento? Perché sapevate benissimo  che,  nel
conoscere ciò che è stato davvero, e come è  stato  davvero,  c'è  un  interesse
tanto vivo e potente, come speciale. E dopo  aver  diretta  e  eccitata  la  mia
curiosità  verso  un  tale  oggetto,  credereste  di  poterla   soddisfare   col
presentarmene uno che potrà esser quello, ma potrà anche essere un  parto  della
vostra inventiva? «E notate che, col farvi  questa  critica,  intendo  di  farvi
anche un complimento: intendo di parlar con uno scrittore che sa e sceglier bene
i suoi argomenti, e maneggiarli bene. Se si trattasse d'un romanzo noioso, pieno
di fatti ordinari, possibili in  qualunque  tempo,  e  perciò  non  notabili  in
veruno, avrei chiuso il libro senza curarmi d'altro. Ma appunto perché il fatto,
il personaggio, la circostanza, il modo, le conseguenze  che  mi  rappresentate,
attirano e trattengono fortemente la mia attenzione, nasce in me tanto più vivo,
più inquieto e, aggiungo, più ragionevole il desiderio di sapere se devo vederci
una manifestazione  reale  dell'umanità,  della  natura,  della  Provvidenza,  o
solamente un possibile felicemente trovato da  voi.  Quando  uno  che  abbia  la
riputazione di piantar carote, vi racconti  una  novità  interessante,  dite  di
saperla? rimanete appagato? Ora voi  (quando  scrivete  un  romanzo,  s'intende)
siete simile a lui, cioè uno che racconta ugualmente il vero e il  falso;  e  se
non mi fate distinguere l'uno  dall'altro,  mi  lasciate  come  mi  lascia  lui.
«Istruzione e diletto erano i vostri due intenti; ma sono appunto  così  legati,
che, quando non arrivate l'uno, vi sfugge anche l'altro; e il vostro lettore non
si  sente  dilettato,  appunto  perché  non  si  trova   istruito.»   Potrebbero
sicuramente dir la cosa meglio; ma, anche dicendola così, bisogna confessare che
hanno ragione. Ci sono però, come abbiamo detto da principio, degli  altri,  che
vorrebbero tutt'il contrario. Si lamentano in vece che,  in  questo  o  in  quel
romanzo storico, in questa o in quella  parte  d'un  romanzo  storico,  l'autore
distingua espressamente il vero positivo dall'invenzione: la qual cosa,  dicono,
distrugge quell'unità che è la condizione Vitale di questo,  come  d'ogni  altro
lavoro dell'arte. Cerchiamo di vedere un po' più in particolare su cosa si fondi
anche quest'altro lamento.

«Qual è, mi par che vogliano dire, la forma essenziale del romanzo  storico?  li
racconto; e cosa si può immaginare di più contrario all'unità,  alla  continuità
dell'impressione d'un racconto, al nesso, alla cooperazione, al  coniurat  amice
di ciascheduna parte nel produrre un effetto  totale,  che  l'essere  alcune  di
queste parti presentate come vere, e altre  come  un  prodotto  dell'invenzione?
Queste, se avete saputo inventare a modo, saranno affatto simili a quelle,  meno
appunto l'esser vere, meno la qualità speciale, incomunicabile, di  cose  reali.
Ora, col manifestare una tal qualità in quelle che l'hanno, voi levate al vostro
racconto la sua unica ragion d'essere, sostituendo a  ciò  che  i  diversi  suoi
materiali  hanno  d'omogeneo,  di  comune,  ciò   che   hanno   di   repugnante,
d'inconciliabile. Dicendomi espressamente, o facendomi  intendere  in  qualunque
maniera, che la tal cosa è di fatto, mi forzate a riflettere (e cos'importa  che
non sia questa la vostra intenzione?) che l'antecedenti non  lo  erano,  che  le
susseguenti non lo saranno; che a quella conviene l'assentimento che  si  dà  al
vero positivo, e che a queste non può convenire se non quell'altro assentimento,
di tutt'altro genere, che si dà al verosimile, e quindi, che la forma narrativa,
applicata ugualmente all'una e all'altre,  è  per  quella  la  forma  propria  e
naturale, per l'altre una forma convenzionale e  fattizia:  che  vuoi  dire  una
forma contradittoria per l'insieme. «E vedete se la contradizione potrebbe esser
più strana. Quest'unità, quest'omogeneità dell'insieme, la riguardate anche  voi
come una cosa importantissima, giacché, dall'altra  parte,  fate  di  tutto  per
ottenerla. Quella lode che 0razio dà all'autore dell'Odissea: E  mentisce  così,
col falso il vero  Sa  in  tal  guisa  intrecciar,  che  corrisponde  Sempre  al
principio il mezzo, al mezzo il fine. fate anche voi  di  tutto  per  meritarla,
scegliendo e dal reale e dal possibile le cose che possano accordarsi meglio tra
di loro. E con qual fine, se  non  perché  la  mente  del  lettore,  soggiogata,
portata via dall'arte, possa, diremo così, accettarle per una cosa sola come  le
sono presentate? E venite poi a disfare voi medesimo il vostro lavoro, separando
materialmente ciò che avete formalmente riunito! Quell'illusione che è lo sforzo
e il premio dell'arte, quell'illusione così difficile a prodursi e a mantenersi,
la distruggete  voi  medesimo,  nell'atto  del  produrla!  Non  vedete  che  c'è
ripugnanza tra il concetto e l'esecuzione? che con de' pezzetti di  rame  e  de'
pezzetti di stagno, congegnati insieme, non si fa una statua  di  bronzo?»  E  a
questi cosa risponderemo? In verità, non trovo che si possa dir  altro,  se  non
che hanno ragione. Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena
curiosa, alla quale era stato presente in casa d'un giudice di pace  in  Milano,
val a dire molt'anni fa. L'aveva  trovato  tra  due  litiganti,  uno  de'  quali
perorava caldamente la sua causa, e quando costui ebbe finito,  il  giudice  gli
disse: avete ragione. Ma, signor giudice, disse  subito  l'altro,  lei  mi  deve
sentire anche me, prima di decidere. È troppo giusto, rispose il  giudice:  dite
pur su, che v'ascolto attentamente. Allora quello si mise con tanto più  impegno
a far valere la sua causa; e ci riuscì così bene,  che  il  giudice  gli  disse:
avete ragione anche voi. C'era lì accanto un suo bambino di sette o ott'anni, il
quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva lasciato di  stare
anche attento al contradittorio, e a quel punto, alzando un  visino  stupefatto,
non senza un certo che d'autorevole, esclamò:  ma  babbo!  non  può  essere  che
abbiano ragione tutt'e due. Hai ragione anche tu, gli disse il giudice. Come poi
sia finita, o l'amico non lo raccontava, o m'è uscito di mente; ma è da  credere
che il giudice avrà conciliate tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a
Tizio, quanto a Sempronio, che, se aveva ragione per una parte, aveva torto  per
un'altra. Così faremo anche noi. E lo faremo in parte con gli  argomenti  stessi
de' due avversari, ma per cavarne una conseguenza diversa e da quella degli uni,
e da quella degli altri. Quando voi, diremo ai primi,  pretendete  che  l'autore
d'un romanzo storico vi faccia distinguere in esso ciò che è stato realmente, da
ciò che è di sua invenzione, non avete certamente pensato se ci sia  la  maniera
di servirvi. Gli prescrivete l'impossibile, niente meno. E per esserne convinti,
basta che badiate un momento come queste cose devono esserci mescolate, affinché
possano far parte d'un racconto medesimo. Per circostanziare,  verbigrazia,  gli
avvenimenti storici, coi quali l'autore abbia legata la sua azione ideale (e voi
approvate dicerto, che in un romanzo storico entrino avvenimenti storici), dovrà
mettere insieme e circostanze reali, cavate  dalla  storia  o  da  documenti  di
qualunque genere, perché qual cosa potrebbe servir meglio a rappresentare quegli
avvenimenti nella loro forma vera,  e  dirò  così,  individuale?  e  circostanze
verosimili, inventate da lui, perché volete che vi dia,  non  una  mera  e  nuda
storia, ma qualcosa di più ricco, di più compito; volete che rifaccia  in  certo
modo le polpe a quel carcame, che è, in così  gran  parte,  la  storia.  Per  le
stesse ragioni, ai personaggi storici (e voi siete ben contento di trovare in un
romanzo storico de' personaggi storici) farà dire e fare, e cose che hanno dette
e fatte realmente, quand'erano in carne e ossa, e cose immaginate da  lui,  come
convenienti al loro carattere, e insieme  a  quelle  parti  dell'azione  ideale,
nelle quali gli è tornato bene di farli intervenire. E reciprocamente, ne' fatti
inventati da lui, metterà naturalmente circostanze ugualmente inventate, e anche
circostanze cavate da fatti reali di quel tempo e di  quel  luogo;  perché  qual
mezzo più naturale per farne azioni che abbiano potuto essere in quel tempo,  in
quel luogo? Così a' suoi personaggi  ideali  darà  parole  e  azioni  ugualmente
ideali, e insieme parole e azioni che trovi essere state dette e fatte da uomini
di quel luogo e di quel tempo: ben contento di poter rendere più  verosimili  le
sue idealità coi propri elementi del vero. E basta questo per farvi  vedere  che
non potrebbe fare tra queste  cose  la  distinzione  che  voi  gli  chiedete,  o
piuttosto non potrebbe tentar di farla, se non spezzando il racconto,  non  dico
ogni tanto, ma ogni momento, più volte in una pagina, non di  rado  in  un  solo
periodo, per dire: questo è positivo, cavato da memorie degne di fede, questo  è
di mia invenzione, ma dedotto da fatti  positivi,  queste  parole  furono  dette
realmente dal personaggio a cui le attribuisco, ma furono  dette  in  tutt'altra
occasione, in circostanze che non entrano nel mio romanzo, quest'altre che metto
in bocca a un personaggio immaginario, furono dette realmente da un uomo  reale,
ovvero, erano discorsi che correvano per le bocche di molti; e via  discorrendo.
Dareste voi a un componimento così fatto il nome di romanzo?  O  trovereste  che
meritasse un nome qualunque? O piuttosto si può egli concepire  un  componimento
così fatto? Forse mi direte che non v'è mai passato  per  la  mente  di  chieder
tanto. E lo credo;  ma  qui  si  tratta  di  vedere,  non  solo  cosa  esprimano
direttamente le vostre parole, ma anche cosa importino logicamente. Siano  molti
o pochi i casi in cui vorreste che l'autore vi facesse distinguere ciò  che  c'è
di reale nel suo racconto; foss'anche un caso solo; perché lo vorreste?  per  un
vostro capriccio? No, di certo, ma per una bonissima ragione,  e  l'avete  detta
voi: perché la realtà, quando non è  rappresentata  in  maniera  che  si  faccia
riconoscere  per  tale,  né  istruisce,  né  appaga.  Ed  è  forse  una  ragione
particolare a que' casi, o a quel  caso?  Tutt'altro:  è,  di  sua  natura,  una
ragione generale, comune a tutti i  casi  simili.  Se  dunque  vengono  altri  a
lamentarsi di  provare  lo  stesso  dispiacevole  effetto  in  altre  parti  del
componimento, non vi par egli che le loro  lagnanze  meritino  soddisfazione  al
pari delle vostre? Dovete dir di sì,  poiché  sono  fondate  su  quella  ragione
medesima: l'esigenza della realtà.  Vedete  dunque  che,  imponendo  al  romanzo
storico di farla distinguere o qua  o  là,  gi'imponete  in  sostanza  di  farla
distinguer per tutto: cosa impossibile, come ho  dimostrato,  o  piuttosto  v'ho
fatto osservare. Ecco ora cosa si può dire agli  altri:  Il  distinguere  in  un
romanzo storico la realtà dall'invenzione, distrugge, secondo voi,  l'omogeneità
dell'impressione, l'unità  del  l'assentimento.  Ma,  di  grazia,  come  si  può
distruggere ciò che non è? Non vedete che  questa  distinzione  si  trova  negli
elementi necessari e, dirò così, nella  materia  prima  d'un  tal  componimento?
Quando, per esempio, l'Omero1 del romanzo storico fa  entrare  nel  Wawerley  il
principe Odoardo, e il suo sbarco in Scozia, in  un  altro  componimento,  Maria
Stuarda, e la sua fuga dal castello di Lockleven; in un altro, Luigi  XI  re  di
Francia, e il suo soggiorno a Plessiz-lez-Tours; in un altro,  Riccardo  Cor  di
leone, e la sua spedizione in Terra Santa, e via discorrendo; non fa  nulla  dal
canto suo per avvertirvi che si tratta di persone reali e di fatti  reali.  Sono
loro  che  si  presentano  con  questo  carattere;  sono  loro  che   richiedono
assolutamente,  e  ottengono  inevitabilmente  quell'assentimento  sui  generis,
esclusivo, incomunicabile, che si dà alle  cose  apprese  come  cose  di  fatto:
assentimento  che  chiamerò  storico,  per  opporlo  all'altro,  ugualmente  sui
generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose apprese  come  meramente
verosimili, e che chiamerò assentimento poetico. Anzi, il  male  era  già  fatto
prima che que' personaggi comparissero in scena. Prendendo in  mano  un  romanzo
storico, il lettore sa benissimo che ci troverà  facta  atque  infecta2  e  cose
avvenute e cose inventate, cioè  due  oggetti  diversi  dei  due  diversi,  anzi
opposti assentimenti. E voi accusate l'autore di far nascere una tale discordia,
e gli prescrivete di mantenere nel corso dell'opera un'unità  ch'era  già  stata
portata via dal titolo! Forse mi direte, anche  voi,  ch'io  esagero  le  vostre
pretensioni, che l'esserci in una cosa degi'inconvenienti inevitabili non è  una
ragione di aggiungercene degli altri; che,  se  quell'omogeneità  d'assentimento
desiderata dall'arte non si può ottenere  così  interamente,  è  però  un  danno
gratuito il diminuirla,  che,  con  quell'avvertire  espressamente,  o  col  far
intendere che la tale o tal altra cosa è positivamente vera, l'autore fa nascere
degli assentimenti  storici,  opposti  all'intento  dell'arte,  dove  forse  non
nascerebbero. Può darsi; ma cosa potrebbe nascere in vece? Due cose sole, cioè o
l'una o l'altra di due cose, opposte  né  più  né  meno  all'intento  dell'arte:
l'inganno, o il dubbio. Può darsi, dico, che il  lettore,  se  non  fosse  stato
avvertito che la cosa raccontata era realmente avvenuta, l'avrebbe presa,  e  se
la sarebbe goduta per una bella invenzione poetica. Ma è  forse  a  questo,  che
l'arte aspira? Bello sforzo, in verità, bella operazione  dell'arte  quella  che
consistesse, non nell'ideare cose verosimili, ma nel  lasciar  ignorare  che  le
cose presentate da essa sono reali! E bell'effetto dell'arte, quello che dovesse
dipendere da un'ignoranza accidentale! giacché, se nell'atto che quel lettore si
sta godendo la supposta invenzione poetica, viene uno e gli dice: sappiate che è
un fatto positivo, cavato dal tal documento, ecco il pover'uomo  trasportato  di
peso dagli spazi della poesia nel campo della storia. L'arte è  arte  in  quanto
produce, non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in questo
senso, è non solo sensata, ma profonda quella  sentenza,  che  il  vero  solo  è
bello; giacché il verosimile (materia  dell'arte)  manifestato  e  appreso  come
verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale3, ma  un  vero
veduto  dalla  mente  per   sempre   o,   per   parlar   con   più   precisione,
irrevocabilmente:  è  un  oggetto  che  può  bensì   esserle   trafugato   dalla
dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno. Nulla può fare  che
una  bella  figura  umana,  ideata  da  uno  scultore,  cessi  d'essere  un  bel
verosimile: e quando la statua materiale, in cui era attuata,  venga  a  perire,
perirà bensì con  essa  la  cognizione  accidentale  di  quel  verosimile,  non,
certamente, la sua incorruttibile entità. Ma se uno, vedendo, da  lontano  e  al
barlume, un uomo ritto e fermo su un edifizio,  in  mezzo  a  delle  statue,  lo
prendesse per una statua anche lui, vi  pare  che  sarebbe  un  effetto  d'arte?
L'altra cosa che potrebbe nascere è che il lettore, non  avvertito  dall'autore,
che una o un'altra cosa, la quale eccita particolarmente la  sua  attenzione,  è
cosa di fatto, ma avvertito dalla natura o, per  dir  meglio,  dall'assunto  del
componimento, che può benissimo esser cosa di fatto, rimanga in dubbio, esiti; e
certo senza sua colpa, come contro sua voglia. Assentire, assentir  rapidamente,
facilmente, pienamente, è il  desiderio  d'ogni  lettore,  meno  chi  legga  per
criticare. E si assente con piacere, tanto al puro verosimile,  quanto  al  vero
positivo: ma, l'avete detto voi, con  assentimenti  diversi,  anzi  opposti:  e,
aggiungo io, con una condizione uguale in tutt'e due i casi; cioè che  la  mente
riconosca nell'oggetto che contempla, o  l'una  o  l'altra  essenza,  per  poter
prestare o l'uno o l'altro  assentimento.  Dissimulando  la  realtà  della  cosa
raccontata, l'autore sarebbe riuscito, secondo il vostro desiderio,  a  impedire
un assentimento storico, ma levando insieme al lettore il mezzo di prestarne uno
qualunque. Effetto  contrario  anch'esso,  quanto  si  possa  dire,  all'intento
dell'arte;  poiché,  qual   cosa   più   contraria   all'unità,   all'omogeneità
dell'assentimento, che la mancanza dell'assentimento? Ed è appunto per prevenire
e l'inganno di cui ho parlato sopra, e questa esitazione,  è  per  non  fare  al
lettore una miserabile marachella, o per servire a un suo  probabile  desiderio,
per non lasciar senza risposta una sua tacita interrogazione, che un autore  può
essere, in questo o in quel caso,  tentato  fortemente,  e  come  strascinato  a
distinguere espressamente la realtà: è perché  sente  quanto  manchi  alla  cosa
rappresentata, mancandole la manifestazione d'una qualità di questa  sorte.  Non
dico che faccia bene; non nego che faccia una cosa direttamente,  manifestamente
contraria all'unità del componimento: dico che  il  lasciar  lui  di  farla  non
servirebbe ad ottenere questa unità. Fa  come  il  povero  maestro  Iacopo4  del
Molière, che si presenta, ora con la giacchetta di cuoco, ora col camiciotto  di
cocchiere, perché l'Avaro, suo padrone, vuol che faccia tutt'e due i mestieri, e
lui ha accettata una tal  condizione.  Ricapitolando  ora  tutti  questi  pro  e
contro, ci pare di poter concludere: che hanno ragione e gli uni nel volere  che
la realtà storica sia sempre rappresentata come tale, e gli  altri,  nel  volere
che un racconto produca assentimenti omogenei, ma che hanno torto e  gli  uni  e
gli altri nel volere e questo e quell'effetto dal  romanzo  storico,  mentre  il
primo è incompatibile con la sua forma, che è la narrativa, il secondo co'  suoi
materiali, che sono eterogenei. Chiedono cose giuste, cose indispensabili; ma le
chiedono a chi non le può dare. Ma se fosse così, ci si  dirà  ora,  sarebbe  in
ultimo il romanzo storico che avrebbe torto per ogni verso. Questa è appunto  la
nostra tesi. Volevamo  dimostrare,  e  crediamo  d'aver  dimostrato,  che  è  un
componimento, nel quale riesce impossibile ciò che è necessario; nel  quale  non
si possono conciliare due condizioni essenziali, e non si può nemmeno  adempirne
una, essendo inevitabile in esso e una confusione repugnante alla materia, e una
distinzione repugnante alla forma un componimento, nel quale deve entrare  e  la
storia e la favola, senza che  si  possa  nè  stabilire,  nè  indicare  in  qual
proporzione, in quali relazioni ci devano entrare; un componimento insomma,  che
non c'è il verso giusto di  farlo,  perché  il  suo  assunto  è  intrinsecamente
contradittorio. Gli chiedon troppo; ma  troppo  in  ragion  di  che?  Della  sua
possibilità? Verissimo; ma ciò  appunto  dimostra  il  vizio  radicale  del  suo
assunto, perché, in ragione delle cose, chiedere  al  vero  di  fatto,  che  sia
riconoscibile, e chiedere a un racconto, che produca  assentimenti  omogenei,  è
chiedere quello che ci vuole per l'appunto.  Sono  due  cose  incompatibili,  ma
dove? Nel romanzo storico? Verissimo ancora: ma peggio per il  romanzo  storico,
perché, in sé, sono due cose fatte apposta per andare insieme.  E  se  ci  fosse
bisogno d'addurre le prove d'una tal verità, le troveremmo subito in uno de' due
generi di lavoro, che il romanzo storico contraffà e confonde,  voglio  dire  la
storia. Questa infatti si propone appunto di raccontare de' fatti  reali,  e  di
produrre per questo mezzo un assentimento omogeneo, quello che  si  dà  al  vero
positivo. Ma, potrà qui forse opporre qualcheduno, s'ottiene egli codesto  dalla
storia? Produce essa una serie d'assentimenti  risoluti  e  ragionevoli?  O  non
lascia spesso ingannati quelli che sono facili a credere, e dubbiosi quelli  che
sono inclinati a riflettere?  E  indipendentemente  dalla  volontà  d'ingannare,
quali sono le storie composte da uomini,  dove  si  possa  esser  certi  di  non
trovare altro che la verità netta e distinta? Certo, risponderemo,  non  mancano
nella storia fandonie, anzi bugie. Ma è colpa dello storico,  e  non  condizione
del componimento. Quando d'uno storico si dice che fa la frangia alle cose,  che
vi fa un pasticcio di fatti e  d'invenzioni,  che  non  si  sa  cosa  credergli,
s'intende fargli carico d'una cosa che aveva il mezzo di schivare. E infatti  il
mezzo c'era, sicuro quanto facile; giacché, qual cosa più facile che l'astenersi
dall'inventare? Vedete se vi pare che l'autore del romanzo storico possa far uso
di questo mezzo, per schivar, quanto è in lui, d'ingannare il lettore.  È  certo
ugualmente, che anche dallo storico più coscienzioso, più diligente, non s'avrà,
a gran pezzo, tutta la verità che si può desiderare, né così netta come  si  può
desiderare. Ma anche qui non è colpa dell'arte: è difetto della materia.  Perché
un'arte sia buona e ragionevole, non si richiede che  sia  propria  ad  ottenere
interamente e perfettamente il suo fine: non ce ne sono di tali.  Arte  buona  e
ragionevole è quella che, proponendosi un  fine  sensato,  adopra  i  mezzi  più
adattati a ottenerlo fin dove si può, i mezzi che sarebbero adattati a ottenerlo
interamente, ne'  limiti  delle  facoltà  umane,  quando  ci  fosse  la  materia
corrispondente. De' fatti reali, dello stato dell'umanità  in  certi  tempi,  in
certi luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta,
ma effettiva: ed è ciò che si propone la storia: intendo  sempre  la  storia  in
buone mani. Non arriva fin dove vorrebbe; ma non ne sta volontariamente indietro
un passo. Non supera, a gran pezzo, tutte le difficoltà; ma si  guarda  bene  di
crearne veruna. Vi lascia anch'essa qualche volta nel dubbio; ma  quando  ci  si
trova essa medesima. Anzi (perché a chi è nella strada  giusta,  tutto  viene  a
proposito),  anche  del  dubbio  la  storia  si  serve.  Non  solo  lo  confessa
apertamente, ma, all'occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di sostituirlo a
delle false persuasioni. Vi fa dubitare, perché ha  voluto  che  dubitaste;  non
come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi  insieme
ciò ch'era necessario a determinar l'assentimento. Nel  dubbio  provocato  dalla
storia, lo spirito riposa, non come al termine del suo  desiderio,  ma  come  al
limite  della  sua  possibilità:  ci  s'appaga,  dirò  così,  come  in  un  atto
relativamente finale, nel solo atto bono che gli sia dato di  fare.  Nel  dubbio
eccitato dal romanzo storico,  lo  spirito  in  vece  s'inquieta,  perché  nella
materia che gli è presentata vede la possibilità d'un atto ulteriore, del  quale
gli è nello stesso tempo creato il desiderio, e trafugato il  mezzo.  Credo  che
non ci sarà alcun autore di romanzi storici, o anche d'un solo romanzo  storico,
a  cui  non  sia  capitato  qualche  volta  di  sentirsi  domandare  se  il  tal
personaggio, il tal fatto, la  tale  circostanza  fosse  cosa  vera,  o  di  sua
invenzione. E credo ugualmente, che avrà detto tra sé: Ah  traditore!  sotto  la
forma d'una domanda innocente, tu mi fai una critica velenosa:  mi  protesti  in
fondo, che il libro t'ha lasciato, anzi t'ha dato il bisogno di  tirar  l'autore
per il mantello. So bene che è merito d'un libro il dar la volontà di sapere più
di quello che insegna; ma costì è un'altra faccenda. Le cose che tu desideri  di
sapere sono cose di cui  t'ho  parlato;  mi  chiedi,  non  d'aggiungere,  ma  di
disfare. Non sarà fuor di proposito l'osservare che,  anche  del  verosimile  la
storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente, perché lo  fa  nella
buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e  distinguendolo  così
dal reale. E lo può fare senza che ne sia offesa l'unità del  racconto,  per  la
ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte.  È  proposto,
motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo,
come nel romanzo storico. E non c'è  nemmeno  pericolo  che  ne  rimanga  offesa
l'unità del componimento, poiché qual legame più  naturale,  qual  più  naturale
continuità, per  così  dire,  di  quella  che  si  trova  tra  la  cognizione  e
l'induzione? Quando  la  mente  riceve  la  notizia  d'un  positivo  che  ecciti
vivamente la sua attenzione, ma  una  notizia  tronca  e  mancante  di  parti  o
essenziali, o importanti, è inclinata naturalmente a rivolgersi  a  cose  ideali
che abbiano con quel positivo, e una relazione generale di compossibilità, e una
relazione speciale  o  di  causa,  o  d'effetto,  o  di  mezzo,  o  di  modo,  o
d'importante concomitanza, che ci hanno dovuta avere le cose reali di cui non  è
rimasta la traccia. È una parte della miseria dell'uomo il non  poter  conoscere
se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una  parte
della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che
può sapere. La storia, quando ricorre al verosimile, non fa altro che  secondare
o eccitare una tale tendenza. Smette allora,  per  un  momento,  di  raccontare,
perché il racconto non è, in quel caso, l'istrumento  bono,  e  adopra  in  vece
quello dell'induzione: e in questa maniera, facendo ciò che  è  richiesto  dalla
diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò  che  conviene  al  suo  novo
intento. Infatti,  per  poter  riconoscere  quella  relazione  tra  il  positivo
raccontato e il verosimile proposto, è appunto una  condizione  necessaria,  che
questi compariscano distinti. Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta
d'una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati;
e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere,  fa
che si veda la ragione di pensarle riunite. La storia, dico, abbandona allora il
racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo  scopo
del racconto. Congetturando, come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua
unità. Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella del romanzo storico, che
erra tra due mire opposte? Ci si permetta di prevenir  qui  un'altra  obiezione,
ancor meno fondata, ma pure da temersi, perché, in tutte le occasioni  simili  a
questa, non manca mai. Si tratta del romanzo storico, ci si potrà dire, e voi lo
paragonate alla storia, dimenticando che sono due specie di  lavori,  che  hanno
due intenti, in parte simili bensì, ma in parte affatto diversi. Ci vuol poco  a
vedere che una tale obiezione non si fonda che su una  petizione  di  principio.
Certo, se il romanzo storico avesse un suo intento, più o meno diverso da quello
della storia, ma ugualmente logico, sarebbe una stravaganza l'opporgli l'intento
e le leggi della storia. Ma la questione è appunto se il romanzo  storico  abbia
un suo intento logico, e quindi ottenibile; e se possa, per  conseguenza,  avere
delle sue leggi particolari, ordinate a  quell'intento.  L'intento  d'un'arte  è
condizionato alla materia, o a ciascheduna delle  materie  che  adopra,  e  aver
veduto quali siano le condizioni ingenite e necessarie d'una materia, in un'arte
qualunque, è averlo veduto per tutte l'arti esistenti e possibili, che  vogliano
servirsi della materia medesima. Poiché il romanzo  storico  prende  come  parte
della sua materia quella che è  la  propria  e  natural  materia  della  storia,
bisogna bene che, per questa parte, sia messo a paragone con  essa.  Non  è  per
cagione del titolo, né della forma, né dell'assunto dell'opera, che della verità
storica non si può far altro di bono, se non  rappresentarla  più  distintamente
che si può; è per la natura della verità storica. Anche l'alchimia aveva un  suo
intento, diverso in parte da quello della chimica: non  le  mancava  altro,  che
d'ottenerlo, anch'essa supponeva che ci dovessero  essere  i  mezzi  adattati  a
quell'intento: non le mancava altro, che di trovarli. E  nulla  è  stato  più  a
proposito che l'opporle gli esperimenti e i raziocini della chimica,  in  quanto
lavoravano tutt'e due sui metalli. E si veda come sarebbe parso strano se quella
avesse risposto: Codesto anderà bene per la chimica, ma io mi chiamo l'alchimia.
Non ha il romanzo storico un intento suo proprio e insieme logico: ne  contraffà
due, come ho accennato. Certo, in questa proposizione - rappresentare, per mezzo
d'un'azione inventata, lo stato dell'umanità, in un'epoca passata e  storica,  -
c'è un'unità verbale  e  apparente.  Ma  la  cosa  che  sarebbe  necessaria  per
costituirne l'unità razionale, voglio dire la corrispondenza d'un tal mezzo  con
un tal fine, c'è gratuitamente e falsamente supposta. Il mezzo, e l'unico  mezzo
che uno abbia di rappresentare uno stato dell'umanità, come tutto ciò che ci può
essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto  quale  è
arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità  che  ha
potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha
trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di  esse;  è
in somma, di ripetere agli altri l'ultime e vittoriose parole che,  nel  momento
più felice dell'osservazione, s'è trovato contento di poter dire a sé  medesimo.
Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per storia, intendo  qui,  non  la
sola narrazione  cronologica  d'alcune  specie  di  fatti  umani,  ma  qualsiasi
esposizione ordinata e sistematica di fatti umani. È questa, dico, la storia che
intendo d'opporre ai  romanzo  storico;  e  che  s'avrebbe  ragione  d'opporgli,
quand'anche essa non fosse altro che possibile. Ma, del resto, chi non sa che ci
sono molti lavori di questo genere, e alcuni lodati con gran ragione? lavori, lo
scopo de' quali è appunto di far conoscere, non tanto il  corso  politico  d'una
parte dell'umanità, in un dato tempo, quanto il suo modo d'essere, sotto aspetti
diversi  e,  più  o  meno,  moltiplici.  Trovate  forse,  che,  in  questo  ramo
principalmente, la storia sia rimasta indietro da ciò che un tale intento poteva
richiedere, da ciò che i materiali cercati e  osservati  con  un  proposito  più
vasto e più filosofico, potessero dare?  che  abbia  trascurato  d'occuparsi  di
certi fatti, o d'ordini interi di fatti, de' quali non sentiva l'importanza? che
non abbia voluto osservare certe relazioni, certe dipendenze reciproche di certi
fatti, che pure aveva raccolti, e che ha riferiti, ma come estranei gli uni agli
altri, perché, a prima vista, possono parer tali? Gridatela; ma raccomandatevi a
lei, perché è la sola che possa riparare le sue  omissioni.  E  c'è  qualcheduno
che, vedendo in particolare questa possibilità di far meglio, intorno a uno o  a
un altro momento del passato storico, si metta a una nova ricerca? Bravo!  macte
animo! frughi ne' documenti di qualunque genere, che ne rimangano, e  che  possa
trovare; faccia, voglio dire, diventar documenti anche certi scritti, gli autori
de' quali erano lontani le mille miglia dall'immaginarsi che mettevano in  carta
de' documenti per i  posteri,  scelga,  scarti,  accozzi,  confronti,  deduca  e
induca; e gli si può star mallevadore, che arriverà a formarsi, di quel  momento
storico, concetti molto più speciali, più decisi, più  interi,  più  sinceri  di
quelli che se ne avesse fino allora. Ma che altro vuoi dir tutto questo, se  non
concetti più obbligati? Che se, in vece di trattar col lettore come  tratta  con
sé, di presentare agli altri intelletti, intatta e schietta, l'immagine che,  in
ricompensa delle sue ricerche e delle sue meditazioni,  è  apparsa  al  suo;  la
ripone, per spezzarla di nascosto, e fare, co' rottami di essa e con una materia
di tutt'altra natura, qualcosa di più e di meglio; se, per renderla più animata,
vuoi farla vivere di due vite diverse; se prende per mezzo ciò che era il  fine;
allora la ragione delle cose, la quale non sa nulla di  questi  progetti,  ed  è
avvezza bensì a mantenere, e con gran puntualità, i suoi impegni, ma non  quelli
degli altri,  non  solo  non  permette  che  da  un  tale  impasto  resulti  una
rappresentazione più compita d'uno stato reale dell'umanità, ma  nemmeno  quella
meno particolarizzata, che poteva resultare  dal  ritratto  sincero  delle  cose
reali. Ché il  positivo  non  è,  riguardo  alla  mente,  se  non  in  quanto  è
conosciuto; e non si conosce, se non in quanto si può distinguerlo  da  ciò  che
non è lui, e quindi l'ingrandirlo con del verosimile, non  è  altro,  in  quanto
all'effetto di rappresentarlo,  che  un  ridurlo  a  meno,  facendolo  in  parte
sparire. Ho sentito parlare (cosa vecchia e vera anche  questa)  d'un  uomo  più
economo che acuto, il quale s'era  immaginato  di  poter  raddoppiar  l'olio  da
bruciare,  aggiungendoci  altrettanta  acqua.  Sapeva  bene  che,  a  versarcela
semplicemente sopra, l'andava a fondo, e l'olio tornava a galla; ma  pensò  che,
se potesse immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene,  ne  resulterebbe  un
liquido solo, e si sarebbe ottenuto l'intento. Dibatti, dibatti, riuscì a  farne
un non so che di brizzolato, di picchiettato, che scorreva insieme, e empiva  la
lucerna. Ma era più roba, non era olio di più; anzi, riguardo all'effetto di far
lume, era molto meno. E l'amico se n'avvide, quando volle accendere lo stoppino.
Ho serbata per l'ultima l'obiezione più tremenda e più  inevitabile:  il  fatto.
Tutte codeste, mi sento dire, saranno belle teorie;  ma  il  fatto  le  manda  a
monte. Mi sapreste indicare, tra l'opere moderne  e  antiche,  molte  opere  più
lette, e con più piacere e ammirazione, de' romanzi storici  d'un  certo  Walter
Scott? Voi volete dimostrare, con questo e con quell'argomento, che  non  devano
poter produrre un tal effetto. Ma se lo  producono.  Obiezione,  però,  tremenda
solamente in apparenza; giacché tutta la sua forza è  riposta  in  un  equivoco,
cioè nel chiamar fatto una cosa che si  sta  facendo.  Che  quei  romanzi  siano
piaciuti, e non senza di gran perché, è un fatto innegabile, ma è  un  fatto  di
que' romanzi, non il fatto  del  romanzo  storico:  che  poi  questa  specie  di
componimento continui a piacere, quindi a esser coltivata, è la questione, e non
il fatto. In questa, come in tante  altre  cose,  il  fatto  d'un  tempo  non  è
certamente una malleveria del fatto avvenire; e gli esempi di  giudizi  d'un'età
cassati da un'altra sono troppi e troppo spesso rammentati perché ci sia bisogno
d'allegarne. Che se, rammentandoli così spesso, e con  tanto  compatimento,  non
badiamo poi abbastanza al pericolo di darne de'  novi,  è  perché,  ne'  giudizi
attuali, ci par di  vedere  qualcosa  di  più  maturo,  di  più  autorevole,  di
definitivo. E non c'è da maravigliarsene: sono i nostri.  Per  compatire  quelli
del tempo passato, siamo la posterità, che non è poco; per fidarci  de'  nostri,
siamo il secolo, che non è meno. Tra quegli esempi  notissimi,  ci  si  permetta
però di citarne uno che ha un'analogia importante  col  nostro  argomento.  Qual
voga maggiore di quella ch'ebbero i romanzi storico-eroico-erotici  (non  saprei
come chiamarli con un nome solo) di M.elle Scudéri5, e d'alcuni suoi antecessori
e successori meno famosi? e non già in un paese o in un secolo rozzo, poiché era
la Francia di Luigi XIV. Basti  la  testimonianza  di  Boileau,  il  quale,  nel
discorso premesso al dialogo dove canzona que' romanzi, confessa  che,  «essendo
giovine quando facevano più furore, gli aveva letti con grand'ammirazione,  come
li  leggeva  ognuno,  e  gli  aveva  riguardati  come  capolavori  della  lingua
francese6«. Sarebbe certamente una stravaganza, ancora più  che  un'ingiustizia,
il mettere que' lavori del pari co' lavori di Walter Scott.  Ma,  con  tutta  la
distanza che passa, non solo tra questo e quegli autori, ma  anche  tra  le  due
specie di componimenti, c'è tra queste, come  ho  accennato,  un'analogia,  anzi
un'identità importante: l'essere  ugualmente  romanzi  ne'  quali  ha  parte  la
storia. E non si dica che, in que' primi, la storia  non  c'era  messa  che  per
pretesto, e quasi per burla; che nessuno badava alla storia nel  leggere  quelle
strane vicende d'amori furibondi e platonici, e quelle dissertazioni  e  dispute
sull'amore, più strane ancora delle vicende. Si supponga  un  poco,  che  M.elle
Scudéri, in quella sua Clelia già tanto letta7, e ancora rammentata ogni  tanto,
avesse dato il nome di Virginia  alla  donna  oltraggiata  da  Sesto  Tarquinio;
avesse fatto di Porsena8  Il  un  re  della  Macedonia,  o  anche  della  Gallia
Cisalpina; avesse fatto che, per fuggire dal campo nemico, l'eroina  del  titolo
si buttasse a noto nell'Eufrate, o anche nel Po; e si pensi come  sarebbe  parso
strano a que' lettori medesimi, per altro  così  tolleranti.  Non  era  in  essi
un'intera e assoluta indifferenza per la veracità della storia ficcata  in  que'
componimenti: era bensì, e solamente, una tolleranza molto  maggiore  di  quella
che ora è possibile. Badavano anche loro alla storia,  leggendoli:  e  come  no,
poiché ce la volevano? Poiché, dico, s'accettavano dal  pubblico,  e  con  tanto
gradimento, de' componimenti,  ne'  quali  la  storia  entrava  come  una  parte
essenziale, ai quali la storia somministrava delle condizioni fondamentali,  non
solo di luogo e di tempo, ma di fatti e di persone; bisogna  dire  che  in  que'
componimenti si voleva la storia. E non si poteva volerla senza badarci. Solo ci
si badava meno di quello che ci si badi al presente. Ora, come è nata  una  tale
differenza? Di punto in bianco, e da un  momento  all'altro?  Non  fu  così,  né
poteva essere. Quella tolleranza andò gradatamente scemando: si volle sempre più
storia, e in quel dipiù, una maggior quantità di circostanze storiche. E intendo
qui parlare, non solo relativamente a quell'effimera e  capricciosissima  specie
di componimenti, ma a  qualunque  specie  di  componimenti  misti  di  storia  e
d'invenzione, come intendo parlare, non d'un  progresso  regolarmente  continuo,
d'una tendenza unanime, ma d'un progresso effettivo nell'insieme, d'una tendenza
prevalente, facendo  astrazione  da  quelle  fermate  temporanee,  e  da  quegli
accidentali passi indietro, che hanno luogo  in  qualunque  corso  d'idee  e  di
fatti. La tolleranza, dico, andò scemando nel pubblico, e, parte in  conseguenza
di ciò, parte senza di ciò, ma sempre per la  medesima  cagione,  andò  scemando
l'audacia negli scrittori. Fu qualche volta il pubblico (e in  questo  comprendo
naturalmente, e come parte importante, i critici  dì  professione),  fu  qualche
volta il pubblico, che, mostrando o col biasimo o col disprezzo,  di  non  poter
più soffrire un tal grado, un tal modo d'alterazione della storia,  obbligò  gli
scrittori a metterne di più, e con un  maggior  corredo  di  circostanze  reali;
furono qualche volta gli scrittori, che, o meditando in astratto sull'arte loro,
o sentendo,  nell'atto  pratico  della  composizione,  più  vivamente  de'  foro
antecessori o anche de' loro contemporanei, l'importanza e  la  connessione  del
vero storico, trovarono qualche nova maniera di dargli un po' più di  posto  ne'
loro componimenti. E ognuno di questi progressi speciali, sia nella teoria,  sia
nella pratica, poté (come accade d'ogni ripiego a un inconveniente che, in  quel
momento, dia più nell'occhio) esser trovato bastante. Ma dopo qualche tempo,  il
desiderio  della  verità  storica,  desiderio  sempre  crescente,  per   ragioni
indipendenti  dall'arte,  e  accresciuto,  relativamente  all'arte,  da   quelle
modificazioni medesime, fece sentire novi inconvenienti, e cercar novi ripieghi.
Ognuna di quelle successive contentature fu un fatto; nessuna, il fatto:  ognuna
di quelle modificazioni fu un passo;  nessuna  fu,  né  poteva  esser  l'arrivo.
Poiché (siamo sempre lì) quale può essere il punto d'arrivo nella  strada  della
verità storica,  se  non  l'intera  (relativamente,  s'intende)  e  pura  verità
storica? Nelle cose formate di parti consentanee, ogni miglioramento d'una parte
qualunque serve a render più solido il  tutto;  in  quelle  composte  d'elementi
contrari e incompatibili, il  miglioramento  conduce  alla  distruzione.  E  con
questo siamo venuti a dichiarare espressamente (cosa, del  resto,  implicita  in
tutto il detto fin qui) che,  opponendo  al  romanzo  storico  la  contradizione
innata del suo assunto, e per conseguenza, la sua  incapacità  di  ricevere  una
forma appagante e stabile, non abbiamo punto  inteso  d'opporgli  un  vizio  suo
particolare, e d'andar dietro a quelli che l'hanno chiamato  e  lo  chiamano  un
genere falso, un genere spurio. Questa sentenza inchiude  una  supposizione,  al
parer nostro, affatto erronea, cioè che la maniera di congegnar bene insieme  la
storia e l'invenzione, fosse trovata e praticata, e che il romanzo  storico  sia
venuto a guastare. Non è un genere falso, ma bensì una specie d'un genere falso,
quale  è  quello  che  comprende  tutti  i  componimenti  misti  di   storia   e
d'invenzione, qualunque sia la loro forma. E aggiungiamo  che,  come  è  la  più
recente di queste specie, così ci  pare  la  più  raffinata,  il  ritrovato  più
ingegnoso per vincere la difficoltà,  se  fosse  vincibile.  Ognuno  riconoscerà
senza dubbio che, per poter portare un giudizio compito sul romanzo storico, era
necessario d'entrare in  una  tale  questione.  Ma  siamo,  certo,  ben  lontani
dall'immaginarci che l'opinione da noi espressa su questo punto ci si passi così
facilmente.  Cercheremo  dunque  di  giustificarla,  paragonando  l'assunto  del
romanzo storico con  quello  dell'epopea  e  della  tragedia,  e  accennando  le
variazioni avvenute nella teoria e nella pratica di queste due principali e  più
illustri forme del genere, per ciò che riguarda la loro relazione con la storia.
Variazioni che poterono bensì esser segnate (chi  non  lo  sa?  o  chi  potrebbe
dimenticarsene?) da splendidi e perenni monumenti  d'ingegno,  perché  l'ingegno
imprime una forma durevole anche alle cose che non avrebbero per sé la ragion di
durare; ma variazioni mosse da una  cagione  ben  potente,  poiché  la  bellezza
sempre sentita, e l'autorità sempre viva di que'  monumenti  non  bastarono,  in
nessun tempo, a troncarne il corso. Fabbricati, non solo da mani maestre, ma  in
parte con istrumenti che hanno persa la loro attitudine, par che  dicano  a  chi
più e meglio li guarda: ammirami, e fa altrimenti.



PARTE SECONDA

L'assunto dell'epopea,  secondo  il  concetto  generalmente  ricevuto  d'un  tal
componimento, è di rappresentare un grande e illustre avvenimento,  inventandone
in gran parte le cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i  modi,  le  circostanze;  per
produrre così un diletto d'una specie più viva, e un'ammirazione d'un grado  più
elevato di quello che possa mai fare la semplice e  sincera  narrazione  storica
dell'avvenimento medesimo. Non esito a dire, che  se  una  cosa  simile  venisse
proposta ora com'ora, per la prima volta, e a priori,  senza  che  ce  ne  fosse
alcun esempio di fatto, e solamente come una cosa da potersi fare,  la  proposta
parrebbe strana ai dotti e agl'indotti ugualmente. Chi non avesse, d'un grande e
illustre avvenimento qualunque, una  notizia  circostanziata,  e  lo  conoscesse
solamente per quella formola, più o meno astratta, che è, per dir così, il  nome
proprio degli avvenimenti, non saprebbe intendere come uno potesse  invitarlo  a
occuparsi di quel l'avvenimento, se  non  appunto  per  fargliene  conoscere  le
cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i modi, le circostanze, e per dar così a  quella
poverissima e capacissima formola ciò che le manca  nella  sua  mente.  Chi  poi
n'avesse una cognizione più estesa, più circostanziata, troverebbe forse  ancora
più singolare, per dir poco, il disegno di rappresentarglielo  separato  da  una
parte  qualunque,  non  che  da  una  gran  parte  di  quelle  condizioni   così
naturalmente legate, compenetrate con esso, e unito in vece con delle condizioni
immaginarie. Disposto a ricevere tutto ciò che potesse o  estendere  di  più,  o
rettificare il suo concetto, sarebbe ugualmente pronto a opporre a ogni cosa che
venisse per alterarlo, quell'incredulus odi, con cui la mente ributta, non  solo
la specie particolare di falso a cui applicò Orazio tali parole9,  ma  il  falso
d'ogni genere e d'ogni grado, che si presenti a richiedere un posto già occupato
da un vero. Si veda infatti come gli scrittori di storia, gente  che  conosce  i
suoi interessi, e che, al pari di qualunque poeta epico, desidera di produrre  e
diletto e ammirazione, cerchino,  e  i  moderni  particolarmente,  di  secondare
questa disposizione de' lettori. Si veda come si diano premura d'avvertirli  che
le condizioni reali dell'avvenimento, -  grande  o  piccolo  (e  tanto  più,  se
grande), o della serie d'avvenimenti che sono per descrivere,  erano  o  poco  o
male conosciute; che la c'è voluta tutta a nettare quella materia da ciò che  ci
aveva appiccicato la mala fede degli uni, e l'immaginazione  degli  altri,  che,
sulle cagioni e  principali  e  secondarie,  sui  modi,  sulle  circostanze,  si
troveranno ne' loro lavori  delle  notizie  tanto  nove  e  inaspettate,  quanto
genuine, che in somma le loro ricerche e le loro osservazioni gli hanno messi in
caso di sostituire un concetto più ordinato, più intero, più sincero di quello o
di quegli avvenimenti, al concetto più o meno alterato  e  confuso,  che  se  ne
poteva aver prima. E a lettori e scrittori che hanno tra di  loro  un'intesa  di
questa sorte, e prodotta da tali motivi, si verrebbe  a  proporre  l'alterazione
de' concetti de' grandi avvenimenti, come scopo e soggetto d'una nova specie  di
lavori! Proposta che, a svolgerla appena  appena,  verrebbe  a  dire,  a  un  di
presso, così: Tra gli avvenimenti passati di cui rimane la memoria, ce  ne  sono
alcuni che si chiamano grandi e riguardo alle cagioni e riguardo  agli  effetti;
cioè, da una parte, per un concorso straordinario di voleri  e  d'azioni  umane,
che cooperarono, anche col loro contrasto, a farli riuscire quali li conosciamo;
dall'altra, per una straordinaria mutazione che ne seguì nello stato d'una o  di
più società. Ognuno di questi avvenimenti ebbe, oltre le sue cagioni principali,
una quantità di cagioni secondarie, e anche nate ne'  diversi  momenti  del  suo
progresso; ognuno ebbe i suoi ostacoli e i suoi aiuti, i suoi ritardi e  le  sue
spinte, i suoi accidenti e i suoi modi speciali e, per dir così, individuali. E,
certo, fa un'opera sensata  e  utile  lo  storico,  a  raccoglier  tutte  quelle
notizie, a depurarle, a serbare a ciascheduna cosa, e a ciaschedun uomo  il  suo
proprio modo, il suo proprio grado  d'efficienza  sul  tutto,  a  studiare  e  a
mantenere l'ordine reale  de'  fatti,  dimanieraché  il  lettore,  ammirando  la
grandezza e la novità  del  resultato,  lo  trovi  insieme  naturalissimo,  anzi
relativamente necessario. Ma c'è qualcos'altro da fare, e, in  un  certo  senso,
qualcosa di meglio: rappresentare  quegli  avvenimenti  quali  avrebbero  dovuto
essere, per riuscir più dilettevoli e più maravigliosi. E questa, o poeta, è  la
tua parte. A te dunque a fare una nova scelta  tra  le  parti  dell'avvenimento,
lasciando fuori quelle che non servono al tuo intento speciale e più elevato,  e
trasformando come ti torna meglio quelle che ti torna meglio di conservare; a te
a trovare delle difficoltà che, secondo te, avrebbero dovuto ritardare o  sviare
il corso dell'avvenimento, e naturalmente a trovare anche gli sforzi  coi  quali
si sarebbero dovute superare; a te a immaginare accidenti, disegni, passioni  e,
per far più presto, uomini che avrebbero dovuto averci  una  parte  più  o  meno
importante; a te a disegnar la strada che le cose avrebbero dovuta prendere  per
arrivare dove sono arrivate. Ho detto  che,  se  un  progetto  di  questa  sorte
venisse in questi tempi proposto a priori, parrebbe strano: non temerei  di  dir
troppo aggiungendo che non  verrebbe  neppure  in  mente  a  nessuno.  Anzi,  se
vogliamo guardare un po' più in là, o piuttosto rammentarci  di  cose  note,  si
troverà che ciò non accadde in nessun tempo. L'epopea  letteraria  (della  quale
l'epopea storica non fu nemmeno la prima forma) non  venne  al  mondo,  per  dir
così, a  caso  pensato;  non  fu  la  realizzazione  d'un  concetto  astratto  e
anteriore; fu  l'imitazione  d'un  fatto  molto,  ma  molto,  diverso.  L'epopea
primitiva e,  dirò  così,  spontanea  non  fu  altro  che  storia:  dico  storia
nell'opinione degli uomini ai quali era raccontata o  cantata;  che  è  ciò  che
importa e che basta alla questione presente. Di  quella  allora  creduta  storia
rimasero due monumenti perpetuamente singolari, l'Iliade e l'Odissea.  E  quando
non poterono più essere accettati per vera e genuina  storia:  ma  nello  stesso
tempo, riuscivano sommamente dilettevoli, per altre ragioni, e  potevano  quindi
esser considerati anche da un lato  puramente  estetico;  nacque  facilmente  il
pensiero di comporne altri sulla stessa idea, e (perché anche  l'imitazione  non
va  per  salti)  sopra  soggetti  presi  ugualmente  dalle  tradizioni  dell'età
favolose. E questa fu la prima forma dell'epopea letteraria; la quale  differiva
dalla prima in quanto al non avere né l'effetto, né I ' intento  d'ottener  fede
alle cose raccontate;  e  ne  serbava  però  quella  condizione  importante  del
raccontar cose, alle quali non c'erano cose positive e verificabili da  opporre.
Non era più la storia, ma non c'era una storia, con la quale avesse a  litigare.
Il  verosimile,  cessando  di  parer  vero,  poteva  manifestare   e   esercitar
liberamente la sua propria e magnifica virtù, poiché non veniva a incontrarsi in
un medesimo campo col vero, il quale, o volere o non volere,  ha  anch'esso  una
sua ragione e una sua virtù  propria  e  che  opera  indipendentemente  da  ogni
convenzione in contrario. Di questa forma c'è rimasto il monumento, senza dubbio
il più splendido, l'Eneide.  Che  poi  i  poemi  omerici  fossero  da  principio
accettati come storia, s'argomenterebbe abbastanza, quando  non  ce  ne  fossero
altri indizi, dal sapere che allora non ce n'era altra, e dal riflettere  che  i
popoli non stanno senza storia.  De'  fatti  umani,  e  principalissimamente  di
quelli de' loro antenati,  vogliono  essi  conoscere  il  vero,  e  ne  vogliono
conoscer molto, ben lontani dall'immaginarsi che, in una tal materia,  si  possa
cavare un piacere d'altro  genere  dalla  contemplazione  del  mero  verosimile.
Quindi quell'ingrossarsi, e  quel  trasformarsi  delle  tradizioni,  alle  quali
l'invenzione sostituiva di mano in mano, e con la bona misura, i particolari che
non potevano più esser  somministrati  dalle  rimembranze:  invenzione,  facile,
spontanea e, in parte, direi quasi involontaria ne' suoi autori, e  che,  certo,
non era presentata a delle menti desiderose di trovarla in fallo. Del rimanente,
che tale fosse e l'autorità e l'origine di que' poemi, nessuno ne dubita, e  non
è certamente d'uomini tra i  meno  osservatori  o  tra  i  meno  eruditi  quella
congettura, che siano, non già lavori d'un uomo solo, messi, per  dir  così,  in
brani da quelli che li cantavano, più o meno fedelmente, al  popolo,  e  rimessi
poi insieme; ma una raccolta, una  cucitura  del  lavoro  successivo  di  molti,
intorno ai medesimi temi; e che il loro vero autore sia stato  l'Omero  sperduto
dentro la folla  de'  greci  popoli,  come  dice  il  Vico10,   con  quella  sua
originalità, non di rado ancor più dotta che ardita. A ogni modo, quelle  storie
parlavano alla credulità, non al bon gusto, che non era ancora nato. E si  pensi
un poco come sarebbero stati accolti i rapsodi se avessero detto, e potuto dire:
bona gente, i fatti che siamo per cantarvi, avremmo  potuto  raccontarveli,  per
quello che se ne sa, come sono avvenuti, ma per divertirvi meglio, crediamo bene
di presentarveli in  una  forma  diversa,  arbitraria,  levando  e  aggiungendo,
secondo l'arte. Un esempio più specificato di questo amore rigoroso della verità
in gente ascoltatrice avidissima di favole, si può vedere ne' romanzi del  medio
evo, cantati anch'essi da quella specie di  novi  rapsodi,  chiamati  trovatori,
giullari, menestrelli: romanzi da' quali provenne la nova epopea, che  ne  prese
il nome di romanzesca. Ecco a questo proposito  alcune  parole  dell'erudito  La
Curne S.te Palaye11: «Pare che da principio la storia sola  fosse  l'oggetto  di
que' poemi, se così si possono chiamare de' racconti  composti  in  metro  e  in
rima, per aiuto della memoria... «È certo che le cronache di san  Dionigi  erano
in gran credito ne' secoli XIII e XIV, e che gli storici non trovava no un mezzo
migliore per acquistar fede presso i lettori, che di farsi  belli  dell'autorità
di quelle12.» Tra i passi di que' poeti storici, allegati dal dotto  accademico,
ne citerò uno d'un Filippo Mouskes13, che  scriveva  nel  principio  del  secolo
XIII. Costui, dopo essersi accusato di non aver  altre  volte  usata  la  dovuta
cautela nella scelta de' suoi autori, aggiunge:

... Quant  un  me  conseilla  Que  trop  obscurement  savoie  Les  faiz  que  je
ramentevoie, Et que s'a Saint Denis allasse, Le voir  (il  vero)  des  Gestes  y
trouvasse, Non pas menconges ne frivoles; Bientost  après  cestes  paroles  M'en
vins là, et tant esploitai,  Que  veu  ce  que  je  convoitai,  Lors  alai  faus
apercevant Quanque j' avoie fait devant;  Si  l'ardit  (bruciai)  con  ni  deust
croire, Et me pris à la vraie histoire, Jouste  la  quele  je  mesis  (messi  in
carta?)14.

E cosa trovavano poi in quelle famose cronache, dato  che  andassero  davvero  a
consultarle? Trovavano:

«Come cils Kalles (Carlomagno) la conquist toute (la Spagna) entièrement en  son
tens, et la fist obaïr à ses commandemens; «Come Fernagus un Jaianz  du  lignage
Goulie estoit venu à la cité de Nadres des contrées de Surie: si l'avoit  envoié
l'amiraus de Babilone contre Kallemaine  pour  deffendre  la  terre  d'Espaigne;
«Comment (e questo era uno de'  fatti  più  ricantati)  Rollans  occist  le  Roi
Marsile, et puis comment  il  fendit  le  perron  (il  masso),  quant  il  cuida
despiecer s'espée; et puis comment il sonna derechief  l'olifant (il corno), que
Kalles oï de VIII miles loing15.»

All'osservazione del dotto  La  Curne,  non  sarà  superfluo  l'aggiungerne  una
simile, ma fondata sopra ricerche molto più vaste, dell'illustre  e  pianto  mio
amico Fauriel.

«Ogni autore d'un romanzo epico del ciclo carlovingico,  non  tralascia  mai  di
darsi per uno storico davvero. Principia sempre col protestare che non dirà cosa
che non sia certa e autentica; cita sempre  mallevadori,  autorità,  alle  quali
rimette coloro di cui ambisce il suffragio. Queste autorità sono  ordinariamente
certe cronache preziose, conservate nel tale o nel tal  altro  monastero,  delle
quali ha avuto la  fortuna  di  potersi  servire  col  mezzo  di  qualche  dotto
monaco... «I  termini  con  cui  qualificano  le  loro  novelle  sono  anch'essi
suggeriti da quella pretensione d'averle  cavate  da  documenti  venerabili.  Le
chiamano chansons de vieille histoire, de haute histoire,  de  bonne  geste,  de
grande baronie, e non è per vantar sé stessi, che usano simili  espressioni:  la
vanità letteraria non ha in loro forza veruna in paragone del desiderio  d'esser
creduti, di passare per semplici traduttori, per semplici ripetitori di leggende
o di storie consacrate16.» Quelle proteste equivalgono  all'invocazione  omerica
della dea figlia della memoria; e fanno vedere come, anche in un tempo di storia
scritta, fosse il desiderio di credere, quello che attirava ai racconti epici la
parte più indotta della popolazione, cioè la parte che somigliava  di  più  alla
popolazione intera de' tempi d'Omero, o degli Omeri, che si voglia dire. Ma  per
continuare questi brevi cenni sull'antichità  classica  (giacché,  per  fortuna,
l'argomento non c'impone di parlare de' fatti analoghi di altre antichità: fatti
notabilissimi,  ma  che  non  ebbero  parte  nella  genesi  dell'epopea  di  cui
trattiamo) è certo che anche in  Roma  l'epopea  comparve  in  apparenza  e  con
autorità di storia. Che il racconto della fondazione di Roma fosse in gran parte
una fattura  poetica,  era  cosa  già  riconosciuta  al  tempo  di  T.  Livio17;
l'osservazione de' moderni estese questo  giudizio,  dove  con  argomenti  molto
forti, dove con più o meno probabili, ad epoche più avanzate. Ma la  più  antica
forma nella quale que' racconti siano pervenuti fino a noi, è la  forma  propria
della storia, e pare verosimile che abbiano cessato presto d'essere in  arbitrio
di poeti ciclici, se ci furono mai. Era quello un serioso poema,  come  dice  il
Vico del Diritto romano antico18; e non pare che il patriziato romano,  custode,
conservatore  e  consacratore  d'ogni  cosa,  avrebbe  lasciata  in  balia   de'
divertitori e maestri della plebe  una  storia  nella  quale  erano  piantati  i
fondamenti d'istituzioni fatte per mantenere il  suo  dominio  sulla  plebe.  Il
soggetto di quell'epopea non era  un'accidentale  e  temporaria  federazione  di
principi, per la distruzione d'una Città, e  per  ritornar  vincitori  ne'  loro
rispettivi stati (poveri stati!) a far baruffe tra di loro, dopo averne fatte di
strane, anche nel tempo e  nel  forte  dell'impresa.  Era  la  fondazione  e  il
progresso della città (e che città!) di que' patrizi medesimi.  Importava  poco,
anche ai Greci, che Minerva avesse detta una cosa più che  un'altra  a  Pandaro,
per indurlo a ferir Menelao o Iride  ad  Achille,  per  mandarlo  a  salvar  da'
Troiani il corpo di Patroclo; ma non sarebbe stata una cosa indifferente che  la
fantasia di poeti popolari avesse potuto sbizzarrire sulle  conferenze  di  Numa
con Egeria19; dalle quali era uscita l'istituzione de' sacerdozi e la norma  de'
riti e, non che altro, la scienza, rimasta  poi  arcana  per  tanto  tempo,  de'
giorni fasti e nefasti20. La novella dell'augure Azzio Navio, che opponendosi  a
Tarquinio Prisco il quale voleva istituire  delle  nove  tribù  senza  la  prova
dell'augurio, conferma la sua scienza con un prodigio, bastava a stabilire  e  a
perpetuare l'autorità degli augùri e degli auspìci, senza i quali non si  doveva
prendere determinazione veruna", e i quali erano attribuzione  e  proprietà  de'
patrizi".  E  sarebbe  stata  cosa,  non  solo  superflua,  ma  pericolosa,  che
dell'altre novelle  su  una  tale  materia  fossero  inventate,  a  capriccio  o
maliziosamente, e cantate alla plebe, contro la quale  gli  auspici  erano  così
spesso adoprati, e della quale servirono a frenar gi'impeti e a interrompere  le
deliberazioni,  anche  quando  queste  erano  diventate  legali.  C'era,   tanto
nell'epopea greca, quanto nella latina, una  donna,  cagione,  in  quella,  d'un
grande avvenimento, in questa, d'una gran mutazione. Ma d'Elena, moglie d'uno di
que' tanti re, si potevano senza inconveniente accrescere e variar le vicende, e
quand'anche a Sparta fosse  convenuto  di  tramandarle  in  una  forma  unica  e
consacrata, qual mezzo avrebbe avuto di  far  chetare  il  cicalìo  poetico  del
rimanente della Grecia? Lucrezia, matrona,  moglie  d'uno  de'  patrizi  romani,
tanti anch'essi, ma formanti una perpetua unità dominatrice, era la vittima  per
cui rimaneva santificato il passaggio dall'aristocrazia col re alla  più  pretta
aristocrazia coi consoli: e non era una  memoria  da  abbandonarsi  all'arbitrio
fecondo delle fantasie. Quando  poi,  e  fu  molto  tardi,  quella  storia  poté
ritornare in mano de' poeti, ma di tutt'altri poeti, cioè de'  poeti  letterari,
aveva già presa una forma così stabile e  distinta,  che  difficilmente  sarebbe
potuto venire in mente a nessuno, di farne qualcosa di suo.  Era  ancora  troppo
autorevole perché potesse parer conveniente di staccarne un pezzo qualunque, per
ingrossarlo con delle favole nove, e trovate tutte in una volta, e  da  un  uomo
solo. Questo spiega, se non m'inganno,  il  perché  Ennio,  volendo  pure  farla
ridiventar poesia, non trovò da far altro che metterla in versi tutta quanta.  E
avendo presa questa strada, non fa specie  che  tirasse  avanti,  e  continuasse
quella storia fino quasi ai suoi tempi, come pare da' frammenti che ci rimangono
de' suoi annali. E  basterebbe  anzi  questo  solo  titolo  [Annales,  nda]  per
indicare che il soggetto dell'opera non era  un'azione  una  e  compita,  avente
principio, mezzo e fine, che, come dice Aristotele, e come la intendono tutti, è
un costitutivo  essenziale  del  poema  epico21.  Non  può  quindi  Ennio  esser
riguardato né come un  continuatore  dell'epopea  omerica,  e  neppure  come  il
fondatore dell'epopea storica; la  quale  ha  comune  con  quella  l'assunto  di
rappresentare un'azione una e compita, quantunque ne  differisca  essenzialmente
nel prendere il suo soggetto da una materia così diversa, come è la storia dalla
favola. Che, prima d'arrivare a una così  forte  e  così  radicale  alterazione,
l'epopea  letteraria  e  artifiziale,  nata  (e  come  sarebbe  potuta   nascere
altrimenti?) dall'imitazione della primitiva e spontanea, cercasse di  seguirla,
e tentasse d'emularla nel campo della favola;  che  percorresse  uno  stadio  di
mezzo, dirò così, tra l'Iliade e la Farsalia, era una cosa  molto  naturale.  Ma
perché un tal tentativo, con tutti gli  svantaggi  dell'imitare  artifizialmente
ciò ch'era nato spontaneamente, ciò che ha avuta la sua ragion d'essere  da  uno
stato di cose e di menti che non era più, potesse produrre un'opera originale in
un'altra maniera, un'opera, non simile  certamente  al  suo  archetipo,  ma  non
inferiore a nulla, ci volle un soggetto unico, come l'Eneide, e  un  uomo  unico
per trattarlo, come Virgilio. In quel soggetto  e  mitologico  e,  nello  stesso
tempo, legato con la fondazione di Roma, trovava il poeta e la  feconda  libertà
della favola, e il vivo interesse della storia. Da una parte, in quella vasta  e
leggiera nebbia de' secoli eroici,  poteva  suscitare  apparizioni  fantastiche,
speciosa miracula, inventare a  piacer  suo,  attaccando  le  sue  invenzioni  a
invenzioni anteriori, celebri quanto la storia, o più, e insieme estensibili  di
loro natura. Le cognizioni storiche o credute storiche  intorno  a  que'  tempi,
erano scienza di pochi eruditi; e non voglio dire  certamente  che,  nel  secolo
d'Augusto, l'epopea potesse serbare tutto quel libero e sicuro  andamento  della
prima ma si pensi quanto deboli e larghe potevano esser per essa quelle pastoie,
in paragone di quelle in cui si trovò poi stretta l'epopea  storica.  Non  aveva
Virgilio a ficcar gli dei, come fecero poi altri, che  credevano  d'imitarlo  in
avvenimenti, il concetto de' quali era già nelle menti compito e spiegato, senza
che quegli dei c'entrassero come attori personali e  presenti.  Li  trovava  nel
soggetto medesimo: non era lui che, per magnificare  il  suo  eroe,  lo  facesse
figliolo d'una dea;  né  che  facesse  per  la  prima  volta  scender  questa  a
soccorrerlo ferito in battaglia. L'intervento dell'altre divinità in suo  favore
o contro di lui, era un seguito d'una gara già avviata, d'impegni già  presi.  E
dall'altra  parte,  quel  soggetto,  che  veniva  così  a   essere   quasi   una
continuazione dell'Iliade, era, cioè poté diventare in mano di Virgilio, il  più
grandiosamente e intimamente nazionale  per  il  popolo  nella  cui  lingua  era
scritto. Ché, al di là di tutte quelle vicende poetiche, e come  ultimo  e  vero
scopo di quelle, sta sempre Roma; Roma, il soggetto, direi quasi, ulteriore  del
poema. È per essa, che l'Olimpo si commove, e il fato  sta  immobile.  Qualunque
soggetto preso direttamente dalla  storia  di  Roma,  oltre  al  non  poter  mai
diventare tutto poetico (che doveva essere un  gran  motivo  di  repugnanza  per
Virgilio) non sarebbe stato che un episodio di quell'immensa storia. Non  poteva
esser altro che un'impresa cagionata da imprese antecedenti, e diventata cagione
d'altre  imprese  avvenire;  una  vittoria  che  preparava  altre   guerre;   un
ingrandimento  dell'impero,  che  gli  accostava  altri  popoli  da   debellare.
Nell'Eneide, Roma è veduta da lontano, ma tutta; e  lasciate  fare  al  poeta  a
attirar là il  vostro  sguardo  ogni  momento,  e  sempre  a  proposito,  sempre
mirabilmente. Lasciate fare a  lui  a  rappresentarvene  anche  direttamente  la
storia futura; ora in qualche particolare, con de' cenni rapidi e  maestri,  ora
più distesamente, con l'artifizio di bellissime  invenzioni  poetiche,  come  la
predizione d'Anchise, o l'armi fabbricate da Vulcano. Invenzioni nove o vecchie,
poco importa, quando sono passate per le mani di Virgilio. Poiché,  quale  virtù
di stile poetico si può immaginare maggior della  sua?  Dico  quello  stile  che
s'allontana in parte dall'uso comune d'una lingua, per  la  ragione  (bonissima,
chi la faccia valer bene), che la poesia vuole  esprimere  anche  dell'idee  che
l'uso comune non ha bisogno d'esprimere, e che  non  meritano  meno  per  questo
d'essere espresse, quando  uno  l'abbia  trovate.  Ché,  oltre  le  qualità  più
essenziali e più manifeste delle cose, e oltre le loro relazioni più immediate e
più frequenti, ci sono nelle cose, dico nelle cose di cui tutti  parlano,  delle
qualità e delle relazioni più recondite e meno  osservate  o  non  osservate;  e
queste appunto vuole esprimere il poeta, e per esprimerle, ha  bisogno  di  nove
locuzioni. Parla quasi un cert'altro linguaggio22, perché ha cert'altre cose  da
dire. Ed  è  quando,  portato  dalla  concitazione  dell'animo,  o  dall'intenta
contemplazione delle cose, all'orlo, dirò così, d'un concetto, per  arrivare  il
quale il linguaggio comune non gli somministra una formola, ne trova una con cui
afferrarlo, e renderlo presente, in una forma propria e distinta, alla sua mente
(ché agli altri può aver pensato prima, e pensarci dopo, ma non ci pensa, certo,
in quel momento). E questo non lo fa, o la fa ben di rado, e ancor più  di  rado
felicemente, con  l'inventar  vocaboli  novi,  come  fanno,  e  devono  fare,  i
trovatori di verità scientifiche; ma con accozzi inusitati di vocaboli  usitati,
appunto perché il proprio dell'arte sua  è,  non  tanto  d'insegnar  cose  nove,
quanto di rivelare aspetti novi di cose note; e il mezzo più naturale a ciò è di
mettere in relazioni nove i vocaboli significanti cose note. Queste formole  non
passano, se non per qualche rara opportunità,  nel  linguaggio  comune,  perché,
come s'è  detto  dianzi,  il  linguaggio  comune  non  ha  per  lo  più  bisogno
d'esprimere tali concetti; e la virtù propria della parola poetica  è  d'offrire
intuiti al pensiero, piuttosto che istrumenti al discorso. Ma quando sono,  come
devono  essere,  concetti  veri  insieme  e  pellegrini,  riescono   doppiamente
gradevoli. E, non lascerò d'aggiungere, estendono effettivamente la  cognizione;
per quanto ci siano di quelli che credono filosofia il riguardare  come  oggetto
esclusivo della cognizione, alcune categorie di veri23. Avere accennato ciò  che
la poesia  vuole,  è  avere  accennato  ciò  che  Virgilio  fece,  in  un  grado
eccellente. Chi più di  lui  trovò  in  una  contemplazione  animata  e  serena,
nell'intuito ora rapido, ora  paziente  (appunto  perché  vivo)  delle  cose  da
descriversi, nel sentimento effettivo degli affetti  ideati,  il  bisogno  e  il
mezzo di nove e vere e pellegrine espressioni24?  E  intendo  un  vero  bisogno,
giacché chi più alieno di lui dal posporre la locuzione  usitata,  quando  fosse
bastante al suo concetto? Ma era frequente il caso che non  bastasse,  e  quindi
così frequenti, ma non mai troppi, ne' suoi versi, quegli accozzi di parole così
inaspettati e non mai violenti; direi la callida junctura  d'Orazio25;  ma,  per
quanto l'espressione sia  felice,  l'arte  di  Virgilio  par  che  richieda  una
qualificazione più gentile e più elevata. E credo che non si possa trovare a ciò
parole più adatte, di quelle sue:

Nec sum animi dubius verbis ea vincere magnum Quam sit, et angustis hunc  addere
rebus honorem,

quantunque  non  riguardino  che  l'applicazione  di  quell'arte  a  una  specie
d'oggetti. E aggiunge:

Sed me Parnassi deserta per ardua dulcis Raptat amor juvat ire jugis  qua  nulla
priorum Castaliam molli devertitur orbita clivo26.

Che vuol dire: ma io sento d'esser Virgilio. E stavo per dire  che,  con  quello
stile, un poema sarebbe un oggetto perpetuo d'ammirazione,  qualunque  ne  fosse
stato l'argomento, qualunque l'invenzione delle parti. Ma m'avvedo a tempo,  che
la supposizione non sarebbe  ragionevole.  Quello  stesso  giudizio  squisito  e
sdegnoso, che guidava Virgilio nella scelta dell'espressioni,  non  gli  avrebbe
permesso d'attaccarsi a un argomento che non avesse le migliori condizioni, né a
invenzioni che non avessero un pregio intrinseco;  sia  quelle  che  si  fossero
presentate alla sua mente, sia le altrui, che trovasse capaci  e  degne  d'esser
fatte sue. Ma ecco che, subito dopo Virgilio, comparisce Lucano, che si può dire
il fondatore dell'epopea storica; giacché non si sa, credo, che alcuno prima  di
lui prendesse per soggetto d'un lungo poema un  avvenimento  di  tempi  storici,
formato di molti e vari  fatti,  e  avente  quell'unità  d'azione,  che  resulta
dall'esser questi e legati tra di loro, e conducenti alla conclusione di quello.
E non ho detto semplicemente: un  avvenimento  storico;  ma  di  tempi  storici;
perché lì è la differenza essenziale  tra  la  Farsalia  e  l'epopee  anteriori.
L'importanza della quale non fu, mi pare, abbastanza riconosciuta dai critici; i
quali  notando  in  quel  poema  altre  differenze  reali,  ma  secondarie,  non
s'avvidero ch'erano dipendenti da quella prima e capitale innovazione. Perché la
guerra di Troia può essere chiamata, più o  meno,  un  fatto  storico,  come  le
guerre civili di Roma; perché un Enea venuto in Italia dopo  quella  guerra  può
essere, più o meno, chiamato un personaggio  storico  come  Cesare;  poté  anche
parere che tra i  soggetti  dell'Iliade  e  dell'Eneide,  e  il  soggetto  della
Farsalia non ci fosse una differenza sostanziale, e che le innovazioni di Lucano
siano venute da un suo genio particolare, da un  capriccio.  Ma  chi  appena  ci
badi, vedrà, se non m'inganno, ch'erano conseguenze, non necessarie ma  naturali
dell'aver preso il soggetto del poema da tempi storici, cioè da tempi, de' quali
il lettore aveva, o poteva acquistare quando volesse, un concetto indipendente e
diverso da quello che all'invenzione poetica fosse convenuto di formarci  sopra.
Se ci fu capriccio, fu quello. Di queste innovazioni accennerò le due che furono
principalmente notate. Una, l'avere il poeta seguita servilmente la  storia,  in
vece di trasformarla liberamente. Ma fu perché la storia era nel soggetto; e  il
poeta doveva scegliere tra il seguirla, o il  contradirla,  affrontando  così  e
urtando un concetto già piantato nelle menti,  e  con  bone  radici27.  L'altra,
l'avere esclusi gli dei dal poema. Ma fu perché non li trovava nel  soggetto.  E
si può egli dire che sia la stessa cosa il mettere in opera  gli  elementi  d'un
soggetto, e l'introdurcene degli estranei?  I  critici  che  biasimarono  Lucano
d'aver voluto re, per ciò che riguarda gli  avvenimenti,  una  storia  in  versi
piuttosto che un poema (l'altre critiche a cui andò e va soggetta  la  Farsalia,
sono estranee al nostro argomento), non esaminarono, da quello che mi pare,  se,
volendo pur comporre in quel tempo un poema epico,  c'era  da  far  qualcosa  di
meglio. Introdurre le divinità mitologiche in un soggetto di tempi  storici,  e,
per poterlo fare con maggior libertà, prendere il soggetto da tempi più  remoti?
O prendere il soggetto dai tempi favolosi? L'una e l'altra  cosa  fu  fatta  con
esito poco felice, e non da uomini così sforniti di doti  poetiche,  che  se  ne
possa dar loro la colpa principale. E sarebbero, certo, più lodati, anzi  credo,
ammirati, se l'opere di Virgilio fossero perite; perché ammaestrati  da  lui  di
ciò che poteva la  lingua  latina,  e  imitandolo  in  quella  lingua  medesima,
poterono, in quanto allo stile, esser forse più continuamente e più  arditamente
poeti, di quello che le lingue moderne permettano anche ai più  felici  ingegni.
Silio Italico fece, come Virgilio, intervenire gli dei  nel  suo  poema.  Ma  il
soggetto era la seconda guerra cartaginese; e Annibale e  Scipione  non  avevano
parenti nell'Olimpo, come Enea e Turno. Non erano eroi misti  con  gli  dei,  ma
generali e uomini di stato di due repubbliche. E si pensi  che  effetto  potesse
fare, anche a lettori gentili, ma che avevano Livio e Polibio, il dio Marte che,
entrato in persona nella battaglia del Ticino, copre col suo  scudo  il  giovine
Scipione; e gli parla dal suo cocchio in aria;  e  Giunone  che,  per  sottrarre
Annibale vivo dal campo di Zama, gli manda incontro una fantasima in  figura  di
Scipione, la quale fuggendogli poi davanti,  lo  tira  fuori  della  battaglia".
Perché Virgilio aveva potuto, con convenienza  poetica,  far  durare  l'odio  di
quella dea contro i profughi da Troia, contro Enea, cugino di  Paride,  credette
Silio Italico di poter resuscitare quell'odio contro i Romani del sesto  secolo.
E non badò che la pace era fatta  da  un  pezzo;  non  intese  bene  quel  luogo
dell'Eneide, dove Giove le dice: Quae jam  finis  erit,  conjux?...  Desine  jam
tandem... Ulterius tentare velo. E barattata qualche altra  parola,  Annuit  his
Juno, et mentem laetata retorsit, Che voleva dire: la novella è finita;  vengono
tempi e fatti, ne' quali gli dei non si potranno far entrare, che per forza. Del
resto, anche Silio Italico fu tacciato d'essere stato troppo ligio alla  storia.
Quel solito giudizio, nato dal non riflettere che, quando si cambia la  materia,
non è così facile conservar la forma; dal supporre che della storia si possa far
lo stesso che della favola. La Tebaide di  Stazio  e  l'Argonautica  di  Valerio
Flacco erano soggetti presi, come l'Eneide, da' secoli eroici; solo  ci  mancava
quel  magnifico  e  perpetuo  legame  con  l'origine,  col  progresso,  con   le
tradizioni, coi destini d'una società viva e vera, e d'una  società  come  Roma.
Che è poco? I racconti fondati sulla mitologia, dopo esser  piaciuti  come  cose
credute vere, poterono piacere come una forma speciale di verosimile; ma era  un
pezzo che la cosa durava. E perché, per noi che abbiamo la sorte  di  non  esser
politeisti, «quel maraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i  Giovi
e gli Apolli, e gli  altri  numi  de'  Gentili,  è  non  solo  lontano  da  ogni
verisimile, ma freddo ed insipido e di nessuna virtù», non bisogna  credere  che
per i politeisti dovesse essere una fonte inesausta di curiosità e di piacere. E
d'uno di loro quel lamento:

Expectes eadem a summo minimoque poeta28.

Dove potevano dunque i poeti latini trovare oramai degli argomenti per l'epopea,
quando la storia non poteva dirsela con la mitologia, e la  mitologia  senza  la
storia non era più altro che una novella vecchia? La pianta era morta, dopo aver
portato il suo fiore  immortale.  Venendo  alla  letteratura  moderna,  troviamo
subito un altro poema immortale, ma di tutt'altro genere, e per la materia e per
la forma. Certo, non si può dire lo stesso affatto del Furioso, il soggetto  del
quale è di questo mondo, e di tempi storici. Ma, come  ognuno  sa,  un  concetto
favoloso di que' tempi era diffuso e accettato da un pezzo, e diventato  materia
usuale di poemi. Quindi l'Ariosto non ebbe ad affrontar la  storia:  non  faceva
altro che continuare una favola. La quale non poteva regnare  ancora  per  molto
tempo, ma regnava ancora abbastanza per potere aver da lui il suo primo e ultimo
capolavoro29. Il primo poema che  comparve  con  intento  e  in  forma  d'epopea
classica insieme e storica, fu l'Italia Liberata del Trissino30.  E  in  verità,
non si saprebbe intendere come mai un tal lavoro  abbia  potuto  acquistar  fama
presso i contemporanei, e conservarla presso i posteri, se non si conoscesse  la
cagione speciale d'un tal fenomeno. Per quanto, al tempo del Trissino, la poesia
italiana avesse presa, e già percorsa a gran passi una strada diversa da  quella
segnata  dai  classici  dell'antichità  greca  e  latina,  c'era,  insieme   con
l'ammirazione per i gran poeti volgari, come li chiamavano, una persuasione  che
la vera e unica perfezione dell'arte  non  si  trovasse  se  non  nell'opere  di
quell'antichità. Pareva di vedere nella nova poesia tanti vacui, quante erano le
specie di composizioni poetiche, di cui quell'antichità aveva  tramandati  degli
esemplari. Lo studio crescente della letteratura latina, gli avanzi sepolti  che
se ne andavano scoprendo di mano in mano, la piena  dell'opere  greche,  entrata
dopo la presa di Costantinopoli, avevano accresciuto a dismisura il desiderio di
veder riempiti que' vacui. Il Trissino venne avanti coraggiosamente, e ne riempì
due, e non de' più piccoli certamente. Diede alla letteratura moderna  la  prima
tragedia regolare: la Sofonisba, e il primo poema regolare: l'Italia Liberata. E
se l'Ariosto non gli rubava le mosse, le avrebbe data anche, coi  Simillimi,  la
prima commedia  regolare  in  versi:  tanto  era  lesto!  Se,  con  quella  vena
d'invenzione, di stile e di verso, avesse scritto un poema  cavalleresco,  è  da
credere che non solo questo non avrebbe ottenuta la celebrità  popolare  di  cui
godettero, per qualche tempo, l'Amadigi di Bernardo Tasso, e il Giron Cortese di
Luigi Alamanni, e qualche altro; ma che si sarebbe perso,  sul  nascere,  tra  i
meno osservati. Ma l'Italia Liberata faceva le viste di soddisfare un desiderio,
di compir quasi un dovere della nova poesia; e ottenne perciò il titolo di poema
epico: titolo che gli è rimasto, senza che ne venga obbligo di lettura, a un  di
presso come vari principi hanno  conservati  de'  titoli  di  reami  o  persi  o
pretesi, senza che ne venga obbligo d'ubbidienza. Quel  poema,  giacché  non  si
saprebbe che altro nome dargli, non fece fare all'epopea storica,  riprincipiata
con lui dopo un così lungo intervallo, né un passo avanti, né un passo indietro:
e il solo fatto d'esser venuto il primo gli ha  mantenuta  e  gli  mantiene  una
sterile celebrità. Non c'è quindi bisogno di parlarne più  in  particolare.  Nel
piccol numero de' celebri poemi epici è rimasta ugualmente,  ma  per  tutt'altro
titolo, e con tutt'altro onore, la Lusiade del Camoëns, venuta alla  luce  circa
mezzo secolo dopo. Questo poema è, per dir così,  doppiamente  storico,  perché,
oltre il luogo che ci occupa la storia che è la materia prima del  soggetto,  il
poeta ne  ha  dato  altrettanto  o  più  alla  storia  d'altri  tempi.  L'azione
principale è la spedizione di Vasco de Gama; ma il  soggetto,  dirò  anche  qui,
ulteriore del poema è il Portogallo; come Roma lo  era  dell'Eneide.  Ma  né  la
storia portoghese, né alcun'altra di popoli moderni, è tale che un poeta  possa,
con de' cenni, richiamarla tutta al pensiero, o trascorrerne le  diverse  parti,
toccando sempre cose e grandi e note,  come  fece  Virgilio  con  la  romana.  E
quindi, per essere, come lui, per quanto era possibile,  poeta  continuamente  e
grandiosamente nazionale, non trovò il Camoëns miglior mezzo, che di trasportare
per disteso nel poema la storia del  suo  paese:  quella  anteriore  al  momento
dell'azione, in un racconto di Vasco de Gama a un re affricano;  la  posteriore,
in una predizione.  Novo  e  singolare  ripiego  della  prepotente  storia,  per
cacciarsi nell'epopea, anche dove non era chiamata dall'azione principale. Però,
che dico prepotente? che dico cacciarsi? Non fa altro che ritornar sul  suo.  Ma
alla fine, mi sento dire, alla fine bisognerà pure che arriviate a un  altr'uomo
e a un altro poema. Quest'epopea, che non è più l'epopea  spontanea  d'Omero,  e
neppure la favolosa di Virgilio; quest'epopea storica, fondata secondo  voi,  da
Lucano, riformata da Silio Italico, e resuscitata  dal  Trissino,  quest'epopea,
l'assunto della quale, sempre secondo voi, repugna apertamente  alla  scienza  e
allo spirito del tempo presente, ha prodotta la Gerusalemme  Liberata,  cioè  un
lavoro che è, da quasi tre secoli, ammirato e gustato dai dotti e dalle  persone
colte non solo d'Italia, ma del mondo, meno poche eccezioni, qualcheduna insigne
bensì, come sarebbe il Galileo ma sempre eccezione. E così? Dicendo dianzi,  che
l'epopea  cavalleresca  era  morta,  abbiamo  noi  negato  che  il  Furioso   le
sopravviva? Il Tasso medesimo, prescrivendo che «il soggetto del poema eroico si
prenda da storia di secolo non molto remoto»31, intese forse di levar dal numero
de' poemi vivi l'Eneide, il soggetto della quale è preso da tempi favolosi, cioè
molto remoti anche per Virgilio? No, davvero: non parlava di ciò  che  si  fosse
potuto fare in passato, ma di ciò che si potesse far di novo.  Così,  dall'avere
il pubblico europeo mantenuta in grand'onore la Gerusalemme, non mi par  che  si
possa concludere che abbia voluto mantenere in attività l'epopea. Anzi mi par di
vedere che, dopo la Gerusalemme, abbia proibito severamente  di  far  più  poemi
epici. Mi si domanderà dove ho trovata questa proibizione. Rispondo che ci  sono
due maniere di proibire: una diretta e una  indiretta;  per  esempio  que'  dazi
enormi che fanno passar la voglia (a parte il contrabbando) di comprar le  merci
sulle quali sono imposti. E qualcosa di simile mi pare che avvenga nel  caso  di
cui parliamo. S'è fatto del poema epico un'opera  sovrumana,  una  cosa  che,  a
tutto  rigore,  assolutamente,  non  è  impossibile,  ma  che  non  bisogna  mai
aspettarsi  di  veder  realizzata  di  novo.  Che  molti  e  molti   scrivessero
componimenti poetici di qualunque altra specie, nessuno se n'è mai maravigliato;
che anche uno tenti di fare un componimento d'una specie nova, e  sia  pure  del
genere narrativo, non pare strano. Ma che uno si proponga di scrivere  un  poema
epico, proprio un poema epico, nella stretta significazione del termine,  è  una
cosa che non si crede subito. Pare quasi la promessa  d'un  miracolo,  una  mira
spinta al di là del possibile. Gli amici stessi del poeta se  ne  sgomentano,  e
quasi l'abbracciano con le lacrime agli occhi, come se andasse alla scoperta  di
terre incognite a traverso di mari indiavolati, a un'impresa  più  ardua  e  più
pericolosa di quelle che si propone di descrivere, che so io? a un combattimento
con degli esseri soprannaturali. E, certo, i lavori poetici segnalati  sono  una
cosa rara e difficile, come tutti i lavori segnalati, ma se  non  s'intende  (e,
certo, non s'intende) che la difficoltà  nasca  dalla  lunghezza  materiale  del
componimento, non vedo bene il perché questo  deva  essere  così  unico  per  la
difficoltà, anche tra i segnalati. «Non c'è quasi una  novelletta,  in  cui  gli
avvenimenti  non  siano  meglio  distribuiti,  preparati  con   più   artifizio,
congegnati con un'industria mille volte maggiore, che ne' poemi d'Omero»,  disse
il Voltaire. E l'espressione può parere esagerata;  ma  credo  che  la  sentenza
parrà vera in fondo, soprattutto se si applichi ai romanzi de'  quali  è  venuta
una così gran piena dopo che furono scritte quelle parole, e specialmente a que'
pochi che sono rimasti celebri.  Ora,  quel  congegno  degli  avvenimenti,  quel
subordinarne molti al principale, legandoli insieme tra di loro, è  appunto  ciò
che nel poema epico si riguarda come la cosa più difficile e  quasi  miracolosa.
Il rimanente dipende da altre facoltà, le quali, a chi mancano, bona notte;  chi
le ha avute in dono dal cielo, non si vede il perché non le possa  adoprar  così
felicemente nel poema epico come in  altri  componimenti.  Inclinerei  dunque  a
credere che quest'opinione d'una difficoltà specialissima della cosa nasca da un
sentimento che si ha in confuso del difetto intrinseco della cosa  medesima.  Si
chiama il poema epico un problema  di  soluzione  inescogitabilmente  difficile,
perché si sente che è la quadratura del circolo. Si dice: come farà la natura  a
produrre un uomo capace di rappresentare epicamente un grand'avvenimento? Quello
che  si  pensa  in  nube  è:  come  farà  un  uomo  a   rappresentar   bene   un
grand'avvenimento, travisandolo? Il Voltaire citato dianzi  farebbe  rammentare,
se ce ne fosse bisogno, al lettore e a me una trasgressione  fortunata  di  quel
divieto, l'Enriade; la quale e ottenne,  al  suo  apparire,  un  applauso  quasi
universale, e conserva ancora un'universale celebrità. Ma questo poema è appunto
ciò che si potrebbe desiderar di meglio per conoscere quanto la difficoltà fosse
cresciuta a quel tempo, e a quali espedienti abbia dovuto  ricorrere  il  poeta,
per darsi a intendere di  superarla.  Apro  dunque  l'Enriade,  e  trovo,  prima
dell'Enriade, un'Idea dell'Enriade, e una Storia compendiosa  degli  avvenimenti
sui quali è fondata la favola del poema; e dopo il poema,  una  lunga  filza  di
note storiche, e per di più un Saggio sulle guerre civili di Francia.  Il  Tasso
biasima in qualche poeta del suo tempo qualcosa di molto meno, e  per  un'ottima
ragione. «Perfettissima  d'ogni  parte  è  quella  favola,»  dic'egli,  parlando
dell'Iliade, «e nel seno della sua testura porta intiera e  perfetta  cognizione
di sé stessa, né conviene accattare estrinseche cose, che la sua intelligenza ci
facilitino. Il qual difetto si può per avventura riprendere  in  alcun  moderno,
ov'è necessario ricorrere a quella prosa,  che  dinanzi  per  sua  dichiarazione
porta scritta; perocché questa tal chiarezza, che si ha dagli  argomenti,  e  da
altri sì fatti aiuti non è né artificiosa, né propria del poeta, ma estrinseca e
mendicata.» Egregiamente; ma il punto sta nel non aver bisogno di simili  aiuti.
Certo, non aveva bisogno Omero d'accattare né schiarimenti  né  attestati  dalla
storia, poiché la faceva lui. La Memoria  era  il  suo  mallevadore;  e  quella,
bastava invocarla sul principio e, per  un  di  più,  ogni  tanto.  Non  n'aveva
neppure bisogno Virgilio, quantunque il caso fosse molto diverso.  Le  cose  che
raccontava non gli potevano, è vero, esser credute; non faceva lui la storia; ma
non c'era, di quelle cose, una storia ch'egli potesse  citare,  né  che  dovesse
temere. E senza dubbio, anche al tempo del Tasso,  c'era  molto  ma  molto  meno
bisogno di tali aiuti, di quello che ce ne  fosse  al  tempo  del  Voltaire.  Il
desiderio della verità positiva non poteva essere severo e fastidioso co' Poeti,
quando era di così  facile  contentatura  con  gli  storici,  quando  la  poesia
conservava  ancora  tanta  parte  di  dominio  nella  storia  medesima.  Infatti
l'origini, in tanta parte poetiche, delle nazioni e  degli  stati  erano  ancora
raccontate con sicurezza, e accettate con docilità. E anche  per  i  fatti  meno
remoti, il trovarli verosimili bastava per lo più e agli scrittori e ai  lettori
di storie, per non  andar  a  cercare  se  fossero  poi  anche  sufficientemente
attestati. E, malgrado alcune proteste già antiche, non parevano fuor  di  luogo
le parlate messe dagli storici  in  bocca  ai  loro  personaggi:  ché,  in  quel
momento, li facevano proprio diventare loro personaggi alla maniera  de'  poeti.
Credo che tutto questo non abbia bisogno di prove; ma mi si permetta di  citarne
un esempio notabile, d'un tempo alquanto anteriore, ma non tanto che, per questa
parte  principalmente,  si  possa  considerare  come  un   tempo   diverso.   Il
Machiavelli, osservatore così vigilante e così profondo (quando però non  prende
per regola suprema de' suoi giudizi e de' suoi consigli l'utilità: regola iniqua
e assurda, che è tutt'uno; e con la quale, per conseguenza, non c'è ingegno  che
possa andar al fondo di nulla), il  Machiavelli,  ne'  suoi  Discorsi  sopra  T.
Livio, tra tante e così varie osservazioni, non ne fa,  se  non  m'inganno,  una
sola di critica storica. Eppure,  volendo  dedurre  i  suoi  ammaestramenti  da'
fatti, pare che la  verità  de'  fatti  dovess'essere  per  lui  una  condizione
preliminare, non solo importante, ma indispensabile. Di più, prende  per  testo,
ogni volta che gli venga in taglio, de' luoghi delle parlate di Livio, né più né
meno che i luoghi dove Livio racconta. Anzi arriva a  prenderne  per  testo  uno
dove lo storico, più poeta che mai, descrive de' movimenti  interni  dell'animo.
Nel celebre capitolo sulle congiure, parlando de' «pericoli che si corrono in su
la esecuzione», dice: «E che gli uomini invasino e si  confondino,  non  lo  può
meglio dimostrare T. Livio quando descrive d'Alessameno Etolo (quando  ei  volle
ammazzare Nabide Spartano)  che  venuto  il  tempo  della  esecuzione,  scoperto
ch'egli ebbe a' suoi quello che s'aveva a fare, dice  T.  Livio  queste  parole:
Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione  rei.»  Nessuno  s'immagina
sicuramente che noi  vogliamo  dire  che  il  Machiavelli  prendesse  per  fatti
positivi tutto ciò che trovava nel suo autore. E, del resto, dicendo: non lo può
meglio  dimostrare  T.  Livio,  usa  il  linguaggio  che  avrebbe  potuto  usare
ugualmente, se avesse citato un apologo; come, citando le parlate, ora dice, per
esempio: «Annio loro pretore disse queste parole», ovvero: «io voglio addurre le
parole di Papirio Cursore»; ora: «il nostro istorico gli mette in  bocca  queste
parole», ovvero: «si può notare per le parole che  Livio  gli  fa  dire».  Ma  è
appunto questa indifferenza per la realtà positiva  de'  fatti  storici,  questo
correre con la  mente  a  ciò  che  possano  aver  di  notabile  come  meramente
verosimili, e fermarsi lì; è questo che abbiamo voluto notare in un  uomo  tale,
come un saggio insigne d'una disposizione comune. Disposizione che, non  essendo
ragionevole, non poteva esser perpetua, e che, al tempo del Voltaire, era  tanto
diminuita, da costringerlo a mettere, per meno male, tutti que' puntelli storici
al suo edifizio poetico. Volevo aggiungere che,  a  un  certo  tempo,  il  Tasso
medesimo, diede segno, in un'altra maniera,  di  sentire  più  di  prima  quelle
incomode esigenze della storia, poiché nella Conquistata ne fece  entrare  molto
più di quella che ne  avesse  messa  nella  Liberata.  Ma,  riflettendo  che  la
proposizione parrebbe scandalosa, e che mi si direbbe, non senza sdegno,  che  è
un levare il rispetto a un grand'uomo il prender sul serio una sua  aberrazione;
che è quasi un farsi complice delle critiche sciocche e  insolenti,  alle  quali
quell'uomo, tormentato, portato fuori di sé,  sacrificò  l'ispirazioni  del  suo
ingegno, lascio la mia osservazione nella penna, e seguo tacitamente a dire  tra
me: Non furono sicuramente le critiche altrui, che mossero il Tasso  a  dare  un
maggior posto alla storia nel suo secondo  poema;  poiché  la  critica  che  gli
facevano su questo punto (spropositata davvero, ma qui non importa) era in vece:
«Che la Gerusalemme Liberata è mera istoria senza favola», e Bastiano de' Rossi,
suo principale avversario in quella guerra, degna purtroppo dell'Italia di  quel
tempo, gli oppone che: «Il poeta non è poeta senza l'invenzione; però  scrivendo
istoria, o sopra storia scritta da altri, perde l'essere interamente». Dunque la
cosa è nata da tutt'altra cagione. E posso ingannarmi, ma  deve  esser  nata  da
questo, che, avendo il Tasso presa quell'infelicissima determinazione di  rifare
il suo poema; e dando una ripassata alle cronache della crociata, per  vedere  a
buon conto se qualcosa ci fosse da ritoccare  anche  riguardo  alla  storia,  la
storia abbia prodotto il suo effetto naturale, che è di parer  più  a  proposito
dell'invenzione, quando la materia è sua, e non dell'invenzione. E  non  gli  si
poteva dire: vattene in pace, ché la tua parte l'hai avuta; perché la parte  che
la storia deve avere in un Poema,  o  piuttosto  la  parte  che  si  possa  dare
all'invenzione in un avvenimento storico, non era stata determinata al tempo del
Tasso, come non lo fu dopo. Ne' Discorsi dell'arte  poetica,  scritti  un  pezzo
prima, il Tasso aveva detto: «Lasci il nostro epico il fine  e  l'origine  della
impresa, e alcune cose più illustri nella loro verità, o nulla o poco  alterata,
muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda  i  tempi  e  gli
ordini dell'altre cose, e si dimostri in somma più artificioso poeta, che verace
storico.» E che più tardi gli  sia  parso  che  «alcuna  parte  dell'azione  più
illustre era tralasciata nella prima» favola della Gerusalemme, formata con  una
tal norma, non trovo che ci sia punto da maravigliarsene. Chi mai, prendendo per
misura d'un giudizio oggetti così indeterminati e nebbiosi, come: alcune cose, e
o poco o nulla, e motivi così arbitrari e arrendevoli, come: se così gli pare, e
l'esser più poeta che storico; chi mai, dico, potrebbe esser  sicuro  di  portar
due volte lo stesso giudizio su  una  stessa  cosa?  Perciò,  quando  il  Tasso,
diventato (per sua disgrazia) autore della Conquistata, dice: «Io, in  quel  che
appartiene alla mistione del vero col falso, estimo che il vero  debba  aver  la
maggior parte, sì perché vero dee esser il principio, il quale è  il  mezzo  del
tutto; sì per la verità del fine, al quale tutte le cose  sono  dirizzate»,  non
trovo certamente in queste parole una norma più applicabile della prima, giacché
il dire: la maggior parte non dà un'idea più distinta che il dire: alcune  cose;
ma ci vedo l'imbroglio dell'assunto, e non l'aberrazione d'un  uomo.  Dunque  si
parlava dell'Enriade e della prosa che ci attaccò l'autore, dimanieraché  questa
volta la storia, non solo occupò un  maggior  posto  nell'epopea,  ma  s'accampò
anche di fuori. E cosa contiene questa prosa? Relazioni di  cose  antecedenti  o
concomitanti, che non potevano entrar nel  poema,  ma  ch'erano  necessarie  per
intenderlo bene; citazioni di storie, di memorie, di lettere, per  avvertire  il
lettore, che il tale e il tal altro fatto cantato nel poema, è un fatto davvero,
discussioni in forma, quando i  fatti  sono  controversi,  vite  compendiose  di
questo e di quel personaggio, per dimostrare che ciò che gli si fa dire  o  fare
nel poema, s'accorda col suo carattere, e  con  le  sue  azioni  reali;  e  cose
simili. Certo, quest'autore aveva qui, come quasi in tutti i suoi scritti  e  in
verso e in prosa, anche degli altri  fini;  o  piuttosto  quel  suo  perpetuo  e
deplorabile fine di combattere il  cristianesimo.  E  non  è  da  dire  come  ci
lavorasse,  in  un  argomento  dove  gli  orrori  commessi  col   pretesto   del
cristianesimo gli davano un pretesto più specioso per accusarlo, e un mezzo  più
facile (per disgrazia sua e altrui) di renderlo odioso. Ma, indipendentemente da
quest'uso speciale che il Voltaire poté fare di quegli aiuti storici, fu egli un
suo capriccio il ricorrere ad essi? Non fu altro che  la  conseguenza  dell'aver
fatta entrare molta storia nel poema: come  questo  era  una  conseguenza  della
mutata condizione de' tempi, del non poter più i lettori veder nella  storia  un
semplice mezzo per farne  qualcos'altro.  Fu  perché  l'autore  non  trovava  un
miglior espediente (e n'avreste voi trovato un altro da  suggerirgli?)  per  far
conoscere la verosimiglianza speciale delle sue invenzioni col soggetto a cui le
attaccava. Certo, era più semplice, più facile  e  soprattutto  più  conveniente
all'arte quello che Orazio suggeriva al poeta  del  suo  tempo  (poeta  epico  o
tragico, qui non fa  differenza):  «Attienti  alla  fama»32.  Ma  glielo  poteva
suggerire perché nello stesso tempo gli proponeva  de'  soggetti  come  Achille,
Medea, Ino, Issione, Io, Oreste: soggetti mitologici, che vuol dire e notissimi,
e intorno ai quali non c'era, al di là di quella notizia  comune,  né  molto  né
poco di positivo, di verificabile, da potersi conoscere.  C'erano  bensì  alcuni
che ne sapevano  di  più;  ma  cos'era  questo  di  più?  Una  maggior  quantità
d'invenzioni arbitrarie, e, per una conseguenza naturalissima, varie e discordi.
L'erudizione, in quella  materia,  non  era,  né  poteva  essere  altro  che  un
accumulamento di cose la più parte diverse e opposte. Mancava la  ragione  dello
scegliere  tra   tante   attestazioni   contradittorie,   cioè   la   prevalenza
dell'autorità: non solo una prevalenza reale, ma una apparente a segno di  poter
essere accettata generalmente dai dotti, e di poter conseguentemente indurre nel
pubblico l'opinione, che, oltre quello che  ne  sapeva  il  pubblico,  ci  fosse
qualcosa da saper veramente. Ciò che c'era di più omogeneo e, dirò così, di  più
uno in quella materia, era appunto la notizia comune, la fama; val a  dire  poco
sopra ogni soggetto; e un poco altrettanto capace d'aggiunte arbitrarie,  quanto
incapace di positive. E quindi, per giudicare,  e  per  giudicar  francamente  e
speditamente della verosimiglianza relativa delle nove invenzioni col  soggetto,
il lettore, o lo spettatore, aveva già  nella  mente  bell'e  preparato  l'altro
termine del confronto33. Quindi nulla di più adatto a  quelle  circostanze,  del
precetto, o piuttosto, del suggerimento d'Orazio; giacché, in fatto  d'arte,  un
precetto non può esser  altro  che  l'indicazione  d'un  mezzo.  Ma  avrebbe  il
Voltaire potuto servirsi e contentarsi d'un tal mezzo? Cosa gli somministrava la
fama, per comporre un'Enriade che non paresse una novella indegna del soggetto e
del secolo? Senza dubbio, il pubblico sapeva qualcosa d'Enrico IV,  di  Caterina
de' Medici, della Lega, dell'assedio di Parigi;  ma  sapeva  che  se  ne  poteva
sapere molto di più; e a questo si rivolgeva, o volere  o  non  volere,  la  sua
aspettativa, ogni volta che quel soggetto gli fosse messo davanti, in  qualunque
forma. Chi avesse voluto tessere una tela poetica di verosimili su quel  solo  e
magro ordito della cognizione comune di quel  complesso  d'avvenimenti,  avrebbe
delusa miserabilmente una tale aspettativa. Sarebbe, parsa, e sarebbe stata  (in
questa parte, ben inteso) una continuazione dell'epopea  di  Chapelain,  del  P.
Lemoine,  di  Desmarets  e  di  Scudéri34.   Ecco  dunque  il  poeta  ridotto  a
somministrar lui medesimo al lettore la  materia  di  confronto  necessaria  per
giudicare della verosimiglianza speciale delle sue invenzioni. E  perché  questo
non si poteva fare nel contesto stesso  del  poema,  eccolo  ridotto  a  uscirne
fuori, per asserir formalmente e provare e discutere, co mezzo di quella ch'egli
chiamò  più  d'una  volta  la  vile  prosa.  Prendo   dall'Enriade   l'occasione
d'osservare  un  altro  grand'impiccio  dell'epopea  storica,  voglio  dire   il
maraviglioso soprannaturale. Ci deve o non ci dev'essere questo maraviglioso  in
un poema epico? Questione stata sciolta più volte, ma ne' due sensi  opposti.  E
non so se alcuno o de' poeti  o  de'  critici  che  nella  Poetica  d'Aristotele
credevano doversi  trovare,  se  non  tutte,  almeno  le  più  importanti  norme
dell'arte, abbia notato il silenzio assoluto del maestro su  questo  punto  così
importante per loro. Silenzio che ad essi doveva  parere  strano,  e  che  parrà
naturalissimo a chi pensi che, quando Aristotele scriveva, la questione non  era
ancora nata, né forse si poteva prevedere. Aristotele parla dell'epopea omerica,
dell'epopea praticata e conosciuta al  suo  tempo,  di  quella  che  prendeva  i
soggetti dai secoli eroici: soggetti nei quali il maraviglioso era  innato.  Era
quindi per Aristotele una cosa  sottintesa.  Fu  dall'aver  l'epopea  presi  per
soggetto avvenimenti di tempi storici,  ch'ebbe  origine  questa  questione,  la
quale non pare che voglia aver fine.  Da  una  parte,  si  dice  che,  senza  il
maraviglioso, il poema non può essere che o una storia versificata, o una storia
alterata senza ragione,  perché  dov'è  la  ragione  di  mutar  le  cause  e  le
circostanze naturali e vere d'un avvenimento, per metterne in  vece  dell'altre,
ugualmente naturali, ma false? Si dice dall'altra, che, in mezzo a fatti noti  o
conoscibili, de' falsi prodigi paiono  inevitabilmente  eterogenei,  come  sono.
Bone ragioni l'una e l'altra, diremo anche qui; ma  bone  a  impedire  e  non  a
aiutare; dimanieraché l'epopea storica può dire al maraviglioso, come Marziale a
quell'uomo d'umore variabile: «Non posso vivere né con te, né senza di te». Dopo
diciotto secoli, si trova ancora ai bivio che incontrò ne' suoi primi  passi:  o
privarsi del maraviglioso, con Lucano; o riceverlo per forza, con Silio Italico.
Senonché (ed è una cosa che giova ripetere) chi era poeta poté, seguendo o l'una
o l'altra strada, dare delle prove  accidentali  del  suo  valore.  Così  doveva
essere del Voltaire; il quale  nel  suo  poema  introdusse  il  maraviglioso,  o
piuttosto due specie di maraviglioso, il cristiano e l'allegorico. Ma non  credo
d'esprimere una mia opinione particolare dicendo che,  quantunque  abbelliti  da
immagini e vive e appropriate, e da sentenze e gravi e pellegrine  (quando  sono
giuste), e il tutto in versi quasi sempre belli, e  non  di  rado  singolarmente
belli, l'effetto che fanno, come parte dell'azione, è  languido  e  stentato,  e
quasi di gente estranea e indifferente, che bisogna chiamar di novo  ogni  volta
che si vuol  farcela  entrare.  Il  Voltaire  che,  come  poeta,  si  servì  del
maraviglioso, opinò, come critico, che si potesse farne di meno, e, da quel  che
mi pare, non senza contradirsi. Cosa non punto  strana,  perché  dove,  in  vece
d'una massima certa, ci sono due opinioni probabili, può facilmente accadere che
all'uomo medesimo piaccia di più ora l'una,  ora  l'altra.  «Virgilio  e  Omero,
dic'egli,  fecero  benissimo  a  mettere  in  scena  le  divinità.  Lucano  fece
ugualmente bene a farne di meno. Giove, Giunone, Marte, Venere, erano  ornamenti
necessari all'azione d'Enea e  d'Agamennone.  Poco  si  sapeva  di  quegli  eroi
favolosi... Ma Cesare, Pompeo, Catone, Labieno, vivevano in tempi ben diversi da
quelli d'Enea.» E Enrico IV, Mayenne, Potier e  Mornay?  «Le  guerre  civili  di
Roma», aggiunge, «erano una cosa troppo seria per tali giochi  d'immaginazione.»
E le guerre civili di Francia? Si dirà egli, che queste  parole,  applicate  dal
Voltaire alle divinità mitologiche,  non  possono  convenire  al  soprannaturale
cristiano? Rispondo che al soprannaturale  non  rivelato,  ma  inventato  da  un
poeta, convengono né più né meno. Più notabile, per un altro riguardo, è ciò che
dice poco dopo: «Quelli che prendono i cominciamenti d'un'arte  per  i  princìpi
dell'arte medesima,  sono  persuasi  che  un  poema  non  potrebbe  stare  senza
divinità,  perché  l'Iliade  n'è  piena.  Ma  queste  divinità  sono  così  poco
essenziali al poema, che il passo più bello che si trovi nella Farsalia, e forse
in qualunque poema, è il discorso col quale Catone, quello stoico odiatore delle
favole, rifiuta sdegnosamente di visitare il tempio  di  Giove  Ammone.»  Ognuno
vede qual sia la forza di questo ragionamento: si potevano dire delle bellissime
cose  in  disprezzo  del  politeismo,  dunque  il  poema  può  stare  senza   il
maraviglioso. Ma ciò che volevamo  notare  particolarmente,  è  quel  riguardare
l'epopea storica, non solo come una continuazione (era  l'opinione  comune),  ma
come un progresso dell'epopea primitiva, essenzialmente mitica. Come  se  quella
che voleva esser la storia, e ch'era infatti presa per  storia,  e  quella  che,
senza ottenere né chieder fede, contraffà una storia, fossero  la  stessa  arte,
perché la seconda ha  imitate  delle  forme  estrinseche  della  prima.  Sarebbe
un'arte di novo genere quella che, cominciata senza princìpi,  li  trovasse  poi
col cambiar l'intento e l'effetto, conservando delle forme  estrinseche.  E  non
sempre ciò che vien dopo è progresso. C'è un'altra specie d'epopee, nelle  quali
può parere a prima vista, che il soprannaturale sia a suo luogo; cioè  quelle  i
di cui soggetti  sono  presi  dalla  Storia  sacra.  Ma  basta  questo  per  far
riflettere che soggiacciono anch'esse,  quantunque  in  un'altra  maniera,  allo
stesso inconveniente dell'altre. Sono rifacimenti d'una  storia;  e  storia  nel
senso più stretto, e più sdegnoso. Non è il soprannaturale intruso nel soggetto;
ma  è  l'invenzione  intrusa  nel  soprannaturale.  Un,  direi  quasi,   istinto
rispettoso  e  sommamente  ragionevole  ci  avverte  che,  nelle  manifestazioni
straordinarie della volontà e della potenza divina, la mente umana non arriva  a
trovare una regola del verosimile, come la trova nel corso naturale delle  cose,
e nelle determinazioni della volontà umana. Gli squarci mirabili che si  trovano
nel Paradiso Perduto, e la virtù poetica che ci si fa sentire quasi  per  tutto,
non possono fare che non produca l'effetto d'un'interpolazione perpetua. E anche
la Messiade   ha  de'  pregi  non  volgari,  e  singolarmente  quell'unione  non
infrequente del tenero e del sublime, che produce una commozione  indistinta,  e
tanto  più  gradevole.  Ma  è  un  soggetto,  quanto  inesauribilmente   fecondo
d'applicazioni, altrettanto inaccessibile  alle  aggiunte.  Termino  qui  questi
cenni sull'epopea, per passare alla tragedia; intorno  alla  quale  avrò  ancora
meno a trattenermi. E s'intende che  non  si  tratterà  se  non  della  tragedia
storica, e in quanto storica. Gl'inconvenienti  che  nascono  in  essa  da  ciò,
differiscono e nel modo e nel grado, da quelli dell'epopea,  per  cagione  d'una
differenza essenziale nella forma de' due componimenti. La tragedia non  adopra,
come l'epopea, un istrumento medesimo e per la storia e per l'invenzione,  quale
è il racconto. La parola  della  tragedia  non  ha  altra  materia,  dirò  così,
immediata, che il verosimile. I discorsi che lo Shakespeare,  il  Corneille,  il
Voltaire, l'Alfieri, mettono  in  bocca  a  Cesare,  è  tutta  fattura  poetica,
l'azioni che Lucano racconta di Cesare, possono essere o inventate  o  positive.
Quindi, nel poema la parola può produrre, ora un effetto poetico, ora un effetto
storico; o, non riuscendo a produrre né  l'uno  né  l'altro,  rimanere  ambigua.
Nella tragedia è sempre la poesia che parla; la storia se ne  sta  materialmente
di fuori. Ha una relazione col  componimento,  ma  non  ne  è  una  parte35.  La
rappresentazione  scenica  poi  accresce  non  poco  l'efficacia  della  parola,
aggiungendoci l'uomo e l'azione. E qui fa al nostro proposito l'osservare (cosa,
del resto, degna d'osservazione anche per sé) come questi  oggetti  presenti  al
senso, non solo non disturbino, con l'impressione della loro  realtà,  l'effetto
della verosimiglianza pura voluto dall'arte, ma lo secondino e lo rinforzino. La
ragione è che tali realtà non  operano  che  come  meri  istrumenti  dell'azione
verosimile, e come  tali  le  prende  lo  spettatore.  Infatti,  se  un  attore,
nell'atto della rappresentazione, fa o dice qualche cosa che si  riferisca  alla
sua  persona  reale  o  alle  circostanze  di  essa,  offende   lo   spettatore,
trasportandolo alla considerazione di quella realtà. E  cosa  vuol  dire  questo
avvedersene ed esserne offesi, se non che prima se ne faceva  astrazione?  E  di
qui viene che quanto più un attore par che faccia  naturalmente,  e  quanto  più
commove, tanto più concentra la mente  dello  spettatore  nel  mero  verosimile;
quanto più gli rende presente  l'uomo  della  favola,  l'uomo  o  colpito  dalla
sventura, o accecato dalla passione, o minacciato da un pericolo ignoto  a  lui,
tanto più gli sottrae, per dir così, e gli fa scomparir davanti la sua propria e
reale personalità. Ed è la massima lode che si dia a un attore: era ciò  che  si
voleva dire quando si diceva, per esempio, che Garrick era  Hamlet,  che  Lekain
era  Orosmane.   Non  è  la  realtà  presente,  ma  ordinata  e  subordinata  al
verosimile, quella che ne  possa  disturbar  l'effetto;  è  la  realtà  storica,
indipendente dal verosimile, e dalla quale  il  verosimile  deve  dipendere;  la
realtà storica, conosciuta o anche semplicemente conoscibile,  e  assente  bensì
dal senso, ma compenetrata col soggetto. Il vantaggio  essenziale  della  forma,
quest'altro  vantaggio  secondario,  ma  considerabile,  e  altri   ancora   più
secondari, che non importa qui di  rammentare,  fanno  che  la  tragedia  possa,
meglio del poema epico, schermirsi dalla  storia.  Ma  ho  detto  schermirsi,  e
aggiungo: cedendo sempre  qualcosa, perché, anche da fuori, la storia  riesce  a
farsi sentire, e a far valere le sue pretensioni. La  relazione  estrinseca,  ma
essenziale, che la tragedia storica ha con essa; e l'obbligo  che  ne  nasce  di
trovare de' verosimili che siano tali  relativamente  al  soggetto  preso  dalla
storia, doveva produrre, e ha prodotti nella tragedia i medesimi  inconvenienti,
che nell'epopea:  meno  frequenti  e  meno  sensibili,  è  vero;  ma  ugualmente
crescenti con l'andar del tempo. E a metterli in chiaro, nulla  potrebbe  servir
meglio degli argomenti ai quali è dovuto ricorrere un gran tragico, per veder di
levarli.  «La  questione»  dice  Pietro  Corneille,  «se  sia  lecito  far   de'
cambiamenti ai soggetti presi o dalla storia o  dalla  favola,  pare  decisa  in
termini abbastanza formali`  da  Aristotele,  quando  dice  che  non  si  devono
cambiare i soggetti ricevuti, e che Clitennestra dev'essere uccisa da Oreste,  e
Erifile da Alcmeone. Questa sentenza però può ammettere  qualche  distinzione  e
qualche temperamento. È certo che le circostanze, o,  se  par  meglio,  i  mezzi
d'arrivare ai fatto rimangono in nostro arbitrio: la storia spesso non ce li dà,
o ne dà così poco, che è  necessario  di  supplir  con  dell'altro,  per  render
compito il poema, e si può anche presumere con qualche apparenza, che la memoria
dello spettatore, il quale abbia  lette  altra  volta  queste  circostanze,  non
l'avrà ritenute così fortemente, da farlo avvedere del  cambiamento,  abbastanza
per accusarci di menzogna, come farebbe senza dubbio,  se  ci  vedesse  cambiare
l'azione  principale.»  Così,  mentre  la  tragedia  antica  si  fondava   sulla
cognizione che lo spettatore doveva aver de' soggetti, la moderna è costretta  a
fare assegnamento sulla dimenticanza. Aiuto infelice; giacché non pare che  deva
esser bon segno in un'arte l'aver paura della  cognizione.  E  aiuto,  non  solo
incerto, ma  precario;  giacché  se  lo  spettatore  che  aveva  dimenticate  le
circostanze storiche del soggetto, e poté quindi,  alla  prima  recita,  godersi
senza disturbo l'invenzioni poetiche; se, dico, uscendo dal teatro con  un  novo
interessamento per quel soggetto, va a rinfrescarsi la memoria  nel  libro  dove
aveva lette quelle circostanze, non sarà più, alla seconda rappresentazione,  lo
smemorato che conveniva al poeta. Aiuto, finalmente,  ricorrendo  al  quale,  il
Corneille  contradice  sé  stesso;  giacché,   se   le   circostanze   rimangono
nell'arbitrio del poeta, cos'importa che lo spettatore  si  rammenti  o  non  si
rammenti quelle della storia? Ma che?  il  Corneille  medesimo,  nell'Esame  che
aggiunse a' suoi componimenti, tocca più d'una volta l'alterazioni da lui  fatte
alla storia, e, per giustificarle, o  anche  per  accusarsene  candidamente,  le
manifesta; e leva così di sotto alla  tragedia  storica  quella  povera  gruccia
della dimenticanza altrui, che le aveva data. Darne di  tali  a  un'arte,  è  un
confessare che è  diventata  zoppa,  e  dargliele  un  Pietro  Corneille,  è  un
terribile indizio che non ci sia più il verso di rimetterla su' suoi  piedi.  Ma
perché ebbe egli bisogno  di  cercar  delle  distinzioni  in  un  precetto  così
semplice, de' temperamenti per un precetto così  discreto?  Perché  il  precetto
riguardava una cosa, e il Corneille,  seguendo  una  consuetudine  già  invalsa,
l'applicava anche a un'altra cosa, e diversissima. Aristotele parla delle favole
ricevute36, e di queste dice che non si devono alterare; il Corneille  paria  di
soggetti presi o dalla storia, o dalla favola,  come  se  fosse  tutt'uno.  Ora,
applicato alle favole ricevute, il precetto non ha bisogno né  di  temperamenti,
né di distinzioni, poiché quelle non davano, né imponevano altro al  poeta,  che
appunto l'azione principale: Clitennestra uccisa da Oreste, Erifile da Alcmeone.
I mezzi e le circostanze rimanevano davvero nell'arbitrio de' poeti.  La  storia
in vece dà, insieme co' soggetti, anche  de'  mezzi  e  delle  circostanze,  che
possono non accomodarsi con l'intento dell'arte. Quindi il bisogno di cambiarle,
val a dire d'alterare i soggetti coi quali sono, per dir così, immedesimate. Che
se la storia non le dà, le lascia desiderare; ma ciò non vuoi dire  che  un  tal
desiderio possa essere appagato col mezzo  dell'invenzione  poetica.  «L'esempio
della morte di Clitennestra», aggiunge il Corneille, «può servir di  prova  alla
mia proposizione. Sofocle e Euripide l'hanno trattata  tutt'e  due,  ma  con  un
intreccio e con uno scioglimento differente;  e  questa  differenza  fa  che  il
dramma non è lo stesso, quantunque sia uno solo il soggetto,  del  quale  i  due
poeti hanno conservata l'azione principale.» E  per  far  questo,  ebbero  forse
bisogno di temperare il precetto? Neppur per idea: l'eseguirono  a  un  puntino,
facendo l'uno e  l'altro  morir  Clitennestra  per  mano  d'Oreste;  giacché  il
precetto non richiede nulla di più. O piuttosto prevennero un precetto  indicato
alla pratica dalle convenienze dell'arte, prima che Aristotele lo promulgasse. E
questo  potere  ognuno  inventare,  senza  inconvenienti,  un  intreccio  e  uno
scioglimento a modo suo, veniva dal non avere ognuno contro di sé, se non  altri
intrecci, e altre maniere di scioglimenti. Erano poeti contro poeti,  verosimili
contro verosimili, non legati ad altro che a fatti  e  a  caratteri,  tanto  più
fecondi  per  l'invenzione,  quanto  più  digiuni  di   circostanze   obbligate.
L'inventarne di nove non era una licenza che i poeti  dovessero  prendersi;  era
l'operazione propria della poesia. E  a  un  bisogno  l'attesterebbe  Aristotele
stesso, il quale aggiunge subito: «Tocca poi al poeta a inventare, e a far  buon
uso delle (favole) ricevute». Dà come una conseguenza naturale del precetto  ciò
che il Corneille chiede come un temperamento. E quel precetto era in sostanza il
medesimo che fu poi espresso da Orazio  con  le  parole:  famam  sequere37.  Del
resto, né i temperamenti forzati del Corneille,  né  i  suoi  sempre  ammirabili
capolavori poterono sottrarre  la  tragedia  alle  sue  perpetue  variazioni,  e
costituirla, per ciò che riguarda le sue relazioni con la storia, in  una  forma
stabile e definitiva. Per nostra fortuna, o paziente lettore, non c'è bisogno di
ripassare tutte  quelle  variazioni,  nemmeno  di  corsa,  come  s'è  fatto  con
l'epopea. Qui basterà accennare il fatto attuale, e le sue cagioni prossime. Del
tempo intermedio non voglio rammentare altro che una  variazione  estrinseca,  e
che non toccava l'essenza stessa della tragedia;  ma  molto  significante.  Poco
dopo la metà del secolo scorso, non  so  se  un  attore  o  un'attrice  francese
introdusse una riforma generale nel  vestiario, rendendolo conforme all'uso  del
tempo in cui era finta l'azione. Prima dipendeva, in parte dalla moda  corrente,
in parte dal capriccio dell'attore, in parte da consuetudini che avevano  quelle
stesse  origini;  e  ci  poteva  essere,  per  un  di  più,  un  qualche   segno
caratteristico, desunto dalla storia. Il  Voltaire,  non  mi  rammento  in  qual
luogo, descrive l'attore che, nel secolo di Luigi XIV, rappresentava Augusto nel
Cinna, con una gran parrucca, e sopra di questa un gran cappello a gran penne, e
le penne lardellate di foglie d'alloro: il rimanente  su  quel  gusto.  Ma  cosa
voleva dir questo? Che gli spettatori erano più disposti di  quello  che  furono
poi, a veder nell'attore l'Augusto del poeta, l'Augusto verosimile, senza  darsi
tanto pensiero dell'Augusto reale della storia. L'introdursi questa  fino  nelle
quinte a sindacare gli attori, ministri nati  della  poesia,  e  costringerli  a
prender le sue divise, era un segno del possesso ch'era andata sempre  prendendo
sulla tragedia, e un indizio del  maggior  possesso,  che  ci  voleva  prendere.
Infatti, non tardò molto a principiare la rivoluzione  drammatica,  che  vediamo
ora vittoriosa. Era allora sentimento quasi unanime  de'  dotti  e  delle  colte
persone d'Europa, che la vera, la bona tragedia, quella che  potesse  soddisfare
il bon gusto, e essere ammessa dal  bon  senso,  era  la  tragedia  nella  quale
fossero mantenute le così dette unità di tempo e di  luogo.  Unità,  si  diceva,
proclamate  da  Aristotele,  osservate  fedelmente  nelle  tragedie  greche,   e
soprattutto volute dalla ragione. Se  poi  Aristotele  avesse  proposte  davvero
queste unità; se nelle tragedie greche fossero davvero state  osservate;  se  la
ragione non avesse nulla a dire in contrario, non si cercava quasi da nessuno; e
a chi ne cercasse, si dava sulla voce38. È inutile aggiungere  che  alla  storia
quelle regole non convenivano punto. E i tentativi che aveva fatti fino  allora,
e che andava facendo, per prendere un maggior posto nella  tragedia,  ottenevano
bensì qualcosa: la tragedia, a costo anche di storpiarsi, faceva  il  possibile,
per contentar la  storia,  ma  salve  le  regole.  Si  parlava  bensì  d'un  tal
Shakespeare, che, o non curandole, o non sapendo neppure  che  ci  fossero,  era
riuscito a far qualcosa da non esser buttato via. Ma se  ne  parlava  come  d'un
genio selvaggio, d'un capo strano,  con  de'  lucidi  intervalli  stupendi:  una
specie di montagna arida e scoscesa, dove un botanico,  arrampicandosi  per  de'
massi ignudi, poteva trovare un qualche fiore non comune. E, del resto, le  cose
che si citavano di quel grande e quasi unico poeta, erano cavate  da  que'  suoi
drammi ne' quali la storia ha meno parte, o non ce n'ha nessuna. Ecco però,  che
in Germania salta fuori un altro tale, chiamato Goethe, il quale, entrando nella
strada del dramma storico, segnata dal genio selvaggio e entrandoci, come accade
ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d'imitare, fa, da' suoi  primi
passi, prevalere presso la sua nazione la ragione della storia  a  quella  delle
due unità. Ma nella Francia, superba, da un pezzo, di poeti che  avevano  tenuta
l'altra strada; nell'Italia, superba d'uno recente  era un'altra faccenda. Come!
si diceva: le regole alle quali si sono assoggettati un Corneille, un Racine, un
Voltaire, un Alfieri, senza parlare degli autori della Merope e dell'Aristodemo,
parranno ora un freno incomodo all'ingegno,  un  ostacolo  alla  perfezione!  Il
campo dov'essi hanno fatte le loro gran prove, sarà diventato angusto!  Proporre
l'abolizione di quelle regole  pareva,  non  so  se  più  una  temerità  da  non
tollerarsi, o una sciocchezza da compatirsi. Ma che? la storia, per  fare  nella
tragedia quella grande irruzione  che  s'era  fissata  di  fare,  aveva  proprio
bisogno d'abbattere quel baluardo e l'abbattè. In Francia, non  ne  parliamo,  e
anche in Italia, da quello che sento, lo spettatore non ci  patisce,  e  non  si
chiama offeso se, nel corso d'una tragedia, vede alzarsi una scena e  venir  giù
un'altra, e se, in quelle tre o quattr'ore  di  seduta,  il  poeta  pretende  di
fargli passare davanti alla mente più di quel benedetto giro di  sole,  nominato
così innocentemente da Aristotele. E si veda come una cosa tenuta  indietro  per
forza, si ricatti, quando gli riesce finalmente di venire avanti. Fino allora  i
soggetti che nella storia fossero  meno  particolarizzati,  erano  parsi  i  più
opportuni alla tragedia, come quelli che lasciavano più campo all'invenzione. Se
la storia tace, diceva il poeta, tanto meglio: parlerò io. Ora in  vece  sono  i
poeti che, quando i particolari mancano nelle storie propriamente dette, vanno a
cercarne in  altri  documenti,  di  qualunque  genere,  affine  d'arricchire  il
soggetto, anzi di formarlo. Ben contenti se riescono a dare del fatto storico da
essi rappresentato, un concetto più compito, più contenti ancora, se riescono  a
darne un concetto novo, e diverso dall'opinione comune. È appunto  il  contrario
del famam sequere; ma come poteva essere altrimenti? È  una  pretensione  troppo
contradittoria, il volere che la poesia, per essere efficace, non stia  indietro
delle  cognizioni  del  tempo,  ne  secondi,  anzi  ne  prevenga   le   tendenze
ragionevoli, e che non se ne faccia carico, per rimaner più libera. Accennato il
fatto, non mi resta che a fare alcune domande: C'è  egli  qualcheduno  il  quale
creda che la tragedia possa tornare a mettersi negli antichi confini, e  far  di
novo a confidenza con la  storia,  come  ha  fatto  per  tanto  tempo?  O  crede
qualchedun altro, che, con l'allargare i confini, si sia trovata  finalmente  la
giusta misura della parte che la storia deva avere nella  tragedia,  e  la  vera
maniera di comporla con l'invenzione? E se ciò non si crede, c'è qualche ragione
di credere che questa misura e questa maniera si possano  trovare  in  avvenire?
Risponda e concluda il lettore. Venendo finalmente  al  paragone  tra  l'assunto
comune all'epopea e alla tragedia, e l'assunto del  romanzo  storico,  è  facile
vedere che la differenza essenziale sta in questo, che il  romanzo  storico  non
prende il soggetto principale dalla storia,  per  trasformarlo  con  un  intento
poetico, ma l'inventa, come il componimento dal quale ha preso il  nome,  e  del
quale è una nova forma. Voglio dire il  romanzo  nel  quale  si  fingono  azioni
contemporanee: opera affatto poetica, poiché, in essa, e fatti e discorsi  tutto
è meramente verosimile. Poetica però, intendiamoci, di quella povera poesia  che
può uscire dal verosimile di fatti e di costumi privati e moderni, e  collocarsi
nella prosa. Con che non intendo certamente d'unirmi a quelli  che  piangono,  o
che piangevano (giacché la dovrebb'esser finita) quelle età  così  poetiche  del
gentilesimo, quelle belle illusioni perdute per sempre. Ciò che ci fa differenti
in questo dagli uomini di quelle età, è l'aver noi una critica storica che,  ne'
fatti passati, cerca la verità di fatto, e, ciò che importa troppo più,  l'avere
una  religione  che,  essendo  verità,  non  può  convenientemente  adattarsi  a
variazioni arbitrarie, e ad aggiunte fantastiche. È di  questo  che  ci  dovremo
lamentare?

Ho detto: differenza essenziale;  infatti,  non  è,  come  nell'epopea  e  nella
tragedia (il rispetto dovuto agli uomini celebri, che hanno dato del  loro  alla
cosa, non deve impedire di qualificar la cosa medesima), non è  quella  finzione
grossolana, che consiste nell'infarcir di favole un avvenimento vero, e  di  più
un avvenimento  illustre,  e  perciò  necessariamente  importante.  Nel  romanzo
storico, il soggetto principale  è  tutto  dell'autore,  tutto  poetico,  perché
meramente verosimile. E l'intento e lo studio  dell'autore  è  di  rendere,  per
quanto può, e il soggetto, e tutta l'azione, tanto verosimile  relativamente  al
tempo in cui è finta, che fosse potuta parer tale agli uomini di quel tempo,  se
il romanzo fosse stato scritto per loro. Ma (e qui è l'inconveniente  comune  al
romanzo storico con tutte le specie di  poesia  che  inventano  sopra  un  tempo
passato) è scritto per degli altri. Mettiamo pure, che all'autore  sia  riuscito
di comporre un racconto che agli uomini di quel tempo sarebbe parso  verosimile.
Un tale effetto sarebbe allora venuto dai confronto spontaneo e  immediato,  tra
il generale ideato dall'autore, e il reale ch'essi conoscevano  per  esperienza;
mentre, per produrlo in uomini d'un altro tempo, l'autore è ridotto a cercar  di
supplire all'esperienza con l'informazione, e di mettere, dirò così, in una sola
composizione, l'originale e il ritratto. Non c'è il  contrasto  diretto  tra  il
vero e il verosimile; e è senza dubbio un gran vantaggio; ma c'è ugualmente o la
confusione dell'uno con l'altro, o la distinzione tra  di  essi.  Anzi  c'è,  in
proporzioni variabilissime, ma inevitabilmente, e confusione e distinzione, come
s'è dimostrato, forse più del bisogno, nella prima parte di questo scritto.  Non
c'è  però  da  maravigliarsi  che,  durando  la  persuasione  che  la  storia  e
l'invenzione potessero star bene insieme, sia venuto a  un  uomo  di  bellissimo
ingegno il pensiero di comporli in una forma nova e più  speciosa,  e  che  dava
luogo a una molto maggiore abbondanza e varietà  di  materiali  storici.  E  c'è
ancora  meno  da  maravigliarsi  che,  messa  in  atto  da  quell'ingegno   così
immaginoso, e così osservatore, così fecondo e così penetrante,  la  cosa  abbia
prodotto nel pubblico di tutti i paesi  colti  quell'effetto  straordinario  che
ognuno sa. Ma basterà quel vantaggio per assicurare al  romanzo  storico  almeno
una lunga vita? È una domanda poco allegra per chi gli  vuoi  bene.  Nelle  cose
abusive, le correzioni vivono alle volte meno dell'abuso; e non c'è per l'errore
nessun posto più incomodo, e dove possa meno fermarsi, che vicino  alla  verità.
Non si può dissimulare che ciò che acquistò nel primo momento più  favore  a  un
tal componimento, fu appunto quell'apparenza di storia,  cioè  un'apparenza  che
non può durar molto. Quante volte è stato detto, e anche scritto, che i  romanzi
di Walter Scott erano più veri della  storia!  Ma  sono  di  quelle  parole  che
scappano  a  un  primo  entusiasmo,  e  non  si  ripetono  più  dopo  una  prima
riflessione. Infatti, se per storia s'intendevano materialmente i libri  che  ne
portano il titolo, quel detto non concludeva nulla; se per storia s'intendeva la
cognizione  possibile  di  fatti  e  di  costumi,  era  apertamente  falso.  Per
convincersene subito, sarebbe bastato (ma non sono cose a cui si  pensi  subito)
domandare a se stessi, se il concetto de' diversi romanzi di  Walter  Scott  era
più vero del concetto sul quale gli aveva ideati.  Era  bensì  un  concetto  più
vasto, ma a condizione d'essere meno storico. C'era aggiunto un altro  vero,  ma
di diversa natura; e perciò appunto il concetto complessivo non era più vero. Un
gran poeta e un gran storico possono trovarsi, senza far  confusione,  nell'uomo
medesimo, ma non nel medesimo componimento. Anzi, quelle due  critiche  opposte,
che ci hanno dato il filo per fare il processo al  romanzo  storico,  erano  già
spuntate ne' primi momenti, e in mezzo alla voga, come germi di malattie mortali
avvenire in un bambino di floridissimo aspetto.  E  la  voga,  si  mantiene  poi
sempre uguale? C'è la stessa voglia di far romanzi storici, e la  stessa  voglia
di leggere quelli che sono già fatti? Non so; ma non posso lasciar d'immaginarmi
che, se questo scritto fosse venuto fuori un  trent'anni  fa,  quando  il  mondo
aspettava ansiosamente, e divorava avidamente i romanzi di Walter Scott, sarebbe
parso stravagante e temerario, anche riguardo al romanzo storico; e che ora,  se
qualcheduno avrà la bontà d'occuparsene abbastanza  per  dargli  questi  titoli,
sarà per tutt'altro. E trent'anni dovrebbero essere  un  niente  per  una  forma
dell'arte, che fosse destinata a vivere.

NOTE


1 l'Omero del romanzo storico: Walter  Scott  (1771-1832),  poeta  e  romanziere
scozzese, noto  soprattutto  per  i  suoi  romanzi  storici  prevalentemente  di
ambiente scozzese e inglese. I romanzi cui qui il Manzoni  fa  riferimento  sono
rispettivamente Waverly (1814), The Abbot (1820), Quentin  Durward  (1823),  The
tales of Crusader (1825). - Plessis-Les Tours era la residenza abituale di Luigi
XI. 2 facta atque infecta: «Sacri igitur vates,  facta  atque  infecta  canentes
...» Vida. Poet., Lib. III, v. 112 [N.d.A.] [Dunque i sacri poeti, cantando cose
reali e inventate ... ]. - Girolamo Vida (1485-1566), umanista, autore del poema
Christias, imitato dall'Eneide virgiliana, che ha per tema la vita  di  Gesù.  3
Vedi il Dialogo che segue  questo  discorso  [N.d.A.].  Si  tratta  del  dialogo
Dell'Invenzione che, nelle Opere Varie citate, seguiva  a  questo  Discorso  sul
romanzo storico. 4  maestro Jacopo: mastro Jacopo, cuoco e cocchiere  dell'avaro
Arpagone, nella commedia L'avare di Molière (1622-1673). 5 M.elle Scudéri: sulla
quale cfr. Lettera a M. Chauvet, n. 32. 6  Les  héros  du  roman.  Dialogue.  Il
discorso fu scritto molt'anni dopo,  e  per  una  nuova  edizione  [N.d.A.].  Su
Boileau cfr. Lettera a M. Chauvet, n. 32. 7 Il romanzo Clélie, histoire  romaine
pubblicato in dieci volumi fra il 1654 e il 1660. Lo sfondo storico è la  guerra
mossa a Roma dal re deposto Tarquinio il Superbo, deciso a tornare al potere con
l'aiuto dell'etrusco Porsenna. Eroina è Clelia, la giovinetta romana  data  come
pegno di pace a Porsenna secondo il racconto di Livio (II, 10). Essa, con  altre
nove compagne, evade  dall'accampamento  etrusco,  e,  traversando  a  nuoto  il
Tevere, torna a Roma. Restituita a Porsenna, viene da lui, ammirato, rimandata a
Roma carica di onore. Oltre a  Clelia  compaiono  nel  romanzo,  invischiati  in
intrighi galanti, Orazio Coclite, Muzio Scevola, Lucrezia, Bruto.  I  personaggi
romani in realtà adombrano personaggi della nobiltà francese; di qui gran  parte
del loro interesse per i contemporanei. Dell'opera è rimasta  famosa  la  «Carta
del tenero», una specie di simbolica carta geografica dei sentimenti, di  stampo
«prezioso». 8 Virginia ... Porsena: Virginia, giovinetta romana uccisa dal padre
per sottrarla alle brame del decemviro  Appio  Claudio:  l'episodio  provocò  la
cacciata dei decemviri (449 a.C.) -, Sesto Tarquinio: figlio del re Tarquinio il
Superbo; per aver oltraggiato Lucrezia, moglie di Collatino, provocò la cacciata
del padre da Roma (509 a.C.) e la conseguente fine della monarchia. Lucrezia  si
uccise per sottrarsi all'onta dell'offesa subita; Porsena: Porsenna, re  etrusco
di Chiusi. 9 Nec pueros coram populo Medea trucidet, / aut humana  palam  coquat
exta nefarius Atreus, / aut  in  avem  Progne  vertatur,  Cadmus  in  anguem.  /
Quodcunque ostendis mihi sic, incredulus odi. / Horat., De arte poetica, v.  185
et seq. [N.d.A.] [ Medea non trucidi i suoi figli al cospetto del popolo, né  il
nefando Atreo cuocia le  viscere  sotto  gli  occhi  di  tutti,  né  Progne  sia
trasformata in uccello, Cadmo in serpente. Qualunque  cosa  tu  mi  presenti  in
questo modo, la respingo senza crederci]. Orazio si riferisce ai miti  di  Medea
che uccise i figli avuti da Giasone quando si seppe tradita da lui: di Atreo, re
di Micene, che, per vendicarsi del fratello Tieste, gli uccise i figli e  glieli
imbandì a mensa; di Progne che fu cambiata in rondine  perché  potesse  sfuggire
alla furia del marito Tereo cui aveva  ucciso  il  figlio  nato  da  una  unione
illegittima: di Cadmo, fondatore di Tebe, trasformato dopo morto in  serpente  e
assunto ai Campi Elisi. 10 Scienza nuova, libro III: Discoperta del  vero  Omero
[N.d.A.] 11 Jean Baptiste de la Curne de Sainte Palaye  (1679-1781),  erudito  e
critico francese, noto per i suoi  studi  storici  e  per  il  suo  Dictionnaire
historique  de  l'ancien  language  français.  12  Mémoires  de  l'Acadèmie  des
Inscriptions et Belles Lettres, vol. 15, p. 580  [N.d.A.]  13  Filippo  Mouskes:
vescovo di Tours, morto nel 1282. 14 «Quando mi dissero che  troppo  oscuramente
sapevo i fatti che ricordavo, e che se fossi  andato  a  San  Dionigi  vi  avrei
trovato la verità sulle gesta, non menzogne e  frivolezze,  subito  dopo  queste
parole mi recai là, e tanto cercai,  che,  conosciuto  quello  che  ardentemente
desideravo, quando mi accorsi che era falso tutto quello che avevo fatto  prima,
lo bruciai perché non si dovesse prestargli fede, e mi attenni alla vera storia,
secondo la quale io scrissi.» 15 Chroniques de S. Denis;  Gestes  le  grant  roy
Kallemaine. Recueil des historiens des Gaules et de la France; tom. V  [N.d.A.].
«Come quel Carlo la conquistasse tutta interamente nel suo tempo, e  la  facesse
obbedire a' suoi comandi; come Fernagus, un  gigante  del  lignaggio  di  Golia,
fosse venuto alla città di Nadres dalle contrade di Soria:  sì  l'aveva  mandato
l'ammiraglio di Babilonia contro Carlomagno per difendere la terra di Spagna;  -
In qual modo Orlando uccidesse il re Marsilio,  e  poi  come  spaccò  il  masso,
quando volle infrangere la sua spada; e poi come sonò novamente  il  corno,  che
Carlo udì otto miglia lontano.» (trad.  Bertoldi).  16  Histoire  de  la  poésie
provençale, chap. XXV; vol. 2, pp. 281, 282  [N.d.A.].  -  L'opera  contiene  le
lezioni tenute dal Fauriel negli anni 1831-32; uscì nel 1846, postuma. 17  "Quae
ante conditam, condendamve urbem, poeticis magis fabulis, quam incorruptis rerum
monumentis traduntur, ea nec affirmare, nec refellere in animo est".  Tit.  Liv.
Histor., Praef. [N.d.A.]. [Quei fatti anteriori alla fondazione o al progetto di
fondazione della città che vengono tramandati da favole poetiche  piuttosto  che
da  sicuri  documenti  storici,  non  ho  intenzione  né  di  sostenerli  né  di
confutarli]. 18 'Scienza Nuova, libro IV: Corollario [N.d.A.]. 19  conferenze...
Egeria: Numa Pompilio, secondo re di Roma che,  secondo  la  tradizione  avrebbe
regnato avvalendosi del consiglio della ninfa Egeria; conferenze:  abboccamenti.
20 T. Liv.. 1, 21, 22 [N.d.A]; giorni fasti  e  nefasti:  i  giorni  in  cui  il
pretore poteva o non poteva amministrare la giustizia. 21 De narrativa autem, ei
in  metro  imitatrice,  quod  oportet  fabulas,   quemadmodum   in   tragoediis,
constituere dramaticas, ei circa unam  actionem  totam  et  perfectam,  habentem
principium et medium et finem. Poet. cap. 22. - Per comodo  di  quelli  che  non
potrebbero intendere il  testo,  cito  e  citerò  altrove,  quando  occorra,  la
traduzione del  Vettori,  riconosciuta  per  letteralissima.  Non  ignara  mali,
miseris succurrere disco [N.d.A]. (Per quanto riguarda la  narrazione  anche  in
versi, è necessario,  come  nelle  tragedie,  costruire  racconti  drammatici  e
intorno a un'azione unica, intera e compiuta, avente principio, mezzo e fine). -
Il Manzoni, non conoscendo il greco e in aiuto di chi non lo  conosce,  cita  la
Poetica di Aristotele nella  traduzione  latina  del  filologo  umanista  Pietro
Vettori (1499-1585). L'ultima citazione  latina,  che  suona  in  italiano  «Non
ignara della sventura imparo a soccorrere  i  miseri»,  è  tratta  da  Virgilio,
Eneide, 1, 630, dove è attribuita a Didone. 22 Parla... linguaggio: Poetas quasi
alia quadam lingua locutos non conor attingere. Antonius apud  Cic.,  De  Orat.,
11, 14 [N.d.A]. [Non tento di giungere al livello dei poeti  che  parlano  quasi
con altro linguaggio]. 23 Nessun lettore, spero, confonderà  lo  stile  poetico,
proprio d'ogni scrittore, del quale s'è pariate qui, con quell'insulsa cosa  che
si chiamava così impropriamente  (improprietà,  del  resto,  non  particolare  a
questo caso) lingua poetica: come se in una lingua  ci  potessero  essere  altre
lingue. E si faceva consistere in un  certo  numero  di  locuzioni  da  mettersi
esclusivamente ne' versi, come  regni  bui,  cigni  canori,  liquidi  cristalli,
veglio edace, stagion de' fiori, e simili. Locuzioni la più parte mitologiche, e
più o meno felici, che, trovate una volta da uno, gli altri non avevano  da  far
altro che  adoprarle;  dimanieraché  erano,  nello  stesso  tempo,  estranee  al
linguaggio comune, e triviali  [N.d.A.].  24  Donato  racconta,  nella  Vita  di
Virgilio, che questo, interrogato da Mecenate, qual  cosa  non  generi  sazietà,
rispose che tutte le cose, o per la quantità, o per la somiglianza tra di  loro,
possono riuscire stucchevoli, meno l'intendere: praeter intelligere. È  sentenza
da filosofo, ma è anche  da  un  poeta  come  Virgilio;  e  certo  non  erano  i
grammatici, che potessero affibbiarghela [N.d.A.].  -  Elio  Donato  (IV  sec.),
grammatico latino, precettore di San Girolamo. Famosa la sua Ars grammatica.  25
La callida... Orazio: Dixeris egregie, notum  si  callida  verbum  /  reddiderit
iunctura novum. Horat., De arte  poet.,  v.  47  [N.d.A.].  [Ti  sarai  espresso
egregiamente se un'accorta connessione avrà reso nuovo un vocabolo  conosciuto].
26 Georg. I. III, v. 291 et seq. [N.d.A.]. [E io so bene che grande impresa  sia
domare tali difficoltà con la parola, e dare bellezza ad angusti argomenti, - ma
un dolce amore mi trascina per le solitarie alture del Parnaso; mi piace  andare
sui gioghi, là dove nessuna orma precedente discende  alla  fonte  Castalia  dal
dolce pendio]. 27 Si dirà qui forse che anche l'Eneide  andò  soggetta  a  delle
obiezioni storiche: e che, per esempio, la favola di Didone era riconosciuta per
falsa (fabula lascivientis Didonis,  quam  falsam  novit  universitas.  Macrob.,
Saturnal., V. 17), come era riconosciuto l'anacronismo su quale il poeta l'aveva
fondata. Non nego l'inconveniente, ma osservo che era leggiero e soprattutto non
necessario. Era un concetto semplice, compendioso, del reale, un concetto  quasi
meramente negativo, che insorgeva  contro  un  vasto  e  mirabile  complesso  di
verosimili. S'immagini un poco un anacronismo simile (se c'è  anacronismo,  cosa
impugnata da dotti cronologisti) introdotto in un soggetto di tempi storici: che
continua e minuta opposizione tra  la  favola  e  la  storia!  E  ho  detto  che
l'inconveniente non  era  necessario  nell'epopea  favolosa:  non  perché  nella
storica siano necessarie alterazioni così  gravi  della  storia;  ma  perché  in
quella non è necessario che ce ne sia nessuna. Dei resto come s'è già detto,  ed
è un argomento che fa per noi, l'epopea di Virgilio  non  poteva  aver  tutti  i
vantaggi dell'omerica [N.d.A.]. La citazione dai Saturnalia di Macrobio, erudito
latino del IV secolo d.C., suona in italiano: «la favola di Didone pazza d'amore
che tutti riconoscono per falsa». 28 Juvenal. Sat., 1, 6 [N.d.A.]. -  [Aspettati
le medesime cose sia dal poeta più grande che da quello più modesto]. 29  Perché
mai, de' tanti poemi prodotti da quest'epopea nel suo stato primitivo,  «non  ce
n'è uno che  sia  rimasto  come  un  gran  monumento  della  letteratura  a  cui
appartennero, e che figuri in essa come l'Iliade e l'Odissea  nella  letteratura
della Grecia, e il Ramayana e il Mahabharat in quella dell'India?» La domanda  è
di Fauriel, il quale indica anche con molta acutezza la  cagione  principale  di
quella differenza. «L'Iliade e il  Ramayana,  dice,  non  sono  solamente  poemi
popolari: sono o almeno furono gran monumenti nazionali,  strettamente  storici,
in quanto non c'era una storia a cui  competesse  il  posto  occupato  da  essi:
furono monumenti consacrati  dall'autorità  politica  e  religiosa...  In  vece,
l'epopee romanzesche, per quanto siano potute esser popolari in certi tempi e in
certi luoghi, non furono mai propriamente nazionali, e non  ricevettero  mai  la
sanzione, né della religione, né della scienza, né dell'arte.»  (Op. cit.,  tom.
III, p. 382). Infatti, meno qualche bellezza accidentale,  che  Fauriel  attesta
trovarsi in qualcheduno di que' poemi, non potevano per la loro  origine,  esser
tali da meritare nemmeno la sanzione dell'arte. Composti per una sola classe  di
persone, e per la classe più ignorante (poiché c'erano storie autorevoli di que'
fatti, e gente che le leggeva), e composti per ottener fede, la loro materia era
necessariamente proporzionata, non allo stato generale delle  menti,  ma  a  uno
stato particolare, e al più basso. Certo, l'errore, malgrado la  speciosità  che
può accattare da ornamenti esteriori, è sempre, in fondo, una  cosa  miserabile:
ché  non  vorrei  a  nessun  patto  chiamare  assolutamente  belle  le  fandonie
dell'Iliade. Ma non mi pare che potesse esser capace nemmeno d'invenzioni  molto
speciose un errore che, opponendosi  a  delle  virtù  positive  e  conosciute  o
conoscibili, aveva bisogno di trovar  nelle  menti  un'ignoranza  speciale,  per
esser creduto. Non mi pare che i giullari che si rivolgevano a  quella,  con  un
tal fine, potessero essere ingegni capaci di splendidi ritrovati.  Era  l'epopea
storica, con la trista giunta del disegno d'ingannare. E non mi par nemmeno  che
i suoi prodotti possano essere oggetto d'una viva e  persistente  curiosità.  Il
Vico, e con un'alta ragione, poté chiamare Omero «il primo storico il  quale  ci
sia giunto di tutta la gentilità» (Del vero Omero); perché  da  ciò  che  popoli
interi potevano credere, si può arguire ciò che fossero. Da'  poemi  romanzeschi
del medio evo, c'è da imparare solamente cosa si potesse dare a  intendere  alla
parte ignorante d'un popolo. [N.d.A.].  [L'opera del Fauriel cui qui il  Manzoni
fa riferimento è la  Histoire  de  la  poésie  provençale.]  30  G.G.  Trissino,
L'Italia liberata dai Goti. Il successo del Trissino  fu  dovuto  unicamente  al
fatto che, componendo un poema  «regolare»,  cioè  ligio  ai  modelli  classici,
l'autore veniva incontro all'esigenza cinquecentesca di emulare  e  rinnovare  i
generi letterari della classicità, in questo caso il poema epico. "Gian  Giorgio
Trissino (1478-1550), volle in ogni genere letterario adeguarsi a un  ideale  di
classicismo integrale, pur nell'uso della lingua volgare. A questo criterio sono
ispirati il poema  epico  L'Italia  liberata  dai  Goti  (1547-8),  la  tragedia
Sofonisba  (1514-15),  la  commedia   Simillimi   (1548).   I   suoi   principii
classicistici teorizzò nelle quattro Divisioni  della  poetica  (1529)  e  nella
Quinta e sesta divisione della poetica (pubb. postuma). Si  occupò  inoltre  del
problema della lingua. Di scarso interesse le  sue  Rime  (1529).  31  Dell'arte
poetica,  Disc.  I.  L'inconveniente  che  il  Tasso  trova  nell'antichità  del
soggetto, non parrà certamente a nessun lettore né il principale, né il vero.  E
si può vedere anche qui un indizio di quanto siano  cresciute  l'esigenze  della
storia. «L'istoria di secolo lontanissimo, dice il Tasso, porta  al  poeta  gran
comodità di fingere, perocché essendo quelle cose  in  guisa  sepolte  nel  seno
dell'antichità, che appena alcuna debole e oscura memoria ce ne rimane,  può  il
poeta a sua voglia mutarle e rimutarle, e senza rispetto alcuno del vero, come a
lui piace, narrarle. Ma con questo comodo viene un incomodo  per  avventura  non
piccolo,  perocché  insieme  con  l'antichità  de'  tempi  e'   necessario   che
s'introduca nel poema l'antichità de' costumi: ma quella maniera di guerreggiare
o d'armeggiare usata dagli antichi, e quasi tutte  l'usanze  loro  non  potriano
esser lette senza fastidio dalla maggior parte degli uomini di questa  età.»  La
ragion vera, e che ora vien subito in  mente  a  ognuno,  è  che  dell'antichità
qualcosa si può sapere, e qualcosa si può indurre; e che per questo  l'antichità
c'interessa. Dacché è divenuta studio d'eruditi  filosofi,  non  può  più  esser
materia da poeti. C come un manoscritto tarlato di qua, dilavato di là,  ma  nel
quale, guardando attentamente, uno può leggere quello che rimane,  e  cercar  di
supplire a ciò che se n'è andato. L'invenzioni moderne sull'antichità  sarebbero
come gli scarabocchi che un ragazzo venisse a fare su quel  manoscritto;  o,  se
par meglio, come lo stampatello che ci scrivesse sopra un ragazzo grande. [N. d.
A.]. La citazione dal Tasso non è del tutto fedele all'originale. 32  Aut  famam
sequere, aut sibi convenientia finge, / scriptor. Honoratum  si  forte,  reponis
Achillem; / impiger, iracundus, inexorabilis, acer,  /  iura  neget  sibi  nata,
nihil non arroget armis. / Sit Medea ferox, invictaque; flebilis Ino; / perfidus
Ixion; Io vaga; tristis Orestes. / Hor., De Arte poet.. v. 119 et seq. [N.d.A.].
| O attienti alla tradizione o  inventa  cose  che  si  accordino  con  essa,  o
scrittore. Se per caso  rimetti  in  scena  il  glorioso  Achille,  sia  attivo,
iracondo, inflessibile, aspro, affermi che per lui  non  esistono  leggi,  esiga
tutto con le armi. Sia Medea spietata e indomita,  sia  piangente  Ino,  perfido
Issione, errante Io, triste Oreste. | 33  Ho  detto  giudicare,  perché  tale  è
l'operazione che fa la mente in quel caso: e l'essere accompagnata da  emozioni,
anche vivissime, non ne cambia la natura. Sono di que' giudizi  facili,  pronti,
istantanei, che si formano e  si  succedono  con  un'indicibile  rapidità  nella
mente, senza che l'attenzione ne trattenga uno solo, né la riflessione ci  torni
sopra; que' giudizi che servono,  dirò  così,  alla  mente  senza  occuparla,  e
passano nel far l'effetto,  correndo  o  a  perdersi  nella  dimenticanza,  o  a
nascondersi nel fondo della memoria,  dove  giacciono  inavvertiti,  finché  non
venga a suscitarli, o a suscitarne qualcheduno, una qualche occasione,  che  può
non venir mai. Quanti, per esempio, di questi giudizi non deve aver fatti in  un
momento, senza  potere,  un  momento  dopo,  né  discernerli,  né  contarli,  un
intendente di pittura, quando, al vedere per la  prima  volta  un  quadro,  dice
subito: è del tal autore! Anzi,  cos'altro  si  fa  se  non  concludere  da  una
moltiplice e rapidissima successione  di  giudizi  di  verosimiglianza  speciale
quando, al sentir riferire un detto, un fatto, una riuscita,  di  persone  o  di
cose note, si crede o si discrede? E ognuno sa se  tali  giudizi  siano  qualche
volta accompagnati da emozioni più vive e più  profonde  di  quelle  che  l'arte
possa mai eccitare [N.d.A.]. 34  Autori  della  Pucelle,  della  Louisiade,  del
Clovis e dell'Alarie: poemi rimasti celebri di nome, parte per il fatto d'essere
stati tali un momento, parte per essere stati derisi da un poeta  di  tutt'altra
celebrità.  [N.d.A.]-  -  Il  poeta  che  li  satireggiò  fu   Nicolas   Boileau
(1636-1711). 35 Per prevenire  una  minuta  obiezione,  devo  osservare  che  in
qualche tragedia sono messe in bocca a uno o a un altro personaggio delle parole
storiche; come appunto il Tu quoque, Brute? di Cesare.  Ma  è  un  inconveniente
raro e, per lo più, evitabile.  Dico  inconveniente  perché  l'effetto  di  tali
parole è di richiamar la mente dal mero verisimile ai reale. E so  bene  che  ad
altri può parere un vantaggio, un'occasione da non perdersi,  questo  poter  far
dire al personaggio ciò che l'uomo ha detto veramente. Ma non vedo come si possa
trovar la poesia un'arte efficace e potente, e  trovare  insieme,  che  abbia  a
ricever forza da ciò che produce un effetto opposto al suo. L'inconveniente  poi
non sarebbe evitabile nel caso citato, e in qualche altro, cioè quando le parole
storiche siano celebri. Ché  l'averle  omesse  il  poeta  non  impedirebbe  allo
spettatore di rammentarsene; e il Cesare reale della storia verrebbe, né più  né
meno, a mettersi, nella mente di lui, a fronte del Cesare verisimile del  poeta,
come il Sosia di Plauto, a  fronte  di  Mercurio:  senonché,  ne'  casi  di  cui
parliamo, è il mortale che la vince. Praefulgebant eo ipso quod non  visebantur.
E che vuoi dir questo? Che la  storia  può  volersi  cacciare,  e  cacciarsi  in
effetto anche nel campo più  esclusivamente  proprio  della  poesia,  quando  la
poesia s'è fatta storica. La storia registra molti,  ma  molti  più  fatti,  che
detti; e quindi è motto, molto più facile l'evitarla, facendo parlare le persone
storiche, che facendole operare. Ma questi pochi detti hanno la  stessa  ragione
de' fatti per volere il loro posto, e la stessa forza per prenderlo [N.d.A.].  -
Il Sosia... Mercurio: Sosia, il servo di Anfitrione di  fronte  a  Mercurio  che
aveva preso l'aspetto di lui Sosia, nella commedia di Plauto, l'Anfitrione. - Tu
quoque ecc.: Anche tu, Bruto. - Praefulgebant... visebantur: spiccavano  per  il
fatto stesso che non erano sotto gli occhi. Tacito. Annali. III. 76. 36 Acceptas
quidem igitur fubulas (mythous) solvere non licet. Dico autem, seu Clytemnestram
necatam ab Oreste, vel Eriphylen ab  Alcmaeone.  Poet.,  cap.  XI.  Il  vocabolo
mythos passò anche  a  significare  la  forma  particolare  data  all'azione  da
ciaschedun poeta; e in questo senso l'usa anche Aristotele, anzi  la  definisce:
Est  autem  actionis  quidem  imitatio  fabula:  appello   enim   fabulam   hanc
compositionem rerum (Ibid., cap. IV). Nel passo  citato  sopra,  però,  non  può
voler dir altro che miti, nel senso proprio e primitivo del  vocabolo.  Infatti,
come si potrebbe intendere che Aristotele prescrivesse al poeta d'attenersi alle
tante e diverse composizioni degli altri poeti? Una tale interpretazione repugna
e alla cosa, e agli esempi  addotti  da  Aristotele,  che  non  sono  esempi  di
composizioni ma di semplici temi mitologici, come repugna al seguito del  testo,
che sarà citato or ora.  [N.d.A.]. [Non  è  lecito  alterare  le  favole  (miti)
ricevute dalla tradizione. Che si tratti, dico, di Clitennestra uccisa da Oreste
e di Erifile uccisa da  Alcmeone.  -  Vi  è  una  favola  che  è  imitazione  di
un'azione: chiamo infatti favola questo  intreccio  di  avvenimenti].  37  Altra
obiezione possibile e da non dissimularsi. Anche il teatro greco  ebbe  tragedie
storiche, e sul suo principio; per esempio, I Persiani d'Eschilo. Non starò  qui
a mettere in dubbio se questo  componimento  possa  esser  riguardato  come  una
tragedia: giacché si potrebbe far lo stesso con altri dello  stesso  autore,  il
soggetto de' quali è preso da' tempi eroici. Dirò bensì che  la  tragedia  greca
non continuò per quella strada. Quelle di Sofocle e d'Euripide, e  le  molte  di
cui  parla  Aristotele  nella  Poetica,  sono  tutte  composte  sopra   soggetti
mitologici. Se il teatro greco fosse diventato storico, si sarebbe  naturalmente
trovato a' medesimi  passi  de'  teatri  moderni,  e  Aristotele  sarebbe  stato
impicciato bene a trovargli le regole, se gliene avesse voluto trovare. Anche il
teatro latino ebbe tragedie storiche, e di soggetti romani,  e  chiamate  perciò
Praetextae: e l'ebbe, se non così sul principio, cioè da Livio  Andronico  o  da
Nevio o da Ennio, certo non molto tardi, poiché  tra  le  tragedie  di  Pacuvio,
delle quali rimangono i titoli e de' frammenti, c'è un  Paolo  (Emilio),  e  tra
quelle d'Azzio, un Bruto e un Decio. Orazio loda  in  genere  quella  specie  di
tragedie, come un tentativo d'indipendenza  letteraria:  Nil  intentatum  nostri
liquere poetae; / nec minimum meruere decus, vestigia graeca / ausi deserere, et
celebrare domestica facta; / vel cui praetextas, vel qui  docuere  togatas.  (De
Arte poet., v. 285 et seq.). Ma il non dar lui alcun precetto per questa  specie
di componimenti, e l'accennarla soltanto, è una ragione di credere che non fosse
molto coltivata; come il tornar che fa sempre sulla poesia d'argomenti greci,  è
un indizio, che questa fosse prevalente di molto. E un altro indizio per i tempi
anteriori è il non  essercene  di  Pacuvio  che  una  sola,  contro  diciassette
d'argomenti  mitologici  greci,  e  d'Azzio,  due,  contro  più  di   cinquanta.
Quintiliano, in quella breve rassegna che fa de' principali generi di poesia,  e
de' principali poeti (lib. X, cap. 1), non fa neppure menzione  delle  preteste.
Non ce n'è rimasta alcuna, ed è una disgrazia: letteraria, s'intende. E  non  si
potrebbe prenderne un'idea dall'Ottavia di  Seneca,  o  d'un  Seneca,  qualunque
fosse: essendo opera di tutt'altri tempi, e di tutt'altro gusto [N.d.A.]. [Nulla
lasciarono di intentato i nostri poeti; e meritarono non poca  gloria  per  aver
osato abbandonare le orme greche e celebrare vicende patrie,  tanto  quelli  che
composero preteste come quelli che composero togate]. Le togatae erano, come  le
praetextae, drammi di argomento nazionale. 38 Le avessero attribuite a  chiunque
altro! Ma Aristotele, il quale insegna così  apertamente  e  ripetutamente,  che
l'universale, il verosimile è la materia propria della poesia, opponendola  alla
storia, la di cui materia è il particolare, il reale,  immaginarsi  che  potesse
prendere per misura e per criterio del verosimile,  la  realtà  materiale  dello
spettacolo, le circostanze reali dello  spettatore!  Era  come  far  dire  a  un
maestro  di  prospettiva,  che  una  veduta,  per  esser  verosimile,  non  deve
rappresentare se non gli oggetti che potrebbero stare realmente nella misura del
quadro. E perché dice (cap. II) che «la tragedia si sforza di restringersi in un
giro del sole, o di variarne poco» (pratica, che s'accordava  benissimo  con  la
natura de' soggetti mitologici), credere che intendesse con questo di  stabilire
formalmente un termine alla durata ideale dell'azione! lui, che,  nella  Poetica
medesima, dove tratta della lunghezza della favola, protesta espressamente,  che
un tal termine non si può stabilire a priori. Dopo aver detto che  la  lunghezza
materiale del dramma, non è una cosa che concerna l'arte, e  venendo  a  parlare
della durata ideale, dice: «Per ciò che riguarda la natura della cosa, la durata
maggiore è la più bella, purché  non  sia  tale  da  far  perdere  la  chiarezza
dell'insieme. Per dirla in una parola, la durata conveniente sarà quella che  si
richieda per fare che, con lo svolgersi delle cose, secondo il verosimile  o  il
necessario, si passi dall'infelicità alla felicità, o viceversa.» Terminus autem
rei ex ipsius natura, semper quidem qui maior  est,  dummodo  maneat  intra  eos
fines ut una totus perspicuus sit,  pulchrior  est.  Ut  autem  simpliciter,  re
definita, dicamus, in quanta magnitudine, secundum verisimile, vel  necessarium,
deinceps nascentibus rebus, contingit in res secundas ex adversis, vel ex  rebus
secundis in adversas mutari, idoneus  terminus  est  magnitudinis  (cap.  V).  E
siccome non è mai affatto inutile il conoscere l'origine degli errori che  hanno
avuta molta voga, in qualunque materia, così aggiungo che  il  vero  autore  del
precetto delle due famose unità, fu, secondo  ogni  apparenza,  il  Castelvetro.
Questo critico, nel suo commento, famoso anch'esso, della Poetica  d'Aristotele,
al primo de' luoghi citati qui, non solo prende  per  un  precetto  generale  la
menzione d'un fatto particolare, ma ci aggiunge di suo ciò ch'era  necessario  a
farne un precetto, cioè una ragion generale. Ed è quella così anti-poetica, così
anti-filosofica, così anti-aristotelica ragione della  verosimiglianza  relativa
allo spettacolo e allo spettatore: ragione che  fu  poi  allegata  sempre,  come
fondamento principale del precetto. Di più, censura Aristotele  del  non  averla
applicata rigorosamente, per non averla ben conosciuta: il che è verissimo E  su
quella ragione fonda poi anche l'altra unità, quella del luogo, la  quale  dalla
Poetica d'Aristotele non si  sarebbe  potuta  far  uscire  in  nessuna  maniera.
Trascrivo qui le sue parole, nella loro nativa rozzezza,  chiedendone  scusa  al
lettore. L'epopea, narrando con parole sole, può raccontare  un'azione  avvenuta
in molti anni, e in diversi luoghi, senza sconvenevolezza niuna, presentando  le
parole all'intelletto nostro le distanze di luogo e di tempo: la qual  cosa  non
può fare la tragedia la quale conviene avere per soggetto un'azione avvenuta  in
piccolo spazio di luogo e in piccolo spazio di tempo, cioè in quel  luogo  e  in
quel tempo, dove e quando i rappresentatori dimorano occupati in  operazione,  e
non altrove, né in altro tempo. Ma così come il luogo stretto è il  palco,  così
il tempo stretto è quello che i veditori possono a suo agio dimorare sedendo  in
teatro: il quale io non vedo che possa passare il giro del  sole,  siccome  dice
Aristotele, cioè ore dodici. Con ciò sia cosa che, per le necessità  del  corpo,
come è mangiare, bere, deporre i superflui pesi  del  ventre  e  della  vescica,
dormire, e per altre necessità, non possa il popolo continuare oltre il predetto
termine così fatta dimora in teatro. Né è possibile a dargli  ad  intendere  che
siano passati più dì e notti, quando  essi  sensibilmente  sanno  che  non  sono
passate se non poche ore, non Potendo l'inganno in loro aver luogo, il  quale  è
tuttavia riconosciuto dal senso. (Poetica d'Aristotele,  volgarizzata  e  sposta
per L. Castelvetro. Basilea. 1576; p. 109). Nel commento al secondo  luogo  poi,
rigetta la ragione assegnata da Aristotele alla durata speciale e relativa delle
diverse favole; e richiama il  suo  autore  a  quella  sua  gran  ragione  della
verosimiglianza relativa allo spettacolo e allo spettatore. Trascrivo anche qui:
Vedeva Aristotele, che le favole della tragedia comunemente  avevano  fine  alla
fine della mutazione, e che le cose avvenute e contenute  nella  favola  non  si
stendevano oltre il termine d'un giro del sole sopra l'emisfero,  cioè  oltre  a
dodici ore; e non riconoscendo la vera cagione di così  fatto  termine  d'azioni
raccolte in una favola, s'è immaginato che ciò sia per  la  capacità  e  per  la
contenenza della memoria degli uditori, quasi fossero per dimenticarsi le  prime
parti della favola, se contenesse un'azione  di  molti  dì,  quando  udissero  e
vedessero l'ultime parti... Così breve termine non è  stato  posto  alla  favola
della tragedia, dentro del qual  s'opera,  per  cagione  della  debolezza  della
ricordanza,  ma  per  quella  cagione,  che   già   abbiamo   assegnata,   della
rappresentazione, e dell'agio de' veditori, occupando tanto spazio di  tempo  la
rappresentazione, quanto occuperebbe una verace operazione,  e  non  potendo  il
popolo stare in teatro senza disagio intollerabile più di  dodici  ore.  (Ibid.,
pp. 170, 17 1). E la taccia che  si  dava  al  Castelvetro  era  d'esser  troppo
sottile! Forte, però, lo fu davvero, poiché l'argomento messo in campo da lui, e
invalso nel mondo letterario, poté far perder di vista, in questo particolare, a
più generazioni, non solo di critici, ma di poeti, tra i quali de'  gran  poeti,
che la poesia è poesia, che è un'arte, e che, per conseguenza, i mezzi che le si
presentano per servire  alla  sua  operazione,  o  non  sono  adattati,  e  deve
rifiutarli; o sono adattati, e vuoi dire che si può fare astrazione da  ciò  che
hanno d'eterogeneo all'intento dell'arte. Ammettere  che  una  tragedia  (azione
verosimile) possa esser rappresentata, è ammettere che la realtà,  come  realtà,
delle cose che servono alla rappresentazione possa e deva non contar  punto  più
di quello che la qualità reale di verde metallico si conti nel verde d'un albero
dipinto. Dire  che  la  tragedia  diventa  falsa,  se  la  rappresentazione  non
s'accorda con le circostanze reali  dello  spettatore.  è  dire  che  un  quadro
rappresentante una nevicata diventa falso per chi lo guarda nel mese di  luglio.
Non si tratta, né in pittura, né in poesia, di dare ad intendere (stolta  parola
in un tale argomento); ma di rappresentare de'  verosimili,  cioè  delle  verità
ideali. In quanto poi all'essere que' due precetti  fedelmente  osservati  nelle
tragedie greche, il Corneille, ne' Discorsi citati sopra, addusse  alcune  prove
in contrario, e molte più ne addusse poi il Metastasio  nelle  sue  Osservazioni
sopra tutte quelle tragedie; ma con tutto ciò, l'essere  nelle  tragedie  greche
osservati que' due precetti, fu ancora per molto tempo, il fatto [N.d.A.].
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