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Alessandro Manzoni - Fermo e Lucia

Alessandro Manzoni
tutte le altre difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il  suo  maggiore,
anzi l'unico suo  difetto,  giacché  del  resto,  bellezza,  grazia,  ricchezza,
nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra  tutto  appassionatezza,  nulla
gli mancava. V'era rischio per altro  che  s'egli  tardava  troppo  ad  esistere
l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto  gli  trasferisse  la
bontà che aveva per lui, al primo ente reale che non  fosse  troppo  diverso  da
questo immaginato da rendere impossibile lo scambio. L'occasione si presentò  in
fatti, e fu fatale a Geltrude. Noi ommettiamo i particolari di questo  sciaurato
affare, diremo soltanto che la prima lettera di risposta ch'ella  aveva  scritta
ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di questa,  fu  tosto  consegnata  al
Marchese Matteo, e che  il  trambusto  in  casa  fu,  come  era  da  aspettarsi,
strepitoso. Il  paggio  fu  sfrattato  immediatamente,  com'era  giusto;  ma  il
Marchese Matteo che aveva idee molto larghe sul giusto in  ciò  che  toccava  il
decoro della sua famiglia, intimando di sua bocca la  partenza  al  ragazzaccio,
per non aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che  se
egli si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza  di
donna Geltrude, la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e  che  non
vi sarebbe stato asilo  per  lui.  Queste  minacce  erano  a  quei  tempi  molto
frequenti, e facevano pure colpo assai, perché  ognuno  era  avvezzo  a  vederne
molte ridotte ad effetto. Ciò non di meno per esser più certo  della  segretezza
del  paggio  il  Marchese  Matteo  nel  forte  del  rabbuffo  gli  appoggiò  due
solennissimi schiaffi, pensando a ragione  che  il  paggio  sarebbe  stato  meno
tentato di raccontare un'avventura, la quale per una parte poteva  lusingare  la
sua vanità, quando ella avesse finito con un  incidente  doloroso  e  umiliante.
Alla donna di casa che aveva intercettato il corpo del delitto furono date molte
lodi, e nello stesso tempo una prescrizione di segretezza, non  accompagnata  da
minacce, ma in termini che le fecero comprendere che questa segretezza  era  del
massimo interesse anche per lei. Ma il  temporale  più  scuro,  più  lungo,  più
terribile venne a scendere  sul  capo  di  Geltrude.  Il  Marchese  Matteo  dopo
d'averla caricata di strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore,  quanto
si sentiva veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua
stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo proporzionato  alla  colpa,  senza
specificarlo, e così la lasciò in guardia alla stessa donna che  aveva  scoperti
gli altari. Geltrude aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una  situazione  che
sarebbe stata dolorosa anche alla coscienza più illibata, si  trovava  anche  la
memoria del fallo, che basta a rattristare la  situazione  la  più  gioconda,  e
l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come né quando, la  cosa  sarebbe
finita, si aspettava ad  ogni  momento  il  castigo  incognito  e  per  ciò  più
terribile; l'essere come sbandita dalla famiglia le era un peso  insopportabile,
e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre,  o  di  vedere  la  madre,  il
fratello la prima volta dopo il suo fallo la faceva trasalire  di  spavento.  In
questa agitazione continua si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un sentimento
nativo in tutti, ma più forte in lei per indole e reso  ancor  più  forte  dalla
educazione, il timore della vergogna: sentimento non solo onesto, ma  bello,  ma
essenziale; sentimento però che come tutti  gli  altri  può  diventare  passione
violenta e perniciosa quando non  sia  diretto  dalla  ragione,  ma  nutrito  di
orgoglio. La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua  debolezza  per
un paggio, per una persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche
superiore, da una sua compagna, da un congiunto della casa, questa idea  le  era
più terribile, più odiosa, della  prigione,  dell'ira  dei  parenti,  del  fallo
stesso. Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto
ottener da lei quello che si fosse voluto. E sentiva nello stesso  tempo  quanto
fosse peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacché  il  primo
requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe  dovuto
essere di non aver nulla da rimproverarsi. La compagnia della sua guardiana  non
le era certo di alcun sollievo nella sua ritiratezza angosciosa. Ella vedeva  in
quella donna il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia,  e
la odiava. E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a  far  vita
da carceriera poco  dissimile  da  quella  di  carcerata,  e  che  l'aveva  resa
depositaria d'un segreto pericoloso. La conversazione era  quindi  fra  di  esse
quale può risultare dall'odio reciproco. Non restava  a  Geltrude  la  trista  e
funesta consolazione dei sogni splendidi della  fantasia:  perché  questi  sogni
erano tanto in opposizione  col  suo  stato  reale,  e  con  l'avvenire  il  più
probabile, e quelle immagini erano tanto legate con  la  sua  sciagura,  che  la
mente  li  rispingeva  con  incredula  avversione,  e  ricadeva  come  un   peso
abbandonato, nella considerazione delle circostanze  reali.  Cominciò  quindi  a
dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita  che  menava  prima
del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima  soave,
a rammaricarsi di non averla saputa conoscere. L'immagine di colui al  quale  il
suo cuore sgraziato e leggiero si  era  abbandonato  un  momento  gli  compariva
accompagnata di  tanti  dispiaceri  che  aveva  perduta  ogni  forza  sulla  sua
fantasia. Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco
di buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure  gli  spennacchiano
le ali, e gli spezzano i dardi, se ci  si  permette  una  frase,  invero  troppo
poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente nell'animo. Scacciato
dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non  vi  aveva  preso  gran  piede,
raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare
che al fine il castigo era meritato,  il  pentimento  di  Geltrude  cominciò  ad
essere più dolce, divenne un sollievo. Pensò ella al perdono che si ottiene  con
quello, e si  rallegrò,  pensò  che  ciò  ch'ella  soffriva  poteva  essere  una
espiazione, e tutto le  parve  più  leggiero.  Si  diede  quindi  tutta  ad  una
divozione la quale in parte era un sentimento  intimo  e  retto  dell'animo,  in
parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro, e una
vita quieta, onorata, lontana dai pericoli,  la  dignità  di  monaca,  e  quella
benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del
monastero, ultimo rifugio  della  sua  superbiuzza,  le  parve  un  zucchero  in
paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di  disprezzo  nel  quale  si
trovava. L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione  le  risorgeva
pure con tutte le sue immagini,  ma  ella  le  pigliava  per  tentazioni,  e  le
combatteva. In questa incertezza, ella  desiderava  di  rivedere  il  padre,  di
rivederlo con una faccia diversa da quella  di  cui  le  rimaneva  una  immagine
terribile, e dolorosa, di avere  il  suo  perdono,  di  essere  riammessa  nella
famiglia. Dopo molto combattimento, prese la  penna,  e  scrisse  al  padre  una
lettera piena di entusiasmo e di abbattimento,  di  afflizione  e  di  speranza,
nella  quale  chiedeva  istantemente  ch'egli  la  visitasse,  e  gli   lasciava
intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una
risoluzione, ma non poteva più reggere alla solitudine e  alla  proscrizione,  e
sperava confusamente che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe  fatta  per
lo meglio.

CAPITOLO III V'ha dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è,
o crede di essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa che la
più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una apparenza di bene, di
sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbocciato, che  s'abbandona  sul
suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che
gli asoli  punto  d'attorno.  L'animo  vorrebbe  perpetuare  questi  momenti,  e
diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili:
felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che  ciò  che  gli  era
sembrato una ferma e  pura  volontà  non  era  altro  che  una  illusione  della
fantasia. Questi momenti che si dovrebbero ammirare dagli altri  con  un  timido
rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che  si  maturassero  colla
prova, e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe  tremare  e  vergognarsi  di
chiedere quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi  momenti  sono
quelli appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse,  agguata  e
stima preziosi per legare una volontà che non si guarda, e per  venire  ai  vili
suoi fini. Il Marchese Matteo, il quale passato il  primo  caldo  dell'ira,  era
tosto corso a fantasticare nella sua mente se da quel  disordine  avesse  potuto
cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai
ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella  lettera  che
la figlia gli dava essa  stessa  l'occasione  desiderata,  e  stabilì  tosto  di
battere il ferro mentre ch'egli era  caldo.  Mandò  quindi  a  dire  a  Geltrude
ch'ella dovesse venire nella sua  stanza,  ov'egli  si  trovava  solo.  Geltrude
v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo  della  paura,  giunse  senza
alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe  appena  il
fiato per dire: «perdono». Il Marchese con una voce poco  atta  a  rincorare  le
rispose, che il perdono non bastava desiderarlo, che questo lo sa fare  chiunque
è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma meritarlo. Geltrude in
tanto più turbata ed atterrita in quanto ella era  venuta  con  la  speranza  di
tosto ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta
a tutto. Il Marchese non rispose direttamente, ma cominciò a parlare  lungamente
del fallo di Geltrude e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di  fare  alla
famiglia. Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una  mano
ruvida sur una piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun  pensiero
di collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe  stato  un  ostacolo
invincibile, perché egli avrebbe creduto suo dovere  di  rivelare  la  debolezza
della sua figlia a chi  l'avesse  richiesta,  non  essendo  tratto  da  cavalier
d'onore il vender gatta in sacco.  Finalmente,  raddolcendo  alquanto  il  tuono
della voce, e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per
tutta la vita, e che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del
cielo, che le dava ad intendere che la vita  del  secolo  era  troppo  piena  di
pericoli per lei,  e  che  non  v'era  asilo,  riposo,  sicurezza...  «Ah!  sì»,
interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento,
e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua  fantasia.  Il
Marchese, - ci ripugna dargli in questo momento il titolo di padre - la prese in
parola, le annunziò il più ampio perdono, si  congratulò  con  lei  del  partito
ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata,  e  la
oppresse di quelle lodi che fanno paura,  perché  lasciano  indovinare  a  quali
improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra i
diversi affetti che si succedevano nel suo  cuore,  non  sapeva  che  dire,  non
sapeva che si avesse detto: dubitava di  essersi  troppo  avanzata,  o  d'essere
stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero  era  però
dubbio e confuso  nella  sua  mente;  ma  foss'egli  stato  limpido  e  spiegato
perfettamente, manifestarlo, accennarlo,  dire  una  parola  che  contraddicesse
all'entusiasmo del Marchese, sarebbe stato  uno  sforzo  quasi  impossibile.  Il
Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude,  per  metterli,
diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima  e
nell'affetto della  famiglia.  L'una  e  l'altro  accorsero  immediatamente.  La
Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che  quella  del
marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e  ne  era  uscita
vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere
né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto chiaramente da  principio  che  il
resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli. S'era ella  quindi  renduta
indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della famiglia, contenta  di
fare a modo suo nei due o tre  articoli  che  abbiamo  accennati.  Del  resto  i
disegni del Marchese sul collocamento di Geltrude erano così conformi  a  quello
che si chiamava interesse della famiglia, e  alle  mire  avare  e  ambiziose  in
allora tanto universali, che quel poco di opinione che la Marchesa aveva  a  sua
disposizione non poteva non  approvarli.  L'affezione  materna  però  le  faceva
desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona  madre
che abbia una figlia tanto scrignuta e contraffatta da non poter  esser  chiesta
da nessuno, desidera ch'ella preferisca il celibato al  matrimonio.  Al  giovane
Marchesino era stato detto fino dall'infanzia che le entrate  della  casa  erano
appena appena proporzionate alla nobiltà, e  che  detrarne  anche  una  picciola
parte sarebbe stato un decadere se non nella sostanza almeno nell'esterno;  egli
riguardava quindi assolutamente come un dovere in Geltrude di  chiudersi  in  un
chiostro: modo il più economico di collocarsi: quindi l'aderire  ch'egli  faceva
ai progetti del padre era una docilità poco costosa. Il Marchese  fece  cuore  a
Geltrude, e la presentò con volto lieto alla madre e al fratello. «Ecco», disse,
«la pecora smarrita, e sia questa l'ultima parola che richiami  tristi  memorie.
Ecco»  aggiunse  «la  consolazione  della  famiglia:  Geltrude  ha  scelto  ella
medesima, spontaneamente quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha  più
bisogno di consigli. È risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli  occhi
tra lo spavento e la preghiera al Padre, come  per  supplicarlo  di  sostare  un
momento, ma egli ripetè francamente: «ha promesso di prendere il velo». Le  lodi
e gli abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e  gli  altri
con lagrime che furono credute di consolazione. Il Marchese  Matteo  si  diffuse
allora a magnificare le disposizioni che aveva  già  fatte  di  lunga  mano  per
rendere lieta e splendida la sorte della sua  figlia.  Parlò  delle  distinzioni
ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che  le  madri  avevano  di
possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna  del  monastero,
dal momento in cui  vi  avrebbe  riposto  il  piede.  La  madre  e  il  fratello
applaudivano: Geltrude era come posseduta da un  sogno.  «Oh!»  s'interruppe  il
Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere,  e  si  dimentica  il  principale:
bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache,  altrimenti  non  si
conclude nulla». Detto questo fece chiamare tosto il Segretario.  Questi  giunse
ritto ritto, intirizzato quanto poteva  comportare  la  fretta  di  obbedire  al
Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di  stendere  la  supplica.  Il
Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per pigliar tempo a studiare  un
complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe  dicendo:  «Presto,
presto, scrivete alla buona, senza concetti; già conosciamo la vostra  abilità».
Il Segretario scrisse, e il foglio fu dato a Geltrude  da  ricopiare,  la  quale
ricopiò, e appose il suo nome, come le comandò il Marchese. Il  quale  preso  il
foglio, e consegnatolo al Segretario perché  lo  portasse  addirittura  cui  era
indiritto; comandò che si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario,
che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua indisposizione -  era  il  pretesto
preso per dar ragione della sua assenza continua -, e che tosto le si  facessero
apprestare abiti più sontuosi. Quindi rivolto sorridendo a Geltrude,  le  chiese
quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a  Monza  per  richiedere
alla Badessa di esser ricevuta. «Anzi...» riprese dopo aver pensato un  momento,
«perché non v'andiamo oggi stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria,  e  sarà
ancor più contenta quando il primo passo sia fatto». «Andiamo, andiamo»  rispose
la Marchesa. «La giornata è bellissima». «Vado  a  dar  gli  ordini»,  disse  il
Marchesino  e  stava  per  partire.  «Ma...»  cominciò  Geltrude,  e  non   potè
continuare. «Piano, piano, cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al  figlio:
«forse Geltrude è stanca, e vuole  aspettare  fino  a  domani.  Volete  voi  che
andiamo domani?» domandò a Geltrude con  uno  sguardo  che  nello  stesso  tempo
mostrava il sereno e minacciava il temporale. «Domani», rispose con debole  voce
Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e  che  nel
proferire quella parola si sovvenne che finalmente quel passo non era  l'ultimo,
il decisivo; e  che  si  poteva  ancora  darne  uno  indietro.  «Domani»,  disse
solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».  Il  resto
della giornata fu occupatissimo. Geltrude  avrebbe  voluto  raccogliere  i  suoi
pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi  conto  di  quello  che  aveva
fatto, di quello che era da farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare
il modo di rallentare un po' quella macchina che appena mossa andava  con  tanta
celerità, per vedere almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si
fosse accorta che la conduceva  ad  un  pentimento;  ma  non  ci  fu  verso.  Le
distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente  di  Geltrude  era
come il lavorio d'una povera fante che serva ad una numerosa famiglia e  che  in
un giorno di faccende chiamata di qua di là non può  venire  a  capo  di  nulla.
Mentre s'apparecchiava il quartiere ch'ella doveva  abitare,  ella  fu  condotta
nella stanza stessa della Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del
suo  più  bell'abito;  operazione  che  in  quel  giorno  le   recò   una   noja
intollerabile. La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando,  parte
riprendendo, parte consigliando, parte interrogando Geltrude  di  cose  estranie
non le lasciò il tempo di raccozzar due idee. Del resto  a  misura  che  l'opera
procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto,  e
vi occupò quel poco di pensiero  che  le  rimaneva.  L'acconciatura  era  appena
finita che venne l'ora del pranzo. I servi  la  inchinavano  umilmente  sul  suo
passaggio, accennando di congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà
che non avrebbe lasciato supporre che  essi  sapessero  qualche  cosa  del  vero
motivo della assenza di Geltrude. A tavola Geltrude fu  la  regina:  servita  la
prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze,  e
faceva ogni sforzo per riuscirvi.  Il  Marchese  aveva  fatto  avvertire  alcuni
parenti più prossimi del ristabilimento della figlia, e della  sua  risoluzione:
le due liete nuove si sparsero, e come la  famiglia  del  Marchese  spandeva  un
lustro grande su tutta  la  parentela,  comparvero  dopo  il  pranzo  visite  di
congratulazione. I complimenti erano per la sposina  -  così  si  chiamavano  le
giovani che erano per farsi monache - e la  sposina  doveva  rispondere  a  quei
complimenti; ed ogni risposta era una conferma. S'avvedeva ben ella che ad  ogni
momento andava tessendo ella stessa una maglia di più alla sua  rete;  ma  oltre
ch'ella non vedeva ben chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le  pareva
impossibile: poiché come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava  di  una
risoluzione presa da lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto  dare  una
risposta dubbiosa? Partite le visite Geltrude entrò con la famiglia nel  cocchio
dal quale era stata esclusa per tanto  tempo:  e  si  andò  a  fare  la  solenne
trottata. Lo spettacolo e il  romore  delle  carrozze  e  dei  passeggiatori,  i
discorsi incessanti del padre, della madre, e  del  fratello  che  per  cortesia
rivolgevano sempre la parola a Geltrude, si contendevano l'attenzione della  sua
mente; e i pensieri sulla sua  situazione  vi  apparivano  istantaneamente  come
lampi in un povero cielo. Rientrato il cocchio, in  casa,  e  fermato  sotto  le
volte rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano  in  fretta  coi  doppieri,
annunziarono che gran parte della conversazione era già ragunata. Si  montò  con
tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di sala in  sala
si giunse a quella della conversazione. La sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e
la vittima. Chi si faceva prometter da lei, chi prometteva visite,  chi  parlava
della madre tale sua parente, chi della madre  tal  altra  sua  conoscente;  chi
lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero.  Se  alcuno  non  potendo
avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o trovandosi distratto a ciarlare  in
un crocchio, non le aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto preso  come
da un rimorso, temeva di averle fatta una offesa, e studiava il momento di farle
il suo complimento. Finalmente la brigata  si  sciolse,  tutti  partirono  senza
rimorso, e Geltrude stordita, intronata si rimase sola con  la  famiglia,  dalla
quale  ebbe  altri  complimenti  sui  complimenti  che   aveva   ricevuti.   «Ho
finalmente», disse il Marchese Matteo «avuta la consolazione di veder mia figlia
trattata e distinta da sua pari. Domani  mattina»,  soggiunse,  «converrà  esser
presti di buon ora per andare a Monza  come  ha  stabilito  Geltrude».  Geltrude
condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata  vi  rimase
con una donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi,  in  vece  di
quella che aveva fatto presso di lei il  tristo  uficio  di  carceriera.  Questo
cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo  ella  in  quel  giorno  il
padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu  tentata  di
profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una delle  passioni
che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella vedeva di mal occhio  la  donna
che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse  un  ricambio  continuo,
una gara di sgarbi. Geltrude in certi momenti di divozione le  aveva  perdonato,
ma cento perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi in quel  giorno  trattata  con
tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta la famiglia, le dava  un  po'
di superbia, e nello stesso tempo il sentire  che  con  queste  lusinghe  le  si
faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le dava stizza:  mentre  il
suo animo si trovava fra questi due tristi  sentimenti,  le  sovvenne  dei  modi
rozzi,  famigliari,  insolenti  che  quella  donna  le  aveva  usati  nella  sua
prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò al padre.  Questi
ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella  pure  avesse
trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo  a  colei,  e
fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa.  Era  questa
la vecchia governante del  Marchesino:  e  Geltrude  faceva  poco  guadagno  nel
cambio. La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando  fu
tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di  madre:  in  lui  aveva
poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese
ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare
una parte d'entrata al Marchesino. Quel giorno ella  era  e  si  mostrava  tanto
soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali
era un personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della  signorina  che
aveva conosciuto il suo dovere.  Geltrude,  a  compimento  di  quella  giornata,
dovette sentire le lodi e i consigli della vecchia che spogliandola e  ponendola
a letto le fece la storia di sue zie, e di sue prozie,  le  quali  s'eran  fatte
monache per non intaccare il patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben
contente perché i monasteri  dove  s'erano  chiuse  avevan  saputo  tener  conto
dell'onore che arrecava loro l'aver dame di quella casa. Le raccontò che si  era
ricorso ad esse per protezione, e che esse dal loro parlatorio avevano  ottenuto
ciò che era stato invano domandato dalle prime dame  nella  loro  gran  sala  di
ricevimento,  parlò  degli  affari  d'onore  imbrogliatissimi  ch'esse   avevano
conciliati, delle visite di grandi personaggi forestieri che  avevano  ricevute,
di che tutta la città aveva parlato. «Ma», soggiungeva, «erano donne che sapevan
fare»; e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta da tenersi  a  Monza.
Prediceva gli onori che  Geltrude  avrebbe  pur  ricevuti,  le  distinzioni,  le
visite. Verrebbe poi il Signor Marchesino con la  sua  sposa,  la  quale  doveva
esser certo una gran dama, e allora non solo il monastero,  ma  tutto  il  borgo
sarebbe  in  movimento.  Geltrude  ascoltava  con  una  noja  mista  di  qualche
curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché stanca  e
stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità che  impedisce  uno
di lasciare a mezzo una storia mal pensata e  male  scritta.  La  vecchia  aveva
parlato mentre spogliava Geltrude, quando Geltrude  era  già  coricata;  parlava
ancora che Geltrude dormiva. Le cure di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e
sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa  Geltrude.  Il  suo  sonno  fu
affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla  voce  agra
della vecchia che venne di buon mattino a riscuoterla perché  si  preparasse  al
viaggio di Monza. «Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima  ch'ella
sia vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà  anche  un'ora  almeno.  La  Signora
Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore  prima  del  solito.  Il
Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito;  e  si  trova  in  ordine  di
partire quando che sia. Vispo come un lepratto quel  diavoletto:  ma!  egli  era
tale fin da bambino: io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle  mie  braccia.  Ma
quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare,  perché  quantunque  sia  della
miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il  diavolo:  e  questa  volta
avrebbe anche un po' di ragione perché  egli  s'incomoda  per  accompagnar  lei.
Guarda in quei momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese;  ma
poi finalmente egli non ha sopra di sè che il Signor Marchese, e  un  giorno  il
Signor Marchese sarà egli. Poveretto! con due paroline  però  s'acqueta  subito.
Lesta, lesta,  signorina,  perché  mi  sta  guardando  così  come  incantata?  a
quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido». Geltrude infatti desta per  forza,
non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie  del  giorno
trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello  che  cominciava,  e
dal cinguettio della governante, stava cogli occhi  socchiusi  ed  intenti  come
trasognata: quel destarsi era per la sua mente come  il  dubbio  barlume  di  un
mattino tempestoso, quando un leggero diradamento nelle tenebre appena  annunzia
che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più  attentamente  il  sole  stesso
appare come un disco bianco e leggiero sospeso  dietro  le  nuvole  trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva  toccato  un
tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza. Il nome del Marchesino
aveva già fermata  l'attenzione  di  Geltrude,  ma  quando  dalle  parole  della
governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente  di  Geltrude,
tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come  uno  stormo
di passere alla vista d'uno spauracchio, e non  restò  più  a  Geltrude  che  la
voglia  di  sbrigarsi,  e  di  schivare  quella   collera.   Geltrude,   bisogna
confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi aspri,  sprezzanti,  e
imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli  che  più  sovente
aveva il monastero in bocca; e  perché  le  compiacenze  e  le  distinzioni  dei
parenti sopra di lui, la tenevano in uno stato continuo di  paragone  umiliante.
Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e
come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di lui, di quando in  quando
ella si vendicava con un motto di molti giorni di una pesante persecuzione.  Era
quindi fra loro come un  continuo  stato  di  guerra.  Ma  quando  dopo  la  sua
prigionia Geltrude comparve  davanti  al  fratello  carica  d'un  fallo  e  d'un
perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello, vi scorse  una
superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi  ribellar  mai;  si
sentì soggiogata per sempre. Ed ora il  solo  pensare  che  il  fratello  in  un
momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col
suo fallo, per gittarle un motto, un  rimprovero  che  alludesse  a  quello,  la
faceva tremare. Si pose ella quindi  a  sedere  in  fretta,  e  pure  in  fretta
cominciò a vestirsi. Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era
troppo lontano; che il fratello in un momento in  cui  sperava  da  lei  un  tal
sagrificio era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla  fine
per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di  leggieri
con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio  era  tanto  vicino;  ma  un
effetto dei falli si è appunto di render  l'animo  più  soggetto  a  timori  non
ragionevoli. Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve
nella sala dov'era radunata la famiglia ad aspettarla. Il Marchesino,  al  quale
corsero dapprima  i  suoi  occhj,  se  ne  stava  tranquillo,  senza  dar  segno
d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di  letto  mostrava
nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta
una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti  per  venirne  a  capo.  Il
Marchese con lieto viso si fece incontro a Geltrude, e le disse.  «Avete  scelto
una bella giornata: buon augurio». «Buon augurio» ripeterono la  Marchesa  e  il
Marchesino. Era  preparata  una  sedia  a  bracciuoli,  e  il  Marchese  accennò
amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto  in
forse: «qui, qui», diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che  avete  fatta
non siete più una ragazzetta: siete come un  di  noi».  Appena  Geltrude  si  fu
seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza di  ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che
presso ai romani assumere la  veste  virile:  e  tutte  queste  cerimonie  erano
piccioli fili, che legavano sempre più la povera Geltrude. Essa  non  confermava
con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non diceva
nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a lei,  la  poneva
in una situazione nella quale il disdirsi, appena  il  mover  dubbio  sulla  sua
risoluzione, il fermarsi un  momento  avrebbe  avuto  sempre  più  apparenza  di
stranezza scandalosa. Preso il fatal ciocolatte, il  Marchese  si  alzò,  pigliò
Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le disse.  «Orsù  figlia
mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo». E qui le diede  le  istruzioni
su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola  della  domanda.
«Benissimo, a meraviglia» esclamò quindi e  continuò:  «Quelle  buone  suore  vi
aspettano a braccia  aperte;  e  non  sanno  nulla,  nulla...  Non  mi  date  in
fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da  un
contegno che lasci sospettar qualche cosa:  siate  franca,  e  mostrate  di  che
sangue uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono  della  famiglia;
il vostro fallo è cancellato e dimenticato». Quand'anche Geltrude  avesse  avuto
il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso,  che  le
faceva  sentire  dove  si  sarebbe  tosto  portata   la   quistione,   l'avrebbe
immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni. Ella  arrossò,  non
rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un «via via», detto
risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un servo che annunziava che il cocchio
era pronto, la costrinsero a farsi forza,  e  a  ricomporsi.  Nello  scender  le
scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si montò in  cocchio,  e  si  partì.
Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo,  e  la  vita  beata  del  chiostro,
principalmente per le giovani di sangue nobilissimo furono il tema del  discorso
durante il tragitto. All'entrare nel borgo, al vedere  la  porta  del  chiostro,
Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di
lei; quando il cocchio si fermò Geltrude guardando alla porta la vide già  piena
di curiosi; e lo studio di non far nulla  di  sconvenevole  la  occupava  tanto,
ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro pensiero. Attraversando il cortile  si
vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache. In prima fila
alcune anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre  alla  rinfusa,  quelle
che erano immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e  l'altra,
altre dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse  in
ultimo sollevate sopra sgabelletti. Si vedevano pure  qua  e  là  luccicare  più
basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave,  ed  apparire
qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più  destre  e  le  più  animose
delle educande che serpendo tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio
per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto.  Geltrude
come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti,
e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È inutile dire  che  questa
era stata dal Marchese avvertita per un messo  straordinario  della  visita  che
avrebbe ricevuta e del perché. Geltrude fu accolta dalla badessa e da  tutte  le
suore con acclamazioni. Dopo i primi saluti, la badessa nel modo con cui  si  fa
per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò  che  cosa
ella desiderava in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.  «Son
qui...» cominciò a rispondere Geltrude,  ma  nel  momento  in  cui  ella  doveva
manifestare con certezza un desiderio che  era  tutt'altro  che  certo  nel  suo
cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi irrevocabilmente
del suo  destino,  il  combattimento  interno  fu  sì  forte  ch'ella  non  potè
proseguire, e ristette un istante guardando come  incantata  la  badessa,  e  la
folla che la circondava. Così guatando ella vide distintamente alcune delle  sue
compagne, e sulla parte che appariva  di  quelle  faccette  e  più  negli  occhi
un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva  chiaramente:  «Ah!
c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore  tutta  l'avversione
al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con  questi  sentimenti
un lampo di coraggio. E già ella stava cercando una risposta diversa  da  quella
che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per  indovinare
che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza,  e  come  per  esperimentare  le
proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa,
che tutto il suo coraggio svanì.  Pensò  che  la  resistenza,  che  il  ritardo,
l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e  di
derisione, pensò al  padre,  al  fratello,  al  mondo,  al  paggio;  si  consolò
riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una  porta  aperta  per
tornare  indietro,  che  poteva  guadagnar   tempo,   e   che   avrebbe   saputo
approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il meno  terribile  in
quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere  ammessa
a vestir l'abito». Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto  a  finir  la
sua frase un silenzio solenne aveva  regnato  fra  gli  astanti:  le  parole  di
Geltrude furono seguite da una acclamazione generale.  Chetato  il  tumulto,  la
badessa tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata  data
in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva  letti  i  celebri
romanzi del Pasta: «Se il  rispetto  non  ponesse  un  freno  agli  affetti,  io
accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che
ci proibiscono di dare alcuna risposta a  domande  di  questa  natura  prima  di
averne ottenuta la licenza. Bensì senza riguardi, accuseremo il  tempo  che  coi
suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa  risposta  desiderosa  non
meno che desiderata. E voi, carissima figlia, con  l'acume  del  vostro  ingegno
potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina  della  decisione  che  potete
aspettarvi da  tutte  le  nostre  suore;  e  da  me  umilissima  superiora».  Le
acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a  torto
perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori. La  badessa,  alla  quale
non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che la folla poteva essere
incomoda, si rivolse ad una suora, e disse: «Ehi suor Eusebia, date un po',  una
voce alla fattora, perché faccia sparire tutto quel minuto popolo, e  chiuda  la
porta di strada». L'ordine fu dato ed eseguito: e il  minuto  popolo  partì  con
dispiacere, ma con ammirazione. Geltrude passava  intanto  dalle  braccia  della
badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il
quale aveva in tutte a un di presso lo stesso senso: - l'avevam sempre detto che
sareste nostra -. Passato quel primo impeto, la  badessa  pregò  Geltrude  e  la
famiglia di passare nel parlatorio. A  questa  preghiera,  le  converse  scesero
dagli sgabelli, la folla si diradò, e la badessa con  alcune  delle  anziane  si
avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia  milanese  vi
andava pel di fuori. V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è
di capitombolare ad un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come  saltelloni
in più riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è una specie di  riposo;  e
l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato  dalla
speranza. Geltrude sentì un certo sollievo d'essere  uscita  di  quella  stretta
comunque ne fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere  prima
di fare un altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e di
non lasciarsi cogliere così  alla  sprovveduta.  Con  questo  pensiero  ella  fu
condotta nel parlatorio. Qui rinnovati  i  complimenti,  la  badessa  pregò  gli
ospiti di aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva  porre  nella  ruota  da  una
conversa; la quale dette il moto alla ruota, e ne  rivolse  la  bocca  verso  il
parlatorio esteriore. Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile:
così che noi crediamo di potere ormai senza  indiscrezione  manifestare  che  la
ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani  degli  ospiti  un  gran
bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle  suore  malgrado  gli
ordini ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano  loro  assolutamente  un
tale esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero  un  più  grande
effetto in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai  nostri
giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le
monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe  anzi
a dir vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi  scrive  ha
mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica,  quando  ha  potuto
averne. Si parla  soltanto  di  questo  fatto,  perché  può  dar  luogo  ad  una
osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi  che  non  sono  eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto  schermirsi,  e  lagnarsi  d'esser
trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati  con  atti
che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date  con  sentimento  molto,  e
rispinte con molta modestia. Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano
con alcune suore alle varie riflessioni che può far nascere un bacile di  dolci,
e Geltrude era costretta di rispondere come  poteva  ai  complimenti  che  altre
suore le facevano, la madre badessa chiamò in disparte il Marchese  ad  un'altra
grata. «Signor Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità...
debbo dirle... che ogni volta che una  figlia  domanda  d'essere  ammessa...  la
Superiora, quale io sono indegnamente... tiene obbligo di  avvertire  i  parenti
che se  mai  essi  forzassero  la  volontà  della  figlia  incorrerebbero  nella
scomunica... Mi  scuserà...»  «Benissimo,  benissimo,  reverenda  madre;  troppo
giusto: lodo la sua esattezza. Ma già ella  non  può  dubitare...»  «Oh!  Pensi,
Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi:  ho  parlato  per  mio  dovere;  ma
s'immagini...» «Certo, certo, madre badessa». Finito il qual  breve  dialogo,  i
due interlocutori si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il
continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua brigata.  Dopo  alcuni  altri
complimenti, il Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della
badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in  cocchio  più
stordita, più incerta, più  sopra  pensiero  di  quello  che  fosse  partita  la
mattina, ma con un anello di più alla sua catena; e che anello!  Ma  la  badessa
aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di  Geltrude,  o  prestava  fede
intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei? Il  manoscritto
non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente dei particolari
nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe  del  monastero,  ad  alcune
rivalità, ad alcuni impegni, nei  quali  l'aver  fra  le  suore  una  figlia  di
famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.

CAPITOLO IV Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare
in risposta alle riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder  partire
i signori, e la nuova sorella, appena messo in  moto  il  cigolante  carrozzone,
Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era  portata,  sul
suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo  di
queste per l'acquisto che facevano, e per  conseguenza  sulla  felicità  di  che
Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia. Ma tutti gli  elogi  non  furono  per
Geltrude. La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione  della  badessa:  «Come
s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto;  ah!  che  contegno!  aah!  che
dignità! aaah! che disinvoltura!» «Sì, sì»: rispose il Marchese,  «ma!  Geltrude
sarà altra cosa». Il discorso sarebbe durato fino all'arrivo  in  città,  se  il
Marchesino che ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei  divertimenti
che Geltrude doveva godere nell'intervallo fra la domanda  e  l'accettazione.  E
qui come conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città  e  nei  contorni
era degno da vedersi, egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate  descrizioni;
e le parlò di molte  sposine  ch'egli  aveva  incontrate  nelle  brigate,  senza
risparmiare la storia di qualche grossa semplicità di taluna di esse, che  aveva
molto dato da ridere. Il Marchese lasciava chiaccherare  il  figlio,  perché  in
questa faccenda egli aveva più da  fare  che  da  dire,  e  tutto  ciò  che  gli
risparmiava una occasione di discorso, lo toglieva da un impaccio:  quanto  alla
Marchesa, malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in una  strada
di quei tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà  chi  sappia
che cosa vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in
cosa indifferente. La Marchesa fu desta  dal  rimbombo  dell'atrio  di  casa,  e
dall'improvviso fermarsi della carozza. Scesi, e salite le  scale,  il  Marchese
intimò alla madre e alla figlia che prima del pranzo dovessero porsi in  assetto
per andar subito dopo a restituire la visita alle dame che avevano  favorito  la
sera antecedente. Detto  e  fatto;  l'acconciatura,  il  pranzo,  le  visite  si
succedettero senza interruzione; e la solita conversazione terminò la  giornata.
Dopo cena il Marchese pose in campo il discorso dei divertimenti che si dovevano
dare a Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser presentata  come
sposina. «Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse  egli,  «a  scegliere  per
Geltrude una madrina degna della nostra casa». La madrina, mio giovane  lettore,
era  una  dama  incaricata  di  condurre  la  sposina  ai   divertimenti,   alle
conversazioni, di presentarla, e di  vegliare  sovr'essa.  Siccome  il  Marchese
proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come invitandola
a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto per  parentesi  che
il Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto:  «Vi  sarebbe...»  «No
no», interruppe il Marchese, «la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a
genio della sposina; e benché l'uso universale e ragionevole dia  questa  scelta
ai parenti, pure Geltrude ha  tanto  giudizio  che  merita  che  si  faccia  una
eccezione per lei». E qui rivolto a Geltrude col piglio di  chi  fa  una  grazia
singolare, continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e  di
quelle che si sono trovate questa sera  alla  conversazione,  ha  le  condizioni
necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e ognuna  si  terrà
onorata di esser preferita: scegliete». Geltrude incerta  com'era,  e  stanca  e
indispettita dei passi che le si facevano  fare  sulla  via  del  chiostro,  non
avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta con  tanto  apparato  ch'ella
s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso per un  disprezzo;  e  nello  stesso
tempo non  volle  perdere  quel  qualunque  vantaggio  che  le  dava  il  potere
scegliere. Nominò dunque la dama che  in  quel  giorno  le  era  più  dell'altre
piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più carezze d'ogni altra,  che  l'aveva
lodata più d'ogni altra, che nell'accoglierla e nel conversare con lei le  aveva
mostrato tutto quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto  che  alle
volte in una prima conoscenza imita i modi d'una antica amicizia. La dama scelta
da Geltrude aveva da lungo tempo fatto assegnamento sul fratello di Geltrude per
farne il marito d'una sua figlia ch'ella amava assai. «Ben scelto, ben  scelto»,
disse il Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la
domanda alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude:
che son certo che la dama aggradirà doppiamente la  domanda».  Noi  non  terremo
dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui  fu  condotta  o
strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti dell'animo  suo
in queste spedizioni; poiché dovremmo  ripetere  tante  volte  la  stessa  cosa,
quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i sì e i  no  della
sua mente, che furono infiniti. Talvolta la pompa degli  addobbi,  lo  splendore
delle feste, la musica che non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a  migliaja,
quella esaltazione di gioja che appare negli uomini radunati per  divertirsi,  e
per dir tutto le qualità auree di qualche giovane cavaliere  che  s'indovinavano
al solo vederlo, le comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo  che
le faceva proporre di soffrire ogni cosa  piuttosto  che  di  tornare  all'ombra
trista e fredda del chiostro. Talvolta lo stordimento, la fatica, la  seccaggine
dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e
quella pace. Si destava talvolta  piena  ancora  delle  immagini  splendide  del
giorno trascorso; pensava al passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra
sè: - Oh che sproposito! - si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di
tornare indietro. La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da
farsi raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera  si  trovava  talvolta
cangiato in un pieno abbattimento. Tornavano allora alla mente le difficoltà, si
pensava allora che se anche resistendo si avrebbe potuto schivare  il  chiostro,
non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si gustava una parte: perché
si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente non era assicurata che da  un
perdono, e il perdono dalla risoluzione di  pigliare  il  velo.  Come  sarebbero
andate le cose, se la risoluzione  si  fosse  ritrattata?  e  con  quali  parole
ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude ritirava  lo  sguardo  da  questo
mare in tempesta, e rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro  le  pareva  un
porto. Coltivava ella allora i  sentimenti  pii  che  potevano  far  piacere  il
chiostro a chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare.
Quando dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri,  diceva
spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che  dovevano  far  credere
che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era posta  in  una
circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva  essere  un  nuovo
attestato di questa sua scelta, ella faceva e  diceva  ciò  che  lo  poteva  far
credere, ciò che  la  impegnava  sempre  più.  Benché  alcune  volte  in  quelle
circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi  davantaggio,
quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per  fare  le  rendeva
più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il  contrario  l'avrebbe
posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e  così  difficile,  ch'ella
non poteva né pure pensare di farlo. Ella era come chi trovandosi sur un  ripido
pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da  farsi,  e  quindi  un
luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla  via  che  bisognerebbe
fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa. E
la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma siccome chi nuoce a  se
stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non  vuol  mai
confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi così tosto per perduto,
e ad ogni male che si fa,  si  consola  con  l'idea  d'un  rimedio,  così  anche
Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un momento di  più
forte speranza. Questo  momento  era  quello  dell'esame  che  un  ecclesiastico
deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua  vocazione;  esame  nel
quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che
qualche occasione si sarebbe offerta per potere svilupparsi da quel  laccio,  se
laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella  stessa  più  chiaramente  il  suo
animo, di deliberare sulla sua  scelta  più  posatamente,  più  sicuramente,  di
quello che potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi
pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo  inesperti  per  deliberare.  Il
momento che Geltrude desiderava  non  senza  qualche  terrore,  il  Marchese  lo
affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo esperimentato,  e
sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna muoversi; e il  momento
venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude  che  in  quel  giorno  il
Signor... ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare
la sua vocazione. Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze  serie,  e
Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il  Marchese  stimò  che
fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse  una
impressione nell'animo della figlia, e le servisse di  compagnia  e  di  guardia
nell'assenza forzata d'ogni altro custode. «Orsù, Geltrude», diss'egli;  «finora
voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta di  coronar  l'opera.  Oggi  voi
dovete fare un gran passo; pensate che da esso dipende l'onore di vostro  padre,
della famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la  vita.  Tutto  quello
che si è fatto finora, si è fatto di vostro consenso, anzi a  vostra  richiesta.
Se in tutto questo frattempo vi fosse nato qualche pentimento,  qualche  dubbio,
avreste dovuto manifestarlo; ma ora, voi ben vedete che non è più tempo  di  far
ragazzate. Io mi sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato  perché
voi mi avete dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi  senza
rischio di avere una smentita. Ricordatevi che la più  picciola  esitazione  che
voi potreste mostrare oggi, mi porrebbe nella necessità  di  scegliere  fra  due
partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando credere che io
ho presa leggermente una leggerezza vostra per una  ferma  risoluzione,  che  ho
fatte tante pubblicità senza riflessione... che so  io...  che  ho  preteso  far
violenza alla vostra vocazione... o di svelare i veri motivi della richiesta che
voi avete fatta, e del vostro pentimento. Il primo partito non può assolutamente
stare con ciò che debbo a me e alla casa. Astretto di  appigliarmi  al  secondo,
dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al
primo perdono con un'altra gravissima colpa...» Il tuono  solenne  e  misterioso
con cui il Marchese  aveva  cominciato  il  suo  discorso  aveva  già  messa  in
apprensione Geltrude: e nella angoscia dell'aspettazione i tratti del suo  volto
erano immobili, tesi, ravvolti come le foglie d'un fiore nell'afa che precede la
burasca: ma la  gragnuola  assidua  e  crescente  di  quelle  parole  minacciose
percotendola, la abbattè affatto, e la fè sciogliere in uno scoppio  di  pianto.
«Via via... che è stato?» disse avvedendosene  il  Marchese,  il  quale  era  in
quella faccenda tanto occupato delle conseguenze che ella poteva avere  per  lui
che non pensava che ella potesse toccare altri tanto sul vivo. «Che è stato?  io
ho parlato in una supposizione impossibile... pure doveva pensare  anche  ad  un
tal  caso...  per  quanto  giudizio  abbiate,  io  doveva  mettervi  in   avviso
sull'importanza delle  risposte  che  oggi  siete  per  dare.  Il  Signor...  vi
domanderà se la  vostra  risoluzione  è  libera,  se  i  parenti  non  vi  hanno
comandato, consigliato... che so io?... ed io doveva avvisare di pesare ben bene
la risposta, perché ella sia  tale  da  non  pormi  nella  necessità,  di  farne
un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle; voi farete  il  vostro  dovere  da
brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che di consolazioni.
Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola: rasserenatevi, non fate  che
il Signor... vi trovi in uno stato che possa dare dei  sospetti...  mi  fido  di
voi». Così dicendo partì, lasciando Geltrude a  tutta  l'agitazione  che  poteva
dare un tal discorso ad una giovane del suo  carattere  in  quella  circostanza.
Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare  su  quello  che  aveva  a
dire; ma  questa  meditazione  era  così  piena  di  dolori,  di  incertezze,  e
d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a  forza  il  pensiero,  di
rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il  consiglio  dalla  cosa
stessa e dal momento. Ma  qual  si  fosse  il  partito  al  quale  ella  dovesse
appigliarsi nell'abboccamento, ella  stessa  sentiva  ripugnanza  e  vergogna  a
presentarvisi in  un  aspetto  che  annunziasse  una  qualche  perturbazione,  e
risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e  lo  ebbe  in  brevissimo
tempo. Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio a  dominare
l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in  questa  parte
riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si  chiamano
di preferenza uomini. Ma tutte queste quistioni di paragone  tra  l'un  sesso  e
l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini
soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacché essi peccano tutti  verso
le donne o di galanteria  adulatoria,  o  di  ostilità  grossolana.  Con  questa
osservazione non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere  profonde
che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso,  e  le  riflessioni
infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre  opere;
ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è  sempre  lecito  di
desiderare qualche cosa di più. «Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò
in piedi vergognosa, e agitata, facendogli le accoglienze che usano  le  persone
vergognose e agitate. Il Marchese lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude
si ritirò: la madrina passò nella  stanza  vicina:  la  porta  di  comunicazione
aperta in modo che ella potesse da quella vedere  e  non  intendere.  I  lettori
d'una storia hanno il privilegio di conoscere  i  personaggi  prima  di  vederli
operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui  la  lettura
d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa che la condotta  negli
affari della vita. Per servire a questo privilegio noi diremo qualche  cosa  del
Signor... Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che  gli  pareva  la
cosa la più naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e
nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli
altri: nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam  dire  con  questo  ch'egli
avrebbe  dovuto  giudicare  sfavorevolmente  degli  altri,  supporre  il   male,
attenersi a quell'indegno proverbio che dice, - chi pensa male pensa  una  volta
sola -: ohibò: questo è un  eccesso  più  comune,  e  peggiore.  Avrebbe  dovuto
lasciar di giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il
suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino
a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o tristo,  ma
con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che  si  chiama
ragione umana. Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di  pensar
bene prima di pensare. Il Marchese parlandogli della  figlia  ch'egli  aveva  ad
esaminare ne aveva esaltata la  pietà,  l'amore  del  ritiro,  il  desiderio  di
conservarsi nel chiostro per esser pura e santa. Il Signor... aveva creduto  con
gioja al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale
si trattava di decidere se la vocazione  era  vera  o  falsa  colla  prevenzione
dolcissima ch'ella era vera: il buon  uomo  si  consolava  di  avere  a  sentire
l'espressione di un animo pio e fervente, di  godere  dello  spettacolo  di  una
buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione
esisteva. - Oh! - dirà taluno, - se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe
dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una finta, o il  Marchese
un tiranno impostore. E doveva egli pensar così senza alcun fondamento? - Ohibò,
di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non
averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad  adempiere
una cerimonia,  una  formalità,  e  faceva  tutt'altro;  e  doveva  saperlo.  Il
Signor... pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa  quella
leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso,  pensò  di  rincorarla
con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo paura: non me ne
maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo
ora mettere in dubbio quella risoluzione che a  lei  forse  pare  certa,  ferma,
irrevocabile; io  debbo  ora  farle  guardare  attentamente  il  rovescio  della
medaglia, al quale  ella  forse  non  ha  mai  pensato;  io  debbo  interrogarla
minutamente,  per  esser  certo  che  ella  non  pigli  qualche  illusione   per
ispirazione». «Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata  dalle  parole  e
dal tuono del buon uomo, «io ho desiderato ardentemente questo abboccamento.  Da
questo dipende la scelta della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò  da
lei, da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a  conoscere  più  chiaramente
quale sia la mia vocazione».  «Bene,  bene»,  rispose  con  gioja  e  quasi  con
ammirazione il Signor...  «così  mi  piace.  Quelle  proteste  veementi,  quelle
affermazioni enfatiche alla prima sono talvolta fuochi  di  paglia;  fervori  di
fantasia. Per decidere bisogna dubitare, o fare come se si dubitasse. La  prego,
per ora, si faccia forza: per quanto ella credesse di aver  risoluto,  torni  da
capo e si metta bene in testa che si tratta di risolvere ora. Il  mio  dovere  è
d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia di rispondermi  con  semplicità  e
con riflessione. Come le è venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo,  e
di farsi  monaca?»  Se  il  buon  ecclesiastico  avesse  avuta  l'intenzione  di
aflliggere, di umiliare, e di confondere Geltrude, non avrebbe potuto  scegliere
una interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre
l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva  fatta  nella  semplicità  del  suo
cuore, e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano. Geltrude
rimase come colpita: che rispondere? parlare  della  cagione  vera  e  primaria,
raccontare l'istoria del  paggio?...  Dio  liberi!  Quella  storia  ella  voleva
schivarla a tutto costo. Ma tacendola, come spiegare la  sua  domanda  di  farsi
monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei
parenti? Ma non ne avevano usate, e questa menzogna  (giacché  in  quel  momento
Geltrude era disposta a farne  una,  e  pensava  solo  a  scegliere  quella  che
l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che  non  sarebbe  stata  scoperta  in
seguito) questa menzogna  avrebbe  certamente  cagionata  una  spiegazione,  che
sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude. Che s'ella avesse  attribuita  la
sua risoluzione al desiderio di compiacere  ai  parenti,  ai  loro  consigli,  a
leggerezza propria, la spiegazione diventava pure inevitabile; e in quel momento
le parole che Geltrude aveva intese poco prima  dal  padre,  le  ripassarono  in
processione nella memoria. Le parve dunque che il solo mezzo per uscire da  quel
gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse all'interrogante, e al  padre,
che non lasciasse oscurità né punti da discutere nell'avvenire:  sentì  che  per
dare una tal risposta bisognava  mostrare  che  la  risoluzione  fosse  tuttavia
ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse. Avvezza  com'era  a  trarsi  dalle
circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più  difficili
ancora, a consumare per dir così il tempo avvenire per vivere in  quel  momento,
ella cedette all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e  disse:
«È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi  sono  sentita  inclinata  a
servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle  cure  del  mondo».  Queste
parole furon porte con l'apparenza della  più  ferma  persuasione;  e  l'indugio
ch'ella aveva posto al rispondere, parve al Signor...  un  segno  una  prova  di
riflessione posata. E in quel momento furon contenti ambedue: egli di vedere una
così buona disposizione, ella di essere uscita d'impaccio  come  che  fosse.  Da
quel momento Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la  prima;
e edificò il Signor... oltre ogni sua speranza.  Quando  egli  le  chiese  se  i
parenti non avessero usate minacce o troppo instanti preghiere per  determinarla
alla scelta dello stato religioso... «No no»; rispose con vivacità Geltrude:  «i
miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi
hanno lasciata libera». Il  Signor...  si  scusò  di  averle  fatta  una  simile
interrogazione. «Il Signor Marchese», diss'egli,  «quel  cavaliere  così  degno!
s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io  ho  fatto  il  mio
dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza». L'esame finì con le
giulive  congratulazioni  del  Signor...,  il  quale  come  per  iscaricarsi  la
coscienza di aver fatto qualche cosa per  distorre  un'anima  buona  da  un  pio
proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva  il  suo  zelo  cordiale  per
confermarla in quello; e partì con  la  persuasione  di  non  aver  mai  trovata
un'anima così ben disposta. Del resto noi siamo ben  lontani  dal  dare  l'unica
colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame  all'ingegno  corrivo
del buon uomo. Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la  cosa
doveva  avere  a  un  di  presso  quell'esito,  qualunque  fosse  l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato,
che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre. Questi  era
in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le commozioni
si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma  da  chi  le  prova)  gli
raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e  il  Marchese  respirò.  Le
fece animo, la colmò di lodi, la soffocò  di  promesse;  tutto  questo  con  una
eloquenza di tenerezza sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di
avere ottenuto il suo fine; ma le  parole  di  Geltrude  sembravano  di  chi  ha
liberamente scelto, ed è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi  fa
quello che uno desidera,  in  modo  da  togliergli  ogni  inquietudine  ed  ogni
rimorso, è una virtù concessa a tutto il genere umano. Da  quel  giorno  in  poi
Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una interiore, ed era di persuadere
a se stessa ch'ella era contenta della sua scelta, di fermarsi quanto più poteva
su le immaginazioni che potevano renderle gradevole il monastero, di cercare  un
po' nella divozione, un po' nel pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute,
consolazioni, celesti  o  mondane,  tutto  purché  fosse  consolazioni.  L'altra
occupazione  era  di  accelerare  quanto  più  si  poteva  tutte  le  operazioni
preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per esser chiusa una volta,  per
precludersi ogni strada al tornare addietro, per non  sentirsi  più  nascere  in
cuore quell'intollerabile:  -  potrei  forse  ancora  -.  Questo  suo  desiderio
s'accordava troppo con quelli del Marchese perch'egli non cercasse ogni  via  di
soddisfarlo; e in fatti egli  sollecitò  a  tempo  e  a  contrattempo  tutte  le
dispense per far presto. Così mi sembra che sarà bene che facciamo  pur  noi  in
questo racconto. Diremo dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e  che
assunse l'abito; che scorso il tempo del noviziato nel quale la sua  risoluzione
parve sempre più spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto  ciò  che  poteva
farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere
il contrario, trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con  una
pompa straordinaria, e quale si conveniva alla casa. Il sacrificio fu consumato,
il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano  che  ve  lo
aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del  cielo  non
discese sovr'esso. È uno  dei  caratteri  più  ammirabili  e  più  divini  della
religione cristiana, di  potere  in  qualunque  circostanza  dare  all'uomo  che
ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo.  Quegli  stesso,
che per violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una  via
falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj.  Poiché,  se  la  via
ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione glielo fa conoscere, gli dà  l'idea
chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e la forza di farlo, che
che ne  possa  conseguire;  e  se  la  via  è  soltanto  difficile,  pericolosa,
spiacevole, ma senza adito al  ritorno,  da  questa  stessa  dura  necessità  di
proseguire in essa, la religione  cava  un  motivo  e  dei  mezzi  per  renderla
regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente,  soave  e  deliziosa.
Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere, perché erano falsi, essa
ne somministra un altro nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una  scelta
temeraria o infelice ma irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti,  tutta
la sapienza della vocazione. Con quest'ajuto Geltrude a malgrado della  perfidia
altrui, e dei suoi errori d'ogni  genere  avrebbe  potuto  divenire  una  monaca
santa, e contenta: e il secolo stesso anzi l'età  in  cui  ella  visse  ha  dato
esempj dei quali si è  conservata  la  memoria,  di  donne  che  strascinate  al
chiostro con l'arte e con la forza, e dopo d'essersi per alcun  tempo  dibattute
come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace;  una  pace
quale si trova di rado negli stati eletti più liberamente.  Che  dico?  Geltrude
stessa fu uno di questi esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben
altri errori anzi delitti, dopo sofferta ben  altra  forza  che  quella  di  cui
abbiamo parlato. Ma per non precorrere ora agli eventi col racconto, diremo  che
Geltrude dopo la sua  professione,  continuava  ad  opporre  nel  suo  cuore  un
ostacolo ai rimedj e alle consolazioni che la religione avrebbe  date  alla  sua
sciagurata condizione: e questo ostacolo erano le  consolazioni  ch'ella  andava
cercando altrove, e particolarmente nelle cose che  potevano  lusingare  il  suo
orgoglio. Il lettore non avrà forse dimenticato  che  la  famiglia  onde  usciva
Geltrude era molto potente, e che questa era la cagione principale per cui  ella
era stata tanto desiderata nel monastero. In fatti il monastero aveva acquistato
nel marchese Matteo un protettore dichiarato il  quale  risguardava  ormai  come
parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia. Ma  questo
vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta. Lo pagavano  in
tanti  sgarbi,  in  tanti  scherni,  in  tante  fantasticaggini  che  avevano  a
sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di  tempo  in  tempo  delle  arti
usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in tempo  ella
non si poteva patire, si sfogava avventando beccate  agli  uccelli  che  avevano
cantato per farla venire nella loro gabbia. E  queste  beccatelle  le  suore  le
toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro acquisto.
Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera delle  altre
provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di  questi  vantaggi,  e
nell'esercitare in tal modo la  sua  superiorità.  Una  superiorità  d'un  altro
genere era  pure  per  essa  una  occasione  continua  di  cercare  consolazioni
nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni, per  amor  del
cielo! pari a quelle che provava Robinson nella  sua  isola  in  contemplare  le
monete ch'egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato.
Anzi non pari, perché quel solitario le gettò in disparte  con  disprezzo,  dopo
d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò  più;  ma
la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una  occasione  di  regressi
affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire. Ben è vero che ella
si andava paragonando con le altre, e si trovava più bella,  ch'ella  rideva  di
tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di  voglia,  degli  occhi
sciarpellati  della  madre  badessa,  e  del  mento  incartocciato  della  madre
celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla poveretta il  dolce  in
bocca. Spendeva una parte del suo  tempo  nell'adornarsi  come  poteva,  e  così
ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre  l'abbigliamento  monastico
alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del suo volto, e  a  dir  vero
questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva dato un  volto  che  per
poco che gli si lavorasse attorno stava bene.  Per  far  questo  aveva  Geltrude
trovato un mezzo molto ingegnoso. Gli specchj come ognun sa erano  proibiti  nei
chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude  nei  primi  tempi  non  osava
ancora, come fece in appresso,  conculcare  tutte  le  regole;  ma  la  infelice
scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto ch'ella teneva  appeso  nella
sua camera  una  lastra  di  latta  levigatissima,  e  a  quella  si  consultava
segretamente. Ma quando dalle sue consulte ella aveva  conchiuso  che  anche  in
quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche  ella  se  lo  udiva  ripetere
dalle più mondane o dalle più adulatrici fra le sue compagne, il  suo  cuore  ne
rimaneva tutt'altro che soddisfatto. E quando poi il suo  cuore  le  rinfacciava
anche quella poca parte di piacere  così  mescolato  e  corrotto  ch'ella  aveva
gustato, ella sentiva più rabbia che pentimento. Così la meschina si  precludeva
l'adito alle consolazioni reali di cui il suo stato era  ancora  capace,  perché
per giungere a quelle la prima condizione è di non  curare  il  resto;  come  il
naufrago, che vuole  afferrare  la  tavola  galleggiante  che  può  condurlo  in
salvamento sulla riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare  le  alghe  e
gli sterpi nuotanti che aveva abbrancati, per una rabbia  d'istinto.  Ad  essere
badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per magra che  fosse,
era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma  oltre  le  distinzioni  e  le
franchigie per così dire ch'ella godeva per la  condiscendenza  delle  suore,  e
delle superiore, le era tosto stato conferito il grado  più  elevato  che  fosse
compatibile con la sua giovinezza: era stata eletta Maestra  delle  educande.  E
per una distinzione  singolare  le  erano  state  assegnate  due  giovani  suore
converse, le quali erano come ai suoi servizj, quasi damigelle. Quel  posto  era
per Geltrude una occasione continua di esercitare  le  passioni  più  pericolose
ch'ella covava. Fra le educande che le erano state affidate si trovavano  ancora
alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude così vicina ad esse  di
età non aveva ancora dimenticati  i  risentimenti  e  le  rivalità  puerili  del
sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che  le  dava  la  sua
autorità. Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza  e  di  pentimento  dello
stato che aveva  abbracciato,  ella  provava  un  certo  rancore  contra  quelle
giovanette destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era
più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva  di  vederle  liete  d'una
letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto  per  toglierla  loro,
cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la  pazza  ingiustizia  di
questa sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei momenti,  poverette  quelle
educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare indietro  il  suo  pensiero  nei
diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare  per  lungo  tempo,  ella  ne
sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò  ch'ella  aveva  pensato,  e
allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente, l'avrebbe creduta invasa  d'uno
zelo inconsiderato, e  d'una  staccatezza  indiscreta  e  antisociale.  Talvolta
invece predominava nell'animo  suo  l'orrore  al  chiostro,  alle  regole,  alla
disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a tutte quelle cose in mezzo  delle
quali ella si trovava per forza, e allora non solo ella sopportava la svagatezza
clamorosa delle sue allieve, ma la animava; si mesceva ai loro  giuochi,  e  gli
rendeva più liberi; entrava nei loro discorsi, e gli  portava  al  di  là  delle
intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. In queste agitazioni,  in
questo stato di guerra continua con se stessa, e con ogni cosa circostante  ella
passò i primi anni del chiostro, non senza qualche ritorno di  divozione,  e  di
regolarità temporaria,  dal  quale  ricadeva  ben  presto  nelle  sue  abitudini
predominanti. Questa vita di noja e di contrasto era tanto  penosa,  che,  senza
forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava disposta  ad  abbracciare
qualunque  distrazione,  qualunque  cangiamento  di   sensazioni   fosse   stato
possibile. Ma la clausura, le grate, le regole, la facevano  camminare  con  una
regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto vagavano in piena licenza; ma non
v'era una occasione per concedere impunemente,  o  con  lusinga  d'impunità  una
simile licenza alle sue azioni. Finalmente la sventura  di  Geltrude  volle  che
l'occasione si presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e
come diremo nel seguente capitolo.

CAPITOLO V

Il quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue  damigelle,
era annesso al monastero, ma appartato, e comunicava con  esso  per  mezzo  d'un
corridojo. Era un  cortiletto  quadrato,  ricinto  a  terreno  da  un  porticato
continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un basso ed unico piano di
abitazione. Il lato appoggiato a quella parte del  chiostro  ove  dimoravano  le
suore, era un lungo stanzone, che serviva alla scuola ed alla ricreazione  delle
educande; un altro lato era occupato pure da un lungo stanzone  che  serviva  di
dormitorio: il terzo diviso in varie camere era l'appartamento della  Signora  e
delle sue damigelle; il quarto finalmente più stretto degli altri era tenuto dal
corridojo che conduceva nell'interno  del  chiostro,  il  quale  abbracciava  il
cortiletto da tre lati. L'altro, e appunto quello occupato dall'appartamento  di
Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile, o per meglio dire ad una
parte rustica e non finita di quella casa. Era dessa elevata  al  di  sopra  del
quartiere delle educande, ma quello che se ne poteva  vedere  da  quindi  pareva
piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una parte di casa civile:  erano
tetti e tettucci diseguali di altezza e di  forma  soprapposti  l'uno  all'altro
come a caso. Ma in uno di quei tetti v'era un pertugio,  un  abbaino,  che  dava
luce ad un solajo, e adito a passare su  quei  tetti,  e  dal  quale  si  poteva
guardare nel cortiletto delle educande. Era severamente prescritto alle  monache
dagli ordini ecclesiastici, che dovessero togliere ai vicini ogni vista nel loro
chiostro; ma o fosse che, per essere quella parte di casa disabitata, le monache
non avessero mai badato a quel pertugio, o fosse che la spesa per  liberarsi  da
quella servitù eccedesse la possibilità del monastero,  o  che  non  si  potesse
venirne a capo senza quistioni, il fatto è che da quel pertugio si guardava  nel
cortiletto delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il padrone  di
quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad un  uomo  di
quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente  vi  s'intende
nei nostri; perché a quei tempi tante cagioni favorivano la  scelleratezza,  che
in coloro i quali vi si distinguevano, ella  giungeva  ad  un  segno  del  quale
grazie a Dio, non si può avere una  idea  dalla  esperienza  comune  del  vivere
presente. I mezzi d'impunità erano allora varj ed  infiniti;  la  frequenza  dei
delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna: gli animi erano avvezzi ed
allevati per dir così nel sangue: da questi  fatti  era  nato  un  pervertimento
quasi generale nelle idee, e allo stesso tempo la perversità delle idee  rendeva
quei  fatti  più  comuni,  e  più  tollerati.  La  vendetta,  per  esempio,  era
comunemente stimata non solo lecita, ma onorevole, ma comandata in alcuni  casi;
e benché i ministri della religione  non  l'avessero  mai  fatta  piegare  nelle
istruzioni pubbliche a questa massima perversa, benché non avessero anzi cessato
giammai di inveire contra la vendetta e contra le massime che la  autorizzavano,
pure  l'opinione  quasi  generale  del  mondo  sussisteva  col  favore  di   una
distinzione che a malgrado della sua assurdità, o  forse  a  cagione  della  sua
assurdità non è ancora del tutto  caduta  in  disuso:  si  diceva  che  i  preti
facevano il loro dovere, che dicevano benissimo,  che  la  vendetta  secondo  la
religione era viziosa, ma ch'ella era un dovere  secondo  le  leggi  dell'onore:
così si diceva e non dai più perversi, né  dai  più  stolti.  Ora  queste  leggi
dell'onore erano in allora molto draconiane;  e  domandavano  sangue  per  molti
casi; senza che questo onore così delicato si stimasse  poi  offeso,  se  per
necessità, il sangue si fosse dovuto versare a tradimento,  o  per  mano  di
sicarj. Ne veniva di conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che  uno
commesso diveniva causa di un altro, e così  all'infinito,  e  che  l'orrore  al
sangue  si  diminuiva  con  l'abitudine,  anche  negli  uomini  che  non   erano
sanguinari, e che si era formato come un sentimento  universale  che  una  certa
misura di animosità, di crudeltà e di delitti fosse  una  condizione  necessaria
inevitabile della società; chi avesse detto che quello era un male temporario, e
speciale sarebbe stato deriso come  un  ottimista,  un  utopista,  un  sognatore
metafisico: appena uno si sarebbe degnato  di  rispondergli:  «gli  uomini  sono
sempre stati e saranno sempre così». Portate le idee comuni a  questo  punto  di
licenza in molti, e di tolleranza e di rassegnazione in quasi tutti  gli  altri,
egli è chiaro che  gli  uomini  i  quali  avevano  una  tendenza  distinta  alla
perversità, per giungere al colmo di essa, pigliavano le mosse da un  punto  ben
più avanzato, ben più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei  nostri
giorni; trovavano meno ostacoli  e  più  incitamenti  che  ai  nostri  giorni  a
giungervi, e vi  giungevano.  L'omicida  ai  nostri  giorni,  quand'anche  fosse
impunito sarebbe un oggetto di orrore, oggetto  forse  di  più  profondo  orrore
sarebbe chi senza commettere l'omicidio di propria mano ne avesse dato  l'ordine
ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali,  dovrebbero  temere  di  perdere
tutte le  dolcezze  della  comune  società.  Quindi  l'uomo,  che  in  qualunque
condizione, aspira a goderle, ha pure da questo lato un freno potente. Ma allora
v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto  uccidere  non  toglieva  alla
riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era  ammesso  a  giustificarsi  e  a
render ragione dinanzi alla opinione pubblica: non si trattava  che  di  provare
che il caso richiedeva l'omicidio, che il delitto era una  azione  tollerata,  o
prescritta dalle leggi della opinione stessa. La speranza di poter  fare  questa
giustificazione, dinanzi ad una opinione già tanto perversamente  indulgente,  e
di farla accettare col terrore doveva essere,  ed  era  uno  stimolo  ai  tristi
potenti per  correre  allegramente  la  loro  via.  Bastava  quindi  un  leggero
interesse, una picciola passione a spingere anche i meno tristi fra i tristi  ad
attentati, ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i più  avvezzi  al
delitto, benché vi fossero  tratti  da  un  interesse  molto  maggiore,  da  una
passione molto più violenta. Sarebbe un soggetto degno di curiosità, la  ricerca
delle cagioni per cui quelle idee e quei costumi, dopo aver regnato  per  troppe
età in quasi  tutte  le  nazioni  d'Europa,  sieno  poi  stati  da  migliaia  di
scrittori, e da milioni di parlanti attribuite poi esclusivamente agli Italiani.
Ma noi invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una,  e  anzi
lunghetta che no, da farci perdonare: torniamo quindi alla  storia.  Il  padrone
della  casa  contigua  al  quartiere  delle  educande,  era  dunque  un  giovane
scellerato: e si chiamava il signor  Egidio:  perché  di  cognomi,  come  abbiam
detto,  l'autor  nostro  è  molto  sparagnatore.  Suo  padre,   uomo   dovizioso
bastantemente  non  aveva  avuta  altra  mira  nell'educarlo,  che  di  renderlo
somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva
quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di  soddisfazioni  e  di  fare
stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi  e  pugnali;  e  dalle  braccia
della nutrice era passato in quelle degli  scherani.  La  madre,  ch'era  di  un
carattere mansueto e  pio,  avrebbe  potuto  forse  temperare  in  parte  questa
educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella  infanzia,  dopo  una  lenta
malattia cagionata dai continui spaventi. Il padre fu ucciso dopo una brevissima
quistione da un suo emolo membro di una famiglia emola della sua da generazioni;
ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza. La  prima  sua  impresa  fu  di
risarcire  l'onore  della  famiglia,  con   una   schioppettata   nelle   spalle
dell'uccisore di suo padre. Questa impresa però lo pose da quel  momento  in  un
continuo pericolo; e per assicurarsi, egli dovette crescere il numero  de'  suoi
bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo padre aveva non solo
nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime  e  di  condotta:
Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della  loro
assistenza. Ma i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al  padre,  per
se medesimi: l'educazione lo aveva addestrato a non temerli, e a  corrervi  anzi
ogni volta che un qualche fine ve  lo  spingesse:  ma  non  erano  un  fine,  un
divertimento,  un  bisogno  per  lui.   La   sua   passione   predominante   era
l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle precauzioni però  che  esigeva
lo stato di guerra in cui egli si trovava, e per questa egli veniva ai  garbugli
ed al macello, quando non si poteva fare altrimenti. L'abbaino che guardava  nel
cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il padre,
il quale non si curava di spiare i fatti delle educande. Soltanto egli vi  aveva
condotto una volta Egidio adolescente, per fargli osservare che  quello  era  un
dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano  sui  tetti  sotto  posti,  come
Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel picciolo Annibale  che  mai  in
nessun tempo egli non avrebbe sofferto che  le  monache  si  togliessero  quella
servitù. Egidio divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino,  e  gli  parve  un
dominio assai più importante che suo padre non lo aveva creduto. Un consorzio di
donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui  uno  spettacolo  da
non trasandarsi quando lo aveva così a portata;  e  la  santità  del  luogo,  il
riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro,  tutto  ciò  che  avrebbe  dovuto
essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata  curiosità,  la  quale  non  aveva
disegni già determinati, ma era pronta a cogliere  e  a  far  nascere  tutte  le
occasioni. Si affacciava egli dunque all'abbaino  con  quella  frequenza  e  con
quella libertà, che non bastasse a farlo scoprire da  chi  non  avrebbe  voluto.
Nelle ore in cui Geltrude  non  faceva  guardia  alle  educande,  e  queste  ore
tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e trovato il
terreno dolce, si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero,
che quella, fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu  tolta  dal  monastero,  e
così la tresca finì, senza che nessuno l'avesse  avvertita.  Egidio  animato  da
quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla  empietà  del  secondo
pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora;
e si diede ad agguatarla. Un giorno mentre le educande  erano  tutte  congregate
nella stanza del lavoro con le due  suore  addette  ai  servigi  della  Signora,
passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto lontana le mille  miglia
da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in  ramo
senza pure immaginarsi che in quella macchia vi  sia  dei  panioni,  e  nascosto
dietro a quella il cacciatore che gli ha disposti. Tutt'ad un tratto sentì  ella
venire dai tetti come un romore di voce non articolata la quale voleva  farsi  e
non farsi intendere, e macchinalmente levò  la  faccia  verso  quella  parte;  e
mentre andava errando con l'occhio per quegli alti e bassi,  quasi  cercando  il
punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo,  e
che manifestamente  le  apparve  una  chiamata  misteriosa  e  cauta,  le  colpì
l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella cercava. Guardò ella allora più
fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono  dubbio
sulla intenzione di quella chiamata.  Bisogna  qui  render  giustizia  a  quella
infelice: qual che fosse fin'allora stata  la  licenza  dei  suoi  pensieri,  il
sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore  schietto  e  forte:  chinò
tosto lo sguardo,  fece  un  cipiglio  severo  e  sprezzante,  e  corse  come  a
rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e  dove
per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi tirando
lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta come se fosse  inseguita,  si  avviò
all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si
chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita  da
una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a ripensare se  mai  ella  avesse
dato ansa in alcun modo alla arditezza  di  colui,  e  trovatasi  innocente,  si
rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente ciò  che  aveva  veduto,  se  lo
andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per venire più  chiaramente
a comprendere come, perché ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva
egli  presa  in  iscambio?   Forse   aveva   voluto   accennare   qualche   cosa
d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le pareva di non  avere  errato  alla
prima, e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con
quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e  quella  prima  sorpresa.  Cosa
strana e trista! il sentimento stesso della  sua  innocenza  le  dava  un  certa
sicurtà a tornare  su  quelle  immagini:  ella  compiaceva  liberamente  ad  una
curiosità di cui non conosceva  ancora  tutta  l'estensione,  e  guardava  senza
rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. Finalmente dopo  lunga
pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò
di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola. Esitò alquanto
su la strada che doveva fare: ripassando pel  cortiletto,  ella  avrebbe  potuto
lanciare un guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti  per  vedere  se
colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come  regolarsi...,
ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della curiosità,  o  di
qualche cosa di peggio, e senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla  stanza
dove erano le educande: qui, o fosse caso o un resto di quella  esitazione  ella
si affacciò ad una finestra che aveva dirimpetto appunto quei tetti, vi  guardò,
vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la chiuse, e
uscì da quella stanza  dicendo  in  fretta  alle  educande  con  voce  commossa:
«lavorate da brave»; e se ne  andò  difilato  a  passeggiare  nel  giardino  del
chiostro. L'atto repentino, e la commozione della  voce  non  diedero  nulla  da
pensare né alle educande né alle suore, avvezze le une e le  altre  agli  sbalzi
frequenti dell'umore della Signora. Ma ella stava peggio nel  giardino  che  già
non fosse nelle sue stanze. Le venne un pensiero, che avrebbe  dovuto  avvertire
dell'accaduto chi poteva  opporsi  a  tanta  temerità.  -  Ma;  e  se  mi  fossi
ingannata? - Questo dubbio non le veniva che allor quando la  manifestazione  di
ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come  un  dovere.  -  Prima  di
parlare - diceva fra sè - voglio esser certa;  troverò  il  modo  di  farlo  con
prudenza. E finalmente - concluse fra sè in un accesso  di  passioni  diverse  -
finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho piantato io qui  vicino
a questa casa. Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo  della  terra!
Dovevano pensarvi quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada come
sa andare. Io non voglio pensarci. Queste parole volevano dire, forse senza  che
Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi  ella  non  avrebbe
pensato ad altro. Il nostro manoscritto, segue qui  con  lunghi  particolari  il
progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari, e diremo
soltanto ciò che è necessario a fare intendere in che abisso ella fosse  caduta,
e a motivare gli orribili eccessi d'un altro genere, ai quali  la  strascinò  la
sua caduta. L'assedio dello  scellerato  Egidio  non  si  rallentò,  e  Geltrude
cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli  ch'ella  disapprovava
le  sue  istanze,  quindi  passando  gradatamente  dalle   dimostrazioni   della
disapprovazione  a  quelle  della  non  curanza,  da  questa  alla   tolleranza,
finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in cuor suo, e  con
quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare  e  additarle  lo  fece  certo
della sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò per  un
istante una falsa gioja. Alla noja,  alla  svogliatezza,  al  rancore  continuo,
succedeva tutt'ad un tratto  nel  suo  animo  una  occupazione  forte,  gradita,
continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi  affetti;  Geltrude
ne fu come inebbriata; ma era la coppa  ristorante  che  la  crudeltà  ingegnosa
degli antichi porgeva al condannato per invigorirlo  a  sostenere  il  martirio.
L'avvenire gli apparì come pieno e  delizioso.  Alcuni  momenti  della  giornata
spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a  quelli,  ad  aspettarli,  a
prepararli gli sembrò una esistenza beata,  che,  non  lascerebbe  né  cure,  né
desiderj;  ma  le  consolazioni  della  mala  coscienza,  dice  il  manoscritto,
profittano  altrui  come  al  figliuolo  di  famiglia  le  somme  ch'egli  tocca
dall'usurajo. L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio  s'avanzavano  di
pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome.
Già prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude  era  accaduto
un  gran  cangiamento,  tutte  le  inclinazioni  viziose  che  vi   erano   come
addormentate si risvegliarono più forti e  più  adulte,  e  a  tutte  queste  si
aggiunse l'ipocrisia. Cominciò ella nei primi momenti  a  divenire  più  attenta
nell'esteriore, più  regolare,  più  tranquilla;  cessò  dagli  scherni,  e  dal
rammarichio; di modo che le suore si congratulavano a  vicenda  della  mutazione
felice. Ma quando all'effetto naturale del fallo si aggiunse la  scuola  viva  e
diretta dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi quali  diventassero  le
idee di Geltrude. Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran
tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato
odioso e sospetto: i ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò era una
invenzione dell'astuzia, un'arte per godere a spese altrui, accolti dal cuore  e
presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici savj e sinceri. Vi
ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo,  di  più
verosimile che non appaja nelle massime del dovere espresse in un modo volgare e
talvolta inesatto: di  modo  che  il  pervertimento  può  parere  facilmente  un
progresso di ragione. Ben è vero che al di là di quelle teorie ve n'ha  una  più
profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è  dato  trovarla  se
non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma Geltrude non  aveva
né l'uno né l'altro  di  questi  ajuti.  Ella  fu  dunque  una  docile  e  cieca
discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali  di  perversità  a  cui
l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di arrivare. Ma non andò
molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi passi nella  carriera
ch'ella aveva intrapresa. Geltrude aveva a poco a poco trasandate quelle cure di
apparente regolarità che si era prescritte; la licenza a cui si era  abbandonata
le rendeva più insopportabile ogni contegno; e così si rilasciò tanto che  negli
atti e nei discorsi divenne più libera e più  irregolare  di  prima.  Insieme  a
quelle cure cominciò senza avvedersene a trascurare  anche  le  precauzioni  che
aveva da prima messe in opera per nascondere quello che tanto  le  importava  di
nascondere; e le trascurò tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno che  le
due damigelle, che  le  stavano  più  vicine  avevano  qualche  sospetto.  Tutta
atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era il suo solo consigliere.
Questi ne fu pure atterrito, ma a mille  miglia  meno  di  Geltrude,  e  per  la
diversità delle circostanze, e perché tanto era minore il suo pericolo  che  non
quello della donna, e per la diversità dell'animo: perché quello di  Egidio  era
duro e grossolano; e in Geltrude il  timore  della  vergogna  era  una  passione
furiosa come si è veduto dalla sua condotta anteriore.  Pensò  egli  quindi  più
freddamente al modo di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui  una
nuova occasione di soddisfare alle sue passioni. Per riuscirvi, egli coltivò  il
terrore di quella poveretta, le fece tanta paura del male, che nessun rimedio le
paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame rimedio che fu di  render
partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la  sospettavano.  Lo
scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di tutto  il  predominio
che aveva sull'animo di  Geltrude,  adoperò  tutte  le  dottrine  che  le  aveva
insegnate e ch'ella aveva ricevute. L'albero della  scienza  aveva  maturato  un
frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell'animo e il  serpente
al  fianco;  e  lo  colse.  Con  la  direzione  del  serpente,   ella   trasfuse
prudentemente a gradi a gradi nelle menti delle due suore il  pervertimento  che
era necessario per renderle sue complici, e consumò il proprio avvilimento nella
loro colpa. Venuta in questo fondo, la sventurata perdette con ogni dignità ogni
ritegno, e agguerrita contra ogni pudore si trovò  disposta  ad  agguerrirsi  ad
ogni attentato; e l'occasione non tardò  a  presentarsi.  Una  delle  due  suore
addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche sospetto,  lo  confidò  ad
un'altra suora sua amica, facendosi promettere il segreto: promessa  che  le  fu
tenuta perché la Signora era troppo potente, e il segreto troppo  pericoloso;  e
la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura. Non  era  che  un  sospetto,  e  gli
indizj eran deboli e  potevano  anche  essere  interpretati  altrimenti;  ma  la
curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai  di  tempestare  quella
che le aveva fatta la confidenza, per vederne, come  si  dice,  l'acqua  chiara.
Quando però la suora che aveva ciarlato divenne complice, si studiò non solo  di
eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi, e di farle  credere  che  il
sospetto  era  ingiurioso  e  stolto,  e  ch'ella  stessa  si   era   pienamente
disingannata. Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre  quel  sospetto,  e  non
lasciava sfuggire occasione di gettar gli occhi nel quartiere delle educande,  e
di origliare, per venire a qualche certezza. Accadde un giorno  che  la  Signora
venuta a parole con costei la  aspreggiò,  e  la  trattò  con  tali  termini  di
villania, che la suora  dimenticata  ogni  cautela,  si  lasciò  sfuggire  dalla
chiostra dei denti: ch'ella sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe
detto a cui si doveva. La Signora non ebbe più pace. Che  orrenda  consulta!  le
tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di imporre
silenzio alla suora. Il modo fu pensato e proposto da lui  con  indifferenza,  e
acconsentito  dalle  altre  con  difficoltà,  con  resistenza,  ma   alla   fine
acconsentito. Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più  volte  che
era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una  tanta  scelleratezza,
ma finalmente vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e  nello  stesso  tempo
dal suo terrore, venne ad una transazione con la quale ella si sforzò di fingere
a se stessa che  sarebbe  men  rea:  pattuì  ella  dunque  che  non  si  sarebbe
impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato  fare.  Presi  gli  orribili  concerti,
determinato dalle esortazioni di Egidio al  sangue  l'animo  di  quella  che  fu
scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo
di quegli antichi sospetti, in modo da crescerle la curiosità.  E  la  curiosità
era stimolata in essa dal desiderio di vendicarsi della Signora;  ma  per  farlo
con sicurezza, aveva  essa  stessa  bisogno  di  esser  sicura.  La  traditrice,
mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla  Signora  per
darle sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella  speranza  di
scoprire qualche cosa; e come questa insisteva per trattenerla,  le  propose  di
venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella sua  cella,
e dirle il di più, e forse renderla testimonio  di  qualche  cosa.  La  meschina
cadde nel laccio. Venuta la notte ella si trovò nel  corridojo,  dove  la  suora
omicida le venne incontro chetamente, e la  condusse  nella  sua  cella:  quivi,
preso il pretesto dei  servigj  della  Signora  per  partirsi,  promettendo  che
tornerebbe  tosto;  la  fece  nascondersi  tra  il  letticciuolo  e   la   mura,
raccomandandole di non muoversi finch'ella  non  la  chiamasse.  Uscì  quindi  a
render conto del fatto all'altra suora e  allo  scellerato  che  aspettavano  in
un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile coraggio  che  le  abbisognava,
entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua  compagna.  Nella  cella  non
v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi  mandava  per  la  porta
aperta una dubbia luce. La  scellerata  parlando  con  la  compagna,  perché  la
nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di
rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso  il  luogo
dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso le si  avventò,  e
prima che quella potesse né difendersi né gettare un grido né  quasi  avvedersi,
con un colpo la lasciò senza vita.

CAPITOLO VI

Accorse al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le
colpevoli che fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per  caso  e  a  mal
loro grado si fossero trovate presenti ad un misfatto. Egidio le fermò, e chiese
premurosamente se la cosa  era  fatta.  «Vedete»,  rispose  tremando  l'omicida.
«Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare il resto»;  e  dava
tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da farsi per  togliere
ogni vestigio del delitto. Avvezze, come elle erano, ad  ubbidire  a  colui  che
aveva acquistata una orribile autorità su gli animi loro,  a  colui  che  faceva
loro sempre paura, e dava loro sempre  coraggio;  e  rianimate,  e  come  illuse
dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se si trattasse di
una faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora  il  silenzio,  elle
fecero ciò che era loro comandato. «E la Signora, perché non viene ad ajutarci?»
disse l'omicida: «tocca a lei quanto  a  noi,  e  più».  «Andate  a  chiamarla»,
rispose Egidio: l'omicida che cercava anche un pretesto per allontanarsi, almeno
per qualche momento, da quel luogo e da quell'oggetto che le era insopportabile,
si avviò alla stanza di Geltrude. Questa si stava nelle  angosce  di  chi  sente
l'orrore del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava  ad  origliare  alla
porta: intese il colpo, e fuggì ella pure a  rannicchiarsi  nell'angolo  il  più
lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il
terrore che non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e  disse:  «abbiamo  fatto
ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose  in  ordine:  venite  ad
ajutarci». «No no, per amor  del  cielo»,  rispose  Geltrude.  «Che  c'entra  il
cielo?» disse l'omicida. «Lasciami, lasciami» continuò Geltrude. «Come!» replicò
l'omicida «chi è stata quella...?» «Sì è vero»  rispose  Geltrude;  «ma  tu  sai
ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da  nulla;  lasciami
stare per amor...» Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo  così
orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua  presenza,
e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: - non è nulla
-. «Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che  avrebbe
voluto essere un sorriso di scherno: «non vuol  venire:  è  una  dappoca».  «Non
importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che impacciare; ecco tutto è finito
senza di lei».  «Resta  ancora...»  volle  cominciare  l'omicida,  ma  non  potè
continuare. «Ebbene» disse Egidio, «questa è mia cura; datemi tosto mano, e  poi
lasciate fare a me». Le donne  obbedirono:  Egidio  carico  del  terribile  peso
ascese per una scaletta al solajo: e l'omicidio uscì per la porta che era  stata
aperta al sacrilegio. Quando lo scellerato fu nelle sue  case,  cioè  in  quella
parte disabitata che  toccava  il  monastero,  discese  per  bugigattoli  e  per
andirivieni dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata,  o  che  non
aveva  forse  mai  servito;  quivi  in  una  buca  scavata  da  lui,  il  giorno
antecedente, depose il testimonio del delitto; lo ricoperse, e  pigliati  da  un
mucchio che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo,
proponendosi di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un  monte
se avesse potuto. Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio,  se  tutto
era nello stato di prima; e poi... che avevano  a  dirsi?  L'omicida,  ruppe  il
silenzio, dicendo: «andiamo a cercare la Signora»; l'altra le tenne dietro senza
rispondere. Bussarono sommessamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in
agguato,  e  disse  macchinalmente:  «chi  è?»  «Chi  potrebb'essere?»   rispose
l'omicida: «siam noi, apri e vieni, e vedrai che le cose sono tutte come  jeri».
Geltrude aprì, e venne con  loro  nella  più  orrenda  stanza  di  quell'orrendo
quartiere: volse in giro entrando un'occhiata sospettosa, e disse:  «che  faremo
qui?» «Quel che faremmo altrove», rispose l'omicida. «Perché non  andiamo  nella
mia stanza?» replicò Geltrude. «È vero», disse quella che non aveva mai parlato;
«è vero; andiamo nella  stanza  della  Signora».  Ognuna  delle  tre  sciagurate
sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche cosa, di appigliarsi
ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno;  e  nessuna  sapeva  pensare
quello che fosse da farsi: quando una  faceva  una  proposta,  le  altre  vi  si
arrendevano, come ad una risoluzione. Geltrude si avviò,  le  altre  le  tennero
dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza di Geltrude.  «Accendete  un  altro
lume», disse questa. «No, no», rispose questa volta  l'omicida:  «ve  n'è  anche
troppo:  abbiamo  ristoppate  le  finestre,  è  vero,  ma  se  qualche  educanda
vegliasse...» «Santissima...!» proruppe con un moto  involontario  di  spavento,
Geltrude, e non terminò l'esclamazione, spaventata in un  altro  modo  del  nome
puro e soave che stava per uscirle dalle labbra.  «E  perché  dunque»,  continuò
rimessa alquanto, «perché avete lasciato il lume nell'altra stanza?» «Perché...»
rispose l'omicida: «non si  ha  testa  da  far  tutto».  «Andate  a  prenderlo».
«Andate, andate... andiamo insieme». Le  due  serventi  partirono,  Geltrude  le
seguì fino alla porta aspettando che tornassero col lume. Lo  deposero  sur  una
tavola, lo spensero, e sedettero di nuovo intorno a quello che ardeva da  prima.
Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in  tratto;  quando  gli
sguardi s'incontravano ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice,  e
avesse ribrezzo d'un colpevole. Ma l'omicida più  agitata,  e  agitata  in  modo
diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare un  discorso,  voleva
parlare del fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale,
come per tenere afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che  una
loro pari. Concertarono finalmente la condotta da  tenersi  quel  primo  giorno,
perché nei concerti presi antecedentemente non avevano preveduti che i  pericoli
materiali:  non  avevano  pensato  che  al  modo  di   commettere   il   delitto
segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il  delitto  aveva  loro
appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro
contegno, nel loro volto. Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe indisposta,
che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe  chiusa  all'oscuro  nella  sua
stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla. Ma in questo concerto  stesso,
quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto più terribile era di decidere a
quale  delle  due  serventi  sarebbe  toccato  di  avvertire  le   suore   della
indisposizione di Geltrude, per evitare  che,  non  vedendola  comparire,  o  la
badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a chiederne  novella.  Ognuna
voleva rigettare su l'altra questo incarico. L'omicida aveva una  buona  ragione
per esimersi; ma questa ragione, poteva ella  parlarne?  Dire:  -  io  sarò  più
confusa, più tremante, perché... - Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma
li sosteneva con più furore. Geltrude indovinò, anzi  sentì  quella  ragione,  e
persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato  facile  e
spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle  suore  che
governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si  facesse  romore
per non disturbarla. Egidio intanto eseguiva gli altri concerti che erano  stati
presi, o per dir meglio ch'egli aveva proposti; giacché  il  disegno  era  tutto
suo. Occultata la vittima, egli uscì di notte fitta, accompagnato da alcuni suoi
scherani, come soleva non di rado per qualche  spedizione.  Gli  dispose  in  un
luogo distante da quello a cui aveva disegnato di portarsi, e gli lasciò come  a
guardia, lasciando loro credere che andasse ad una delle sue  solite  avventure.
Quindi per lunghi  circuiti  si  condusse  ad  un  campo  disabitato  col  quale
confinava l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro. Ivi, dopo  d'aver  ben
guardato intorno se nessuno vi  fosse,  si  trasse  di  sotto  il  mantello  gli
stromenti da smurare che aveva portati nascosti con le armi; e pian piano in una
parte del muro già intaccata dal tempo,  e  ch'egli  aveva  fissata  di  giorno,
aperse un pertugio, tanto che una  persona  potesse  passarvi.  Riprese  i  suoi
ferri, si ravvolse nel mantello,  e  camminando  non  senza  terrore  minacciato
com'era da più d'un nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi  lieto,
s'avviò con essi, gittò per via qualche motto misterioso di altre  avventure,  e
tornò alla sua casa. Il mattino vegnente una suora  mancò;  si  corse  alla  sua
cella; non v'era; le monache si sparpagliarono a ricercarla; ed una  che  andava
per frugare nell'orto, vide da lontano... - Possibile? un pertugio nel  muro.  -
Chiamò le compagne a tutta voce: si corse al pertugio; «è fuggita;  è  fuggita».
La badessa  venne  al  romore:  lo  spavento  fu  grande;  la  cosa  non  poteva
nascondersi;  la  badessa  ordinò  tosto  che   il   pertugio   fosse   guardato
dall'ortolano, che si mandasse per muratori, onde chiuderlo, e che  si  spedisse
gente per raggiungere la sfuggita. Il lettore sa che  pur  troppo  ogni  ricerca
doveva riuscire inutile. L'occupazione  che  questo  affare  diede  a  tutte  le
monache fece che le tre che erano la trista cagione di tutto,  fossero  lasciate
in pace, o per meglio dire, sole. È facile supporre che da quel giorno in poi il
carattere di Geltrude (giacché di essa  sola  esige  la  nostra  storia  che  ci
occupiamo) fu sempre più stravolto. Combattuta continuamente tra il rimorso e la
perversità, tra il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno
sfogo alle sue tante passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui
che ella risguardava come l'origine dei suoi più gravi, più veri e più terribili
mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso,  l'infelice  era  nel  suo
interno ben più conturbata, e confusa che non apparisse nel  suo  discorso,  per
quanto poco ordinato egli fosse. Una immagine la assediava perpetuamente, e  non
è  mestieri  dire  quale.  Tentava  ella  di  rappresentarsi  alla  fantasia  la
sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata di collera e con la minaccia sul
labbro quell'ultimo giorno. Ma l'immagine s'impallidiva sempre nella sua  mente,
invano ella cercava di raffigurarla con la testa alta, con l'occhio acceso,  con
una mano sul fianco; la vedeva indebolirsi,  non  poter  reggere,  abbandonarsi,
cadere, se la sentiva pesare addosso. Per togliere ogni sospetto, e nello stesso
tempo per dare un altro corso alle sue idee, procurava ella  di  toccar  materie
liete o indifferenti di discorso; ma ora il rimorso, ora la collera contra tutti
quelli che le erano stata occasione di cadere in tanto profondo,  ora  una,  ora
un'altra memoria si gettavano a traverso alle sue  idee,  le  scompaginavano,  e
lasciavano nelle sue parole un indizio  del  disordine  che  regnava  nella  sua
mente. E quella regola nei discorsi, quel contegno nei modi ch'ella  non  poteva
avere naturalmente, e per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva  i  mezzi
per trovarlo nella esperienza e per comandarselo.  La  sua  esperienza  non  era
altro che del chiostro, di quel poco  che  aveva  veduto  nel  tempo  burrascoso
passato nella casa paterna, e di ciò che aveva imparato dall'infame suo maestro;
le sue idee erano un guazzabuglio composto di questi elementi, ed ella non aveva
potuto attingere d'altronde cognizioni per fare  almeno  una  scelta  in  questi
elementi. Le  sue  parole  e  il  suo  contegno  sarebbero  state  uno  scandalo
insopportabile in un secolo meno bestiale di  quello;  ma  allora  la  stranezza
universale non lasciava spiccare  la  sua  al  punto  da  farne  un  oggetto  di
maraviglia singolare. Due anni erano già trascorsi da  quel  giorno  funesto  al
tempo in cui la nostra Lucia le fu raccomandata dal padre cappuccino, il  quale,
come pure ogni altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un
cervellino, ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse. Siamo stati
più volte in dubbio se non convenisse  stralciare  dalla  nostra  storia  queste
turpi ed atroci avventure; ma esaminando l'impressione  che  ce  n'era  rimasta,
leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era una impressione d'orrore;  e
ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l'orrore sia non solo
innocua ma utile. Abbiamo lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola  nel
parlatorio con la Signora. Il dialogo fra quelle  due  così  dissimili  creature
continuò a questo modo: «Ora», disse la Signora, «parlate con libertà.  Qui  non
c'è né madre né padre; e ditemi il vero, perché le bugie che mi  potreste  dire,
le ravviserei tosto come una antica conoscenza: non temete di  nulla:  qualunque
sia il vostro caso, io vi proteggerò, purché siate sincera con me».  Lucia  pose
la picciola destra sul cuore,  e  con  quell'accento  che  toglie  ogni  dubbio,
rispose: «Signora, la verità è quello che ha detto mia madre, e che  ha  scritto
il padre Cristoforo: io non ho mai giurato finora, ma se Ella, reverenda signora
vuole ch'io giuri in questa occasione, io son pronta a farlo».  «Non  dite  più,
che vi credo», rispose la Signora. «Ma contatemi dunque tutta questa storia».  E
qui cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo sapere tutti  i  particolari
della persecuzione di Don Rodrigo, e delle relazioni di Lucia con Fermo.  Questa
curiosità era come ognuno può  figurarselo  assai  molesta  alla  povera  Lucia.
All'istinto del pudore ed alla ripugnanza naturale di parlare di  se  stessa  su
questa  materia,  si  aggiungeva  il  timore  anche  di  dire  qualche  cosa  di
sconvenevole in presenza della reverenda madre. Lucia che aveva parlato  con  un
uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un matrimonio
clandestino si riguardava come una donna esperta e più forse che non  conveniva,
nelle cose del mondo, come una scaltritaccia al paragone di una monaca,  velata,
rinchiusa, separata dal consorzio degli uomini, e pigliava  le  inchieste  della
Signora a un di presso come si fa a quelle talvolta indiscretissime dei ragazzi,
dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di non rispondere direttamente e
di mandare in pace l'interrogante. E quanto le domande erano più avanzate, Lucia
le attribuiva ancor più ad una pura e  santa  ignoranza.  Rispose  dunque  sopra
Fermo, che quel giovane l'aveva chiesta a sua madre e che essendo  a  lei  dalla
madre proposto il partito, ella lo  aveva  accettato  volentieri,  e  che  tanto
bastava per conchiudere un matrimonio. Ma per ciò che risguardava  Don  Rodrigo,
per quanto Lucia ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrare  in  qualche
particolare, per ispiegare alla Signora la persecuzione ch'ella aveva  sofferta,
e contra la quale cercava un ricovero. «Egli pativa  dunque  davvero  per  voi»,
domandò la Signora. «Io non so di patire», rispose Lucia, «so bene  che  avrebbe
fatto meglio per l'anima e per il corpo a lasciarmi  attendere  ai  fatti  miei,
senza curarsi d'una tapinella che non si curava  niente  di  lui».  «Poveretto!»
sclamò la Signora, con  una  certa  aria  di  compassione,  nella  quale  pareva
tralucesse quasi un rimprovero a Lucia. «Poveretto?» riprese questa, «Poveretto?
Oh Madonna del Carmine! Ella lo  compatisce,  illustrissima!»  «Sì,  poveretto»,
rispose la Signora. «Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi  vi  volesse
male, giacché sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene. Birbone,  cattivo,
tiranno! Che parolone, figliuola, per una quietina, come parete! E la carità del
prossimo?... Se gli aveste provati i tiranni davvero...! Vorrei un  po'  che  mi
ripeteste le ingiurie  che  vi  diceva,  per  vedere  quanta  ragione  avete  di
chiamarlo con questi nomi». «Le ingiurie dei signori», rispose Lucia con  quella
sicurezza che non manca mai a chi comincia un discorso con una persuasione  viva
ed intima, «le ingiurie dei signori, sono tremende pei poverelli; ma se gli  era
pur destino che quel signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che
io sarei ben contenta che m'avesse detto ogni  sorta  d'ingiurie  piuttosto  che
quello che mi è toccato  sentire  da  lui.  Io  non  avrei  risposto,  le  avrei
sofferte, è il destino di noi poverelli; e quando egli si  fosse  stato  stanco,
l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla  mia  patria,  come  una
sbandata, a domandare un ricovero per amor di Dio; sarei... pensi, Signora, s'io
posso dir bene di lui. Non ch'io gli desideri del male,  no  grazie  a  Dio,  ma
quanto al bene ch'egli mi poteva volere...  Santissima  Vergine,  che  razza  di
bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e,  so
ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si  trovano  sui
libri, ma le cose del mondo non è obbligata  a  conoscerle,  e  certe  cose  che
potrei contare sarà meglio tacerle». «Vi ho detto di parlare con sincerità: dite
pur tutto»; rispose la Signora ridendo, e senza  quell'imbarazzo  che  le  aveva
cagionata una proposizione somigliante nella bocca del padre  guardiano.  «Spero
dunque di poter parlare con prudenza», riprese Lucia, «ma di poterle far toccare
con mano che cosa poteva essere il bene di quel Signore. Sappia che io non  sono
stata la prima, a cui per mala sorte egli abbia badato. Eh!... le cose si  sanno
purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho  potuto  a  meno  di  non
saperlo, perché eravamo amiche,  e  me  ne  piange  il  cuore  tuttavia.  Questa
poveretta - non la nomino - diede retta al bene di quel signore; e sa  ella  che
ne avvenne? Cominciò a disubbidire  ai  suoi  parenti;  quando  fu  ammonita  si
rivoltò; la casa le venne in odio, non ebbe più  amiche,  disprezzava  tutti,  e
diceva - puh villani! - come avrebbe potuto fare una gran dama. Quando i parenti
s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e poi, rispose in modo  da  fargli
tacere per paura. Comparve con un vestito troppo bello per una  ricca  sposa,  e
credeva la poveretta che tutti avrebbero  fatte  le  maraviglie,  e  l'avrebbero
inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi le facevano dietro mille visacci. Un
fior di  giovane,  mi  compatisca  se  parlo  male,  che  voleva  ricercarla  in
matrimonio, non la guardò più; nessuno le parlava,  nessuno  voglio  dire  della
gente come si deve, perché i cattivi se le  avvicinavano  per  la  via  con  una
famigliarità come se le fossero sempre stati amici, e fino, a parlare  con  poca
riverenza, i birri, la salutavano ridendo, e le gittavano parole  da  non  dire.
Poveretta! di tratto in tratto pareva più lieta che non fosse mai stata,  ma  le
lagrime che  spargeva  in  segreto!  e  quante  volte  la  vedevamo  da  lontano
piangente, e si nascondeva da noi: e io mi ricordava di quando  ell'era  allegra
come un pesce, di quando ridevamo insieme alla filanda.  Basta:  la  disgraziata
non potè più vivere nel suo paese, e un bel mattino, fece un fagottello, e  finì
a girare il mondo». «Girare!» interruppe la  Signora,  «non  è  poi  la  peggior
disgrazia». «E tutto questo», continuò Lucia, «senza parlare dal  tetto  in  su;
perché all'altro mondo, Dio sa come andranno le cose. Ma povera la mia  Bettina!
oh poveretta me, ho detto il nome... spero che Dio le farà misericordia;  perché
poi finalmente è stata tradita. Ma per me dico davvero, che  se  per  andare  in
paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi parrebbe  ancora
molto dura». «Ma quel signore», riprese la monaca, «era egli di stucco?  non  la
sapeva  far  rispettare?  lasciava  la  briglia  sul  collo  a  quei  tangheri?»
«Fortunata lei», rispose Lucia, «che non sa come vanno queste cose.  Il  signore
dopo qualche tempo non si curò più di quella meschina; e si venne a  sapere  che
un giorno ch'ella si lagnava con lui d'essere disprezzata, egli le rispose: - si
provino un po' a farvi qualche sgarbo in  mia  presenza,  e  vedranno  -.  Tutto
quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non  era  niente.
Ma tutto questo non bastava a disingannarla: soffriva, ma non  sapeva  staccarsi
da colui. Finalmente bisognò che fossi tormentata io per farle conoscere il  suo
stato.  Quando  costui,  sfacciato!...  cominciò  a  pormi  gli  occhi  addosso,
allora...» «È un vile birbante», interruppe la signora,  «avete  ragione:  avete
fatto bene a voltargli le spalle, e io vi  proteggerò».  «Dio  gliene  renda  il
merito. Le diceva ben io che se avesse saputo...» «Sì sì,  è  un  birbante:  son
tutti così costoro. Date loro retta sul principio: voi, voi sola siete  la  loro
vita: che cosa sono le altre? nulla; voi siete la sola donna di questo mondo,  e
poi;... Fortunata voi che potete sbrigarvene. Vi avrebbe voluta vedere amica  di
Bettina... amica! e sprezzarvi tutte e due; e vi so  dire  io  come  vi  avrebbe
trattate; peggio che da serve. Se aveste fatto il primo passo...»  Lucia  teneva
gli occhi sbarrati addosso alla signora,  come  stupefatta  ch'ella  ne  sapesse
tanto addentro. Geltrude rinvenne e s'avvide che questo suo modo di disapprovare
il seduttore non era più conveniente alla sua condizione  di  quello  che  fosse
stato quel primo compatimento, e che invece di togliere il sospetto o almeno  lo
stupore che quello poteva aver fatto  nascere,  lo  avrebbe  accresciuto,  e  si
ripigliò dicendo: «Del resto, son cose  che  io  non  posso  conoscere;  ma  già
l'avrete inteso  anche  dai  predicatori  che  quelli  che  seducono  le  povere
figliuole sono i primi a sprezzarle. E se da principio, io ho  mostrato  qualche
dispiacere per colui, è perché non vi eravate bene espressa; io credeva che alla
fine egli avesse intenzione di sposarvi». «Sposarmi! sposarlo!»  esclamò  Lucia,
maravigliata di questo pensiero che supponeva l'accordo di  due  volontà,  d'una
delle quali ella sentiva, e dell'altra sapeva  che  ne  erano  le  mille  miglia
lontane. Geltrude credette che Lucia non alludesse ad altro  ostacolo  che  alla
differenza delle condizioni. «E  perché  no?»  rispose,  e  abbandonandosi  alla
intemperanza della sua fantasia continuò: «Perché no, sposarvi? Se ne vede tante
a questo mondo. Sareste la Signora Donna Lucia: che maraviglia! non  sareste  la
donna più stranamente nominata di questo mondo. Avete sentito come  mi  chiamava
quel buon uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? -  Reverenda  madre.-
Io, vedete, sono la sua reverenda madre. Bel bambino  davvero  ch'io  ho».  E  a
questa idea si pose a ridere sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi
a passeggiare nel parlatorio... «madre!...» continuò... «avrei dovuto sentirmelo
dire, non da un vecchio calvo e barbato:...

CAPITOLO VII

Come una troppa  di  segugi  dopo  aver  tracciata  invano  una  lepre,  ritorna
sbaldanzita con le code pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma  pronta
ad abbajare e a ringhiare per dispetto contra ogni altro in cui si  abbatta  per
via; così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli artigli  vuoti
al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in salvo alla
meglio la bella  fera  che  quel  birbone  inseguiva.  Don  Rodrigo  passeggiava
inquieto aspettando il ritorno de' suoi bravi, aprendo  di  tempo  in  tempo  la
finestra, e  guardando  al  lume  della  luna  e  tendendo  l'orecchio.  Fremeva
d'impazienza, che la spedizione tornasse,  ma  in  questa  impazienza  misto  al
desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più grossa che Don
Rodrigo avesse fatta fino allora. Se allo sparire di Lucia,  il  rapitore  fosse
stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a  Milano,  l'affare  poteva  esser
serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un  bando  contra  il  rapitore,
come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo desse vivo
o  morto  nelle  mani  della  giustizia.  Veramente  Don  Rodrigo  aveva  veduto
passeggiare sicuramente più d'uno colpito da un tal bando; e sapeva d'aver  egli
pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da scherani,  e  temuto  com'era,
nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come quella di attaccarlo,
e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era  almeno  una  seccatura
forte. Dall'altra parte pensava  egli  che  essendo  gli  offesi  povera  gente,
nessuno si sarebbe curato di prendere impegno per essi... Ma c'era di mezzo quel
benedetto frate (Don Rodrigo non diceva veramente benedetto) quel frate che  era
un brigante, un ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi nei fatti  altrui,
e che avrebbe potuto trovare appoggi, far comparire  le  cose...  Ma  anche  pel
frate v'erano rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi  d'impegni,
e di brighe. - Quel che importa per ora, - continuava Don Rodrigo, -  è  che  il
Griso faccia il suo dovere, e che questa smorfiosetta non mi faccia uno scandalo
che levi a romore il paese. Diavolo! Ho avuto un pensiero molto ardito; ma  quel
che è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per  bacco!  Non  voglio?  non
posso: coraggio coraggio Don  Rodrigo!  bisogna  ammansarla  con  le  buone;  la
madre?... eh quando vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi un po' far chiasso:
vorrei vedere!... Il parroco non fiaterà... ha già avuta una bella paura, ed ora
sarebbe anch'egli in colpa... eh già colui è un birbone che farebbe di tutto per
salvar la  pelle...  Non  vengono  costoro?...  Sta  a  vedere  che  si  saranno
ubbriacati... No no il Griso non è un ragazzo,  e  avrà  condotte  le  cose  con
giudizio: non è mica una bagattella... non vorrei che me la  malmenasse:  non  è
avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha sempre avuto  che  fare  con  uomini...
basta gli ho fatta una buona ammonizione. Stà... per bacco, è la mia gente...  -
Così pensando corse alla finestra, e vide i  segugj  venir  quatti  quatti,  col
Griso alla testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la lepre, ma la  lepre
non v'era. - Diavolo!... diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto. Aperta  ai
bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed entrati e  andati  a
riposare com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla  fatica  tollerata,  non
all'effetto ottenuto, il Griso come portava la sua carica, che in  quel  momento
nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a render conto a  Don  Rodrigo.
«Ebbene?» disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor capitano,
signor spaccone...» «È dura», rispose  il  Griso  con  rispetto,  ma  non  senza
rancore, «è dura di sentir rimproveri dopo aver faticato fedelmente,  e  cercato
di fare il suo dovere...» «Ma dunque?...» Il Griso si fece da capo,  e  raccontò
tutti i preparativi, come la spedizione era ben condotta,  e  come  la  casa  fu
trovata vuota, e come sonò a stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché,
e come si era tornati senza aver fatto nulla, ma senza  aver  lasciato  traccia.
«Mancomale» rispose Don Rodrigo; e si posero  a  far  congetture  senza  potersi
fermare ad una che li accontentasse. «Basta»,  conchiuse  Don  Rodrigo:  «domani
piglia informazioni; sarà meglio che  mandi  uno  dei  contadini  fidati,  nella
bettola più vicina alla casa di  Lucia,  tanto  che  domani  io  vegga  la  cosa
chiara». Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a dormire. Dormi, povero
Griso, dormi che tu devi averne bisogno. Povero Griso! Correre qua e là tutto il
giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di zotici mal disciplinati, pigliar
sopra di te tutto il pensiero, e tanta parte della fatica; porti  a  rischio  di
aver qualche nuovo disparere con la giustizia, e di veder questa volta  messo  a
prezzo il tuo capo, per rapto di donna honesta; stare al caldo e al gelo;
e poi, e poi raccoglier rimbrotti. Ma tu non  cominci  oggi  a  vivere,  e  devi
sapere che il mondo è tristo, che gli  uomini  sono  ingrati.  Va  a  riposarti,
povero Griso: un giorno poi, quando ti porrai a letto per  morire,  se  a  letto
morrai; forse questa giornata ti verrà in mente; forse il pensiero di  non  aver
potuto oggi farti onore, e di essere stato sgridato per ricompensa, sarà  quello
che ti darà meno di gravezza. Ma non pensare ora  a  questo,  perché  forse  non
dormiresti. All'aurora il Griso fu in  campo,  tutto  desideroso  di  venire  in
chiaro di ciò che fosse avvenuto di Lucia, per  soddisfare  alla  curiosità  del
padrone e alla sua propria, e  per  avvisare  i  mezzi  di  riparare  alla  mala
riuscita del giorno antecedente. Non era la  sola  vanità  né  il  dispetto  che
stimolavano il Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo  aveva
posto, e lo teneva sotto le sue ali in salvo dalla giustizia,  e  che  gli  dava
facoltà di camminare francamente, e di farsi temere; da questa riconoscenza  era
nato nel  suo  cuore  un  affetto,  un  attaccamento  per  Don  Rodrigo,  che  i
rimproveri, e le asprezze di questo potevano affliggere, ma non distruggere;  né
rendere  inoperoso.  Scelse  adunque  il  Griso  gli  uomini  più  opportuni   a
raccogliere notizie, e gli spedì attorno,  ed  egli  stesso  andò,  per  ispiare
schiarimenti sui fatti misteriosi della notte trascorsa.  Ma  gli  abitanti  del
villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non ne sapevano essi stessi  la
cagione, e quello che avevano veduto non  era  per  essi  che  una  sorgente  di
curiosità, o al più un motivo di congetture e di  fandonie.  Quando  il  mattino
rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e di Fermo, i  sospetti  divennero  ancor
più complicati, e la curiosità più animata: ognuno domandava a tutti  quelli  in
cui si abbatteva, e se ne formarono come accade molte storie, perché  s'ignorava
la vera. Quei pochi che la sapevano o tutta o in parte, e che  avrebbero  potuto
soddisfare o almeno metter sulla via la curiosità degli altri, quei pochi se  ne
stavano zitti, e si facevano più nuovi degli altri. Toni fece un severo precetto
a Gervaso e alle sue donne di non parlare, e  fu  egli  stesso  molto  fedele  a
questo suo  precetto  di  cui  sentiva  l'importanza;  appena  uno  sperimentato
osservatore avrebbe potuto arguire ch'egli sapeva qualche cosa più  degli  altri
dal  poco  chiedere  ch'egli  faceva,  e  dal  suo  ristringersi  nelle   spalle
protestando di non saper nulla quando altri ne lo chiedeva. «Io attendo ai fatti
miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io sappia?» Don Abbondio era  ricorso  al
suo ripiego diplomatico di porsi a letto e di sviare così i curiosi. Se ne stava
egli ora cheto cheto, maladicendo la mala ventura, che negli ultimi suoi  giorni
gli faceva scontare quel poco di bene che aveva goduto  negli  anni  passati,  e
rendeva inutili tutte le cure della sua prudenza. Di tempo in tempo  rimbrottava
Perpetua e accagionava della sua disgrazia  la  cervellinaggine  di  quella.  Ma
Perpetua non penuriava di argomenti per provare al padrone che la  colpa  doveva
ricadere tutta sopra di lui; e il combattimento finiva per stanchezza d'ambe  le
parti. Questi piati però non uscivano dalle mura di  Don  Abbondio,  perché  era
interesse troppo evidente d'ambe le parti di sopire l'affare  e  di  stornare  i
sospetti dalla verità. Ma tra coloro che  erano  stati  in  parte  testimonj  ed
attori di tutta quella scena ve n'era uno a cui l'esperienza  non  aveva  potuto
ancora dare le profonde idee di prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a
Toni e a Don Abbondio. Sa il cielo se il lettore si ricorda di quel  garzoncello
spedito da Agnese al Padre Cristoforo, e mandato da questo  ad  avvertire  Lucia
del pericolo che le soprastava, di quel picciolo  Menico  che  era  stato  nelle
tenebre guida dei fuggitivi. Menico il quale era pur dolente  della  fuga  delle
sue parenti, ma che almeno in questa sventura aveva avuta la felice occasione di
far qualche cosa, non ebbe pace finché non confidò quello che aveva fatto a  dei
ragazzi suoi coetanei, i quali venivano a contargli le  congetture  che  avevano
intese, e ai quali egli aveva da raccontare  qualche  cosa  di  più  fondato.  I
ragazzi corsero a casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese e Fermo erano  andati
la notte al convento. Le congetture divennero allora un po' più uniformi  e  più
fondate, giacché tutti avevano  qualche  sentore  della  turpe  caccia  che  Don
Rodrigo dava a Lucia. Gli spioni del Griso riseppero tosto con gli altri  queste
particolarità; e il Griso gli spedì tosto a Pescarenico per  cavare  più  sicure
notizie.  I  barcajuoli  avevano  detto  qualche  cosa.  Povera  gente!  avevano
cooperato ad un'opera buona, e l'assoluto silenzio era un peso troppo  difficile
da portarsi. Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano attraversato il  lago,  e
che avevano continuato il loro viaggio per terra. Queste cose vennero pure  agli
orecchi del Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo  che  poco  mancava  a
sapere su che albero l'uccello fosse andato a posarsi. Don  Rodrigo  era  uscito
quella mattina col conte Attilio e  col  solito  seguito  di  bravi,  e  s'erano
aggirati pei campi e per le ville con  l'apparenza  d'andare  a  caccia  ma  con
l'intenzione di scoprire quello  che  si  facesse,  e  di  stornare  i  sospetti
mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e d'incutere spavento. I  sospetti
erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente  rispetto,  e  sui  visi
inchinati dei contadini in cui si  abbatteva,  potè  scorgere  qualche  cosa  di
misterioso che  annunziava  un  pensiero  celato  di  cognizione,  e  una  gioja
compressa per la trista riuscita del suo infame tentativo.  Don  Rodrigo  faceva
osservare quelle facce al suo compagno, e si rodeva; ma  non  ardiva  né  poteva
fare  alcun  risentimento  perché  all'oscurarsi  del  suo  sguardo   gl'inchini
diventavano più umili, e gli aspetti più sommessi, e non ci sarebbe stato  verso
di appiccare una lite senza troppo scoprirsi. Giunti a  casa  i  due  cacciatori
leggiadri trovarono il Griso che gli aspettava con le notizie.  Quand'egli  ebbe
fatta la sua relazione, Don Rodrigo si volse  al  cugino,  come  per  chiedergli
consiglio. Il Conte Attilio era  uno  sventato,  ma  l'affare  era  tanto  serio
ch'egli stesso lo era divenuto, e disse: «Se mi  aveste  chiesto  parere  quando
avete cominciato a divagarvi con questa smorfiosa, da buon amico vi avrei  detto
di levarne il pensiero, perché era  cosa  da  cavarne  poco  costrutto;  ma  ora
l'impegno è contratto, c'entra il vostro onore, e quello della parentela: ora si
direbbe che vi siete lasciato metter paura, e che non l'avete  saputa  spuntare.
Dal modo  con  cui  vi  conterrete  in  questa  occasione  dipenderà  la  vostra
riputazione e il rispetto che vi si  porterà  nell'avvenire».  «Avete  ragione».
«E», continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra  un  buon
parente ed amico: non si tratta ora più  di  scommesse  e  di  scherzi».  «Avete
ragione. Griso, che cosa dicono questi villani?»  «Il  signor  padrone  può  ben
credere che in faccia mia  nessuno  avrebbe  osato  proferire  una  parola  poco
rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano contenti». «Ah!  contenti»  rispose
Don Rodrigo, «vedranno, vedranno. Il Podestà è tutto  mio...  ma  nulladimeno...
che ne dite cugino?... sarà bene di prevenirlo favorevolmente». «Certo», rispose
il Conte Attilio,  «non  bisogna  tralasciare  nessuna  precauzione».  «E  poi»,
continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo  in  impaccio.  Siccome  si  parlerà
della fuga di costoro, e la giustizia forse non potrà schivare  di  far  qualche
ricerca, bisognerebbe trovare una storia che spiegasse la fuga, e che rivolgesse
i sospetti in tutt'altra parte». «Si  potrebbe  per  esempio»,  disse  il  Conte
Attilio, «sparger voce che quel villano ha rapita la ragazza e fargli mettere un
bando, in modo che non ardisse più  di  comparire  in  paese».  «Non  va  male»,
rispose Don Rodrigo, «ma...» «Se mi permettono questi signori», disse  umilmente
il Griso, «avrei  anch'io  un  debole  parere».  «Sentiamo»,  dissero  entrambi.
«Fermo», rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e  questa  è  una  gran  bella
cosa». «Come c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio. «I lavoratori di seta»,
continuò il Griso, «non possono abbandonare il paese,  è  un  criminale  grosso.
Ecco che il signor Podestà quando voglia, come è giusto, servire l'illustrissima
casa, potrà fare un ordine di cattura contra Fermo  come  lavoratore  fuggitivo;
poi si dirà che se Fermo ritorna, guai a lui; e Fermo non sarà  tanto  gonzo  da
venire a giustificarsi in prigione». «Ma  bravo  il  mio  Griso»,  proruppe  Don
Rodrigo, mentre lo stesso Conte Attilio faceva un sorriso di  approvazione.  «Ma
bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica. Per bacco, ch'egli non
l'avrebbe trovata  più  a  proposito».  «Eh  Signore»,  rispose  il  Griso,  con
affettata modestia, «ho avuto tanto che fare con la giustizia, che qualche  cosa
devo saperne». «Del  resto»,  continuò  Don  Rodrigo,  «per  quanto  grande  sia
l'abilità legale del Griso,  non  voglio  ch'egli  balzi  di  scanno  il  nostro
dottore. Fa ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui. Tu  intanto
abbi cura di vedere il bargello e di dirgli che questa volta  venga  più  presto
del solito a ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore, e  avrà
un regalo di più... Così si potrà andare innanzi a fare tutto  quello  che  sarà
necessario... Purché la cosa non si risappia a Milano...» «Che diavolo di  paura
vi nasce ora», interruppe il Conte. «Caro cugino, la cosa non è  finita;  costei
la voglio...» «Va bene». «E non so dove bisognerà andare a cercarla,  che  passi
bisognerà fare...» «E bene, a  Milano  hanno  altro  da  pensare  che  a  questi
pettegolezzi. C'è la carestia, c'è il passaggio delle truppe, c'è mille diavoli.
E poi quand'anche se  ne  parlasse  a  Milano,  sarebbe  la  prima  che  avremmo
spuntata?» «Va bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa  quali  protezioni
potrà avere; e vi assicuro che non istarà quieto fin ché... Quel frate è il  mio
demonio, e... non posso farlo ammazzare». «Il frate lo  piglio  sotto  alla  mia
protezione», rispose sorridendo il Conte Attilio. «Non  pensate  a  lui:  me  ne
incarico io». «Eh se sapeste!...» «Via, via, che ora non  saprò  fare  stare  un
cappuccino. Vi dico che, se avete in me la  più  picciola  fede,  non  prendiate
pensiero di lui, che non ve ne potrà dare. Domani a sera sono a Milano;  e  dopo
due o tre giorni udrete novelle del frate». «Non mi state a fare un guajo che mi
ponga in maggiore impiccio...» «Quando vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se
volete vi dirò prima il modo semplicissimo che ho pensato per torvelo d'attorno,
modo tanto semplice che l'avreste immaginato anche  voi  se  non  foste  un  po'
conturbato». Infatti Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti  diversi,  e
tutti rei, tutti vili, tutti faticosi, era un oggetto di pietà senza stima  agli
occhi stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato orrore e  stomaco
nell'animo di chiunque gli avesse meno  somigliato  che  quei  due  signori.  La
passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e  cresciuta  da  poi
dalle ripulse e dal disdegno, era diventata violenta quando conobbe  un  rivale.
La fantasia ardente e feroce di Don Rodrigo si andava allora raffigurando quella
Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se  l'andava  raffigurando  umana,  soave,
affabile con un altro, egli immaginava  gli  atti  e  le  parole,  indovinava  i
movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un  villano;  e  la
vanità, la stizza, la gelosia aumentavano in lui quella passione che per qualche
tempo riceve nuova forza da tutte le passioni che non la distruggono, o  ch'ella
non distrugge, da tutte  quelle  che  possono  vivere  con  essa.  Tutte  queste
passioni lo avevano allora spinto ad  impedire  con  minacce  il  matrimonio  di
Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per impedirlo a
buon conto, perché ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo, per  isfogare
in qualche modo la rabbia e l'amore, se amore  si  può  dire  quel  suo.  Quindi
allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e Fermo erano partiti
insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono più  acutamente  che
mai. Egli pensava qual prova Lucia aveva data di amore per Fermo e di orrore per
lui, abbandonando così timida, così inesperta la  sua  casa  paterna,  i  luoghi
conosciuti, andando forse alla ventura; pensava che in quel momento  essi  erano
in cerca d'un asilo per essere riuniti tranquillamente, e risolveva di fare,  di
sagrificare ogni cosa per  impedirlo.  Dall'altra  parte  avvezzo  bensì  a  non
rifiutarsi mai una soddisfazione quando non gli doveva  costare  altro  che  una
bricconeria, ma avvezzo a commetterne in un campo  ristretto  e  conosciuto,  si
atterriva al pensiero di uscirne, di dovere intraprendere una ricerca  difficile
e pericolosa per porsi poi ad una impresa chi sa quanto  vasta,  chi  sa  quanto
difficile e pericolosa. Tanta era l'agitazione di Don Rodrigo,  ch'egli  pensava
in quel momento non senza terrore alle Gride contra i Tiranni. (Così  chiamavano
le Gride coloro che sopraffacevano come che fosse i  deboli,  quasi  con  questa
espressione querula e paurosa  volessero  confessare  l'impotenza  di  contenere
quelli e di difender questi.) Ben è vero che  quelle  gride  erano  per  lo  più
inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come noi lo sappiamo ora  dal
trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la  dichiarazione  espressa  che  le
antecedenti non avevano prodotto alcun effetto.  Ma  però  queste  gride  stesse
potevano essere un'arme potente, quando una mano potente  le  afferrasse  contra
chi le avesse violate; e v'era di mezzo  un  frate,  un  personaggio  cioè  alla
influenza ed alla attività del quale nessuno poteva anticipatamente prevedere un
limite: e questo frate pareva risoluto a proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza, facendo ad
ogni momento nuove interrogazioni al Griso, e affettando  sicurezza  dinanzi  al
Conte Attilio; finalmente conchiuse col dire: «Per ora non c'è altro da fare che
di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te Griso; e poi, e  poi...  non
son chi sono se... non è vero cugino?» «Senza  dubbio»,  rispose  il  Conte,  al
quale alla fine non premeva realmente  in  tutta  questa  faccenda  che  di  far
pensare che nello stesso caso egli avrebbe saputo giungere ai  suoi  fini  senza
esitazione e senza fallo. Così fu sciolta la conferenza, e il Griso  partì.  Don
Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe  stata  cosa  molto  utile  l'avere  il
podestà a pranzo, per mostrare sicurezza, e per far vedere ai  malevoli  che  la
giustizia era per lui; e lo fece invitare, pregando  il  Conte  Attilio  di  non
disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni. Venne  il  podestà,  e  il
dottore; si stette allegri, si parlò ancora della marcia delle truppe,  e  della
carestia: ma degli affari del paese, della campana a martello,  della  fuga,  né
una parola. Soltanto Don Rodrigo accennò indirettamente questa faccenda nel modo
il più gentile ed ingegnoso, come si vedrà. Fece egli in  modo  che  il  podestà
lodasse particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile  ad  ottenersi,
perché il vino era buono, e il podestà conoscitore.  Allora  Don  Rodrigo:  «Oh,
signor podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di  suo  aggradimento
mi permetterà...» «Non mai, non  mai,  Signor  Don  Rodrigo,  se  avessi  saputo
ch'ella sarebbe venuta a questi termini, avrei dissimulata  la  mia  ammirazione
per questo incomparabile...» «Bene bene, signor Podestà, ella  non  mi  farà  il
torto...» «Don Rodrigo conosce la stima...» Il Conte Attilio interruppe la gara,
la quale era già realmente composta: Don Rodrigo parlò all'orecchio ad un servo,
e il podestà tornando poi a casa, trovò sei tarchiati contadini che erano venuti
a deporre nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo. Dato l'ordine segreto, Don
Rodrigo ritornò al discorso incominciato, benché sembrasse  mutarlo  affatto,  e
passare dal vino all'economia politica; ma chi appena osservi la serie delle sue
idee, scorgerà il filo recondito che le tiene. «Che dice», continuò adunque  Don
Rodrigo, «che dice il signor podestà di questo  spatriare  che  fanno  i  nostri
operaj?» «Che vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da  non  potersi
comprendere. Quanto più si moltiplicano le gride per trattenerli, tanto  più  se
ne vanno. Non si sa capire: è una pazzia che gli ha presi: sono pecore,  una  va
dietro all'altra». «Eppure», continuò Don Rodrigo «pare  che  questa  cosa  stia
molto a cuore di Sua Eccellenza». «Capperi! veda con  che  sentimento  ne  parla
nelle gride. Ma costoro, parte per ignoranza, parte per malizia non danno retta,
armano mille pretesti, ma la vera ragione si è la poca volontà di lavorare, e il
disprezzo temerario delle leggi divine ed umane». «Ma per buona sorte», disse il
dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva detto non  tutto  ma  quanto  bastava  a
fargli intendere come Don Rodrigo desiderava di esser servito, «per buona  sorte
abbiamo un signor podestà che non si  lascerà  illudere  da  pretesti,  e  saprà
tenere mano ferma...» «Mano ferma, signor podestà», riprese Don  Rodrigo:  «mano
ferma: il primo che c'incappa, farne un esempio». «Io  so»,  disse  con  gravità
misteriosa il Conte Attilio, «che Sua  Eccellenza  tiene  gli  occhi  aperti  su
questo  sviamento  degli  artefici,  e  sulla  esecuzione  delle  gride  che  lo
proibiscono perché il Conte mio zio del  Consiglio  segreto,  qualche  volta  in
confidenza si è spiegato con me... basta non voglio ciarlare; ma son  certo  che
quando tornato a Milano andrò a fare il mio dovere dal Conte mio zio,  egli  non
lascerà di farmi mille interrogazioni... In verità avere dei parenti in  alto  è
un onore, ma un onore un po' pesante. Non  si  può  parlare  con  loro  che  non
vogliano ricavare qualche notizia: non si sa come sbrigarsene».  «Mi  raccomando
ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il Podestà: «una buona  parola
trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie tanto rispettabili...» «È  pura
giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la parola ha da ottenere il
suo effetto, da  far  colpo,  sarà  bene  che  si  vegga  qualche  dimostrazione
esemplare dello zelo del Signor podestà in questa materia».  «È  mio  dovere,  e
starò sull'avviso». «Oh le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché
come diceva  sapientemente  il  signor  podestà,  è  una  pazzia  universale  in
costoro». Quindi prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa dai fatti ad  una
idea generale, continuò: «Vedano un po' le signorie  loro  come  son  fatti  gli
uomini, e particolarmente la gente meccanica che non sa riflettere.  Comincia  a
mettersi fra gli artefici  questa  smania  di  sviarsi,  di  cambiar  cielo.  La
sapienza di chi  governa  vede  il  male,  e  tosto  applica  il  rimedio  della
proibizione e delle pene. Si può far di più? eppure  costoro,  presa  una  volta
quella dirittura di andarsene a processione, proseguono  ad  andarsene  come  se
nessuno avesse parlato. Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi.  Ma  coi
pazzi  come  bisogna  fare?  Castigarli».  È  facile  supporre  che  con  questi
ragionamenti il signor podestà si trovò disposto a credere poi, o a  fingere  di
credere alle insinuazioni incessanti del  dottor  Duplica,  e  alle  deposizioni
degli onorevoli suoi ministri, che Fermo si  era  spatriato  in  contravvenzione
alle gride. Il signor podestà non si lasciò scappare una occasione, che  gli  si
era tanto raccomandato  di  afferrare,  e  nel  giorno  susseguente  fatte  fare
ricerche di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo, gli fece
intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo rilasciò l'ordine
di catturarlo s'egli ritornava. Non importa di accordare quei due ordini:  basta
che con questi si ottenesse l'effetto desiderato, che era di toglier la  volontà
a Fermo di ritornare. Intanto il Griso non ommetteva cura per iscoprire il  covo
dei fuggitivi; ed ecco come vi riuscì. Mandava egli esploratori qua e là per  le
piazze e per le taverne per raccogliere i discorsi che potevano dar qualche lume
su questo avvenimento. Colui che aveva condotto il baroccio  dei  profughi,  non
tacque, e di confidenza in  confidenza,  il  Griso  venne  a  risapere,  e  potè
riferire a Don Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza,  che  Fermo  aveva
proseguito  il  viaggio  fino  a  Milano,  che  Lucia  ed  Agnese  erano   state
raccomandate al guardiano dei cappuccini. Parve a Don Rodrigo che la matassa non
fosse tanto imbrogliata com'egli aveva temuto, e  che  il  bandolo  si  potrebbe
ravviare senza troppa difficoltà. Monza non era più lontana  che  venti  miglia;
Fermo era separato dalle donne; quando si prendessero buoni alleati,  senza  dei
quali Don Rodrigo sentiva di non poter  far  nulla  a  quattro  miglia  del  suo
castellotto, l'impresa  non  era  disperata.  V'era  però  ancora  di  mezzo  un
cappuccino; ma si sarebbe veduto fino a che segno egli era da temersi. «Ora  mio
bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter tempo in mezzo.  Ho
bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte di  Monza  costei  è
andata a posarsi; e tu devi andare sul luogo a pigliarne  informazioni  sicure».
«Signore...»  «Che   è,   Griso?   non   ho   io   parlato   chiaro?»   «Signore
illustrissimo,... io son pronto a dar la vita  pel  mio  padrone,  ma  so  anche
ch'ella non vuole arrischiar troppo i suoi sudditi» «Ebbene, non sei tu sotto la
mia protezione?» «Qui sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e
tutti mi portano rispetto; ma in Monza, s'io  fossi  riconosciuto...  Sa  Vostra
signoria che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi  potesse  consegnare  alla
giustizia, crederebbe di aver fatto  un  gran  colpo?»  Don  Rodrigo  stette  un
momento sopra pensiero. È una certa consolazione  per  chi  considera  lo  stato
insopportabile di angoscia e di terrore in cui a quei tempi gli uomini arditi  e
perversi tenevano i deboli, il vedere che i  perversi  pure  erano  in  continua
angoscia, e dovevano starsi sempre come si dice con l'olio santo  in  saccoccia.
Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con buone ragioni vergognar il Griso
della sua pusillanimità. «Che diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora  un
can da pagliajo, che non sa che abbajare sulla porta,  guardandosi  indietro  se
quei di casa lo spalleggiano, e  non  ardisce  di  allontanarsi  quattro  passi?
Ebbene, piglia con te un pajo di compagni... il Pelato, e... il Saltafossi...  e
va. Io non ho nimicizia con nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La
faccia di bravo non ti manca, e cospetto non incontrerai  nessuno  che  non  sia
contento di lasciarti passare. Quanto alla giustizia,  dovresti  vergognarti  di
avervi pensato un momento. Bisognerebbe  che  i  birri  di  Monza  fossero  bene
stanchi di vivere per azzuffarsi con tre malandrini  che  vanno  tranquillamente
pei  fatti  loro».  «Sia  per  non  detto,  illustrissimo  signore:   io   parto
immediatamente». «Bravo: hai amici in Monza?» «Eh Signore io ho amici  e  nemici
per tutto il mondo. Sono stato in prigione con uno che sta per bravo dal  Signor
Egidio... e abbiamo fatta una amicizia da spartire colle  pertiche,  conosco...»
«Bene tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso. Una mano lava l'altra, e
le due il viso. Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare e tornare».
«Vado e torno; e se osassi...» «Che?» «Pregar Vossignoria illustrissima  di  non
dire ad alcuno che il Griso ha dubitato un momento. Vede bene,  ognuno  nel  suo
mestiere ha a cuore la sua riputazione». «Va, va, balocco che sei: credi tu  che
io abbia bisogno di essere pregato per tenere in credito la mia gente?» Il Griso
partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel monastero,  sotto  la
protezione della Signora, che però la Signora l'aveva ricevuta per compiacere al
padre guardiano, che nessuno pensava che altrimenti ella si sarebbe  pigliata  a
petto questa faccenda giacché Lucia non le  apparteneva  per  nulla,  che  Lucia
abitava nel monastero, ma fuori del chiostro, che si  lasciava  poco  vedere,  e
sempre di chiaro giorno: che la madre  aveva  disegnato  di  tornarsene  a  casa
lasciando Lucia così bene appoggiata. Tutte queste cose riferì il  Griso  a  Don
Rodrigo, il quale lodatolo, e ricompensatolo, si pose seriamente a pensare quale
risoluzione fosse da prendersi. Tentare un ratto a forza aperta, in Monza, su un
terreno che egli non conosceva bene, in  un  monastero,  a  rischio  di  tirarsi
addosso la signora, e tutto il suo parentado, del quale  Don  Rodrigo  conosceva
molto bene la potenza, e  la  ferocia  in  sostenere  le  protezioni  una  volta
abbracciate, era impresa da non porvi nemmeno il pensiero. Pure Lucia fra  pochi
giorni sarebbe rimasta sola senza la madre, e a chi  avesse  avuta  pratica  del
paese, aderenze, notizie per conoscere le occasioni e per  approfittarsene,  per
evitare i pericoli, l'impresa poteva forse essere  agevole  non  che  possibile.
Bisognava dunque ricorrere ad un alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo  a
condurre a termine spedizioni di questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un
pensiero, che gli era passato  più  volte  per  la  mente,  che  non  aveva  mai
abbandonato, il pensiero di raccomandare i suoi affari al Conte del Sagrato.  Le
ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello che
abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose.  Al  prudentissimo
nostro autore è sembrato di avere ecceduto in libertà e  in  coraggio  col  solo
indicare con un soprannome quest'uomo. Due scrittori  contemporanei,  degnissimi
di fede, il Rivola e il Ripamonti,  biografi  entrambi  del  Cardinale  Federigo
Borromeo, fanno  menzione  di  quel  personaggio  misterioso,  ma  lo  dipingono
succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili scellerati che  la  terra
abbia portato, ma non ne danno il nome, e né meno il soprannome che noi  abbiamo
ricavato dal nostro manoscritto insieme con la narrazione del fatto  che  glielo
fece acquistare, e che basterà a dare una  idea  del  carattere  di  quest'uomo.
Abitava egli in un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte; e
quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti  gli
abitatori del contorno, non riconoscendo superiore a sè,  arbitro  violento  dei
negozj altrui come di quelli nei  quali  era  parte,  raccettatore  di  tutti  i
banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a commetterne  di
nuovi, appaltatore di delitti per professione. «La sua casa» per servirci  della
descrizione che ne fa  il  Ripamonti  «era  come  una  officina  di  commessioni
d'ammazzamento: servì condannati nella testa, e troncatori di teste: né cuoco né
guattero dispensati dall'omicidio; le mani  dei  valletti  insanguinate».  E  la
confidenza di costui,  nutrita  dal  sentimento  della  forza  e  da  una  lunga
esperienza d'impunità era venuta a tanto, che  dovendo  egli  un  giorno  passar
vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché capitalmente  bandito,  cavalcò
per la città coi suoi cani, e a suon di tromba, passò sulla  porta  del  palazzo
ove abitava il governatore, e lasciò alle guardie una imbasciata di villanie  da
essergli riferita in suo nome. Avvenne un giorno che a costui come a  protettore
noto di tutte le cause spallate si presentò un debitore svogliato di  pagare,  e
si richiamò a  lui  della  molestia  che  gli  era  recata  dal  suo  creditore,
raccontando il negozio a modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che
non aveva al mondo altra speranza che nella protezione  onnipotente  del  signor
Conte. Il creditore, un benestante d'un paese vicino, non era sul calendario del
Conte, perché senza provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di  disprezzo,
pure mostrava di non volere stare come gli altri alla suggezione  di  lui,  come
chi vive pei fatti suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti.  Al  Conte  fu
molto  gradita  l'opportunità  di  dare  una  scuola  a  questo  signore:  trovò
irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò  un
servo, e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo  dal  signor  tale,  a  cui
dirai in mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso,
perché io ho riconosciuto che costui non  gli  deve  nulla:  ascolterai  la  sua
risposta: non replicherai nulla quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia, tornerai
tosto a riferirmela». Il lupo e la volpe s'avviarono  tosto  dal  creditore,  al
quale il lupo espose  l'imbasciata,  mentre  la  volpe  stava  tutta  modesta  a
sentire. Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore;  ma
punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal sentimento della sua  buona
ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora allora un  vigliacco,  e  di
perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli non riconosceva il signor Conte
per suo giudice. Il lupo e la  volpe  partirono  senza  nulla  replicare,  e  la
risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola  disse:  «benissimo».  Il
primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava il creditore  era  ancora
tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte  si  trovava
sul sagrato alla testa di una troppa di bravi. Terminati gli uficj, i più vicini
alla porta uscendo  i  primi  e  guardando  macchinalmente  sul  sagrato  videro
quell'esercito e quel generale, e ognun d'essi spaventato, senza ben sapere  che
cagione di  timore  potesse  avere  si  rivolsero  tutti  dalla  parte  opposta,
studiando il passo quanto si poteva senza darla a  gambe.  Il  Conte,  al  primo
apparire di persone sulla porta si era tolto dalla  spalla  l'archibugio,  e  lo
teneva con le due mani in apparecchio di  spianarlo.  Al  muro  esteriore  della
chiesa stavano appoggiati in fila molti archibugj secondo l'uso  di  quei  tempi
nei quali gli uomini camminavano per lo più armati, ma non  osavano  entrar  con
armi nella chiesa, e le deponevano al di fuori senza  custodia  per  ripigliarle
all'uscita. Tanta era la fede publica in quella antica semplicità!  Ma  i  primi
che uscirono non si curarono di pigliare  le  armi  loro  in  presenza  di  quel
drappello: anche i più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a  un  pericolo
oscuro, impreveduto, e che non avrebbe dato tempo  a  ripararsi  e  a  porsi  in
difesa. I sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si  rivolgevano
ciascuno al  lato  che  gli  era  più  comodo  per  uscire,  ma  alla  vista  di
quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e  la  folla  usciva  come
acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo  solo  da
un canto dell'apertura. Si affacciò finalmente  alla  porta  con  gli  altri  il
creditore aspettato, e il Conte al  vederlo  gli  spianò  lo  schioppo  addosso,
accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far largo. Lo
sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla
non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo  separato.
Quegli che gli erano più lontani s'avvidero che quell'infelice era il  segno,  e
il suo nome fu proferito in un punto da cento bocche. Allora nacque  al  momento
una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da quell'amore  della  vita,
da quell'orrore di un pericolo impensato  che  occupando  alla  sprovveduta  gli
animi non lascia luogo ad alcun  altro  più  degno  pensiero.  Cercava  egli  di
ficcarsi e  di  perdersi  nella  folla,  e  la  folla  lo  sfuggiva  pur  troppo
s'allontanava da lui per ogni parte, tanto ch'egli scorrazzava solo  di  qua  di
là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il  nascondiglio  il  più  vicino.  Il
Conte lo prese di mira in questo spazio, lo colse, e lo  stese  a  terra.  Tutto
questo fu l'affare di un momento. La folla  continuò  a  sbandarsi,  nessuno  si
fermò,  e  il  Conte  senza  scomporsi,  ritornò  per  la  sua  via,   col   suo
accompagnamento. Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già
ognuno aveva del Conte, non è da domandare; e l'impressione comune di stupore, e
di sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al Conte senza che il  fatto  non
gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea,  che  tutti
avevano associata alla persona. Il Conte sapeva che lo  disegnavano  con  questo
soprannome, ma lo sofferiva  tranquillamente,  non  gli  spiacendo  che  ognuno,
avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch'egli sapeva fare; o forse che
avendo in qualche romanzo di quei tempi  veduta  qualche  menzione  di  Scipione
l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome dal  luogo
illustrato da una grande impresa. Teneva egli dispersi o appostati  assai  bravi
nello Stato milanese e nel veneto, e dal suo castello posto a cavaliere  ai  due
confini dirigeva gli uni e gli altri, facendo ajutare o perseguitare quegli  che
si rifuggivano da  uno  Stato  nell'altro,  secondo  l'occorrenza,  tramutandone
alcuno talvolta, quando qualche operazione lo domandasse, o anche quando  alcuno
avesse in uno stato commessa qualche iniquità tanto clamorosa che  la  giustizia
per averlo  nelle  mani  facesse  sforzi  straordinarj,  che  esigessero  sforzi
straordinarj per difenderlo. Allora la fuga del  reo  era  una  buona  scusa  ai
ministri della giustizia del non far nulla contra  di  lui,  e  la  cosa  finiva
quietamente, tanto che dopo qualche  tempo  non  se  ne  parlava  più,  né  meno
sommessamente, e il reo  ricompariva  con  faccia  più  tosta  che  mai.  Questo
maneggio serviva non poco ad agevolare tutte le operazioni del Conte, perché  le
si compivano tutte senza molto impaccio dei ministri della  giustizia,  i  quali
potevano sempre  allegare  l'impossibilità  di  porvi  un  riparo.  Quanto  alle
operazioni che il Conte eseguiva  di  propria  mano,  la  giustizia  non  se  ne
mostrava accorta; ed era regola ricevuta di prudenza, che erano di  quelle  cose
in cui  ogni  dimostrazione  avrebbe  prodotti  più  inconvenienti  che  non  il
dissimularle. Le sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti. Pochi
erano i tiranni della città, e di una gran parte dello stato  che  non  avessero
qualche volta fatto capo a lui per condurre a termine qualche vendetta o qualche
soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi,  o  il  fatto  da
eseguirsi era nelle  sue  vicinanze.  E  non  basta,  fino  ad  alcuni  principi
stranieri tenevano comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta  per
qualche uccisione d'importanza, e quando il caso lo  richiedesse  gli  mandavano
rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano certamente per chi  misura  la
probabilità degli avvenimenti e dei  costumi  dalla  sola  esperienza  dei  suoi
tempi; ma fatto che cammina benissimo con  tutto  l'andamento  di  quel  secolo.
Nella sua professione d'intraprenditore di  scelleratezze,  era  egli  pieno  di
affabilità nel contrattare,  e  nell'eseguire  metteva,  ed  esigeva  una  somma
puntualità. Accoglieva con  molta  riserva  certamente  per  non  incorrere  nel
pericolo al quale era sempre esposto, ma  con  molta  piacevolezza,  quelli  che
venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il  sopracciglio,  stipulava
con parole spicce, ma pacate, non andava in furia contra chi non  avesse  voluto
stare alle sue condizioni, ma rompeva pacificamente il trattato, non volendo  né
disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i  quali  avevano  per  la
scelleragine più inclinazione nella volontà, che determinazione di coraggio.  Ma
stretti i patti, colui che non gli avesse ben fedelmente serbati con lui, doveva
esser bene in alto per tenersi sicuro dalla sua vendetta. Don Rodrigo  conosceva
il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di fama?)  ma  di  persona,  per
essersi talvolta avvenuto in lui. In tutti questi incontri Don Rodrigo  sentendo
la sua inferiorità, aveva deposto  ogni  orgoglio  e  aveva  cercato  con  molte
espressioni di rispetto di porsi in grazia al Conte; non ch'egli pensasse allora
che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto per non  farsi  un  tale
nemico. Confermato nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia,  e
convinto che le sue mani non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don  Rodrigo
di andare in cerca di chi volesse prestargli le sue; fatta  questa  risoluzione,
non v'era da titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte era  appunto
per lui quel che il diavolo fece.

CAPITOLO VIII

Il mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo,  in  abito
da caccia, col fedel Griso che camminava a  fianco  del  palafreno,  e  con  una
quadriglia di bravi, si mosse verso il castello  del  Conte,  come  altre  volte
Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la  Dea  pagava  in  Ninfe  l'opera
buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto  recarla  a
Doppie. La via era di  cinque  miglia  all'incirca;  e  Don  Rodrigo  la  faceva
lentamente, e per dare agio alla  scorta  pedestre  di  seguirlo;  e  perché  il
cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era piano obbligava
il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove  posare  la  zampa  con
sicurezza. I villani che si abbattevano su quella via,  al  vedere  spuntare  il
convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, per dare a Don Rodrigo  il
comodo d'un libero passaggio; e quando erano  giunti  al  medesimo  punto  della
strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi di chiedere  scusa  a
Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino. Don Rodrigo che già cominciava  a
godere nella sua mente un'anticipazione  della  potenza  che  gli  avrebbe  data
l'alleanza che andava a contrarre, gli guarda con un volto fosco  e  sprezzante,
come se dicesse: - vi siete rallegrati troppo presto a  mie  spese;  lo  so;  ma
vedrete chi sono -. Giunto dinanzi al convento che si trovava su la sua  strada,
Don Rodrigo rallentò ancor  più  il  passo,  e  si  rivolse  tutto  a  sinistra,
guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido:  ma  non
v'era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati  cantare
l'uficio in coro. In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse
del Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva  comunicati  sul  modo  di
liberarlo da quei frate: pensò che in quel momento forse  la  trappola  era  già
tesa; e passando dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno  accompagnato
da un «ah! ah!» il cui senso non fu chiaramente compreso che dal  fidato  Griso;
il quale per mostrare la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch'egli  era
molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur  sogghignando,  e
facendo col volto un cenno che voleva dire: - a quest'ora il frate sarà  servito
-. Pochi passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti  torrenti
che si gettano nel lago, dai monti che lo ricingono. Questo  si  chiamava  e  si
chiama  tuttavia  il  Bione,  nome  che  non  si  troverà  in  alcun  dizionario
geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di esser
memorato. Scappa fuori da un monte che è quasi  poggiato  nel  lago,  e  per  un
brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo d'acqua, e dopo  le
grandi piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo fiume  d'acqua  che
in un momento si perde, e un flagello di  ciottoloni,  che  rimangono.  In  quel
momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in un deserto di sassi:
noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo  passaggio  qualche
incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente,
e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la  storia  non  ne  registra:  e  noi
solleciti della verità più che d'ogni altra cosa non possiamo dire altro se  non
che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in  retta  linea,  tenuto  pel
freno dal Griso il quale dovette  porre  i  piedi  nel  guazzo,  scontando  così
com'era giusto un poco l'onore di star più vicino al signore; mentre  gli  altri
bravi passarono un po' più in giù sur un ponticello stretto  a  piedi  asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al
luogo dove allora era il  confine  dello  stato  veneto;  e  quindi  presero  un
viottolo ripido a sinistra che conduceva al castello del  Conte.  Appiedi  della
ultima salita che dava al castello v'era una rozza e picciola taverna;  e  sulla
porta della taverna un impiccatello di forse dodici  anni,  il  quale  al  veder
gente armata entrò tosto  a  darne  avviso;  ed  ecco  uscirne  tre  scheranacci
nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte  come
tegole con le quali stavano giucando;  stettero  a  guardare  con  sospetto  chi
veniva. Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino  per  rivolgerlo
sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli  chiese  molto
famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella  compagnia?»  In  altro
luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la superiorità del  numero,  e
che non era avvezzo a sentirsi così interrogare da paltonieri, avrebbe  risposto
chi sa come; ma egli sapeva di essere negli stati del Conte,  e  s'avvedeva  che
parlava con dipendenti da quello, onde fingendo di non trovare nulla  di  strano
in quel modo, rispose umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte». «E chi  è
Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più amichevole  ma  non  meno  risoluto.
«Sono il signor Don Rodrigo...» «Bene; ma  sappia  che  su  per  quell'erta  non
camminano altri armati che quelli del signor Conte; e  s'ella  vuole  riverirlo,
potrà venir solo a  fare  una  passeggiata  con  me».  Don  Rodrigo  intese  che
bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi  di  quel  proverbio:  si
Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e disse: «avrò  molto
piacere di far questi pochi passi a piede: e voi intanto»,  disse  rivolto  alla
sua scorta, «starete qui aspettandomi a refiziarvi, e a godere  della  compagnia
di questa brava gente». Mentre quivi si parlamentava, scendevano  per  l'erta  a
varie distanze uomini del Conte che dall'altura avevan veduti armati a fermarsi;
ma colui che s'era offerto di accompagnare Don Rodrigo, accennò loro  che  erano
amici, e quegli ritornarono. Don Rodrigo sceso, e date le  briglie  in  mano  al
Griso cominciò a salire con la sua guida;  la  quale  non  volendo  forse  avere
offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che non si sapesse, fece una
qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto  scendere.  «Se  il  Signor  Conte»,
disse colui, «fosse stato  avvertito  della  sua  visita,  avrebbe  dato  ordine
perch'ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere quanto
il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere  del  mondo;  ma
Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il nostro dovere che è di
non lasciar passare a cavallo che gli amici vecchi del  signor  Conte».  «Certo,
certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del  signor  Conte,  e  non
pretendo che egli abbia a far  complimenti  con  me».  -  Questi  è  un  signore
davvero, - pensava tra sè continuando la sua salita Don  Rodrigo.  -  Vedete  un
po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone in casa sua. S'io  volessi  fare
una legge simile, non so se vi potrei riuscire: ma è poi anche vero che  fa  una
vita da romito. A voler godere un po' il mondo non bisogna star tanto  in  sulle
sue, né metter tanta carne a fuoco. - Così Don Rodrigo si racconsolava della sua
inferiorità; e nel resto del cammino  andava  rimasticando  i  discorsi  ch'egli
aveva preparati pel Conte. Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo,
e lo fece aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati,  pronti  agli
ordini del Conte. Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando  Don  Rodrigo  ad
entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani, lo  condusse
a quella dove stava il Conte del Sagrato. Don  Rodrigo  s'inchinò  profondamente
con quell'aria equivoca che può egualmente parere bassezza o affettazione, e  il
Conte che in mezzo a tanti affari  non  aveva  potuto  conservare  le  abitudini
cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione
del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una seggiola la  quale  era  posta  in
luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui  che  vi  era
seduto. Dopo molte cerimonie,  alle  quali  il  Conte  badò  poco,  Don  Rodrigo
sedette; e il Conte pure a qualche distanza. Era il Conte del Sagrato un uomo di
cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo,  con  una  faccia  adusta  e  rugosa.  Si
sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato,  ma  da  quegli  sforzi  stessi
traspariva una rusticità feroce e indisciplinata.  «Dovrei  scusarmi»,  cominciò
Don Rodrigo, «di venir così a dare infado a  Vossignoria  Illustrissima».
«Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla». «Non  so
se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io  ho  presente  di  essere
stato qualche volta fortunato...» «Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al
fatto». «A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato  in  un  affare
d'onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un  parere  di  un  uomo  tanto
esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi  sono  fatto  animo  a
venir a  chiederle  consiglio,  e  per  dir  tutto  anche  a  domandare  il  suo
amparo». «Al diavolo anche l'amparo», rispose  con  impazienza  il
Conte. «Tenga queste parolacce per adoprarle in  Milano  con  quegli  spadaccini
imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non  sapendo  essere
padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo». E qui
avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato,
si raddolcì  e  continuò:  «intendiamoci  fra  noi  da  buoni  patriotti,  senza
spagnolerie. Mi dica schiettamente in che posso servirla». Don Rodrigo  si  fece
da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo  onore
era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch'egli  voleva  aver
nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo  impegno,
egli non dubitava più dell'evento. «Non intendo però», continuò titubando,  «che
oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per  favorirmi...
è troppo giusto... e la prego di specificare...» «Patti chiari»,  rispose  senza
titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di  chi  leva  un
conto a memoria: «Venti miglia... un borgo... presso a Milano... un monastero...
la Signora che spalleggia... due cappuccini di mezzo... signor mio, questa donna
vale dugento doppie».  A  queste  parole  succedette  un  istante  di  silenzio,
rimanendosi l'uno e l'altro a parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: -
l'avresti  avuta  per  centocinquanta   se   non   parlavi   d'infado   e
d'amparo -; e Don Rodrigo intanto faceva egli  pure  mentalmente  i  suoi
conti su le dugento doppie. - Diavolo! questo capriccio  mi  vuol  costare!  Che
Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho promesso al mercante... via lo farò  tacere.  Eh!
ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò:... frate
indiavolato, te le farò tornare in gola...  Lucia  la  voglio...  Si  è  parlato
troppo... non son chi sono... - Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e
disse: «Dugento doppie, signor Conte, l'accordo  è  fatto».  «Cinque  e  cinque,
dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra  storia  capitasse
alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è  una  formola  comune,
che  accennando  il  numero  delle  dita  di  due  mani   congiunte,   significa
l'impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell'atto di proferire la formola, il
Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse. «Le  darò»,  disse  Don  Rodrigo,
«uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli  ordini  di
Vossignoria...» «Non fa bisogno», rispose il Conte del  Sagrato:  «mi  basta  il
nome», e qui cavò una vacchetta sulla  quale  sa  il  cielo  che  memorie  erano
registrate, e fattosi dire un'altra volta il nome  e  il  cognome  della  nostra
poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero. «Ma non vorrei  che  nascessero
abbagli». «So quel che posso promettere», rispose il Conte,  il  quale  coglieva
ogni destro di dare una idea inaspettata del suo potere  e  della  certezza  dei
suoi mezzi. «Certo», replicò  Don  Rodrigo,  «pel  Signor  Conte  non  v'è  cosa
impossibile». «Ad un mio avviso,  ella  mandi  persone  fidate  con  le  dugento
doppie, e la persona sarà consegnata».  «Così  farò;  e  mi  raccomando...  vede
bene... non vorrei che... il Signor Conte  darà  ordini  precisi,  e  impiegherà
persone di giudizio». «Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son
servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una  simile
circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie  mani».
«Non ne dubito», rispose Don Rodrigo. «Segreto, e fedeltà ai  patti!»  disse  il
Conte. «Son uomo d'onore»,  rispose  Don  Rodrigo,  e  si  accomiatò.  Uscì  del
castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto,  e
si avviò verso casa. Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia  del  castello
del Conte, che questi aveva già dato principio all'impresa, prendendo la  penna,
e scrivendo una lettera a quell'Egidio di Monza, che  il  lettore  conosce,  per
invitarlo a venire al Castello per un negozio di somma premura. È d'uopo  sapere
che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi  quali  questi
aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più  intrinseco  e  il  più
riverito. Il giovane Egidio appena rimasto solo aveva implorata l'assistenza del
Conte per adempire la vendetta del padre, e il Conte che  nel  giovanetto  aveva
già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva  pensato  di  farne  uno
degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva in  quella  occasione
soccorso di denari e d'uomini, e sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad
ajutarlo dove fosse stato di mestieri. Si formò quindi fra  loro  l'intelligenza
di darsi mano a vicenda in ogni occorrenza; nel che Egidio faceva le  sue  parti
con molto zelo, e con una certa sommessione verso il Conte, per la sua età,  per
la sua fama, e per gli obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente
contava d'avere in lui un difensore invincibile. Per ciò il  Conte,  quando  Don
Rodrigo gli parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per
esperienza la devozione, e risolutezza di lui,  sapendo  che  la  sua  casa  era
contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e  promise
a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e  che  gli  diede  una
maraviglia non affatto sgombra di  diffidenza.  Il  messo  partì;  e  il  giorno
susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e  verso  il  mezzogiorno  salì  in
trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e con quattro  pedoni  che
l'accompagnavano, distinzione riserbata a quegli che erano non  solo  amici,  ma
alleati e la gente dei quali era impiegata al bisogno, ad eseguire i disegni del
Conte. In fatti gli uomini di Egidio e quelli del Conte s'erano trovati  insieme
in più d'una impresa, ed erano per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in  ogni
caso a  far  conto  su  uno  scambievole  ajuto.  Quindi  a  misura  che  Egidio
avvicinandosi al castello, incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi
dopo  d'aver  umilmente  inchinato  l'amico  del  padrone,  facevano  festa  pur
camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di mani, e un  dare  e
rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e  scomunicati  nomi  del
mondo.  «Benvenuto  il  Tanabuso!»  «Bentrovato  il  Montanaruolo!»  «Oh  addio,
Strozzato!» «Buon giorno  Biondino  bello!»  «Bravo,  Nibbione,  mi  consolo  di
vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo
agli statuti di Milano, fin che viene la mia ora!» «Bravo un'altra volta! Ehi! e
quel tale che ti faceva l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza
cena»,  rispose  il  Nibbione,  stendendo  il  braccio  sinistro  e  appoggiando
orizzontalmente la mano destra alla  guancia.  «Bene»,  rispose  lo  Spettinato:
«così va fatto: meglio pagare che riscuotere». «Così m'ha insegnato mio  padre»,
replicò il Nibbione. Con questi bei ragionamenti giunse la trista  brigata  alla
vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo veduto salire l'amico gli
si faceva incontro. Quando Egidio lo scorse, balzò da cavallo, gittò la  briglia
a uno de' suoi uomini, e corse a lui: si abbracciarono,  entrarono  insieme  nel
castello: gli scherani  dell'uno  e  dell'altro  seguitarono  riverentemente  in
silenzio, ed entrati pure in frotta,  andarono  tutti  insieme  a  gozzovigliare
secondo gli ordini dati dal Conte. Quando i due amici furono soli  nella  stanza
appartata, dove il Conte trattava gli affari più reconditi, scoperse  ad  Egidio
il motivo della chiamata in questo modo. «Mio caro Egidio, e posso  dir  figlio.
Ho un affare a Monza, pel quale m'è d'uopo un amico fidato, e un uomo  destro  e
valente; e ho posti gli occhi sopra di te».  «Vorrei  vedere»,  rispose  Egidio,
«chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di esservi più  amico  di  me».
«La mentita gliela darei io», replicò il Conte. «Ora mettetemi alla prova».  «Ho
bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte. «Viva, o morta?»  domandò
Egidio. «Viva, viva», rispose il Conte, «è un  affare  allegro».  «Bene»,  disse
Egidio, «purché non  sia  il  Castellano  né  alcuno  di  sua  famiglia,  né  il
feudatario, né il podestà, né un  ufiziale  spagnuolo...»  «Ih!  ih!»  disse  il
Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa  gente?  Quando  io  gli  avessi
tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli andare.  Non
sono buoni da nulla né vivi né morti».  «Che  so  io?»  riprese  Egidio:  «Bene,
purché non sia ancora, né l'arciprete, né tampoco un prete, né un frate, né  una
monaca, perché non vorrei aver che fare  col  Cardinale,  che  sarebbe  uomo  da
mettere a soqquadro tutta Roma e tutta  Madrid,  finché  non  ne  avesse  veduta
l'acqua chiara: purché non  sia  nessuno  di  questi,  vi  prometto,  umanamente
parlando, che siete servito». «Ebbene», disse il Conte «quello ch'io vorrei  che
tu prendessi non è nessuno di questi uccellacci  che  hai  nominati:  è  il  più
picciolo reatino che tu possa immaginare. Solamente, è rimpiattato in una  certa
fratta  che  ci  vorrà  destrezza  assai  a   cavarnelo».   «Vediamo»,   rispose
confidentemente Egidio. Il Conte cavò la sua  vacchetta,  e  dopo  aver  rivolta
qualche carta, lesse: Lucia Mondella, e continuò: «è  una  contadina  di  questi
contorni che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua  casa,  sotto  la
protezione della Signora;  protezione  molto  fredda  però;  e  raccomandata  al
guardiano dei cappuccini». «Ne ho inteso parlare»; rispose Egidio, il  quale  ne
sapeva sul conto di Lucia molto più del Conte, ma  non  voleva  mostrarsene  più
inteso, perché i suoi rapporti con la Signora erano  un  segreto  al  quale  non
ammetteva nemmeno gli amici più intrinseci. «Prendi tu  l'impegno?»  domandò  il
Conte. «Senza dubbio», rispose Egidio. «E la  Signora?»  «La  Signora,  come  vi
hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa donna; così  almeno  ho
inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano con l'ortolano,  o  con  qualche
altro mascalzone del monastero. E poi, faremo la cosa in modo che né la  Signora
né altri possa sospettare donde il colpo venga». «Sai tu  ch'ella  si  allontani
dal monastero  qualche  volta?  Hai  mezzo  per  farla  uscire?»  «M'impegno  di
trovarlo. E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale settimana;
ma piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà molto».  «Bravo!  e  hai  tu
bisogno d'uomini in ajuto?» «Ho bisogno certo d'uomini, non  tanto  per  compire
l'opera, come per distornare i sospetti.  Quando  io  vi  darò  avviso,  voi  mi
manderete dei vostri uomini forestieri, dei più destri e determinati; costoro si
lasceranno vedere qualche tempo prima; si parlerà in paese di  loro:  quando  la
donna sarà scomparsa...» «Va bene, si dirà che è  stata  rapita  da  forastieri,
sconosciuti, da Bergamaschi». «Rapita, o fuggita con essi: quel che si vorrà:  o
anche l'uno e l'altro perché ho veduto in più d'un caso che  il  raccontare  una
storia in diverse maniere serve molto a confondere le teste, e a tener lontani i
sospetti dalla verità del fatto». «Tu parli come un vecchio, e  sai  operare  da
giovane», rispose il Conte. «Io ti manderò gli uomini che mi richiederai: e  non
avranno altro ordine che di ubbidire ai  tuoi».  Così  fu  conchiuso  l'orribile
accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani ripartirebbe di buon mattino, e
che appena giunto  a  casa,  avviserebbe  ai  mezzi  di  condurre  a  buon  fine
l'impresa. La sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia  non  molto
dissimile da quella che Don Rodrigo aveva presa della sua. Si aspettava bene  il
Conte che Egidio avrebbe abbracciata l'impresa, e trovato il modo di  compierla,
ma ch'ella  dovesse  parergli  così  agevole,  non  lo  avrebbe  immaginato.  Si
preparava anzi a fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli  ostacoli
che Egidio gli avrebbe opposti; e fra questi il primo  gli  pareva  che  dovesse
essere la Signora: ma il lettore sa che questo che al  Conte  sembrava  ostacolo
dovette tosto affacciarsi alla mente di Egidio come un mezzo validissimo.  Ed  è
questo uno dei molti vantaggi dei  lettori  di  storie:  il  sapere  certe  cose
ignorate dai personaggi più importanti di esse;  il  veder  chiaro  dove  i  più
accorti ed oculati  personaggi  camminano  all'oscuro:  vantaggio  che  dovrebbe
ispirare ad  ogni  lettore  bennato  molta  riconoscenza  a  coloro  che  glielo
procurano, che alla fin fine sono gli scrittori di quelle storie. Nel  resto  di
quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa però che poteva
essere in quel luogo  e  fra  quei  due.  All'indomani,  dopo  molti  affettuosi
congedi, Egidio partì, promettendo che ben  presto  manderebbe  al  Conte  buone
novelle dell'affare; discese al lago, entrò nel battello del Conte,  traghettato
all'altra riva dell'Adda coi suoi, si ripose a cavallo, e prese la via di Monza.
In quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati,  di  tradimenti,  l'uomo
che si allontanava quattro passi da casa sua, camminava sempre  con  sospetto  a
guisa d'un esploratore in vicinanza del nemico; e più d'ogni altro i  facinorosi
e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte  conti  accesi  di
offese o di minacce, com'era Egidio. Benché  mandasse  alcuni  passi  innanzi  a
battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci fossero  insidie,
o se giungessero nemici, pure andava  egli  stesso  guardandosi  a  destra  e  a
sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni siepe, alzandosi di tempo in
tempo su le staffe per veder dietro i muri  dei  campi,  piegandosi  per  vedere
dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere dietro le spalle,
e affisando da lontano chiunque veniva, perché poteva essere  un  nemico,  o  il
sicario nascosto di un nemico. Alla metà circa  della  via,  incontrò  egli  una
caravana di carretti e di pedoni, e li riconobbe da lontano per quelli che erano
veramente cioè pescivendoli che tornavano da Milano dopo avere smaltita la  loro
merce, e che camminavano di conserva per assicurarsi dai masnadieri.  Esaminando
però attentamente ogni persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi,
gli parve di riconoscere una donna, che si stava  accosciata  sur  un  carretto,
coperta il capo d'un fazzoletto rannodato sotto  il  mento,  la  quale  veggendo
venire armati guatava con una curiosità mezzo spaventata.  Egidio  la  mirò  più
fisamente, s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e si rallegrò pensando che
a Monza troverebbe un impiccio di meno nell'esecuzione del suo mandato.  Era  la
nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno imbasciate
promesse dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del come andassero
le cose, qual partito si dovesse finalmente  pigliare;  tornava  al  paese,  per
saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo una occhiata alla casa ed alle
masserizie. Lucia alla quale i pericoli  passati,  la  fuga,  il  trovarsi  come
smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova,  il  timore  continuo  di  peggio
avevan restituita quasi tutta la  timidezza  della  infanzia,  aveva  più  volte
afferrata la gonna della madre  per  non  lasciarla  partire,  aveva  pianto,  e
pregato, ma, finalmente stanca essa pure della  incertezza,  e  più  ansiosa  di
saper qualche cosa di quello che non ne confessasse, rassicurata dal trovarsi in
un asilo così guardato, e così santo,  s'acquetò,  e  lasciò  che  la  madre  ne
andasse; e Agnese se n'era venuta, senza cruccio  della  figlia  che  le  pareva
d'aver lasciata, come si dice, su l'altare. Noi torneremo indietro con la  buona
donna verso le nostre montagne, lasciando andare lo  sciagurato  Egidio  al  suo
viaggio. Quando Agnese si trovò al punto dove la strada  che  conduceva  al  suo
tugurio si divideva da quella che dovevan fare i  pescivendoli  per  giungere  a
casa loro, cioè quando ebbe passato il ponte dell'Adda,  scese  di  carretto,  e
preso il suo fardello cominciò a  piedi  le  due  miglia  che  le  restavano  di
viaggio, camminando non senza sospetto. Si  confortava  però  pensando  che  Don
Rodrigo non l'avrebbe voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno  stato  tanto
scellerato da farle far male alcuno, senza suo profitto. Giunta vicino  a  casa,
v'andò quanto più celatamente potè per viottoli, e  infatti  non  fu  scorta  da
veruno; picchiò, le fu aperto da quella sua cognata  che  stava  a  guardare  la
casa, trovò le cose in ordine; chiese novelle del Padre Cristoforo alla  cognata
che non potè rispondergli se non che da quel  primo  giorno  non  lo  aveva  più
veduto comparire; e dopo d'avere esitato qualche momento, si fece animo, e prese
la via del convento. Tutta ansiosa si fece alla porta, e tirò il campanello,  al
suono del quale, ecco venire un occhio ad  una  picciola  grata  della  porta  a
spiare chi sia arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza  la  porta,  e  al
luogo dell'apertura un lungo, vecchio, e magro  frate  portinajo  con  la  barba
bianca sul petto che dice: «Chi cercate buona  donna?»  «Il  padre  Cristoforo».
«Non c'è». «Starà molto a tornare?» «Mah!» «Dov'è andato?» «A Palermo».  «A...?»
«A Palermo», ripetè  posatamente  il  frate  portinajo.  «Dov'è  questo  luogo?»
domandò di nuovo Agnese. «Eh! hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e
la mano destra e trinciando  l'aria  verticalmente  per  significare  una  lunga
distanza. «Oh diavolo!» sclamò Agnese. «Ohibò, buona donna»,  disse  pacatamente
il frate: «che c'entra colui? non chiamatelo qui fra di noi,  che  poniamo  ogni
cura per tenerlo lontano». «Ha ragione, Padre, ma io sto fresca». «Bisogna  aver
pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere  la  porta.  «Ma»,  disse
Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a  fare  in  quel  paese?»  «A
predicare», rispose il cappuccino. «Ma perché è andato via  così  all'improvviso
senza dirmi niente?» «Gli è  venuta  l'obbedienza  dal  padre  provinciale».  «E
perché l'hanno mandato lui che aveva  da  far  qui,  e  non  un  altro?»  «Se  i
superiori dovessero render ragione  degli  ordini  che  danno,  non  vi  sarebbe
obbedienza». «Va benissimo; ma questa è la mia ruina». «Ci vuol pazienza,  buona
donna. Pensate al contento che proveranno quei di Palermo a sentirlo  predicare:
perché, vedete il padre Cristoforo è cima di predicatori; è un  santo  padre  in
pulpito». «Oh il bel sollievo per me!» «Vedete se v'è qualche altro nostro padre
che possa tenervi luogo di lui, rendervi  qualche  servizio,  nominatelo,  e  lo
andrò a chiamare». «Oh Santa Maria!»  rispose  Agnese  con  quella  riconoscenza
mista di stizza che fa nascere una offerta dove si trovi più  di  buona  volontà
che di convenienza: «chi ho da far chiamare,  se  non  conosco  nessuno:  quegli
sapeva tutti i fatti  miei,  mi  dava  tutti  i  pareri,  aveva  amore  per  noi
poveretti». «Dunque abbiate pazienza», rispose di nuovo il  frate,  disponendosi
ancora a  partire.  «...Ma,  ma...»  domandò  ancora  Agnese,  «quando  sarà  di
ritorno?... così a un dipresso?» «Mah!» rispose il frate. «Quando avrà terminato
il quaresimale, cioè a Pasqua, aspetterà un'altra obbedienza per sapere se  deve
restar là dove è andato, o tornar  qui,  o  portarsi  ad  un  altro  luogo  dove
comanderanno i superiori: perché, vedete,  noi  abbiamo  conventi  in  tutte  le
quattro parti del mondo». «Oh la bella storia!» sclamò Agnese. «Questo è  quello
che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la porta sul  volto
ad Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi  un  qualche  tempo  come  smemorata,
riprese tristamente la via della sua casa, pensando come potrebbe  riparare  una
tanta perdita e arzigogolando i motivi di una sì subitanea  disparizione,  senza
poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente. Non così il lettore, il
quale quando voglia continuare la sua lettura, troverà qui tosto la  spiegazione
di tutto il mistero. Il Conte Attilio, tornato a Milano, s'era tosto portato  ad
inchinare il conte  suo  Zio  del  consiglio  segreto.  Era  questi  un  vecchio
ambizioso, geloso della parte di potere che gli era venuto fatto di afferrare, e
geloso non meno dell'onore della sua famiglia e di tutto il parentado,  al  modo
che s'intendeva l'onore a quei tempi. Era egli per  due  sorelle,  zio  dei  due
cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio novelle dell'altro nipote Don  Rodrigo.
«Che fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato
come lui, e devi sempre trovarlo irreprensibile».  «Mi  ha  imposto  di  baciare
umilmente  la  mano  all'Eccellenza  del  signor  zio,  alla  quale   è   sempre
devotissimo». «Sì sì... mantiene bravi tuttavia?» «Oh Signor zio,  bravi...  non
si può veramente chiamarli bravi: tiene un corteggio  di  servitori  conveniente
alla sua nascita, e al decoro della parentela». «Sì sì... ma Sua  Eccellenza  il
signor Governatore non vuole i corteggi a questo modo, e si lascia qualche volta
intendere che toccherebbe ai Ministri, e ai loro parenti  dare  l'esempio».  «Ma
vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore  di  giorno  in  giorno...»  «Oh
questo sì; ma non tocca a te il dirlo». «Ad ogni modo, il mondo è pieno di gente
che non porta rispetto né alla nascita  né  al  nome,  se  uno  non  lo  sa  far
rispettare». «Anche questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto
e all'orecchio di Sua Eccellenza non si deve temere di  soperchiatori».  «Certo,
che con l'amparo del  signor  Zio  noi  potremmo  aver  soddisfazione  di
qualunque offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il  Signor  Zio  che  ha
tanta bontà di cuore, avrebbe disturbi ad ogni momento per causa nostra. Così  i
temerarj si contengono col solo timore». «Temerarj, temerari: io so  molto  bene
che Don Rodrigo non è molestato da nessuno,  se  non  cerca  egli  di  molestare
altrui». «Eh! signor Zio ella sa quanti  si  trovano  che  presumono  di  essere
superiori ad ogni autorità, e  si  fanno  arditi  contra  chicchessia.  C'è  per
esempio un frate nel convento  di  Pescarenico,  eh!  signor  Zio,  non  si  può
immaginare che superbia abbia costui». «Che c'entra questo frate  con  Rodrigo?»
«Ci  vuole  entrare  per  forza,  signor  Zio.  Costui  è  pieno   di   premura,
probabilmente spirituale, per una foresotta di quei contorni, e la guarda con un
sospetto... guai se alcuno le si avvicina. Che cosa va a mettersi in capo questo
frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua  colomba.  E  tutto
questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta passando: ma come  le
dico, la carità di questo frate è molto permalosa. Ora non può credere  le  cose
che ha dette costui di Rodrigo, i visacci che gli ha fatti, il tuono di minaccia
con cui lo guarda, come se fosse un ragazzo plebeo». «E questo frate sa che  Don
Rodrigo è mio nipote?» «E come lo sa! Si figuri, che non  faccio  per  censurare
mio cugino, ma è il suo debole, lo dice ad  ogni  occasione,  e  lo  compatisco;
quando si ha un onore di questa sorte, non si vorrebbe tenerlo celato».  «E  non
ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo è mio  nipote?»
«Eh pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno  ricordare».  «E  che  dice
egli?» «Dice... dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno  degli
scettri della terra». «Come si chiama questo frate?» «Fra Cristoforo da Cremona.
Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido; ha sempre voluto  cozzare  con
la  gente  bennata;  in  gioventù  ha  avuti  incontri  con  cavalieri;  ha   un
bell'omicidio su la coscienza e si è  fatto  frate  per  salvare  la  pelle:  un
cervello caldo». Il Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra  Cristoforo
fu  registrato  sur  una  terribile  vacchetta,  con  due  righe  di   commento.
«Sicuramente», borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta;  «il  cordone
di San Francesco! Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo  a
proposito, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia».  «Per  uscirne
con poco impegno, e con  tutto  il  decoro  della  parentela»,  disse  il  Conte
Attilio, «il mio sottomesso  parere  sarebbe  che  V.E.  con  la  sua  consumata
politica trovasse il modo di fargli cambiar aria, e di sopire il negozio,  senza
entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo  frate,  e
son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita a
un cavaliere; è un uomo, Signor Zio, da  dare  uno  schiaffo  con  forza,  e  da
riceverne uno con umiltà: questi cervelli alla lunga possono impacciare chi  che
sia, e mettere in impegni...» «Chi domanda pareri a Vossignoria?...»  interruppe
il Conte Zio annuvolando la fronte. Il nipote che lo  conosceva,  perché  avendo
spesso bisogno di lui lo aveva  esaminato  con  l'occhio  acuto  dell'adulatore,
aveva  benissimo  preveduto  che  quel  personaggio  si  sarebbe  offeso   della
intenzione di consigliarlo; ma sapeva nello stesso tempo che  il  consiglio  gli
sarebbe rimasto nella memoria, che sarebbe stato  seguito  perché  era  conforme
alle idee del personaggio; e quanto all'offesa sapeva  per  esperienza  che  una
umile parola di adulazione bastava a farla dimenticare. «Ah! ah!»  sclamò  egli,
come ridendo della sua propria dappocaggine, «È vero,  è  vero;  sono  pure  uno
sventato; ma:  i  paperi  vogliono  menare  a  ber  l'oche».  Il  Conte  Zio  fu
contentissimo della riparazione; e disse: «Bene, bene, i pareri tu  gli  hai  da
sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di non far parola con  alcuno  di  questo
impegno». Il nipote promise l'obbedienza, e  si  congedò  certo  e  lieto  della
riuscita. Il Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere  il  nodo
prima che si ravviluppasse a segno che fosse mestieri di  tagliarlo.  Il  grande
scopo di questo signore era di ottenere un po'  di  potere,  il  più  che  fosse
possibile: e uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far  credere  che  ne
avesse molto. Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo mezzo, e
in certi momenti in cui il prurito di far  mostra  della  sua  profondità  nella
politica, superava  nel  suo  animo  la  circospezione  che  gli  consigliava  a
nasconderla (il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione a molti
furbi di scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro affari; che è un peccato) in
quei momenti dico, egli era solito di fare intendere la sua teoria con una frase
di Virgilio che gli era rimasta in mente dalla scuola, e che egli interpretava a
suo modo: possunt quia posse videntur. - Chi aveva intese  queste  parole
dalla sua bocca poteva esser certo di essere ai primi posti della confidenza del
Consigliere segreto. Questa dottrina poi,  come  accade,  era  in  lui  divenuta
abito, e passione. In questo frangente si trattava  di  non  permettere  che  un
cappuccino affrontasse e  facesse  stare  un  parente  del  Signor  consigliere,
d'impedirlo senza tirarsi addosso i cappuccini, e  di  far  credere  a  chi  era
informato della inimicizia, e ai cappuccini  stessi,  che  il  frate  era  stato
vinto, e aveva dovuto ritirarsi. - Giovanastri senza giudizio,  -  pensava  egli
fra sè - la darò io ad intendere a quel Rodrigo. - Ma intanto  bisognava  andare
al riparo, e tutto pesato il Conte Zio fece pregare con quei rispetti e con quei
pretesti di cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare  alla  sua
casa. Il Padre Provinciale non si fece aspettare. Due potenze, due dignità,  due
vecchiezze,  due  esperienze  consumate,  si  trovavano  a  fronte.   Il   Padre
provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere segreto volesse fare  di  lui
né in nome di chi, per quali interessi avesse a parlargli, stava in  guardia;  e
il Consigliere si proponeva di farlo  fare  a  modo  suo,  e  di  farlo  partire
contento di aver servito un così potente signore. Dopo le prime accoglienze  che
furono al solito sviscerate, e dignitosamente umili, poi che il Cappuccino  ebbe
espressa magnificamente la sua stima  pei  Consiglieri,  e  il  Consigliere  pei
Cappuccini, il Conte entrò in materia, cercando pure al solito di tasteggiare il
suo interlocutore, e di procedere per via d'interrogazioni che  obbligassero  ad
una risposta, e di eludere nello stesso tempo le interrogazioni  dell'altro,  il
tutto con l'apparenza della più  schietta  cordialità.  «Mi  sono  presa  questa
sicurtà d'incomodare Vostra Paternità reverendissima», diss'egli, «per un affare
che deve conchiudersi a comune soddisfazione. E senza più, le dirò  sinceramente
di che si tratta, senza raggiri, col  cuore  in  mano,  come  uso  con  tutti  e
specialmente con le persone che venero particolarmente. Ecco il fatto. Nel  loro
convento di Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre Cristoforo da Cremona?»
«Vostra Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale. «Mi  dica  un  po'
schiettamente in amicizia, Padre Molto  Reverendo,  che  informazioni  tiene  di
questo soggetto?» riprese il Consigliere segreto aspettando la risposta.  Ma  il
Padre Provinciale non era uso di rispondere alla prima chiamata, e molto meno in
un caso simile. S'accorse egli che il  Conte  voleva  cavare  da  lui  tutte  le
notizie possibili prima di  fargli  conoscere  il  suo  disegno,  e  propose  di
condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto. - Perché - pensava  il
Padre - chi sa per qual cagione questo signore vuol essere informato  del  Padre
Cristoforo. Potrebbe forse avergli posto addosso gli  occhi  per  servirsene  in
qualche maneggio, e allora non mi converrebbe screditarlo; potrebbe  volergliene
per qualche puntiglio, e allora non mi  converrebbe  pigliar  le  parti  di  fra
Cristoforo prima di saper bene di che si tratta, e fino a  che  punto  lo  potrò
sostenere. In ogni caso prima di farmi cantare, dovrà cantare egli più chiaro. -
Fatte  rapidamente  queste  riflessioni,  il  Padre  rispose:  «Se   V.E.   vuol
compiacersi di dirmi più chiaramente perché le preme il Padre Cristoforo,  spero
di poterle dare tutte le cognizioni che posso  averne  io  medesimo».  -  Sempre
politico il Padre Provinciale, - disse in suo cuore, il  Conte.  -  Eh  già  gli
sanno cavare dal mazzo. - E tosto rispose ad alta voce: «Ecco  il  fatto,  Padre
molto reverendo. Questo padre Cristoforo non le ha dato più volte da pensare per
cavarlo da impegni in cui s'era  posto  per  poca  prudenza,  e  per  voglia  di
accattar brighe? Dica liberamente, non è un cervello un po' caldo?» - Ho inteso,
- disse fra sè, il Padre - è un  impegno:  Benedetto  Cristoforo!  ma  bisognerà
sostenerlo. -  E  rivolgendosi  al  Conte  rispose,  indirettamente  al  solito:
«Liberamente, com'Ella desidera le dirò che il  nostro  Padre  Cristoforo,  l'ho
sempre conosciuto per buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi  doveri  di
cappuccino irreprensibile». - Ah! Ah! - disse ancora fra sè il Conte  -  bisogna
dunque tirarti con gli argani! - E con le labbra disse al Padre: «Ella  sa  pure
che siamo amici, e fra noi non si deve parlare politicamente. Io sono  informato
molto bene che  questo  religioso  è  un  po'  inquieto,  ama  di  comprarsi  le
quistioni, e di cozzare con le persone di qualità. Cose che non vanno bene,  non
vanno bene, Padre molto reverendo: Ella conosce  il  mondo,  e  m'insegnerà  che
queste cose non vanno bene». - È tutta mia colpa, - disse sempre  in  soliloquio
il Padre; - doveva pensare che quel benedetto Cristoforo con quel suo  fuoco  mi
avrebbe strascinato in qualche impiccio: lo sapeva che era un uomo da far girare
di pulpito in pulpito, e da non lasciar mai quieto per tre mesi in  un  convento
vicino a case di signori. Ma vediamo in che stato è  la  cosa,  e  come  si  può
rimediare. - E per pigliar tempo, rispose al  Conte:  «Se  Vostra  Eccellenza  è
informata di qualche mancamento di  questo  padre,  Le  sarò  grato  di  farmene
partecipe, acciò ch'io  possa  mettervi  rimedio».  «Pensieri  degni  della  sua
prudenza, padre molto reverendo: principiis obsta. Ecco il  fatto,  senza
andirivieni. Questo religioso ha preso a cozzare  con  mio  nipote,  e  la  cosa
potrebbe farsi più seria. Senza parlare di me, che  ho  troppa  venerazione  per
Vostra paternità e per tutta la compagnia, per fare nulla senza sua intelligenza
in questo proposito; mio nipote ha molte aderenze.  Quand'anche  io  non  me  ne
volessi impacciare, i parenti di  padre  e  di  madre...  sono  persone...  sono
famiglie...» «Cospicue» disse il padre. «E accreditate», continuò il  Conte:  «e
mio nipote ha il sangue caldo. Io le parlo da buon amico. Mio nipote è  giovane,
e questo religioso, da quel che sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi
diede un'occhiata per lasciar supporre al padre che  vi  erano  notate  di  gran
cose, e continuò con un'aria misteriosa: «questo religioso ha  ancora  tutte  le
inclinazioni della gioventù. I giovani non hanno giudizio, e  tocca  a  noi  che
abbiamo i nostri anni... pur troppo eh?...» «Eh! pur troppo»,  disse  il  padre.
Chi fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel  momento
una mutazione curiosa nel volto dei due  personaggi,  che  per  la  prima  volta
prendeva l'espressione d'un sentimento sincero: qui non avea luogo la  politica,
e il cuore parlava. «Ella è così, padre», continuò il Conte. «Tocca dunque a noi
il rappezzare gli sdruciti che i giovani fanno». «Tra me e lei  (così  disse  il
signor Conte) tra me e lei si potrà sopir l'affare». Queste parole furono  molto
gradite al Provinciale. È vero, ed ognuno lo sa, che a quei tempi i membri d'una
congregazione religiosa erano affatto indipendenti da ogni podestà  secolare,  e
non avevano quindi nulla a temere  da  essa.  E  quando  questa  si  trovava  in
collisione con alcuno di loro, e voleva prescrivere qualche cosa, la più  forte,
la sola minaccia che usasse e che potesse usare si era che avrebbe richiesto  al
papa che i renitenti,  quelli  che  avessero  contrafatto  agli  ordini  fossono
mandati fuori dello stato come diffidenti di S.M.; il che si  può  vedere  nelle
gride contra gli omicidi, banditi, i bravi, dove  questa  minaccia  è  fatta  ai
regolari che gli ricoveravano, e ponendoli così in luogo d'asilo gli  involavano
dalle mani della forza secolare. In un'epoca posteriore fu pensato  al  modo  di
render più forte questa minaccia, e di estendere la pena; e questo sforzo merita
d'esser ricordato e come un attestato insigne della impotenza della forza civile
a raggiungere gli ecclesiastici, e come un esempio notabile di stolta  e  feroce
iniquità. L'onore di questo trovato appartiene al Signor Don Luigi de Revavides,
Marchese di Fromista e Caracena Conte di  Pinto.  Estese  egli  questa  minaccia
d'esser trattati come diffidenti di S.M. anche ai parenti più prossimi di quegli
ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed immuni certi banditi.
23 Agosto 1651, ed altre. Ma i modi di nuocere non  erano  quegli  soli  che  le
grida prescrivevano, e la inimicizia di un uomo, e di una famiglia  potente  era
un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di disturbi. Il Provinciale  si  trovò
dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir l'affare; non si trattava  più
che del modo di farlo, con la convenienza delle due parti. E siccome la cosa non
aveva fatto grande scandalo, e si trattava più  d'antivenire  che  di  riparare,
così la cosa non era difficile. Dopo che  i  due  sorboni  ebbero  ancora  molto
interrogato, poco risposto, mercanteggiato, e  giuocato  di  scherma,  il  Padre
Provinciale disse al Conte che per considerazione della persona di Lui, per amor
della pace egli trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in  un  altro
lontano, con la  condizione  che  nessuno  si  vantasse  di  questo  come  d'una
vittoria: e il Conte lo promise; l'affare fu conchiuso, e i  due  contraenti  si
separarono contenti l'uno dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.  Gran  cura
ponevano quei vecchj pensatori in un negozio,  di  gran  parole  spendevano,  ci
pensavano assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo conveniente;  ma
bisogna  anche  confessare  che  facevano  poi  cose  grandi.  In  fatti  questo
abboccamento  produsse  l'effetto  di  fare  trottare  il  nostro  povero  Padre
Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio. Fu  dunque  spedita
al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e  con  l'obbedienza
l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della  strada  da  farsi  per  non
toccare Milano, e l'avviso di dargli  un  compagno  nella  missione,  che  nello
stesso tempo osservasse tutte le sue  azioni.  Mentre  il  nostro  povero  Frate
pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo chiamò a  sè,  e
con molta consolazione gl'intimò l'obbedienza, gli comandò di  prendere  il  suo
bordone, gli presentò il compagno che era già avvertito, e gli  disse  «vade  in
pace». Cristoforo non pensò nemmeno a domandare un rispitto che era certo di non
ottenere: pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto  si  accusò  di  aver
mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa;  alzò
gli occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla provvidenza;  salutò  umilmente
il guardiano, prese la sua sporta, si cinse le reni con una correggia  di  pelle
come usavano i  cappuccini  viaggiatori,  disse  una  parola  cortese  al  padre
compagno, uscì del convento, e si pose su la via che gli era stata prescritta.

CAPITOLO IX

Quando  Egidio  si  avvenne  nella  nostra   povera   Agnese,   andava   appunto
fantasticando sul modo di soddisfare al più presto ai  desiderj  del  suo  degno
amico, e di dargli con la prontezza del servizio  una  prova  di  audacia  e  di
destrezza singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa  Agnese
gli si gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento. Come staccare  da
essa Lucia che le stava sempre appiccata  alla  gonnella?  Rapire  Lucia  quando
fosse in compagnia della madre era esporsi ad un vero  scandalo:  la  resistenza
che la madre  avrebbe  tentato  di  opporre  poteva  render  necessaria  qualche
violenza che avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe  fatto  perder
tempo,  forse  sfuggire  l'opportunità;  le  sue  grida  potevano  attirare  dei
guastamestieri, o almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo  in  Monza
avrebbe sclamato, ricorso, parlato e fatto parlare. Al  contrario  quando  Lucia
non avesse in paese persona a cui calesse di  lei  particolarmente,  i  discorsi
sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura  quella
spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire. Si andava
dunque Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata da  Monza,
ma non sapendo quando ciò fosse per accadere, si rodeva di dover rimettere ad un
tempo non ben determinato l'impresa e l'onore dell'impresa.  Ma  alla  vista  di
Agnese che tornava a casa, Egidio  si  sentì  libero  d'una  grande  incertezza,
risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a Monza,  e  continuò  a
maturare il suo disegno: i suoi pensieri camminavano più spediti, e per  mettere
del paro ad essi il suo cavallo gli diede  una  voce  ed  un  colpo  di  sprone,
dicendo  ai  seguaci  a  piedi  che  erano  obbligati   di   trottare   un   po'
affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata  è  bella».  Giunto  a  Monza,
entrato in casa, scavalcato, deposte le armi più gravi e più lunghe, egli  corse
tosto per la via da lui solo conosciuta alla porta abominevole  che  egli  aveva
aperta nel solajo, entrò con le solite precauzioni  nel  solajo  dell'abitazione
vicina, fece i soliti segni, la signora che stava sull'avviso,  intese,  avvertì
le sue complici; le quali  andarono  a  chiudere  le  porte  del  quartiere  che
comunicavano col chiostro, e  la  sciagurata  corse  incontro  ad  Egidio  tutta
ansiosa. «Sia lodato il cielo» diss'ella «che  vi  riveggo!  Oh  che  giorni  ho
passati! e che notti! Che paura ho avuta questa volta!» e  mentre  ella  parlava
una specie di consolazione angosciosa, e  di  rincoramento  agitato  dipingevano
sulle sue guance come due pezze di rossore  che  contrastavano  tristamente  col
pallore  di  tutta  la  faccia.  «Le  solite  sciocchezze?»  disse  Egidio   con
impazienza.  «Oh!  sciocchezze!  So  io  quel  che  soffro;  e   fossero   anche
sciocchezze, a chi tocca aver compassione di  me?  Mai  mai,  non  avete  voluto
compiacermi. Se provaste un'ora quello ch'io sento tutto  il  giorno!  tutta  la
notte! Non posso più, non posso più vivere con colei così vicina. Qua  giù,  qua
sotto, a pochi passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci  siete...!  l'ho
veduta sempre, sempre: l'ho veduta smuovere a poco a poco il mucchio di sassi, e
poi metter fuori il capo, e poi venir su... avrei gridato se non  avessi  temuto
di far correre tutto il  monastero...  e  poi  entrare  qua  dentro  per  questo
pertugio, senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui...  quello  sgabello  son
ben sicura d'averlo bruciato: e pure quando colei arriva, si trova sempre a quel
posto, ed ella vi si adagia, e non vuol partire. Mi pare che  se  fosse  lontana
dove  io  non  sapessi,  non  potrebbe  venire  così  a   tormentarmi».   «Donne
indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le  accoglienze  gioconde
che mi fate». «Non andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho  io?
a chi mi posso confidare?» e continuò con voce più sommessa, «quelle  altre  non
mi consoleranno, vedete, se racconterò loro che siete in collera con  me,  state
in pace, e fatemi questo piacere una volta.  Voi  sapete  far  tante  cose!  Non
sarete più contento, quando mi vedrete tranquilla?»  «Ma  sono  queste  cose  da
pensare, e da dire?» rispose Egidio.  «È  un  affare  finito,  che  non  dà  più
impaccio, e volerne andare a cercare  uno  di  questa  sorta?  perché?  per  una
pazzia? Che volete ch'io faccia? Ch'io desti il  cane  addormentato?  Senza  una
ragione al mondo? come l'ho da portare? dove?» «Scendete una notte solo»,  disse
Geltrude, «già voi non  avete  paura,  -  fortunati  gli  uomini!  -  prendetela
portatela al fiume, gittatela in un  pozzo  abbandonato...»  «Bel  divertimento!
bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di rabbia e di  scherno  «bella
commissione che mi date! Pazzie! E tutto  per  tirar  fuori  quello  che  è  ben
nascosto! Savio disegno! Sapete voi dirmi un luogo dove possa star più  nascosta
che ora non è?» «È vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che  fare
d'un  morto!»  «Che  farne?»  rispose   Egidio,   «niente:   sta   bene   dov'è.
Dimenticatela, pensate quello che pensano tutte le vostre suore: è  andata  alle
Indie su una nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo credono  tutti...»
«Ma non è vero», rispose Geltrude. «Che fa questo?»  disse  bruscamente  Egidio.
«Fa tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io prima...  credeva
che purché lo sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non fosse avvenuta, ma
ora...» «Ora è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio. «Oh  ecco
come son trattata!» disse  con  accoramento  Geltrude;  «mi  strapazzate  perché
patisco; siete voi quello che mi strapazzate, voi... Che colpa ho io se sono una
poveretta? Vorrei anch'io non curarmi di nulla, esser come voi... voi  siete  un
uomo, voi mi date animo...  ma  no  no...  voi  avete  troppo  coraggio,  troppa
presenza di spirito... mi fate quasi... paura... penso...  penso  che  se...  mi
odiaste... ah i morti non vi danno travaglio!» «Che pazzie! che  pazzie!»  disse
Egidio  con  istizza  sempre  crescente.  «Ebbene»,  disse  Geltrude  in   tuono
supplichevole, «compiacetemi, levatemi questa spina del cuore, allontanate colei
da questa abitazione; voi  vedete  ch'io  non  posso  allontanarmi  io».  «Via»,
rispose Egidio, fingendo di acconsentire  alla  domanda  «vi  compiacerò;  è  un
impiccio, è un fastidio, è un pericolo, ma per voi lo farò». «Oh davvero!» disse
Geltrude, «non lo dite per  acquetarmi,  come  avete  fatto  altre  volte...  vi
ricordate?... promettetelo da vero». «Possa essere...!» «Non giurate,  per  amor
del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata; «non fate imprecazioni,  perché
noi siamo in uno stato che una picciola  parola  può  bastare...  potrebb'essere
intesa ed esaudita in quel momento che la proferiamo». «Via ve  lo  prometto  da
uomo onorato», rispose Egidio, affettando tranquillità: «ve lo prometto;  e  non
se ne parli più. Ho bisogno  anch'io  che  voi  mi  compiacciate  in  un  affare
d'importanza; e non mi si deve dire di  no,  non  si  deve  opporre  nemmeno  un
dubbio». «Che posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella villanotta che v'è stata  data  in  guardia»,  rispose  Egidio,  «quella
Lucia...» «Ebbene?...» «Ho promesso di consegnarla ad  un  amico  al  quale  non
voglio né posso rifiutar nulla; e voi dovete darmi ajuto a liberarmi  dalla  mia
parola». A questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza,  le  presse
al petto, si strinse tutta,  levò  al  cielo  uno  sguardo  nel  quale  brillava
momentaneamente un raggio dell'antica innocenza,  e  con  voce  supplichevole  e
commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più per pietà.  Chi
sa che quel che abbiamo fatto non possa  ancora  essere  perdonato?  V'era,  una
scusa, ma qui non ve n'è.  Perché  fare  ancora  delle  cose,  che  si  vorranno
dimenticare e non si potrà?  Non  ne  abbiamo  abbastanza?»  «Ah!  ah!»  rispose
Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi nascono gli  scrupoli  eh!
Più conto fate d'una villana, che conoscete appena da otto o dieci giorni che di
me. Questa è quella che voi amate». «Io amarla!» rispose  Geltrude,  «io  colei!
non la posso soffrire, è una superba, non fa che parlare della sua innocenza,  e
quando ne parla mi guarda con certi  occhi  come  se  sapesse  qualche  cosa,  e
fingendo rispetto volesse insultarmi. L'ho accolta, sapete, perché  bisogna  nel
nostro stato farsi più amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per
carità, questa lasciatemela, mi diventerà cara, e quando un altro pensiero verrà
a tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei, e dirò fra  di  me:  -  ecco,
anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed  è  qui».  «Pazzie,  pazzie»,  disse
Egidio: «parlate come una bambina sciocca. Lasciate che sul principio si lamenti
e un giorno poi riderà dei  suoi  terrori,  e  sarà  contenta».  «No,  non  sarà
contenta», rispose Geltrude  con  la  rapida  risoluzione  di  chi  ha  il  vivo
sentimento che le parole che ha udite sono menzogne. «Va bene, va  bene»,  disse
Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte diabolicamente affettato: «non  ne
facciamo più: e già vedo che non possiamo andar d'accordo: è tempo  perduto  con
voi: siamo troppo differenti nel pensare: ma a tutto si può rimediare; i mattoni
son lì tutti come contati; e ad ogni volta mi dò la briga  di  riporli  al  loro
posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro sta come prima,  tutto
è finito». «No, no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete
ch'io faccia?» «È vero», continuò l'uomo abbominevole, come se  persistesse  nel
suo proposito, «è vero che vi sono anche  quelle  altre...»  «Zitto,  zitto  per
pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi diventare il  ludibrio  di
quelle...» «Quelle, quelle» riprese Egidio  «saranno  certamente  più  pronte  a
rendermi un servizio». «Dite, dite,  che  volete  ch'io  faccia?»  «Chiamatele»,
rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il mezzo di condurre a  capo
questa grande impresa». «Dite...» «Chiamatele, dico», riprese Egidio, e Geltrude
strascinata ancora una volta un passo più innanzi nella  via  della  perversità,
avvezza ad ubbidire, ubbidì e andò a chiamare le  sue  complici.  Egidio  sapeva
quello  che  aveva  detto;  e  quelle  due  sciagurate  erano   in   fatti   più
tranquillamente e più risolutamente perverse  di  Geltrude.  Geltrude  dei  loro
discorsi, del loro contegno sentiva talvolta orrore, disprezzo, ne riceveva  una
specie di scandalo; ma questi sentimenti  ricadevano  terribilmente  su  la  sua
coscienza, perché ad ogni volta Geltrude era costretta a  ricordarsi  che  dessa
era quella, che aveva fatti far loro i primi  passi  nel  cammino  dove  ora  la
precorrevano. Non parlo  che  di  questi  sentimenti,  perché  gli  altri  tutti
orribili e tutti fastidiosi che dovevano  nascere  in  quegli  animi  in  quella
situazione non sono  da  descriversi:  basti  dire  che  con  tante  cagioni  di
vicendevole ripugnanza una sola cosa le teneva  unite,  la  partecipazione  d'un
sangue, l'avere una sola coscienza: vivevano insieme  come  lo  sbigottimento  e
l'audacia, il desiderio di rimpiattarsi e il desiderio di assalire, il rimorso e
il delitto vivono insieme nell'anima d'un masnadiero.  Rivisitate  accuratamente
le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi che fossero ben chiusi,  le  tre
sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo  più  rimoto  del  quartiere  dove
Egidio le stava  aspettando.  L'orrendo  concilio  fu  ragunato:  le  sciagurate
aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio avesse a propor loro, e nello stesso
tempo stavano col capo levato all'indietro origliando se un  qualche  romore  si
sentisse,  se  qualche  suora  venisse  a  bussare,  per  accorrer  tosto,   per
intrattenerla con qualche pretesto prima di aprire, e dar così tempo  ad  Egidio
di sparire senza lasciare alcun sospetto. Egidio espose loro in  due  parole  il
suo desiderio: ch'egli aveva bisogno di tenere Lucia per  servire  un  suo  caro
amico, che esse dovevano dargli ajuto, che la cosa doveva esser fatta  presto  e
in modo che il sospetto non cadesse né sovra di esse né sovra  di  lui.  In  una
brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi, ognuno  diventa
più onesto, il sentimento comune rinforza quello d'ogni individuo che parli,  le
parole d'ognuno divengono più rigide,  più  degne,  più  scrupolose,  suppongono
sempre un convincimento profondo della  persuasione  della  virtù;  e  così  pur
troppo, in una brigata di tristi, ognuno diventa più tristo, perché chi  ragiona
dinanzi ad un uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente parlando,  non  teme
nulla più che di stonare dagli altri. Geltrude che alla prima proposta  di  quel
fatto, ne aveva conceputo tanto orrore, risoluta ora di  obbedire  allo  spirito
infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri mostrasse  più  ardore,
più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude avvezza ad essere strascinata, e
a far sempre qualche cosa di più di ciò che  sul  principio  aveva  ricusato  di
fare, rispose tosto che pigliava essa l'impegno, che ne aveva  i  mezzi  più  di
chicchessia. Le  altre  triste  protestarono  tosto  che  esse  erano  pronte  a
secondarla in tutto. Egidio le chiese se essa avrebbe saputo  far  andare  Lucia
sola in una strada solitaria.  «Domani»,  rispose  Geltrude.  «Domani  è  troppo
presto», disse Egidio; «la rete non potrà esser tesa  che  dopo  domani».  «Dopo
domani», rispose ancora Geltrude. La congrega si sciolse, ed Egidio corse  tosto
a spedire un messo al Conte del  Sagrato,  per  chiedergli  i  bravi  dei  quali
avevano convenuto. Il  messo  partì  nella  notte  stessa,  giunse  all'alba  al
castello; il  Conte  diede  tosto  gli  ordini  ai  bravi  che  dovevano  andare
all'impresa: impose loro di obbedire ad Egidio, e di non nominarlo, di aspettare
i suoi comandi, e di non andare a casa sua né di cercarlo in alcun  luogo,  e  i
bravi scesero all'Adda, e s'imbarcarono.  Nello  stesso  tempo  spedì  egli  una
carrozza leggiera da viaggio con un cocchiere quale conveniva a tal signore; gli
ordinò di farsi tragittare su un altro punto del fiume, di non mostrare di avere
alcuna relazione con quegli altri amici che partivano, di  appostarsi  vicino  a
Monza nel luogo che era indicato nella lettera di Egidio, e  di  aspettare  pure
gli ordini di questo. Quanto alle ciarle da spargersi per via  e  alle  fermate,
onde far stornare dal vero  le  congetture  dei  curiosi,  il  Conte  ne  lasciò
l'invenzione alla prudenza, ed alla sagacità dei suoi uomini; perché  gli  aveva
scelti tra i più provati, e più destri,  e  tali  che  sapessero  conformare  la
condotta  e  i  discorsi  alle  circostanze  che  egli  non  poteva   prevedere.
Contemporaneamente, a paro per un'altra via il messo  di  Egidio  tornò  al  suo
padrone, e gli portò la risposta nella quale il Conte, con un gergo da loro soli
inteso lo avvertiva di ciò ch'egli aveva ordinato. Egidio, lasciato riposare  il
messo, lo rispedì alle poste dov'erano giunti gli uomini del Conte,  e  li  fece
istruire di  ciò  che  avevano  a  fare.  Tutta  quella  giornata  fu  spesa  in
preparativi. Il giorno appresso (la nostra storia lo registra, ed era il ventuno
di novembre) Egidio diede avviso a Geltrude che tutto era in pronto,  e  ch'ella
dovesse mantenere la sua parola, operar tosto secondo le istruzioni  ch'egli  le
aveva date. Geltrude scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare  Lucia.
La nostra poveretta innocente corse volonterosa alla chiamata. Dopo la  partenza
della madre, rimasta come smarrita, senza  consiglio,  senz'altro  appoggio  che
quello della Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso di lei. Ben  è
vero che quel non so che d'inusitato e  di  strano  ch'ella  aveva  trovato  nei
discorsi e nel contegno di essa gli aveva lasciata una impressione  d'incertezza
e quasi di timore, ma ella era tanto lontana dal sospettar pure le vere  cagioni
di quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre l'avevano  rassicurata;
e Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori  erano  molto
differenti dai poverelli. Si presentò ella dunque a Geltrude con  quell'aria  di
fiducia affettuosa, con quella gioja riconoscente,  che  il  debole  sente  alla
presenza del forte che è per lui; le andò incontro, come la pecora  va  incontro
al pastore che le si avvicina, che allontana le  altre  e  stende  la  mano  per
accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato fuori del  pecorile  il
beccajo a cui l'ha venduta in quel momento. La festa ingenua di Lucia, e la  sua
aria fiduciale era un rimprovero e una distrazione terribile per la Signora,  la
quale tosto interruppe alcune semplici parole di affetto e di  riconoscenza  che
l'innocente  tutta  peritosa  aveva  incominciate,   protestò   di   non   voler
ringraziamenti, e postasi in aria di  premura  e  di  mistero  le  annunziò  che
l'aveva fatta chiamare per comunicarle cose  molto  importanti.  Lucia  si  fece
tutta attenta, e  Geltrude  ripetendo  la  lezione  del  suo  infernale  maestro
cominciò ad impastocchiarla  con  una  storia  misteriosa,  di  pericoli,  e  di
speranze, di mezzi posti in opera da lei,  di  ostacoli,  di  ajuti,  tutto  per
liberare  Lucia  dalla  persecuzione  di  Don  Rodrigo,  e  per   farla   essere
tranquillamente sposa di Fermo: accennando molto  di  più  che  non  dicesse,  e
allegando motivi di prudenza per non dir tutto, ripetendo ad ogni momento che un
po' di coraggio e  molta  precauzione  poteva  tutto  salvare,  e  una  picciola
indiscrezione perder tutto; che l'occasione era  pronta,  e  per  coglierla  non
bisognava perder tempo; e terminò con dire che le bisognava in quel  momento  un
uomo da cui potesse aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto operoso,  che  il
solo uomo del mondo che fosse da ciò era quel padre guardiano  dal  quale  Lucia
era stata scorta al monastero; che ella aveva bisogno di parlare con lui ma  che
le mancava il mezzo di  farlo  avvertire  con  sicurezza,  giacché  dopo  d'aver
riandate tutte le persone, tutti i modi per questa spedizione, trovava in  tutti
il pericolo di farsi scorgere, di sventare il  segreto,  di  metter  sull'avviso
quelli a cui importava il più  di  tener  tutto  nascosto,  e  di  perdere  così
l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che insomma per  condurre  bene  a
fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse un po' di  risoluzione,
si snighittisse, e facesse tosto, e  segretamente  e  sola  questa  commissione.
Lucia a questa proposta rimase sopra di sè, poiché allontanarsi  dal  monastero,
andarsene soletta per un paese che era per  lei  come  l'America,  era  un  gran
pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando non si vorrebbe  aderire
ad una proposta: si mise a discuterla, per poter conchiudere che non era la sola
cosa da potersi fare: disse che la Signora avrebbe potuto trovare altre  persone
fidate e discrete, domandò schiarimenti,  volle  sapere  più  addentro  come  la
commissione fosse necessaria, e come essa fosse la sola che la potesse eseguire.
Ma la Signora memore sempre della scuola di Egidio, mostrò prima di  offendersi,
rispose  ancor  più  misteriosamente  alle  domande,  lagnandosi  di  Lucia  che
pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non poteva, e che non volesse fidarsi  di
chi senza un interesse, per  pura  pietà  si  prendeva  tanta  cura  di  lei;  e
conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io la buona donna a pigliarmi di questi
travagli: si tratta di voi, finalmente; io me ne lavo le mani: ho  fatto  ancora
più ch'io non dovessi». Lucia commossa in un punto  di  vergogna  e  di  timore,
stava per piangere; e la signora vedendola arrivata a quel  punto,  ripigliò  il
suo discorso, la sgridò più amorevolmente, la rimproverò di  poco  coraggio;  le
promise che non le sarebbe mai mancata se ella  avesse  avuta  fede  in  lei;  e
infervorata  com'era  nell'impresa  di  tradire  la  poveretta  per  servire  lo
scellerato Egidio, con ipocrisia sfrontata le disse che pensasse  ai  rimproveri
che ella farebbe  un  giorno  a  se  stessa  di  avere  per  irresolutezza,  per
infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e rovinata se stessa, la madre,
e l'uomo a cui ella s'era promessa. Lucia non seppe più resistere, si accusò  di
aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando
quello che le era offerto, piena di una novella  fiducia  disse:  «vado  tosto».
Geltrude l'accomiatò, lodandola, facendole  animo,  e  ripetendo  le  più  liete
promesse e indicandole la via per andare al convento. Lucia ritenendo a forza il
pianto chiese scusa alla Signora della sua poca fede, e della sua ingratitudine.
«Sono una poveretta senza pratica», diss'ella; «ma già ella tutte queste  brighe
non se le deve pigliar per me, ma per Quello di  lassù,  che  gliele  rimeriterà
tutte», e abbandonandosi alla grata,  colle  braccia  tese,  continuò:  «se  non
fossero questi ferri, mi pare che le getterei le braccia al collo, ed  ella  non
se lo avrebbe a male, perché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore». «Sì  sì,
Lucia, addio, addio»,  disse  Geltrude.  «Dio  la  benedica»  rispose  Lucia,  e
staccatasi dalla grata, si volse, e si avviò verso la porta  del  parlatorio.  -
Che orrenda parola! - disse in suo  cuore  Geltrude:  Dio  gliele  rimeriterà
tutte, e alzando gli occhi vide Lucia, che  stava  per  passare  la  soglia.
Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni di Geltrude, questa, impegnata
ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla disputa stessa non aveva  pensato
ad altro che a giungere al suo fine, ma quando vide  il  cangiamento  di  Lucia,
quando vide la sua fede sicura, intera, amorosa, e pensò che la tradiva,  quando
vide  la  vittima  andare  così  senza  sospetto  all'orribile  sagrificio,   un
sentimento improvviso,  indistinto,  irresistibile  le  fece  pronunziare  quasi
macchinalmente queste parole:  «Sentite  Lucia».  Lucia  ristette,  si  rivolse,
ritornò alla grata. Ma, nel momento che Lucia spese a  fare  quei  pochi  passi,
l'immaginazione di Geltrude aveva già veduto Egidio furibondo per  essere  stato
ingannato, aveva già udite le  sue  imprecazioni,  le  sue  minacce,  s'era  già
pentita del suo pentimento, e quando Lucia ristette alla grata per intendere ciò
che Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude confermata nella iniquità: «senti
Lucia», le disse, «ricordati bene di tutte le avvertenze che ti ho date; procura
di tirarti in mente la strada che tu hai fatta venendo qui; se fossi in  dubbio,
domanda con indifferenza e con franchezza a qualche buona donna  che  passi  per
via; va in modo di non dar sospetto: fatti animo, ché già non è  il  viaggio  di
Madrid: va e torna presto». «Oh», disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse
di nuovo, s'avviò verso la porta, e passò la soglia. Geltrude corse a  chiudersi
nella sua stanza. Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il  resto  del
manoscritto ne fa più menzione. Noi però, trovando descritti dal  Ripamonti  gli
ultimi casi di questa sventurata, stimiamo che monti il pregio d'interrompere un
momento la narrazione principale, per accennarli. Ci sembra anzi una  specie  di
dovere  per  noi,  quando  abbiamo  raccontati  i  delitti,  di  non  tacere  il
pentimento, di non tacere che l'orrore a noi così facilmente ispirato da quelli,
la religione ha potuto ispirarlo  ancor  più  forte  e  più  profondo  all'anima
stessa,  che  gli  aveva  acconsentiti  e  commessi.  Riferiremo  quei  casi  in
compendio; chi volesse conoscerli più in particolare, li troverà esposti in  bel
latino nella Storia patria del Ripamonti, al  libro  sesto  della  quinta
decade. Siccome egli non vi pone alcuna data, così non possiam  dire  di  quanto
sieno posteriori alle cose già da  noi  narrate.  La  condotta,  il  linguaggio,
l'aspetto abituale delle tre sciagurate suore, le loro stesse  precauzioni,  per
distornare i sospetti, ne fecero, com'era naturale, nascere dei nuovi, che  dopo
d'aver serpeggiato nel monastero, si diffusero al di fuori. Due vicini di quello
che ebbero la sciagura di ricevere qualche prima confidenza di quei sospetti, un
fabbro ed uno speziale, accennarono copertamente in qualche discorso, che in  un
monastero del paese accadevano cose orrende e  turpi:  l'uno  e  l'altro  furono
trovati uccisi. Un terrore misterioso invase tutti gli  animi  nel  monastero  e
fuori; ai susurri che già cominciavano a farsi sentire nelle  brigate,  successe
un silenzio cupo e significante, e nelle relazioni più intime,  gli  sguardi,  i
cenni, le parole sospese esprimevano o accennavano un sospetto  e  uno  spavento
comune. Questi romori così  vaghi  e  generali  com'erano,  furono  riferiti  al
cardinale Federigo Borromeo  arcivescovo  di  Milano.  Egli  dolente  e  turbato
d'essere così tardi avvertito, si  portò  a  Monza  sotto  colore  d'una  visita
generale, e venne a colloquio colla Signora, per esplorare dalle sue  parole  lo
stato dell'animo suo; e ne uscì con più grave e più fondato  sospetto.  D'allora
in poi, la Signora, irritata dai sospetti che vedeva starle sopra, agitata dalle
certezze della coscienza; esaltata per così  dire  dal  suo  stesso  turbamento,
perdè  tutta  la  prudenza  della  colpa,  le  sue  azioni   divennero   affatto
indisciplinate, i suoi discorsi strani, furiosi, inverecondi.  La  giurisdizione
criminale su le persone addette allo stato religioso era allora  esercitata  dai
vescovi. Il cardinale fece torre la Signora da quel monastero, e trasportarla in
un convento di convertite nella città. Ivi l'infelice infuriò per qualche tempo:
tentò di fuggire, tentò di uccidersi, ricusò  il  cibo,  diede  del  capo  nelle
muraglie; urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale:  contra
il quale tale era l'odio di  lei,  ch'ella  ebbe  a  dir  poscia  che  tutte  le
inimicizie che gli uomini chiamano mortali,  erano  un  giuoco  appo  di  quella
ch'ella sentiva per lui. Intanto  lo  scellerato  vicino  ripose  il  piede  nel
monastero, e parte colla persuasione, parte colle minacce astrinse le altre  due
sue vittime a seguirlo,  e  di  notte  con  esse  fuggì.  Ma,  o  fosse  disegno
premeditato di quell'animo atroce, o ebbrezza di  scelleraggine,  poco  distante
dal paese, in riva al Lambro, una dopo  l'altra  le  trafisse  con  un  pugnale,
gittando l'una nel Lambro, e l'altra in un pozzo rasciutto  ed  abbandonato  nei
campi. Ma le ferite non furono mortali, ed entrambe le donne  furono  salve  per
diversi eventi e rinvenute, e riposte a guarire in un altro monastero del borgo.
La Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad  un  tratto  si  mutò;
rivolse in orrore di se stessa, in pentimento, in dolore ineffabile, in  lagrime
inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel momento  fino  al  suo  ultimo
respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più riparare.  Il
Cardinale ch'ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori
ch'ella esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente. Pagò
egli poi sempre le spese del suo mantenimento, perché i  parenti,  come  se  col
rifiutare quella sventurata avessero potuto scuotersi  da  dosso  la  colpa  che
avevano nella sua rovina, non vollero più udirne parlare.  Le  due  compagne  la
imitarono nella penitenza. Ma il miserabile pervertitore di tutte, bandito nella
testa, dopo d'avere errato qua e là, cangiato più  volte  d'abiti,  e  di  nome,
chiese asilo in città ad un amico, che lo accolse; ma come amico d'un tale uomo,
o per timore, o per ottener grazia di qualche altro delitto, lo fece uccidere in
un sotterraneo della casa,  e  presentò  la  sua  testa  al  giudice,  come  era
prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso dei banditi costituivano
carnefice ogni cittadino, e offerivano o danari, o impunità per altri delitti in
mercede all'assassinio. --------- Lucia uscì nella via, e s'incamminò con grande
attenzione, con gran riserbo, con un gran battito al cuore,  tutta  raccolta  in
sè, studiando la strada, con le indicazioni che aveva avute, e  con  la  memoria
che le restava della strada già fatta. Giunse così all'uscita del borgo  (perché
il convento dov'ella s'avviava era al di fuori in picciola distanza):  riconobbe
la porta per dov'era entrata la prima volta, e prese a sinistra la via che l'era
stata insegnata. Tutte le  strade  del  Milanese  erano  a  quel  tempo  anguste
tortuose, e nel pian paese profonde e come quivi si dice invallate, a  guisa  di
un letto di fiume, fra due rive di campi alte non di rado un uomo, e  orlate  di
piante che intrecciate al pedale di rovi, di biancospini, e di  pruni  riunivano
in alto i rami loro in volta dall'una all'altra parte: e  tali  sono  ancora  in
gran parte le strade comunali. Quando Lucia  si  trovò  soletta  in  una  strada
simile, si pentì quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo per giunger
presto, proponendo fermamente di non ritornar dal  convento  a  casa  senza  una
qualche scorta. Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una  carrozza  da
viaggio ferma nel mezzo della via, e fuori della carrozza innanzi allo sportello
che era aperto due uomini che guardavano su e giù per la via  come  incerti  del
cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali  vanno  in  carrozza
sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e le  parve  d'aver  trovata
una  salvaguardia  alla  metà  appunto  del  cammino,  nel  luogo  più   lontano
dall'abitato,  e  dove  il  bisogno  era  più  grande.  Continuò   adunque   più
animosamente a camminare;  e  quando  fu  presso  alla  carrozza  tanto  che  si
potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che  stavano  al  di  fuori
dire con una pronunzia e con un linguaggio che lo fece  conoscere  a  Lucia  per
bergamasco: «Ecco una buona donna che c'insegnerà  la  strada».  Giunta  a  paro
della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto più cortese che non  fosse
la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste voi insegnarci la  strada  di
Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto dinanzi a Lucia  in  modo  da
sbarrarle la via, ma come un uomo che sta per  udire:  «Loro  signori»,  rispose
Lucia, «sono voltati a rovescio:  Monza  è  per  di  qua»  (alzando  la  mano  e
stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino la carrozza, e vadano per
questa strada, e saranno a Monza in poco più d'un miserere». Così  detto,
voleva continuare il suo cammino, e s'avvicinava alla  riva  per  passare  senza
urtare quel forastiero che stava lì ritto come un termine, e  senza  dirgli  che
facesse largo, cosa che  alla  nostra  povera  forese  sarebbe  sembrata  troppo
famigliare. «Un momento», disse colui che  le  aveva  già  parlato,  ritenendola
dolcemente: «noi siamo ben impacciati in queste  strade  dell'altro  mondo:  non
potreste voi farci la cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci  la
strada fino a Monza?» «Signori miei», disse Lucia arrossando, e  maravigliandosi
della proposta, «io ho fretta d'andare pei fatti miei; vadano per di qua, e  non
possono fallire». «Voi siete bene schifa», rispose il malandrino, e mentre  egli
proferiva queste poche parole, l'altro che era nella via,  afferrò  d'improvviso
Lucia pei fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza  nella
carrozza, dove fu tosto presa, ritenuta, posta a sedere da due che vi erano:  il
malandrino che aveva parlato  la  seguì,  l'altro  chiuse  lo  sportello,  e  il
cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo.  Lucia  al  sentirsi
presa levò un grido, lo  raddoppiò  quando  si  sentì  alzata  e  ficcata  nella
carrozza, ma quando vi fu, una manaccia villana le cacciò  un  fazzoletto  sulla
bocca, e le soffocò il grido nella gola: Lucia si divincolava ma era  tenuta  da
tutte le parti, faceva forza per pingersi verso lo sportello, per  farsi  vedere
alla strada, ai campi, ma due braccia nerborute la tenevano per di  dietro  come
conficcata al fondo della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano per
dinanzi, mentre tre bocche d'inferno dicevano con la voce più dolce che era  lor
concesso di formare: «Zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi  male;
non è niente, non è niente». Lucia tra per la sorpresa, tra per lo  terrore  che
andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti orrendi  che  le
passavano in furia per la mente, tra per lo  sforzo  che  faceva  e  quello  che
pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue idee si abbujarono, cominciò  a  veder
come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le stavano dinanzi, un sudore
freddo le coperse il volto, allentò le braccia, lasciò cadere indietro la testa,
abbandonò la persona al fondo della carrozza,  e  svenne.  «Coraggio,  coraggio»
dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più nulla.  «Diavolo!»  disse  uno
dei malandrini; «par morta». «Niente, niente», disse un altro, «ci  vorrebbe  un
po' d'aceto da mettergli sotto il naso».  «È  lì  covato  l'aceto...»  disse  il
terzo: «se potesse servire quel fiasco  di  vino  che  è  riposto  lì  sotto  il
sedile». «Che vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere». «Vedete che mala
ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi  arso  di  sete  in  una  osteria
disabitata, a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto ci vorrebbe...» «Taci
gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo. «Ohe!»  disse
il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero avremmo fatta una  bella
spedizione». «Noi abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo;
«se fosse accaduta una disgrazia non è nostra  colpa».  «Che  morta?»  disse  il
terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto: eh! le donne ne hanno  per  meno
d'assai: or ora  tornerà  in  sè».  Mentre  quegli  sciagurati  tenevano  questo
consiglio, ed esprimevano la loro inquietudine  in  uno  stile  degno  del  loro
animo, la carrozza era  uscita  dalla  via  più  battuta,  aveva  imboccata  una
stradella di traverso pei  campi,  e  continuava  rapidamente  il  suo  cammino.
Intanto colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio rimasto nella
strada quando la carrozza partì, si guardò intorno, e certo che nessuno lo aveva
scorto spiccò un salto sul pendio d'una riva, abbrancò un ramo della siepe,  con
un altro salto fu sull'alto della  riva,  e  si  appiattò  in  un  polloneto  di
castagni che conservavano  ancora  tanto  delle  lor  foglie  da  nascondere  un
birbone. Il primo grido di Lucia era stato inteso nei campi di qua e  di  là  da
pochi lavoratori che v'erano, e questi accorsero alla riva  per  guardare  nella
strada che fosse, ma cercando di adocchiare nascosti dalla siepe per non entrare
in qualche impiccio, per non toccarne, per non essere citati come testimonj, per
non arrischiarsi in somma, che è il pensiero il più comune nei tempi  in  cui  i
violenti fanno la legge. Mettevano la faccia ai fori della  siepe  e  guatavano:
altri vide una carrozza che si allontanava di galoppo, e stette lì qualche tempo
a seguirla col guardo a bocca aperta; altri non  vide  nulla  e  si  fermò  pure
qualche tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui  la  carrozza
non era ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca  d'arcobugio
che usciva dallo sportello, e si ritirò tosto,  fingendo  di  non  aver  nemmeno
badato. Tornati poi a casa, raccontarono quello che avevano veduto, e si  sparse
la voce che qualche cosa era accaduta. Il  bravo  d'Egidio  quando  sentì  tutto
quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava  su  una  via
diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità se ne andò a render
conto al padrone dell'esito felice della spedizione.  Egidio  lo  ricompensò  di
quattrini e di lodi, e lo mandò tosto attorno per raccontare la novella nel modo
che ad entrambi e ai loro amici  conveniva  che  fosse  creduta,  o  almeno  per
confondere il giudizio  pubblico  e  stornarlo  dalle  congetture  che  potevano
condurlo alla verità. Il bravo tolse con sè, senza saperlo, quella  dea  che  ha
tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere una  bella
dea) e si avviò. Il campo più opportuno ad un tal uomo e ad un tale ufficio,  la
taverna, era allora deserto a cagione della carestia che  di  giorno  in  giorno
cresceva e si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e bere non era
più per nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per  tutti  un  bisogno
difficile da soddisfare. Andò dunque in su la piazza, luogo sempre  popolato  di
oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in cui erano  forzati  all'ozio
anche i più operosi. Quella piazza di Monza come tutte le piazze, tutte le  vie,
tutti i campi della Lombardia presentava il più  tristo  spettacolo.  Poveri  di
professione che dopo d'avere invano domandato un  soccorso  ad  uomini  divenuti
poveri anch'essi, stavano in fila l'uno appresso  dell'altro  appoggiati  ad  un
muro soleggiato  stringendosi  di  tempo  in  tempo  nelle  spalle,  aggrinzati,
cenciosi, aventi un bordone nella destra,  e  tenendo  stretta  tra  il  braccio
sinistro e le costole una arida scodella di legno, aspettando l'ora  d'andare  a
ricevere quel poco nutrimento che si poteva distribuire alle porte dei conventi,
dei monasteri, di qualche facoltoso caritatevole. Qua e là crocchj di  artigiani
senza lavoro, di contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati
ma che in quell'anno sapevano di dover combattere con  la  fame,  tutti  tristi,
sparuti, scorati: i più rubesti,  i  meglio  pasciuti  che  si  vedessero  erano
qualche bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a cui servivano, e  ai
quali nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un  pronto
pagamento. I discorsi abituali di quei crocchj  erano  miseria  e  disperazione:
vociferazioni  contra  i  fornaj  e  contra  gli  accapparratori,   imprecazioni
mormorate sommessamente contro i potenti, contra i magistrati, racconti di grano
partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti in altre
terre dello stato. Pochi giorni prima una gran parte del popolo si era sollevata
in Milano; e dopo quel sollevamento estinto con le promesse,  e  seppellito  coi
supplizj, si erano pubblicate leggi quali il popolo le desiderava. Questo  fatto
era stato in tutta la Lombardia ed era ancora il soggetto  dei  discorsi;  e  il
fatto come le conseguenze era narrato diversamente, come suole accadere:  ognuno
arrecava qualche nuova circostanza che dava luogo a qualche  nuova  riflessione.
Ma in quel momento in Monza l'avvenimento locale occupava tutti  i  pensieri,  e
tutte le bocche: in tutti i crocchj si parlava di Lucia. Il bravo si avvicinò ad
uno di quelli, come uno sfaccendato, e stette ascoltando. «Erano due carrozze di
signori bergamaschi» diceva un barbassoro, «accompagnate da uomini a cavallo: la
giovane si mise a fuggire pel campo  di  Martino  Stoppa,  ma  fu  raggiunta,  e
portata via di peso». E continuò con  voce  più  sommessa  in  aria  misteriosa:
«debb'essere qualche gran tiranno bergamasco». «Io ho inteso da chi l'ha  inteso
da uno che v'era», disse un altro, «che le carrozze erano tre, e che la gente le
fece fermare; ma quei signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi capite, i
galantuomini hanno dovuto dar luogo». «Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come
le cose si contano. A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la
giovane era daccordo, che si era trovata lì per andarsene, e che quegli che l'ha
portata via era un suo innamorato». «Oh», disse uno, «se la cosa fosse così,  se
ne sarebbe andata senza schiammazzo». «No»,  rispose  il  bravo,  «perché  aveva
promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva  far  credere  di
esser rapita. Così dicono quelli  che  pretendono  d'essere  informati».  «Ohe!»
disse un altro barbassoro, «che la fosse una mostra per ingannare  i  merlotti!»
Questa opinione dopo un breve dibattimento prevalse; perché essendo  quella  che
supponeva nel fatto una malizia  più  raffinata,  veniva  a  supporre  più  fino
accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse rifiutata poteva  passare  per  un
semplicione da lasciarsi ingannare  alle  più  grossolane  apparenze  di  virtù.
Quando il degno servitore di Egidio vide che  la  sementa  non  era  gittata  in
terreno sterile e che avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo:  «Oh
avete il buon tempo voi altri: per me m'accontenterei che  sparissero  tutte  le
giovani purché venissero pagnotte abbastanza». Quegli altri ad  uno  ad  uno  se
n'andarono chi qua chi là a riferire la storia; si disputò  assai;  le  opinioni
rimasero divise, ma la  più  preponderante  fu  quella  che  dava  occasione  di
ragionare profondamente sulle astuzie delle donne che fanno la  semplice,  sulla
dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta quella mozzina.  Il  tiro  della
povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si  riferirono  di  lei  mille
altre astuzie. Il romore giunse ben presto al monastero: già la fattora  tornata
a casa, non trovando Lucia, sulle prime pensò ch'ella fosse andata  alla  Chiesa
del monastero; non vedendola poi ricomparire, stava per andarne in cerca, quando
s'intese che Lucia era stata rapita, o si era  fatta  rapire.  Il  monastero  fu
sottosopra. La Signora (quando ci siamo rallegrati di non aver più a parlarne ci
era uscito di mente che avremmo dovuto far  qui  menzione  di  essa:  ma  ce  ne
sbrigheremo in due parole) la Signora a tutto addottrinata fece  le  maraviglie,
mandò gente in cerca, non volle credere che Lucia le avesse  fatto  un  tiro  di
questa sorta, disse che era pronta  a  metter  la  mano  nel  fuoco  per  quella
ragazza.  Mandò  finalmente  a  chiamare  il  padre  guardiano  che  gliel'aveva
raccomandata. Ma il padre guardiano al quale pure erano giunti i diversi  romori
del fatto era in istrada, per udire dalla Signora come  la  faccenda  fosse.  La
Signora si mostrò con lui come con  gli  altri  tutta  maravigliata:  disse  che
sperava ancora che Lucia verrebbe, che sarebbe una di quelle  tante  ciarle  che
mettono attorno gli scioperati. «Se m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non  lo
posso credere di quella ragazza. Ad ogni modo io  sono  tanto  più  afflitta  di
questo tristo accidente, in quanto io aveva pensato seriamente ad ajutare questa
povera giovane, e credeva di aver trovato ajuti nelle mie aderenze per  metterla
al sicuro dal suo persecutore. Aveva anzi molto desiderio di sentire  il  parere
del padre guardiano, ma ora questi disegni non servono più a  nulla».  È  chiaro
che la Signora gittò queste  poche  parole,  per  potere  in  caso  spiegare  la
commissione da lei data a Lucia, se mai questa potesse un giorno rivelarla;  per
potere allora far vedere che non era stato un pretesto per allontanarla, e darla
in mano ai rapitori. Ma della commissione la Signora non ne parlò al  guardiano;
probabilmente perché non voleva che si dicesse che Lucia si era posta su  quella
strada per suo ordine, e ne nascesse  qualche  sospetto.  Se  questa  fosse  una
storia inventata, non mancherebbe certamente qualche lettore il quale troverebbe
un gran difetto di previdenza nella perfidia ordita da Egidio e  dalla  Signora,
poiché se Lucia avesse un giorno potuto parlare, se si fosse risaputo che quando
fu presa ella andava per ordine di Geltrude, quanto maggior sospetto non sarebbe
caduto sopra di questa, per avere essa  taciuta  al  guardiano  una  circostanza
tanto importante, della quale doveva così ben ricordarsi, che non avrebbe  certo
dissimulata se avesse operato schiettamente. Quei lettori i quali vorrebbero che
in una storia anche le insidie fossero fatte perfettamente, se la  prenderebbero
coll'inventore: ma questa critica non può aver luogo perché noi raccontiamo  una
storia quale è avvenuta. Del resto questo stesso difetto ci dà il campo di porre
qui una riflessione consolante in mezzo ad un  sì  tristo  racconto:  che  è  un
disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice del mondo, che  le  perfidie
le più studiate a danno altrui non sono mai  tanto  bene  studiate,  tanto  bene
eseguite che non rimanga sempre qualche traccia della mano  che  le  ha  ordite.
L'uomo che intraprende una buona azione, quando sia un po' avvezzo a  riflettere
prevede sovente che non sarà senza inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte
troppo buona nelle cose di questo mondo se dovessero nelle loro birberie  essere
esenti da ogni perplessità.

CAPITOLO X

La  carrozza  correva  tuttavia  velocemente,  gl'indegni  guardiani  di  Lucia,
consultavano non senza sollecitudine su lo stato di essa, guardandola fisamente,
cercando nel suo volto pallido e immobile le apparenze  della  vita,  aspettando
ansiosamente ch'ella ne desse  alcun  segno;  quando  la  poveretta  cominciò  a
rinvenire come da un sonno profondo, diede un sospiro, e aperse gli occhi.  Penò
qualche  tempo  a  distinguere  i  luridi  oggetti  che  la  circondavano,  e  a
raccappezzare le idee già confuse,  e  incerte  che  avevano  preceduto  il  suo
deliquio, a confrontarle con le  prime,  che  si  affacciavano  alla  sua  mente
ritornata: finalmente a poco a  poco  riprendendo  le  forze  riprese  tutto  il
pensiero, e comprese la sua orribile situazione. I bravi, senza ardire di  porle
le mani addosso, e guardandola con un certo rispetto le andavano facendo  animo,
e  ripetendo:  «coraggio,  non  è  niente,  non  vogliamo  farvi   male:   siamo
galantuomini». Il primo uso che fece Lucia della vita fu di gittarsi  con  forza
verso lo sportello  per  vedere  dove  fosse,  se  gente  passasse,  se  potesse
lanciarsi al di fuori ad ogni pericolo: ma appena potè  scorgere  che  il  luogo
ch'ella attraversava rapidamente era un bosco, che anima vivente non v'era:  che
le braccia villane che l'avevano già conficcata la prima volta  al  fondo  della
carrozza, ve la conficcarono di nuovo. Levò ella allora un altro  grido,  ma  la
stessa manaccia tornò in furia con lo stesso fazzoletto, e il padrone di  quella
manaccia disse nello stesso momento: «Facciamo i nostri patti: noi non vi faremo
male, non vi toccheremo, ma voi non cercherete né di fuggire né di gridare:  già
è inutile, ma pure se voleste tentarlo, noi siamo  qui,  amici  o  nemici,  come
vorrete». «Lasciatemi andare», disse Lucia con voce  soffocata  dallo  sdegno  e
dallo spavento: «lasciatemi andare subito, subito: io non son vostra, lasciatemi
andare». «Non possiamo», rispose il malandrino. «Dove mi conducete?  dove  sono?
voglio andare al convento dei cappuccini».  «Ohibò  ohibò»,  disse  sogghignando
colui, «che le ragazze non istanno bene coi cappuccini. Venite con noi di  buona
voglia». «No no», rispose Lucia alzando la voce; ma  il  fazzoletto  fu  alzato.
«Lasciatemi andare per amor di Dio», ripigliò ella con voce più fioca. «Dove  mi
conducete?» «In  casa  di  galantuomini,  vicino  a  casa  vostra»,  rispose  il
malandrino. «No no», disse ancora Lucia: «lasciatemi andare». «Ma  se  questo  è
contra i nostri ordini», rispose un altro. «Chi  vi  può  dare  questi  ordini?»
domandò  Lucia:  «ricordatevi   della   giustizia,   ricordatevi   dell'inferno,
ricordatevi della morte». «Pensieri tristi», replicò quello dal fazzoletto: «voi
ci volete far malinconia, e noi vi  conduciamo  a  stare  allegra».  «Santissima
Vergine ajuto!» gridò Lucia, ma il malandrino con volto iracondo le protestò che
s'ella gridava un'altra volta, il fazzoletto sarebbe  rimasto  sulla  sua  bocca
fino a ch'ella fosse giunta al luogo destinato. E  sforzandosi  d'esser  garbato
aggiunse: «già  siamo  vicini:  parlerete  con  chi  può  comandare:  noi  siamo
servitori che facciamo il nostro dovere: è inutile  che  ci  diciate  le  vostre
ragioni». «Oh  per  amore  di  Dio,  della  Madonna»,  riprese  Lucia  in  tuono
supplichevole, con voce interrotta da singulti, e senza pur pensare ad asciugare
le lagrime, che le rigavano tutta la  faccia:  «per  amore  di  Dio,  lasciatemi
andare: io sono una povera creatura, che non vi ha mai fatto  male:  vi  perdono
quello che mi avete fatto, e pregherò Dio  per  voi:  se  avete  anche  voi  una
figlia, una moglie, una madre, qualche persona  cara  a  questo  mondo,  pensate
quello che patirebbero se fossero in questo  stato:  pensate  all'anima  vostra;
fate una buona opera che vi può salvare: fatemi questa carità, acciocché Dio  vi
usi misericordia,  lasciatemi  qui».  «Non  possiamo»  risposero  tutti  e  tre;
commossi alquanto da quel lamento. «Non  possiamo»,  ripetè  il  capo;  «ma  non
abbiate paura, fatevi  animo;  già  non  vi  conduciamo  in  un  deserto:  state
tranquilla: se volete parlare noi vi risponderemo; se  volete  tacere,  noi  non
parleremo: non temete, nessuno vi  toccherà»;  e  così  dicendo  si  ristringeva
contra la carrozza lasciando più spazio a Lucia perché  stesse  meno  disagiata,
perché non fosse oppressa da  una  vicinanza  ch'egli  stesso  sentiva  in  quel
momento quanto dovesse essere incomoda e ributtante. Gli altri due, si  andavano
pure ristringendo dal loro lato, facendo luogo a  Lucia,  e  tenendosi  come  in
distanza, stornando gli occhi da quel volto accorato, ma fermi nel  loro  atroce
proposito di eseguire la commissione: come il  villanello  che  a  fatica  si  è
arrampicato all'albero per togliere un uccelletto dal nido,  e  lo  tiene  nelle
mani, e lo sente dibattersi e tremare, e sente il cuore  della  povera  bestiola
battere affannosamente contra la palma che lo stringe; prova pure qualche pietà:
allenta le dita alquanto per non affogare la  povera  bestiola,  per  non  farle
male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no!  il  figlio  del
padrone gli ha chiesto l'uccelletto, gli ha promessa  una  bella  moneta  s'egli
sapeva snidarlo e portarglielo vivo. Lucia dopo avere  ancora  indarno  pregato;
«ditemi dove mi conducete», richiese di nuovo. «In casa di galantuomini,  e  non
vi possiamo dire altro», rispose quegli che le stava vicino. Lucia  vedendo  che
le preghiere riuscivano inutili come la resistenza, e  stanca  dell'ambascia,  e
dello stento, incrocicchiò le braccia sul petto, si  strinse  nell'angolo  della
carrozza, in silenzio: e perduta ogni speranza di soccorso umano, si  rivolse  a
Dio da cui tutto sperava; e pregò fervidamente da prima col cuore;  indi  cavato
di tasca il rosario che teneva sempre con sè,  cominciò  a  recitarlo  con  voce
sommessa. I bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva,
e sospirando tutti il fine di quella spedizione:  e  Lucia  di  tempo  in  tempo
fermandosi nella sua preghiera a Dio, per voltarsi a coloro in forza  dei  quali
ella si trovava, e ricominciava a supplicarli: ma non  udiva  rispondersi  altro
che: «non possiamo». La sua preghiera  era  esaudita,  ma  il  momento  non  era
venuto. Erano già due ore che la carrozza correva, sempre per  istrade  deserte,
attraversando boscaglie, e campi abbandonati alla felce ed alla scopa (una  gran
parte del territorio milanese era allora ridotta a quello  stato  dalle  guerre,
dalle gravezze insopportabili, dall'ignoranza, dalla specie di barbarie  insomma
in cui erano gli abitanti, e i legislatori). Il sole declinava verso l'orizzonte
quando Lucia sentì  un  romore  continuo  sempre  crescente,  come  di  un'acqua
rapidamente corrente. Era l'Adda infatti a cui la  carrozza  si  avvicinava:  il
bravo che stava sulla serpe accanto  al  cocchiere  urtò  col  gomito  chiamando
quelli di dentro; uno di essi pose la testa fuori dello sportello, e l'altro gli
disse: «il battello c'è». «Ah! bravo» dissero tutti e tre quei di dentro. Lucia,
vedendo che si stava per fare qualche  cosa  da  cui  doveva  decidersi  il  suo
destino, ricominciò le sue preghiere, ma il vicino lieto  di  essere  alla  fine
della sua incombenza, e di non aver più a combattere con le  istanze  di  quella
infelice, le impose silenzio dicendo: «Zitto zitto; abbiamo altro in capo che di
darvi retta ora: siamo occupati». La carrozza si  fermò  presso  la  riva,  quel
della serpe fece un segno a cui fu risposto dal battello, e  tosto  ne  uscirono
tre bravi con una vecchia, e si avviarono verso la carrozza. Lucia strillava,  i
bravi le comandavano di tacere replicando: «non abbiate paura,  e  già  tutto  è
inutile; son tutti nostri amici». Lucia allora si rannicchiò tutta alla carrozza
invocando la Vergine nel cuore, e proponendo di lasciarsi piuttosto uccidere che
di uscire volontariamente da quel luogo, il quale per quanto orrendo le fosse le
pareva un asilo poiché vi aveva passate due  ore,  e  non  sapeva  dove,  a  che
sarebbe  strascinata  quando  ne  fosse  fuori.  Mentre  si  stava  così   tutta
rannicchiata, udì chiamarsi da una voce femminile, aperse gli occhi e vide  allo
sportello la vecchia rivolta verso di lei. Una donna parve  in  quel  momento  a
Lucia un angiolo del paradiso: si sollevò, e con volto supplichevole, e con  una
certa fiducia le disse: «Oh brava donna, che fate voi qui? ajutatemi, se  questi
sono  vostri  amici  pregateli  che  mi  lascino  venire  con  voi;   salvatemi,
salvatemi». «Scendete e venite con me», rispose  la  vecchia;  indi  rivolta  ai
bravi raggrinzando la fronte e scontorcendo la bocca:  «Maladetti»,  disse,  «le
avete fatto paura?» «Ma la vedete sana e salva...?» rispondeva il  capo;  quando
Lucia, chinandosi e sporgendosi dalla carrozza a prendere con le mani le braccia
della vecchia: «non dite niente», interruppe, «quel che è stato è stato,  purché
mi lascino venire con voi». «Scendete, venite», disse la vecchia.  «Ma  con  voi
sola», rispose Lucia. «Andiamo andiamo», disse ancora la vecchia, e presa  Lucia
la strascinava, mentre i bravi  della  carrozza  l'ajutavano  a  scendere  quasi
portandola. «No no», disse Lucia. «Zitto,  zitto»,  disse  la  vecchia,  «venite
colle buone». «Ma voi siete d'accordo con  questi  scellerati»,  gridava  Lucia.
«Zitto zitto», continuava a  dire  la  vecchia,  e  così  Lucia  fu  portata  al
battello. Guardò intorno e non vide altro che la boscaglia la riva e il fiume  e
il battello; alzò gli occhi, e vide al di sopra delle cime  dei  monti  la  cima
tagliata a sega del Resegone, alle falde  del  quale  era  la  sua  casa,
dov'era sua  madre,  dove  aveva  passati  i  primi  suoi  anni  nella  pace;  e
l'accoramento le tolse anco la forza di gridare;  tutta  grondante  di  lagrime,
affannata, quasi fuor di sè, fu posta a sedere nel battello sotto la  tenda:  la
vecchia le si pose accanto: il capo di quelli che erano venuti in carrozza saltò
pure nel battello, stette al di fuori coi bravi venuti per acqua; i quali  tosto
puntati i remi alla riva ne fecero allontanare il  battello,  pigliarono  l'alto
del fiume, diedero dei remi nell'acqua, e il battello partì. Appena  Lucia  ebbe
ripreso un po' di fiato, si pose ginocchioni dinanzi  la  vecchia,  domandandole
dov'era condotta, pregandola di farla deporre su qualche  riva,  pregandola  pei
nomi i più temuti ed amati dai cristiani; ma la vecchia inflessibile,  immobile,
non rispose altro che «zitto, zitto». Lucia ricominciò a pregare Colui  che  ode
anche quando non risponde, si abbandonò alla sua  provvidenza.  Dopo  forse  due
altre ore di viaggio,  il  battello  approdò:  la  notte  precipitava,  e  Lucia
sbigottita, tremante, non sapeva più in che mondo si fosse: fu tolta  in  questo
stato dal battello, posta in una lettiga, e portata al castello  del  Conte  del
Sagrato. La vecchia accompagnava la lettiga, entrò  insieme  in  casa,  la  fece
deporre in una stanza,  dove  rimase  sola  con  Lucia,  dicendo  a  coloro  che
l'avevano portata, che andassero ad avvertire il  Signor  Conte.  Ma  il  Signor
Conte aveva già intesa dal Tanabuso la relazione del rapimento,  del  viaggio  e
dell'arrivo. «Ebbene», aveva egli detto al Tanabuso, «fatto?»  «Fatto»,  rispose
Tanabuso. «A dovere?» «A dovere». «Non c'è stato bisogno di spiegar le  unghie?»
«Tutto è andato quietamente»; e qui  fece  il  Tanabuso  la  sua  narrazione.  E
aggiunse: «Tutto è corso a verso, com'ella vede, signor  padrone;  ma  una  sola
cosa ci ha dato un po' di disturbo». «Che è?» chiese il Conte. «Quella ragazza»,
rispose il Tanabuso... «quella povera ragazza... un tal guaire, un tal piangere,
un tal pregare... restar lì come morta..., guardarci un po' come diavoli, un po'
con gli occhi pietosi... che... che...» «Che?» disse il Conte; «sentiamo un  po'
questa che vuol essere nuova, ribaldonaccio». «Che  mi  ha  fatto  compassione».
«Ohe!» disse il Conte, «bisognerà che ti dia doppia mancia  per  quello  che  ha
patito il tuo povero cuore». «Possa io  diventare  un  birro  se  non  è  così»,
rispose il Tanabuso; «mi ha fatto compassione. Dico la  verità  Signor  padrone,
avrei avuto più caro che l'ordine fosse stato di darle una  schioppettata,  alla
lontana, prima di sentirla discorrere». «Ora»,  riprese  il  Conte,  «lascia  da
parte la compassione, cacciati la via tra le gambe, vanne diritto al castello di
quel Don Rodrigo... Sai dov'è posto?». Il Tanabuso accennò di  sì:  «fagli  dire
che sei mandato da me, dagli questo  segno  nelle  mani,  e  torna  a  casa.  La
giornata è stata faticosa, ma tu sai che il tuo padrone vuole esser  servito  ma
sa anche pagare...» «Oh  illustrissimo!...»  «Taci,  e  vanne  tosto...  ma  no,
aspetta: dimmi un poco come ha fatto costei per moverti a compassione. Che abbia
un  patto  col  demonio?»  «Niente,  niente,  signor  padrone,  era  proprio  il
crepacuore che aveva quella povera ragazza. Se non avessi avuto un  comando  del
mio padrone...» «Ebbene?...» «L'avrei lasciata andare». «Oh! andiamo  a  vederla
costei; e tu aspetta, partirai domattina... dopo aver ricevuto i miei  ordini...
tanto fa che quello inspagnolato aspetti qualche ora  di  più...  Domattina  sii
all'erta per tempo». Il Tanabuso partì, facendo un inchino, e il  Conte  s'avviò
alla stanza dove Lucia stava in guardia della vecchia. Bussò, disse: «son io», e
tosto il chiavistello di dentro corse romoreggiando negli anelli, e la porta  fu
spalancata.  Lucia  si  stava  seduta  sul  pavimento,  acquattata,   accosciata
nell'angolo della stanza il più lontano dalla porta, nel luogo che  entrando  le
era sembrato il più  nascosto,  si  stava  quivi  aggomitolata,  con  la  faccia
occultata, e compressa nelle palme, tutta tremante di spavento, e quasi fuor  di
sè: al romore che fece la porta, alla pedata del Conte che entrava  trasalì,  ma
non levò la faccia, non mosse membro, anzi  fece  uno  sforzo  per  ristringersi
ancor più tutta insieme; e stette con un battito sempre crescente  aspettando  e
paventando quello che avvenisse. «Dov'è questa ragazza?»  disse  il  Conte  alla
vecchia. «Eccola»,  rispose  umilmente  la  malnata.  «Come?»  disse  il  Conte,
«l'avete gettata là come un sacco di cenci». «Oh  s'è  posta  dove  ha  voluto».
«Ehi! quella giovane», disse il Conte avvicinandosi a Lucia:  «dove  diavolo  vi
siete posta a sedere? alzatevi; non voglio  farvi  male...  lasciatevi  vedere».
Lucia non si mosse. «Peggio per  voi»,  disse  il  Conte;  «se  volete  fare  il
bell'umore. Ah! ah! non sapete dove  siete.  Pretendereste  voi  di  resistermi?
Abbassate subito quelle mani ch'io voglio vedervi». Queste parole  furono  dette
con un tuono così minaccioso, che le mani di Lucia  obbedirono  quasi  senza  il
comando della volontà: e Lucia lasciò vedere la sua faccia spaventata e dolente.
Alzò  ella  allora  gli  occhi  al  volto  del  Conte  che  la  stava  guardando
attentamente; e dopo un momento, gli disse con una voce, in cui al tremito dello
sgomento era mista la sicurezza d'una indignazione disperata: «Che male  gli  ho
fatto io?» «E che male voglio io fare a voi, scioccherella?» rispose  il  Conte,
con voce più mite. «Credete forse d'essere condotta al macello? Verrà un  giorno
che riderete di tutto questo vostro spavento, e riderete forse anche di me,  che
vi rispondo ora così sul serio». «Ridere! oh Dio!»  rispose  Lucia  «ridere!»  e
guardando un momento come smemorata, diede in un nuovo scoppio  di  pianto.  «Sì
sì, tutte voi altre fate così», replicò il Conte. «Ma  perché»,  riprese  Lucia,
«mi fa ella patire le pene dell'inferno? Mi dica che cosa le ho fatto? Oh non mi
faccia più patire così: Dio glielo potrebbe rendere  un  giorno...»  «Dio:  Dio:
sempre Dio coloro, che non hanno niente altro:  sempre  rinfacciar  questo  Dio,
come se gli avessero parlato. Dov'è questo vostro Dio?» «È da per tutto, è qui»,
rispose Lucia: «è qui a vedere s'ella si muove a pietà di me, per  usarle  pietà
in ricambio un giorno. Oh abbia misericordia d'una poveretta, mi  lasci  andare,
lasci ch'io mi ricoveri in qualche Chiesa, su le montagne, in un  bosco.  Oh  lo
vedo; tutto dipende da lei: con una parola ella  mi  può  salvare:  dica  questa
parola. Non so dove sono, ma troverò la strada per andare da mia madre. Oh  Dio!
non è forse lontana: ho visto i  miei  monti:  oh  s'ella  sentisse  quel  ch'io
patisco! non conviene ad un uomo che ha da morire, far tanto patire una creatura
innocente: mi lasci andare; oh se pregherò Dio per lei! la benedirò  sempre».  E
animata nel suo discorso si levò da sedere, si pose in ginocchio, giunse le mani
al petto, e continuò: «Che cosa le costa dire una parola? Non iscacci una  buona
ispirazione, un sentimento di pietà. Oh Dio perdona tante cose per  un'opera  di
misericordia!» - Che pazza curiosità ho avuto di venirla a vedere - pensava  tra
sè il Conte. - Dugento doppie! ne ho bisogno. Costoro vogliono esser ben pagati;
eh! hanno ragione:  espongono  la  loro  vita:  ma  vorrei  piuttosto  toglierne
cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro. «Non  mi  dica  di
no», continuava Lucia, sempre singhiozzando, «sono  una  povera  figlia.  S'ella
provasse a pregare, a pregare, a cercar misericordia senza poterla  ottenere!  E
se le accadesse una disgrazia!... ma no, no io pregherò per lei il Signore e  la
Vergine... mi lasci andare...» «State di buon animo», rispose  il  Conte,  senza
intenzione di nulla promettere, senza sapere egli stesso che senso  avessero  le
sue parole, ma spinto da  un  bisogno  di  far  cessare  quell'angoscia  e  quel
lamento, di consolare quella creatura. «Oh», disse Lucia, «Dio la benedica, ella
mi lascia  andare».  «State  di  buon  animo»,  ripetè  il  Conte,  «cercate  di
riposare... domani... parleremo...» «E voi», rivolto alla vecchia, «voi», disse,
«fate ch'ella non abbia da  lagnarsi  pure  di  una  parola  torta.  Ora  vi  si
allestirà la cena... ristoratevi,  e  dormite  tranquilla».  «No,  no»,  rispose
Lucia, «mi lasci andar subito...» «Domani... domani ci  parleremo»,  replicò  il
Conte, e con un rapido movimento andò verso la  porta,  ed  uscì.  Lucia,  tutta
piena della speranza di ottenere la sua liberazione  si  alzò,  e  volle  correr
dietro al Conte, ma quando si trovò sull'uscio non ardì movere un passo  più  in
là, né chiamare: tornò indietro come spaventata, e si raccosciò di nuovo nel suo
angolo. «Volete dunque cenare?» le disse la vecchia. «No no; badate bene  a  non
partire di qua» rispose Lucia, «ricordatevi di quello che vi ha detto il  vostro
padrone: chiudete la porta». La vecchia obbedì, e tornata: «mettetevi a letto  e
dormite dunque», disse. «No: io non mi voglio movere di qui» replicò Lucia. «Che
pazzie?...» «Non voglio», replicò di nuovo Lucia, risolutamente:  quel  coraggio
di disperazione ch'ella si sentiva da quando a quando era  stato  accresciuto  e
corroborato da quella compassione ch'ella aveva veduta nel Conte,  dalle  parole
di speranza che egli le aveva date, e dagli ordini ch'egli  aveva  lasciati  con
impero alla vecchia. - Ih! ih! che fummo ha costei,  -  disse  tra  sè  la  mala
vecchia. -  Maladette  le  giovani  che  hanno  sempre  ragione  e  quando  sono
svergognate e  quando  fanno  le  smorfiose.  «Badate  a  non  ispegnere  quella
lucerna», disse Lucia. «Sì sì», rispose la vecchia,  e  senza  più  rivolger  la
parola a Lucia si coricò brontolando. Lucia rimase nel suo  angolo.  Era  questo
per lei, in quella orrenda giornata il primo momento di riposo; ma quale riposo.
I pensieri che l'avevano assalita tumultuosamente,  ad  intervalli  nel  giorno,
tornarono tutti in una volta ad assediare la povera sua mente. Le  memorie  così
recenti, così vive, così atroci di quelle ore, di quel viaggio, di quell'arrivo,
si affollavano alla sua fantasia; l'avrebbero oppressa se fossero state  memorie
d'un pericolo trascorso: e che dovevano fare, nel  mezzo  del  pericolo  stesso,
nella durata, nella orribile incertezza dell'avvenimento! Qual passato!  e  qual
presente! quel silenzio,  quella  compagnia,  quel  luogo.  Qual  notte!  e  per
giungere a qual domani! L'infelice intravedeva ben qualche cosa  della  orditura
spaventosa del laccio dove era  stata  tirata,  ma  rifuggiva  dal  pensiero  di
scoprirne più in là. Di quando in quando le parole  di  speranza  del  Conte  la
rincoravano: le andava ripetendo fra sè, s'immaginava di essere l'indomani fuori
di quell'antro con sua madre, ma un altro avvenire possibile  rispingeva  questa
immaginazione, e a tutta forza veniva a collocarsi nella sua mente. Tremava,  si
faceva animo,  sperava,  disperava,  pregava:  le  forze  del  corpo  finalmente
cedettero ad un tale combattimento dell'animo, e Lucia fu presa  da  una  febbre
violenta. Le sue idee divennero più vive, più  forti,  ma  più  interrotte,  più
mescolate, più varie, si urtarono più rapidamente, e la  confusione  togliendole
una parte della coscienza, rese sofferibile una angoscia che altrimenti ella non
avrebbe potuto sofferire e vivere. Nel calore  della  febbre,  le  parve  ad  un
tratto che la preghiera sarebbe stata più accetta, certamente esaudita,  se  con
la preghiera ella avesse offerte in sagrificio  quelle  che  altre  volte  erano
state le sue più liete speranze. L'unica speranza di  quel  momento,  quella  di
uscire da quel pericolo, le parve con questo divenire più  fondata,  più  ferma:
aperse gli occhj, li girò con sospetto e  con  ansietà  nel  barlume  di  quella
stanza; tese l'orecchio, e non udì altro che il russare della vecchia;  si  levò
chetamente, stette ginocchioni; e votò alla Vergine di viver casta, senza  nozze
terrene, s'ella poteva uscire intatta da quel pericolo. Proferito  il  voto,  o,
quello che a Lucia parve tale, ella si sentì come racconsolata; si raccosciò nel
suo angolo, e passò il resto della notte in un letargo febbrile,  interrotto  da
sussulti, e da vaneggiamenti. Il Conte partito da quella stanza andò secondo  il
suo costume a visitare i posti del suo castello, a vedere se  le  guardie  erano
poste ai luoghi stabiliti, se tutto era in ordine, e si chiuse nella sua stanza.
Ma l'immagine di Lucia non l'aveva mai abbandonato nel suo giro; ma quando  egli
si trovò solo nella sua stanza, senza più nulla da fare che d'ascoltare  i  suoi
pensieri, e di dormire se avesse potuto, quella immagine più viva,  più  potente
si pose a sedere nella sua mente, e  vi  stette.  -  Che  sciocca  curiosità  da
femminetta, m'è venuta, - andava egli pensando, -  di  andare  a  vedere  questa
giovane? Ho dovuto sentire dalla sua  bocca  di  quelle  cose  che  nessun  uomo
vivente avrebbe ardito dirmi sul volto. Le ho sentite, e mi seccano. Perché  non
è figlia d'uno spagnuolo? o di qualcuno  di  quei  sozzi  birbanti  che  m'hanno
bandito: che avrei goduto di sentirla guaire, di vederla tremante ai miei piedi.
Ma costei non mi ha mai  fatto  male...  Ecco,  lo  andava  ripetendo...  pareva
sapesse  che  questa  era  la  corda  da  toccare   per   farmi   compassione...
Compassione!... ma certo io ho avuto compassione: la sento ancora...  e  qualche
cosa  di  peggio...  Che  diavolo  ho  io  addosso  questa  notte?...  Ha  fatto
compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva ragione quella  bestia,  quando  disse
che sarebbe stato men  male  averle  data  una  schiopettata...  Poveretta!  una
schiopettata... no credo che  mi  avrebbe  fatto  compassione  anche  morta.  Eh
sciocchezza! i morti almeno non si stanno a guardare, non si sentono, non vi  si
mettono ginocchioni davanti... è un conto saldato. Dicono mo'  i  preti  che  un
giorno hanno a risuscitar tutti quanti! Poh! imposture! imposture, non  è  vero,
non  è  vero.  Vorrebb'essere  una  bella  processione.  E  qui  cominciarono  a
schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli aveva cacciati o  fatti
cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor  giovanetto  aveva  passato
con una stoccata per una rivalità  d'amore,  fino  all'ultimo  che  aveva  fatto
scannare per servire alla vendetta di un  suo  corrispondente;  tutti  coi  loro
volti, nell'atto del morire, e quelli che  egli  non  aveva  veduti,  ma  uccisi
soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i volti e gli atti. - Via,  via,
sciocchezze, - diceva: - sono io diventato un ragazzo? domani  a  giorno  chiaro
riderò di me. E se domani a sera costoro mi tornassero  in  mente?  che  dovessi
passar sempre la notte così? Diavolo! comincio ad invecchiare: vorrebb'essere un
tristo vivere, e un tristo... morire. Che cosa m'ha detto quella poveretta?  «Oh
Dio perdona tante cose per  un'opera  di  misericordia...»  Che  sa  mai  quella
contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo ha  creduto.  Imposture.  Ho  sempre
detto imposture, e quando aveva proferita questa parola,  bastava...  ma  adesso
non serve... tornano sempre quei pensieri. Sono  io  quello?  Sono  stato  tanto
tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto  l'animo  di  farne  tante,  tante...
Ebbene! ne ho fatte troppe... se  non  le  avessi  fatte...  in  verità  sarebbe
meglio. A buon conto l'opera di misericordia sono in tempo di farla. Poniamo che
appena fatto il giorno io entri nella sua stanza: la poveretta si  spaventa;  ma
io le dirò subito, subito: «vi lascio in libertà, vi farò condurre a  casa».  Oh
come si cangerà in volto! che cose mi dirà! mi darà  delle  benedizioni  che  mi
faranno bene. Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà. e  ricordarmene  per
pensarvi la notte. Oh! sono fanciullaggini... ma  a  buon  conto  io  non  posso
dormire. Ma quando verrà giorno! Che notte eterna! Mi pare  quella  notte  ch'io
passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario  di  Vercellino  che  doveva
tornare dal festino di corte... Ecco, io stava lì cheto, cheto;  quando  sentiva
una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli,  ed  io  ritto  e  cheto  nel  mio
angolo: sento una pedata che mi par quella, sporgo il  capo,  guardo,  è  colui:
fuori, addosso col mio stocco: mandò un gemito, e  mi  cadde  sulle  gambe,  gli
diedi una spinta, e me ne andai... Oh che coraggio aveva allora! era un uomo!  e
in un momento sono diventato... che cosa son diventato? che è accaduto? non  son
sempre quello? Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva
pensare così un giorno, era meglio che avessi pensato così sempre. Vieni o  luce
maledetta, ch'io possa uscire da questo covaccio di triboli, e andare  a  vedere
quella ragazza. Ma devo lasciarla andare? Vedremo: vedremo come mi  sentirò.  Se
potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei coll'animo di questa mattina!
In questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato  quasi  tutta  la  notte;
finalmente, non essendo il giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si  assopì.
Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua veglia,  trasmutati  ora  alquanto  e
rivestiti di forme più strane e più terribili lo accompagnarono nel  sonno.  Era
già levato il sole, e il Conte stava affannoso sotto  il  giogo  di  quei  sogni
rammentatori, quando a poco a poco egli cominciò  a  risentirsi  scosso  come  e
quasi chiamato da un romore monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il
sonno e la veglia,  e  finalmente  tutto  desto,  e  gettato  un  gran  sospiro,
riconobbe un suono festoso di campane,  e  pensò  che  potesse  essere,  né  gli
sovvenne di cosa che potesse essere allora cagione di festa. Si alzò,  si  vestì
rapidamente, e prima d'andare alla stanza di Lucia (che  la  risoluzione  gliene
era rimasta) si fece alla finestra della sua  stanza  che  dominava  il  pendio,
prima rapido, poi più lento e quasi piano fino al lago;  e  qua  e  là  villaggi
sparsi, e case solitarie. Guardò intorno, e vide contadini e contadine in  abito
da festa per tutti  i  viottoli  avviarsi  verso  la  strada  che  conduceva  al
Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi quelli che s'incontravano in aria
di premura e di festa. - Che diavolo hanno in corpo costoro? - diss'egli fra sè,
e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione di quel movimento e  di
quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera antecedente che il  Cardinale
Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto improvvisamente a  Lecco  per
visitare le parrocchie di quei contorni; che quella mattina doveva  trovarsi  ad
una chiesa (che nominò, ed era alla metà della via, distante  circa  due  miglia
dal castello) e che tutti accorrevano a vedere quell'uomo il quale  dovunque  si
portasse attraeva sempre folla. Il Conte  congedò  con  un  cenno  del  capo  il
fidato, e rimase ancora un momento alla finestra a guardare, dicendo fra  sè:  -
Come sono contenti costoro! E perché? Perché è arrivato un uomo che si porrà  un
bell'abito, e darà loro delle parole, e  alzerà  le  mani  tagliando  l'aria  in
croce. Oh! come  saltano:  sembrano  cavriuoli:  eh!  avranno  forse...,  certo,
dormito meglio di me! Tanto contenta questa canaglia... ed io...  Voglio  andare
anch'io; voglio  veder  quest'uomo,  che  li  fa  esser  tanto  vogliosi,  tanto
contenti. Andrò, andrò. Voglio parlargli; voglio un po' sentire  se  ha  qualche
cosa anche per me! vedere quel  volto,  sentire  queste  sue  parole  che  fanno
sparire le afflizioni. Voglio vedere se ha ancora quegli occhj che  hanno  fatto
abbassare i miei... cospetto... cinquant'anni sono. Era uno strano giovanetto! E
ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio d'allora certamente!  Ma  che
ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che fare? che dirgli?  Certo  mi
mostrerà due occhj più arrovellati di quel giorno... Non importa: voglio  andare
a sentire che parole ha costui, per render la gente così allegra. L'occhiata che
aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di rimembranza
nella mente del Conte era stata data nella occasione che ricorderemo brevemente.
Federigo Borromeo, giovanetto allora di 15  anni  si  trovava  nella  chiesa  di
Giovanni in Conca nel giorno solenne di quel santo; e aveva pregato  e  invitato
poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e quivi assisteva pensoso e
riverente al rito che  si  celebrava.  Quando  una  brigata  di  giovanetti,  di
adolescenti delle principali famiglie della città, entrata a turba nella  Chiesa
per curiosità, e visto in  quel  luogo  il  giovane  Federigo,  che  sempre  con
l'esempio, e talvolta con le  parole  gli  faceva  vergognare  del  loro  vivere
superbo scioperato molle e violento, s'accordarono di  fargli  fare  una  trista
figura, di vendicarsi, e di divertirsi un momento a sue spese.  Rotta  la  folla
s'avvicinarono all'altare, e appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare
i più strani e beffardi atti del mondo, storcer le bocche, torcere il collo come
chi irride un ipocrita, cacciare un palmo di lingua, sghignazzare. Il Conte  che
fu poi del Sagrato era tra essi, anzi queglino erano con lui;  perché  egli  non
era mai stato secondo in nessun luogo, e in nessun fatto. Federigo,  contristato
e mosso a pietà ed a sdegno nello stesso tempo, ma non confuso, girò  su  quella
turba un'occhiata che esprimeva tutti questi affetti con una gravità tranquilla,
ma più potente dell'impeto indisciplinato di quei provocatori; quindi piegate le
ginocchia dinanzi all'altare, pregò per essi, i quali partirono  col  miserabile
contegno di chi è stato vinto in una impresa in cui il  vincere  stesso  sarebbe
vergognoso. Torniamo al Conte vecchio: il quale stette in  fra  due,  se  doveva
prima andare alla stanza di Lucia. Dopo aver  pensato  qualche  tempo:  -  no  -
diss'egli fra sè -: non la vedrò: non voglio obbligarmi a nulla; voglio  venirne
all'acqua chiara con questo Federigo. Potrei lasciarla andare,  e  pentirmi.  Se
comincio a fuggire da uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita,  non
son  più  un  uomo.  Parlato  che  avrò  con  costui,  mi  convincerò  che  sono
sciocchezze, e sarò più forte  di  prima...  o  se...  costui...  mi  facesse...
cangiare... son sempre a tempo. Andiamo, sarà quel  che  sarà.  Chiamò  un'altra
donna alla quale in presenza del Tanabuso  impose  che  si  portasse  sola  alla
stanza di Lucia, che vedesse che nulla le mancasse, e che  sopratutto  ordinasse
alla vecchia guardiana di trattarla con dolcezza e con rispetto:  e  che  nessun
uomo ardisse avvicinarsi a quella stanza. Dato quest'ordine,  pensò  se  dovesse
pigliar seco una scorta; e - oh! via, -  disse,  -  per  dei  preti  e  per  dei
contadini? Vergogna! Se vi sarà alcuno che non mi  conosca  non  avrà  nulla  da
dirmi: per quelli che mi conoscono...! Così il Conte solo, ma tutto armato  uscì
dal castello, scese l'erta e giunse nella via pubblica, la  quale  brulicava  di
viandanti: la turba cresceva ad ogni istante: a misura che la fama del Cardinale
arrivato si diffondeva di terra in terra, tutti accorrevano. Ma  in  quella  via
affollata il Conte camminava solo: quegli che se lo vedevano arrivare al fianco,
s'inchinavano umilmente, e si scostavano come per  rispetto,  e  allentavano  il
passo per restargli addietro: taluno di quelli che lo precedevano,  rivolgendosi
a caso a guardarsi dietro le spalle, lo scorgeva, lo annunziava  sotto  voce  ai
compagni, e tutti studiavano il passo, per non trovarglisi in  paro.  Giunto  al
villaggio, sulla piazzetta dov'era la Chiesa, e la casa del  Parroco,  trovò  il
Conte una turba dei già arrivati, che aspettavano il momento in cui il Cardinale
entrasse nella Chiesa per celebrare gli uficj divini. E qui pure tutti quelli  a
cui si avvicinava, svignavano pian  piano.  Il  Conte  affrontò  uno  di  questi
prudenti, in modo che non gli potesse sfuggire e  gli  chiese  bruscamente  come
annojato che era di quel troppo rispetto, dove fosse il Cardinale  Borromeo.  «È
lì nella casa del curato», rispose riverentemente  l'interrogato.  Il  Conte  si
avviò alla casa fra la turba, che si divideva come le acque  del  Mar  Rosso  al
passaggio degli Ebrei, ed entrò sicuramente nella casa. Quivi un bisbiglio,  una
curiosità timida, un'ansia, un non saper come accoglierlo. Egli, rivolto  ad  un
prete gli disse che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di  essergli  tosto
annunziato. Il prete che era del paese, fu contento d'avere una commissione  del
Conte per allontanarsi da lui, e riferì  l'imbasciata  ad  un  altro  prete  del
seguito del Cardinale. Quegli si  ritirò  a  consultare  coi  suoi  compagni;  e
finalmente di mala voglia entrò per dire a Federigo quale visita si presentava.

CAPITOLO XI

Giunti a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo  per  qualche  momento
con gioja, come il viaggiatore del deserto s'indugia  a  diletto  alla  frescura
ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli abbia trovata una sorgente  di  acqua
viva. Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del  quale  apporta
una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla  mente  che
già stia contemplando, e scorrendo fra gli  uomini  i  più  eletti  che  abbiano
lasciato ricordo di sè sulla terra:  or  quanto  più  un  po'  di  riposo  nella
considerazione di lui debb'essere giocondo  a  noi  che  da  tanto  tempo  siamo
condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida,  schifosa  perversità,
dalla quale certamente avremmo  da  lungo  tempo  ritirato  lo  sguardo,  se  il
desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a forza intento! Federigo Borromeo fu
uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i  quali  adoperarono  una  lunga
vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca  «di  ciò  che  è
pudico, di ciò che è giusto, di ciò che è santo, di ciò che è  amabile,  di  ciò
che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e lode di disciplina». Nato coi  più
bei doni dell'animo, il primo  uso  che  egli  fece  della  sua  ragione  fu  di
coltivarli  con  ardore  e  con  costanza,  di  custodirli  con  una  attenzione
sospettosa, come se fino d'allora egli ponesse cura a  conservare  tutta  bella,
tutta irreprensibile una vita, che in progresso di tempo avrebbe avute età  così
splendide: e infatti la vita di lui è come un ruscello che  esce  limpido  dalla
roccia, e limpido va a sboccare nel  fiume:  tutto  ciò  che  si  sa  di  lui  è
gentilezza, e sapienza: e gli errori stessi che  la  prepotenza  dell'universale
consenso aveva imposti alla sua mente, sono sempre accompagnati e quasi  scusati
da una intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della  vita  è  stata
per lui un esercizio di tutte  le  virtù.  Fanciullo  grave  e  sobrio,  giovane
pensoso  e  pudico,  uomo  operoso  quant'altri  mai  fosse,  senza  mai   nulla
intraprendere, né maneggiare, né condurre a fine per  un  interesse  privato  di
qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le virtù più
difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo che escludessero i  pregi  più
comuni in quella età a tutti gli uomini. Nutrito tra le  pompe  e  lo  splendore
delle ricchezze, fra quel basso corteggio che coglie i fortunati del secolo alle
prime porte della vita, per corromperli, per  cattivarli,  per  farli  fruttare,
egli scorse dai primi suoi giorni che l'umiltà, e la  staccatezza  sono  verità,
bellezza, e le prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste  cugino  San
Carlo, in presenza di quella virtù severa, e  malinconica,  l'animo  puerile  di
Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì l'ammirazione e  la  docilità
volonterosa per la virtù. Si diede ardentemente allo studio dalla  fanciullezza:
ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la confusione e la  stoltezza  delle  cose
insegnate,  il  sopracciglio  comicamente  grave  dei  maestri  lo   svogliarono
dall'apprendere; e fu questo, o doveva essere il primo  segno  della  eccellenza
del suo ingegno. Stomacato dei libri e delle lezioni si diede tutto  all'armi  e
ai cavalli; ma durò in quegli esercizj sol tanto  quanto  bastasse  a  mostrarlo
disposto ad ogni esercizio che domandi una prontezza  di  qualunque  genere.  Il
fanciullo voleva sapere, e andava interrogando tutti  quegli  che  egli  credeva
sapienti; e da tutti gli veniva risposto, che  i  libri  e  la  scuola  soltanto
potevano condurlo alla scienza. Sospinto da questa uniformità di consenso,  egli
tornò  voglioso  ai  libri  ed  ai  maestri;  e  finì   a   stare   con   quelli
perseverantemente, vincendo con la volontà le ripugnanze delle  quali  egli  non
poteva allora comprendere la ragione profonda. Giovanetto fra i giovanetti nello
studio di Pavia, egli trovò quivi stabilite consuetudini, massime, opinioni  che
distribuivano lode e biasimo alla differente  condotta;  e  non  ne  fece  alcun
conto: regolò la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe fatto in un eremo,
senza esitazione, senza braveria; e solo da prima, opposto  quasi  in  tutto  al
tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che  davano  la  gloria,
facendo  quelle  che  rendevano  ludibrio,  fu  in  poco  tempo  oggetto   della
venerazione dei suoi  condiscepoli.  Uomo  fatto  poi,  cardinale,  arcivescovo,
sempre continuò in quella disciplina, di meditare ciò che fosse il comandato,  e
il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli uomini se  non  ciò
che potesse essere una vera ed utile correzione per  lui,  o  il  segno  di  una
irritazione e di una resistenza dannosa ai  resistenti,  e  che  potesse  essere
impedimento al bene ch'egli intendeva di operare. Fu quindi  moderato  ed  umile
tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i  contrasti,  non  avendo  di
mira che la cosa da farsi,  e  il  perché,  e  l'effetto.  Veduta  la  bellezza,
l'utilità, e la possibilità d'un  disegno,  egli  lo  intraprendeva,  ne  curava
attentamente il complesso e i minimi particolari con quella unità di  attenzione
che non sorprende chi rifletta alla unità ch'egli aveva del  fine.  Edificò  dai
fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome  di  Ambrosiana,  la  dotò  di
libri, di manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse professori,
e nello stesso tempo poneva cura che  le  reliquie  della  sua  mensa  piuttosto
povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e date ai  poverelli;  tutto
era per lui benevolenza, e  cura  degli  altri.  Così  egli  chiamò  da  lontano
professori di lingue orientali per introdurre se avesse potuto, ogni coltura  in
quella rozza, ostinata, e presuntuosa  barbarie  nella  quale  egli  sentiva  di
vivere; spedì uomini dotti quanto allora si poteva per l'Italia, per la Francia,
per la Germania, per la Spagna, per la Grecia, nella Siria, a  fare  incetta  di
libri, di manoscritti, di ogni cosa che potesse essere stromento di studio e  di
coltura: e diede ad essi istruzioni, avviamenti, consigli:  e  per  la  medesima
accuratezza di ben fare, in questa stessa carestia di cui  abbiamo  già  toccato
qualche cosa in questa storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva,  alla  sua
casa, alle case dei poverelli, pensò anche di  mandare  attorno  sacerdoti,  che
raccogliessero i poverelli che mancanti di soccorso cadevano sfiniti per le vie,
e dessero loro i  conforti  della  religione:  e  insieme  coi  sacerdoti  mandò
facchini che portassero pane, vino,  minestra,  uova  fresche,  brodi  stillati,
aceto, per nutrire, per confortare coloro che  cadessero  per  inedia;  e  tutti
questi particolari erano meditati da lui, perché tutto quello  che  fosse  utile
era per lui importante, e l'idea grande e generale  della  carità  era  dal  suo
cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari. Così amava egli  oltre
ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre  nell'esercizio
delle sue più nobili facoltà. E da  tanta  operosità,  da  tante  cure  del  suo
ministero, da tanti impicci in cui era tirato dalla  confusione  che  in  quelle
cure stesse avevano introdotta la confusione delle idee,  e  le  passioni  degli
uomini, egli sapeva togliere ancora assai  tempo  per  impiegarlo  nello  studio
degli scritti i più stimati di qualunque tempo e di  qualunque  nazione,  e  nel
lavoro dei molti scritti ch'egli ha lasciati. Noi  non  vogliamo  qui  esaminare
tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire ch'egli ebbe principalmente le  virtù
più difficili, cioè le più opposte ai vizj che  signoreggiavano  la  generazione
dei suoi contemporanei. Già forse l'amore dell'argomento ci  ha  trasportati  ad
una prolissità nojosa; ma non possiamo a meno di non  avvertire  una  di  queste
virtù, perché è quella che non certo per la sua importanza ma per la  rarità  ci
sembra degna di osservazione; ed è la tranquillità e  il  contegno  mirabile  di
Federigo. In un tempo  in  cui  opinioni,  fatti,  discussioni,  odj,  amicizie,
delitti, giudizj, tutto era avventato e precipitoso,  in  cui  le  virtù  stesse
avevano qualche cosa per dir così di spiritato, e  di  fantastico,  Federigo  fu
temperato,   aspettatore,   ponderato,   lento   nel   credere,    nell'operare,
nell'affermare,  tutto  condì  con  una  temperanza,  che  raddolcì   in   parte
quell'impeto indisciplinato, e fu se non altro ammirata da quegli stessi che  ne
erano incapaci. È cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome  di  un
tal uomo, già ai nostri tempi, in una posterità così poco remota, sia  non  dirò
dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come  si  fa  degli  uomini  più
illustri, che a questo nome sia appena associata una idea languida  d'un  merito
incerto, d'una eccellenza indeterminata, che questo nome pronunziato fuori della
patria di Federigo, e  della  società  di  quelli  che  più  particolarmente  si
applicano alle cose nelle quali egli fu attore, o passi  inavvertito,  o  riesca
anche nuovo, e invece di risvegliare la memoria di una  rara  preminenza  faccia
nascere la curiosità di sapere che abbia fatto  colui  che  lo  portava,  e  che
l'elogio che noi vi abbiamo unito abbia  avuto  bisogno  di  schiarimento  e  di
prove. E forse ancor più stupore deve nascere al pensare che un uomo  dotato  di
nobilissimo  ingegno,  avido  di  cognizioni,  e  perseverante   nello   studio,
sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società  più  varie
degli uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni cura nel  comporre
opere d'ingegno, ne abbia lasciato un numero che lo ripone tra i più fecondi e i
più laboriosi; e che queste opere d'un uomo che aveva tutti  i  doni  per  farne
d'immortali, non sieno ora quasi conosciute che dai loro titoli,  nei  cataloghi
di quegli scrittori che tengono memoria di tutto ciò che è stato scritto  in  un
tempo, in un paese. Ma la spiegazione di questo fenomeno si  può  forse  trovare
nella condizione dei tempi in cui scrisse Federigo. A produrre quelle  parole  o
quei fatti che rimangono presso ai posteri oggetto di una  ammirazione  popolare
non basta la potenza di un ingegno né la costanza di una volontà:  è  duopo  che
queste facoltà possano esercitarsi sopra  una  materia  la  quale  abbia  da  sè
qualche cosa di splendido, di memorabile: gli uomini di  tutte  le  età  rimasti
insigni giunsero a quel grado di fama, o accompagnati da una folla d'uomini  non
insigni com'essi, ma  pure  partecipi  dei  loro  studj,  curiosi  delle  stesse
cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o  almeno  combattendo  contra
errori,  abitudini,  idee,  che   avessero   qualche   cosa   d'importante,   di
problematico, in quelle dottrine che sono un esercizio perpetuo  dell'intelletto
umano, trovarono in somma una massa di notizie e di opinioni,  un  complesso  di
coltura, sul quale fondarsi,  dal  quale  progredire,  al  quale  applicare  gli
aumenti e le correzioni per cui la memoria del genio rimane. Che se pure è  viva
tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi rozzissimi, lo  è  perché
quei  tempi  erano  sommamente  originali,  e  quelle  opere  ne  conservano  il
carattere,  e  mostrano  ai  posteri  un  ritratto  osservabile  d'una  età  che
nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci. Ma Federigo Borromeo visse  in  tempi
di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad un  tratto,  fra
una brutalità selvaggia  ed  una  pedanteria  scolastica,  in  tempi  nei  quali
l'ingegno che per darsi alle lettere, a  qualunque  studio  di  scienza  morale,
cominciava (ed è questa la sola via) ad  informarsi  di  ciò  che  era  creduto,
insegnato, disputato, a porsi a  livello  della  scienza  corrente,  si  trovava
ingolfato,  confuso  in  un  mare  tempestoso  di  assiomi  assurdi,  di  teorie
sofistiche, di questioni alle quali mancava per prima cosa il punto  logico,  di
dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze.  Non  v'è  ingegno  esente  dal
giogo delle opinioni universali, e già una parte di queste miserie diventava  il
fondamento della scienza degli uomini i più pensatori. Che se anche i più acuti,
profondi fra essi, avessero veduta e detestata tutta la falsità e la cognizione,
di quel sapere, avessero potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove  si
trovano le idee e le formole potenti, solenni, perpetue; a chi avrebbero  eglino
parlato? E chi  parla  lungamente  senza  ascoltatori?  Il  genio  è  verecondo,
delicato,  e  se  è  lecito  così  dire,  permaloso:  le  beffe,   il   clamore,
l'indifferenza lo contristano: egli si rinchiude in sè, e tace. O per dir meglio
prima di parlare, prima di sentire in sè le alte  cose  da  rivelarsi,  egli  ha
bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui saranno rivelate, di  trovare
un campo dove sia tosto raccolta la sementa  delle  idee  ch'egli  vorrebbe  far
germogliare: la sua fiducia, il suo ardimento, la sua fecondità  nasce  in  gran
parte dalla certezza di un assenso, o almeno di una comprensione,  o  almeno  di
una resistenza ragionata. Veggansi per esempio le  opere  di  eloquenza  di  due
sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse nella età posteriore a  quella
di  Federigo,  Segneri  e  Bossuet.  Veggasi  quali  idee,  quale  abitudine  di
linguaggio, quali pregiudizj anche suppongano  le  orazioni  funebri  di  questo
negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche  del  Segneri  che  opinioni
egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli doveva attignere i suoi mezzi,
le sue prove per persuadere quegli  ingegni,  a  quali  costumanze  egli  doveva
alludere; nella differenza dei due popoli ascoltanti è certamente in gran  parte
la spiegazione della somma distanza fra le opere di due ingegni ognuno dei quali
era grande. Prima che un popolo il quale si trova in  questo  grado  d'ignoranza
possa produrre uomini per sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a  poco  a
poco da quella universale abiezione, che riportino su gli errori, su la  inerzia
comune molte vittorie  d'ingegno  difficili,  e  che  saranno  dimenticate;  che
attirino con grandi sforzi le menti a  riconoscere  verità  che  sembrano  dover
essere volgari, che preparino agli intelletti venturi una congerie d'idee  delle
quali o contra le quali si possano fare lavori  degni  di  osservazione;  e  che
finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza e perspicuità  delle
idee migliorino a poco a poco il linguaggio comune, dimodoché  i  sommi  ingegni
possano avere uno stromento che renderanno perfetto, ma che pure  hanno  trovato
adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia che ad essi soli  è  concesso,
arrivare  a  quelle  formole  inusitate,  ma  chiare,  ardite,   ma   sommamente
ragionevoli, nelle quali sole  possono  vivere  i  grandi  pensieri.  Questo  fa
d'uopo; ovvero che la coltura più matura, più  perfezionata  d'un  altro  popolo
venga ad educare quello di cui  abbiamo  parlato.  Allora  gl'ingegni  singolari
attirati dalla luce del vero da qual parte  ella  si  mostri,  si  levano  dalla
moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto che essi scorgono  il  più
alto. Cominciano allora le ire di molti, e i lamenti di altri contra l'invasione
delle idee  barbare,  contra  la  dimenticanza  delle  cose  patrie,  contra  la
servilità agli stranieri, contra il pervertimento del linguaggio e del gusto;  e
non si può negare che queste ire e questi lamenti non atterriscano alcuni, e non
gli contristino a segno di far loro abbandonare la  via  di  studio  intrapresa;
giacché fargli ritornare al falso conosciuto è cosa impossibile. Ma v'ha pure di
quegli ingegni ai quali è per così dire comandato di fare; e questi tenendosi in
comunicazione con un'altra età o con un'altra società d'uomini, dicono  ai  loro
contemporanei  cose  che  questi  ascoltano  da  prima  con  disprezzo   e   con
indifferenza, quindi in parte pure con qualche curiosità quando  la  fama  viene
dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno scrittore, imparano  un  poco
mal loro grado, e sono poi quasi  tutti  concordi  sul  merito  dello  scrittore
quand'egli ha dato l'ultimo  sospiro.  Così,  un  secolo  forse  dopo  Federigo,
cominciò a rinascere in Italia un po' di coltura,  e  fra  quella  a  sovrastare
alcuni scrittori dei quali vivono le opere e la memoria; ma i principj  di  quel
risorgimento non furono un  progresso,  un  perfezionamento  delle  idee  allora
dominanti;  fu  una  nuova  coltura  introdotta   in   opposizione   alle   idee
predominanti; sul che tutti concordano. Ma intorno alla sorgente di questa nuova
coltura v'ha due opinioni estremamente disparate. Alcuni, anzi moltissimi, hanno
creduto, e detto che dal fondo della ricchezza letteraria del secolo decimosesto
e dai pochi sommi scrittori più antichi sieno state tolte le idee le quali hanno
rinovellato lo spirito della letteratura, e  ricondotto  il  colto  pubblico  al
senso comune; e che principalmente dai canzonieri del Petrarca  e  del  Costanzo
sia stata tolta la luce che dissipò le tenebre del  seicento.  Infatti  i  primi
riformatori, si posero, come alla faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime
che  l'immortale  Costanzo  vergò,  per  placare,  se  fosse  stato   possibile,
quell'empia tigre in volto umano, su la quale è  così  diviso  e  combattuto  il
sentimento  della  posterità.  Poiché,  quando  si  pensa  ai   dolori   intimi,
incessanti, cocenti che quella tigre fece tollerare a quel  celebre  sventurato,
non si può a meno di non sentire per essa, voglio dire per la  tigre,  un  certo
orrore, un rancore vendicativo. Ma quando poi si venga a  riflettere  che  senza
quei dolori non sarebbero stati partoriti quei sonetti  e  quelle  canzoni,  che
senza quei sonetti e senza quelle canzoni, l'Italia si  rimarrebbe  forse  forse
tuttavia nell'abisso del gusto perverso, allora si  prova  una  certa  non  solo
indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua crudeltà fu  occasione,  fu
causa d'un tanto utile e glorioso effetto, si vede allora quanto sia vero che le
grandi cognizioni non vengono all'intelletto  degli  uomini  che  per  mezzo  di
grandi dolori. Questo è detto nell'ipotesi di coloro  i  quali  tengono  che  la
rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un certo qual senso  comune,  che  ebbe
luogo nel principio del secolo decimottavo, abbia cominciato dalla poesia, e sia
venuto nella poesia dallo studio ripreso dei cinquecentisti, e del  Costanzo  in
ispecie. Ma non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero)  i
quali tengono invece che  la  lettura  degli  insigni  scrittori  francesi,  che
fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e  più
vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro idea d'una letteratura
nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj,  di  discussioni  sincere,
d'invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e di  reale,  diretta  a
far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione ragionata di chi  scriveva,
a condurre i molti ad un punto più elevato di scienza, di sentimento a cui erano
giunti alcuni con una  meditazione  particolare.  Scorgono  costoro  che  questi
italiani cominciarono ad imparare dalla lettura di  quei  libri,  e  furono  dal
confronto nauseati degli scritti, dei giudizj, degli intenti, dei metodi,  delle
riputazioni,  di  tutta  insomma  la  letteratura  italiana  di  quel  tempo;  e
cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura più esatta a cercare un vero
importante, e lo fecero con una mente più disciplinata, più addestrata a  questa
ricerca, e diffusero a poco a poco nei cervelli dei loro  concittadini  il  buon
senso che avevano attinto. Questa tengono essi che fosse non la sola cagione, ma
la principale, la prossima della rivoluzione generale e  osservabile  nel  gusto
letterario degli italiani. I pochi i quali tengono questa opinione,  si  trovano
in un bell'impiccio; perché mettendola  fuori,  sono  certi  di  acquistarsi  il
titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione; perché è doloroso il  trovarsi
tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di  acquistarsi  un  titolo
brutto e odioso. E in  verità  noi  vorremmo  avere  qualche  autorità,  qualche
appicco, qualche entratura coi loro avversari, per poterli  pregare  di  provare
soltanto con ragioni di fatto che quella opinione è  falsa,  e  di  lasciare  da
banda quel titolo affatto estraneo alla  questione,  e  fuori  di  proposito.  E
infatti, se fosse a  proposito,  dovrebbe  applicarsi  a  tutti  gli  uomini  di
qualunque nazione sieno, i quali riconoscano che  la  loro  possa  essere  stata
coltivata con gli studj d'un'altra: ora noi non applichiamo generalmente  questa
misura; poiché quando troviamo negli scritti d'un francese quella  opinione  che
la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta la luce delle lettere per mezzo  dei
grandi scrittori d'Italia; noi non chiamiamo quella opinione una ingiuria  fatta
da quegli scrittori alla loro patria, ma una generosa confessione del vero;  non
gli chiamiamo  cattivi  cittadini,  ma  uomini  veggenti,  candidi,  imparziali.
Ricordiamoci adunque che  l'adoprar  peso  e  peso,  misura  e  misura,  è  cosa
abbominevole; e siamo coi nostri così giusti e indulgenti  come  siamo  con  gli
stranieri; senza pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che  si
potranno dire quando a Dio piaccia, per provare a questi nostri che pigliano  un
granchio. Per vedere  una  volta  quale  di  queste  due  opinioni  sia  la  più
ragionevole, bisogna esaminare due gran fatti, o due serie di fatti.  La  prima;
in che consistesse principalmente la corruttela delle lettere nel  seicento,  se
questa corruttela  sia  stata  una  deviazione  forzata  dalla  via  tenuta  nel
cinquecento, quali  idee  si  siano  perdute,  quali  pervertite  da  un  secolo
all'altro; giacché  la  corruttela  delle  lettere  non  può  essere  altro  che
smarrimento, o pervertimento d'idee, a meno che  non  si  voglia  ammettere  una
letteratura  che  non  sia  composta  d'idee.  L'altra;   quali,   dopo   quella
abbominazione  del  seicento  siano  state  le  idee  introdotte  negli  scritti
italiani, le quali hanno riprodotta una  letteratura  ragionevole  e  splendida,
hanno avvertita l'Europa che le lettere in Italia non erano più  come  lo  erano
state per un secolo, una buffoneria, un mestiere guastato, l'hanno  costretta  a
rivolgersi con attenzione a questa parte  per  udire  con  la  speranza  di  una
istruzione, d'un diletto razionale, quali siano le  idee  uscite  dall'Italia  e
ricevute in parte del patrimonio comune della coltura Europea. Raccolti i  sommi
capi di  queste  idee  della  letteratura  italiana  risorta,  bisognerà  ancora
cercarne la sorgente; vedere se sieno state riprese, svolte  dagli  scritti  del
cinquecento, o da che altra parte sieno venute a fare impeto  nella  letteratura
italiana. Quanto alla prima questione... ma qui una buona ispirazione ci avverte
che siamo fuori di strada; che musando così in ciarle di discussione  mentre  si
tratta di raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse già perduti
i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una trentina; tanto più che  questa
fatale digressione è venuta appunto a gettarsi nella storia nel momento  il  più
critico, sulla fine d'un volume,  dove  il  ritrovarsi  ad  una  stazione  è  un
pretesto, una tentazione fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove  è
mestieri di una nuova risoluzione, d'un  generoso  proposito  per  riprendere  e
quasi ricominciare  il  penoso  mestiere  del  leggere.  Noi  tronchiamo  dunque
subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali l'avessero letta fin
qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja  avranno  gettato  il  libro  a
mezzo di questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto  il
capitolo avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in  nostro
nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a piè  pari  al  principio  del  prossimo
volume,  che  la  continueremo  senza  interruzione,  seguendo   fedelmente   il
manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.

TOMO TERZO

CAPITOLO I

Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte  le  visite,  stavasi  in
quell'ora ritirato in una stanza, dove dopo  aver  recitate  le  ore  mattutine,
impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che  il  popolo  fosse
ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e  le  altre
funzioni del suo  ministero.  Entrò  con  un  passo  concitato  ed  inquieto  il
cappellano crocifero, e con una  espressione  di  volto  tra  l'atterrito  e  il
misterioso, disse al Cardinale: «Una strana visita,  Monsignore  illustrissimo».
«Quale?» richiese il Cardinale con la  sua  solita  placida  compostezza.  «Quel
famoso bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti...  il  Conte  del
Sagrato... è qui... qui fuori, e chiede con istanza d'essere  ammesso».  «Egli!»
rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare». «Ma...» replicò il
cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe conoscere per  fama;  è  un
uomo carico di scelleratezze...» «E non è egli  una  buona  ventura»,  disse  il
Cardinale, «che ad un tal uomo venga voglia di presentarsi ad un vescovo?» «È un
uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano. «E anche di mutar  vita»,
disse il Cardinale. «Monsignore illustrissimo»,  insistette  il  cappellano  «lo
zelo fa dei nemici, sono arrivate più volte fino al nostro orecchio  le  minacce
di alcuni che si sono vantati...» «E che hanno fatto?» interruppe Federigo.  «Ma
se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati  ribaldi,  costui
che non si spaventa di nulla, venisse ora... fosse mandato, Dio sa  da  chi  per
fare quello che gli altri...» «Oh! che disciplina è questa»,  interruppe  ancora
sorridendo serenamente il vecchio, «che un officiale raccomandi al suo  generale
di aver paura? Non sapete voi che la paura, come  le  altre  passioni,  ad  ogni
volta che le si concede qualche cosa, domanda qualche  cosa  di  più?  e  che  a
questo modo, di cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei
doveri  d'un  vescovo?»  «Ma  questo  è  un  caso  straordinario»,  continuò  il
cappellano caparbio per premura: «Vostra Signoria non può così  esporre  la  sua
vita. Costui è un disperato, Monsignore  illustrissimo;  lo  rimandi;  troveremo
qualche onesta scusa...» «Ch'io lo rimandi?» rispose con  una  certa  maraviglia
severa il Cardinale. «Per farmene un rimprovero per tutta la  vita,  e  renderne
poi conto a Dio? Via via. Già egli ha troppo aspettato. Fatelo entrar  tosto,  e
lasciatemi solo con lui». Il cappellano non ebbe più coraggio  di  replicare,  e
fatto un inchino partì per obbedire, dicendo in cuor suo:  -  non  c'è  rimedio:
tutti i santi sono ostinati -, epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il  più
sovente significa uno che non vuol fare  a  modo  nostro.  Uscito  nella  stanza
dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli altri presenti  si
stavano raggruppati in un altro, a  guardarlo  e  a  parlare  sommessamente,  il
cappellano gli si accostò, e gli disse  che  Monsignore  lo  aspettava;  facendo
nello istesso tempo, in modo da non essere veduto  dal  Conte,  un  cenno  delle
spalle e del  volto  agli  altri,  che  voleva  dire:  -  Quell'uomo  benedetto;
accoglierebbe Satanasso in persona. Il Conte allora prese tosto una cintura  con
la quale teneva appeso l'archibugio, e facendolosi passare sul capo se lo  tolse
dalla spalla, si cavò dalla cintura dei  fianchi  due  pistole,  si  staccò  uno
spadone, e fatto un fascio di  tutto,  si  accostò  ad  uno  dei  preti  che  si
trovavano nella stanza, gli consegnò  quel  fascio  dicendo:  «sotto  la  vostra
custodia». «Signor sì», disse il prete, e, non senza  impaccio,  allargando  ben
bene le mani, e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo  prese  con  delicatezza
come avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte. Restava ancora un pugnale,
di cui il manico d'avorio intarsiato d'oro sporgeva tra il farsetto e la  veste:
e gli occhi erano rivolti sul Conte, per osservare se  egli  compisse  la  buona
opera di disarmarsi e desse anche questo al curato: ma il Conte non n'ebbe  pure
l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui: gli
sarebbe sembrato di andar nudo. Il cappellano aperse la portiera, ed  introdusse
il Conte; il Cardinale si alzò, gli si fece incontro, lo accolse  con  un  volto
sereno, e accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed  egli  partì.  Il
Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò  ad
alzargli in quel venerabile  aspetto.  Federigo  era  stato  vezzoso  fanciullo,
giovane avvenente, bell'uomo; gli anni avevano fatto sparire dal suo volto  quel
genere di bellezza che al suono di questo nome si ricorda primo al  pensiero;  e
già gran tempo prima ch'egli toccasse la vecchiezza, le astinenze e  lo  studio,
avevano tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le  astinenze
stesse e lo studio, l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la
pace interna d'una lunga vita, il sentimento continuo d'una speranza superiore a
tutti i patimenti, avevano sostituita nel volto  di  Federigo  a  quella  antica
bellezza, una per così dire bellezza senile, la  quale  spiccava  ancor  più  in
quella semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti  ambiziosi  tutto
ravvolgeva il vecchio. Stava questi  aspettando  che  il  Conte  parlasse,  onde
pigliare dalle prime parole di lui  il  tuono  del  discorso;  giacché  Federigo
benché non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano aveva voluto
ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e  restio  personaggio
avesse dinanzi; e avendo presa di questa venuta una  speranza  indeterminata  di
qualche bene, non avrebbe voluto dire né far cosa che  potesse  guastare.  Stava
egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare con la  serenità  del  volto,
con un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza che  fa
animo agli irresoluti, e sforza talvolta i dispettosi a  dire  cose  diverse  da
quelle che avevano pensate; ma il Conte stava sopra di sè, perché era venuto ivi
spinto piuttosto da una smania, da una inquietudine curiosa, che dal  sentimento
distinto di cose ch'egli volesse dire  ed  udire  dal  Cardinale.  Dopo  qualche
momento  però,  ruppe  egli  il  silenzio   con   queste   parole:   «Monsignore
illustrissimo... dico bene? In verità sono da tanto tempo divezzato dai  prelati
che non so se io adoperi i titoli che si convengono... che si usano».  «Voi  non
potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un uomo
pronto a tutto fare, a tutto soffrire  per  esservi  utile».  «Sì?»  rispose  il
Conte,  «davvero,  Monsignore?  Tale  è  il  linguaggio  comune...   dei   preti
principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che  per  servire
altrui. Ma per  voi...  tutti  dicono  che  non  è  un  semplice  linguaggio  di
cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere se egli  è  vero
che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente umile?  Se  fossi
venuto, per  soddisfare  ad  una  mia  curiosità?»  «No,  no»,  replicò,  sempre
sorridendo ma con una seria espressione di  affetto  il  buon  vescovo,  «non  è
curiosità  in  voi  di  vedere  quest'uomiciattolo  che  mi  procura  la   gioja
inaspettata di vedervi: sento che una cagione più importante  vi  conduce».  «Lo
sentite, Monsignore? qual  cagione  di  grazia?  dicono  tanti  che  voi  sapete
discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per... via  mi  fareste
piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non  vegga:  parlate  voi
per me, che forse, forse, potreste indovinare». «E che?» disse il Cardinale come
affettuosamente rimproverando: «Voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate
tanto sospirare?» «Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in  cuore,
e vi darò una buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che
io son venuto qui strascinato senza sapere da  chi,  che  aveva  il  bisogno  di
vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me  una
rabbia, una vergogna di essere dinanzi a voi... così, come una pinzochera...  Oh
ditemi un po'; quale è questa buona nuova». «Che Dio vi ha toccato il  cuore,  e
vuol far di voi un altr'uomo»; rispose tranquillamente il  Cardinale.  «Dio?  ci
siamo», replicò il Conte. «Dio! quella parola che termina  tutte  le  quistioni.
Dov'è questo Dio?» «Voi me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più
vicino di voi? Non lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che  vi
abbatte, che v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una
speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate,  che  lo
confessiate?» «Certo! certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho  qualche  cosa
che mi tormenta, che mi divora! Ma  Dio!  Che  volete  che  Dio  faccia  di  me?
Foss'anche vero tutto quello che  dicono,  non  ho  altra  consolazione  che  di
pensare che nemmeno il diavolo non mi  vorrebbe».  Il  Conte  accompagnò  queste
parole con una faccia convulsa, e con gesti da spiritato, ma  Federigo  con  una
calma solenne, che comandava il silenzio e l'attenzione, replicò: «Che  può  far
Dio di voi? Quello che d'altri non farebbe. Ricevere da voi una gloria che altri
non gli potrebbe dare. Fare di voi un gran testimonio della sua forza... e della
sua bontà. Poiché finalmente, che vi accusino coloro ai quali siete  oggetto  di
terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si lamenta,  è  un  giudizio
facile, poiché è sopra altrui, fors'anche in taluno sarà invidia; forse v'ha chi
vi maledice, perché vorrebbe far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi
stesso, quando il giudizio sarà una confessione, allora  Dio  sarà  glorificato.
Questo può far Dio di voi; e salvarvi». «No: Dio non vuol salvarmi», replicò  il
Conte, con un dolore disperato. «Non vuole?» disse il Cardinale. «Io che sono un
uomo miserabile, mi struggo del desiderio della vostra salute: voi non ne  avete
dubbio; sento per voi una carità che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio
che ci ha redento, non sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si
ricompose, si  atteggiò  al  dolore;  e  i  suoi  occhi  che  dall'infanzia  non
conoscevan le lagrime, si gonfiarono,  e  il  Conte  pianse  dirottamente.  «Dio
grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: «che  ho
mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi  facessi  degno  di
assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo,  egli  stese  la  mano  per
prendere quella del Conte. «No», gridò questi, «no: lontano, lontano da me  voi:
non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete quanto sangue  è  stato
lavato  da  quella  che   volete   stringere?»   «Lasciate»,   disse   Federigo,
afferrandogli la mano  con  amorevole  violenza,  «lasciate  ch'io  stringa  con
tenerezza - e con rispetto - questa mano che riparerà tanti torti, che  spargerà
tante beneficenze,  che  solleverà  tanti  poverelli,  che  si  stenderà  umile,
disarmata, pacifica a tanti nemici». «È troppo!» disse il  Conte  singhiozzando.
«Lasciatemi, Monsignore... buon Federigo:  un  popolo  affollato  vi  aspetta...
tanti innocenti, tante anime buone... tanti venuti da lontano per  vedervi,  per
udirvi; e voi vi trattenete... con chi!» «Lasciamo  le  novantanove  pecorelle»,
rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro, sono sul monte: io  voglio  ora
stare con quella che era smarrita.  Quella  buona  gente,  sarà  ora  forse  più
contenta che se avesse tosto veduto il suo vescovo. Chi sa che Dio il  quale  ha
operato in voi il prodigio della misericordia, non diffonda ora nei  cuori  loro
una gioja di cui non conoscono ancora la cagione? Son forse uniti  a  noi  senza
saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore  indistinto  di  carità,
una preghiera, ch'egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie,  di  cui  voi
siete l'oggetto non ancor conosciuto». Al fine di queste parole  stese  egli  le
braccia al collo del Conte, il quale dopo aver tentato di sottrarsi,  dopo  aver
resistito un momento,  cedette  come  strascinato  da  quell'impeto  di  carità,
abbracciò egli pure il Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le  spalle
di lui. Le lagrime ardenti del pentito  cadevano  sulla  porpora  immacolata  di
Federigo; e le mani incolpevoli di questo  cingevano  quelle  membra,  premevano
quelle vesti su cui da gran tempo non avevano posato che le armi della  violenza
e del tradimento. Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un  affetto
ansioso al Conte: «parlate: parlate; apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri
che più vi tormentano; quello che hanno di più amaro si perderà passando  su  le
vostre labbra; il dolore che vi resterà  sarà  misto  di  giocondità,  sarà  una
giocondità esso medesimo: non vi lasceranno altra puntura che  il  desiderio  di
riparare al già fatto. Dite: forse v'è  qualche  cosa  a  cui  si  può  riparare
ancora:...» «Ah sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui  si  può  riparare
tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma non è compiuto. Lodato Dio, che non lo  è.
Per farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia  confessione,
quello ch'io sono: uno scellerato... e un vile birbone; ma non  importa:  quello
che importa,  è  di  cessare  una  crudele  iniquità».  Federigo  stava  ansioso
attendendo, e il Conte narrò dell'infame  contratto  di  Lucia,  del  rapimento,
dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei  primi  pensieri
che a cagione di queste gli erano venuti. Il buon vescovo impallidì alla  storia
dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando  intese  ch'ella  si
trovava ancora al castello: «Ah!» disse «è salva, è intatta: togliamola tosto da
quell'angoscia:  ah  voi  sapete  ora  che  cosa  sono  le  ore   dell'angoscia!
abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?»  «Dio!»  sclamò  il  Conte;
«che uomo son io, se mi si richiede come un dono ciò ch'io non ho in  poter  mio
che per la più vile prepotenza! se mi si chiede per misericordia di  non  essere
più un infame!» «Il male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è il
bene, e voi lo potete; voi lo volete; Dio vi  benedica.  Dio  vi  ha  benedetto.
D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù, e di beneficenza. Sapete
voi di che paese sia questa poveretta?» Il Conte glielo disse;  Federigo  allora
scosse il suo campanello; alla chiamata entrò  con  ansietà  il  cappellano,  il
quale in tutto quel tempo era  stato  come  sui  triboli,  e  veduta  la  faccia
tramutata, umile, commossa del Conte, e su quella del Cardinale  una  commozione
che pur traspariva da quella  sua  tranquilla  compostezza;  restò  colla  bocca
aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro; ma il Cardinale lo tolse tosto  da
quella contemplazione  mezzo  estatica  e  mezzo  stordita  dicendogli:  «Fra  i
parrochi  qui  radunati  vi  sarebbe  mai  quello   di...?»   «V'è,   Monsignore
illustrissimo»,  rispose  il  cappellano.  «Lodato  Dio!»  disse  il  Cardinale:
«chiamatelo, e  con  lui  il  curato  di  questa  chiesa».  Il  cappellano  uscì
nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano il  suo  ritorno  con  la
speranza di saper qualche cosa d'un colloquio  che  gli  teneva  tutti  sospesi.
Tutti gli occhi furono rivolti sopra di lui: egli  alzò  le  mani,  e  movendole
l'una contro l'altra con un gesto come involontario,  tutto  trafelato  come  se
avesse corso due miglia, disse:  «Signori,  signori:  haec  mutatio  dexterae
Excelsi. Il signor curato  della  chiesa  e  il  signor  curato  di...  sono
chiamati da Monsignore». Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di
sè una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a  dare  la  gloria  fra  gli
uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in  tutte
le sue opere: l'amore fervente di Dio e  degli  uomini  era  il  suo  sentimento
abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea  del  dovere
era: tutto il bene possibile: credeva egli sempre adunque di rimanere  indietro,
ed era profondamente umile, senza sapere  di  esserlo;  come  l'illibatezza,  la
carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano  virtù  ch'egli  possedeva  in  un
grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquistare.  Se  ogni  uomo  fosse
nella propria condizione quale era egli nella sua,  la  bellezza  del  consorzio
umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti  più  confidenti.  I  suoi
parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano;  la  sua
morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero  intorno  al
suo cadavere; pareva a quei semplici che il mondo dovess'esser commosso,  poiché
un gran giusto ne era partito. Ma dieci miglia lontano di là, il  mondo  non  ne
sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai: e  in  questo  momento  io  sento  un
rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di  non  poter
dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole:  Prete  Serafino  Morazzone
Curato di Chiuso. All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava
pregando tacitamente, e si mosse senz'altra premura che di obbedire,  senz'altra
curiosità che di vedere se vi fosse  per  lui  qualche  opera  utile  e  pia  da
intraprendere. L'altro chiamato era quel  nostro  Don  Abbondio,  il  quale  per
togliersi  d'impiccio  era  stato  in  gran  parte  cagione  di   tutto   questo
guazzabuglio: egli non poteva sapere, né avrebbe mai pensato che questa chiamata
avesse la menoma relazione con quei tali promessi sposi, dei  quali  credeva  di
essere sbrigato per  sempre.  Si  avanzò  anch'egli  incerto  e  curioso,  anche
inquieto di dovere trovarsi con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia
ispirata del Cappellano, quelle sue parole  che  annunziavano  oscuramente  cose
grandi, e ciò che più stava a cuore di Don  Abbondio,  cose  quiete.  Ambedue  i
curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava  col  Cardinale.
Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi, e  guardava  l'uno  e  l'altro  ma
specialmente il Conte; e aspettava che si dicesse qualche cosa per  esser  certo
che non v'erano imbrogli. Il Cardinale, prese in disparte il curato di Chiuso, e
dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la sua intenzione  di  spedir
tosto in lettiga una donna al castello a prender  Lucia,  affinché  questa  alla
prima nuova della liberazione si trovasse con una donna, il  che  sarebbe  stato
per quella poveretta una consolazione e una sicurezza, non meno che decenza  per
la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le sue parrocchiane la donna più  atta
a questo uficio per saviezza, e la più pronta per carità ad assumerlo. «Ne corro
in cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona».  Detto  questo
uscì; i radunati nell'altra stanza lo guardarono  curiosamente,  ma  nessuno  lo
fermò per interrogarlo, giacché si sapeva ch'egli era così  avaro  delle  parole
inutili, come pronto a parlare senza rispetto quando il dovere  lo  richiedesse.
Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli  disse:  «Una
buona nuova per voi, Signor curato di... Una vostra pecorella che avrete  pianta
come perduta, vive, è trovata; e voi avrete la  consolazione  di  ricondurla  al
vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio  la  provvederà».  «Monsignore
illustrissimo, non so niente»; rispose Don Abbondio, il primo pensiero del quale
era sempre di scolparsi a buon conto, e di  lavarsene  le  mani.  «Come!»  disse
Federigo,  «non  conoscete  Lucia  Mondella,  vostra   parrocchiana,   che   era
scomparsa...?» «Monsignore sì», rispose tosto il curato, che non voleva  passare
per un pastore spensierato. «Or bene, rallegratevi», disse  il  cardinale,  «che
Dio ce la restituisce: e questo signore» continuò (accennando il  Conte)  «è  lo
stromento di che Dio si serve per questa opera buona. In altro  momento  voi  mi
informerete dei casi e delle qualità di questa giovane». - Ahi! ahi!  -  pensava
fra sè Don Abbondio. - Bell'impiccio a contare la storia! Questa  donna  è  nata
per la mia disperazione. «Per ora», proseguì Federigo, «quello che  preme  è  di
riaverla e di riporla nelle braccia di sua  madre,  e  in  casa  sua,  se  potrà
esservi sicura. Andrete voi dunque con questo mio caro amico»  (e  così  dicendo
prese la mano del Conte il quale lasciava dire e fare troppo contento che un tal
uomo lo governasse e parlasse per lui) «andrete al  suo  castello  accompagnando
una buona donna di questo paese che ricondurrà quella giovane nella mia lettiga.
Per far più presto, darò ordine tosto che due delle mie mule sieno  bardate  per
voi e per lui. Vedete», continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò  che
dice, «vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai  contrasti,  agli  affanni  del
nostro ministero, Dio ci prepara  talvolta  consolazioni  inaspettate,  e  servi
inutili che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è  visibile,
ci vuole cooperatori  della  sua  provvidenza  misericordiosa».  Le  parole  del
Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente  perdute.  Don
Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che consolazione; si  trattava
di ricondurre in trionfo, alla presenza dell'arcivescovo quella Lucia nelle  cui
avventure egli si trovava intrigato un po' sporcamente,  nella  cui  storia  era
parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a  cui  avrebbe  voluto
render ragione era certamente quel Federigo Borromeo. Ma questo non  era  ancora
il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte,  di  entrare  nel
suo castello senza saper chiaramente a che fare: tutto ciò che il  curato  aveva
inteso raccontare in tanti anni della audacia, della crudeltà, della  bizzarria,
della iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione: e metteva
in moto tutta quella sua naturale paura. Ma questa timidezza stessa poi non  gli
permetteva  di  rifiutare,  di  fare  ostacolo  ad  un   ordine   così   preciso
dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso.  Vedendo  poi  quello
pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don Abbondio stava  guatando,
come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare  sicuramente  un  suo
cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi  dati  a
cento persone; sente il padrone dire che quel cane  è  bonaccio  di  natura,  la
miglior bestia del mondo; guarda il  padrone  e  non  osa  contraddire  per  non
offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda  il  cane  e  non  gli  si
avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e non
si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi  perché
teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro, manda giù
il cane, il padrone, e la sua sorte che l'ha portato in quel  gagno,  in  quella
compagnia: tali erano i sensi e gli atti del nostro povero  Don  Abbondio.  Pure
componendosi al meglio che potè, fece egli un inchino al Cardinale per accennare
che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte accompagnato  con  un  sorriso  che
voleva  dire:  -  sono  nelle  vostre  mani:  abbiate  misericordia:  parcere
subjectis -. Ma il Conte tutto assorto nei suoi  pensieri,  sbalordito  egli
stesso di tanta mutazione, intento a  raccogliersi,  a  riconoscersi,  per  così
dire, agitato dai rimorsi,  dal  pentimento,  da  una  certa  gioja  tumultuosa,
corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo, e con un aspetto sul
quale si confondevano tutti  questi  sentimenti  in  una  espressione  oscura  e
misteriosa, che lasciò Don Abbondio  ancor  più  sopra  pensiero  di  prima.  Il
Cardinale, si trasse in un angolo della stanza col Conte che teneva per mano,  e
gli disse: «Vi par egli, amico, che la cosa vada bene così?  Siete  contento  di
queste disposizioni?» «E che?» rispose il Conte commosso e umiliato, «dopo  aver
tanto tempo fatto il male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare
nel ripararlo? e da Federigo Borromeo?» «Da Dio tutti e  due»,  rispose  questi,
«perché siamo due poveretti.  Andate»,  continuò  poi  con  tuono  affettuoso  e
solenne; «andate, figliuol mio diletto a toglier di pene una creatura innocente,
a gustare i primi frutti della misericordia; io v'aspetto, voi  tornerete  tosto
non è vero? noi passeremo insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in
questa giornata?» «Se io tornerò?» rispose il Conte. «Ah! se voi mi  rifiutaste,
io mi rimarrei ostinato alla vostra porta come il mendico. Ho bisogno di voi! Ho
cose che non posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire ad altri  che
a voi. Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete  dirmi».  Federigo
in risposta gli strinse la mano, si avvicinò ad  un  tavolino,  scosse  un'altra
volta il campanello; e tosto entrò un ajutante di camera; cui  egli  impose  che
facesse tosto apprestar la lettiga la quale stesse agli  ordini  del  curato  di
Chiuso, e facesse bardare due mule, che dovevano servire di cavalcatura  ai  due
presenti. Dato l'ordine, riprese la mano del Conte  e  s'avviò  verso  la  porta
della stanza; ma  veduto  passando  il  nostro  Don  Abbondio  che  stava  tutto
pensieroso e come ingrugnato, pensò il buon cardinale che  quegli  forse  avesse
avuto per male di vedere quel facinoroso  così  accarezzato  e  distinto,  e  sè
negletto in un canto. Si fermò  tosto,  e  rivolto  al  curato  con  un  sorriso
amorevole, e quasi di scusa, e con quel tratto cortese tanto raro a quei  tempi,
in cui i modi comuni erano trascuratezza superba,  o  cortigianeria  iperbolica,
continua
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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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