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Alessandro Manzoni - Il Conte di Carmagnola

IL CONTE DI CARMAGNOLA TRAGEDIA


AL SIGNOR CARLO CLAUDIO FAURIEL IN ATTESTATO DI CORDIALE  E  RIVERENTE  AMICIZIA
L'AUTORE




PREFAZIONE

Pubblicando un'opera d'immaginazione che non si  uniforma  ai  canoni  di  gusto
ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io  non
credo però di dover annoiare il lettore con una lunga esposizione  de'  princìpi
che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla  poesia
drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in  essi  si
può trovare facilmente la ragione d'un dramma il quale, dipartendosi dalle norme
prescritte dagli antichi trattatisti, sia  ciò  non  ostante  condotto  con  una
qualche  intenzione.  Oltrediché,  ogni  componimento  presenta  a  chi   voglia
esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio  avviso  sono
questi: quale sia l'intento dell'autore; se questo intento sia  ragionevole;  se
l'autore l'abbia conseguito. Prescindere da un tale  esame,  e  volere  a  tutta
forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali  è  controversa  appunto
l'universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un
lavoro: il che per altro è uno de' più piccoli  mali  che  possano  accadere  in
questo  mondo.  Tra  i  vari  espedienti  che  gli  uomini  hanno  trovati   per
imbrogliarsi reciprocamente, uno de' più ingegnosi è quello d'avere,  quasi  per
ogni  argomento,  due  massime  opposte,  tenute  egualmente  come  infallibili.
Applicando quest'uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a  chi
la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui  i  grandi  poeti  non  vi
abbiano lasciato l'esempio. Questi comandi che rendono difficile l'arte  più  di
quello che è già, levano anche a uno scrittore  la  speranza  di  poter  rendere
ragione d'un lavoro poetico; quand'anche non ne lo ritenesse il ridicolo  a  cui
s'espone sempre l'apologista de' suoi propri versi. Ma poiché la quistione delle
due unità di tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza  far
parola della presente qualsisia tragedia: e poiché queste  unità,  malgrado  gli
argomenti a mio credere inespugnabili che furono addotti contro  di  esse,  sono
ancora da moltissimi tenute per condizioni indispensabili del dramma;  mi  giova
di riprenderne brevemente l'esame. Mi studierò per altro di fare  piuttosto  una
picciola  appendice,  che  una  ripetizione  degli  scritti  che  le  hanno  già
combattute. I. L'unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole
fondate nella ragione dell'arte, né connaturali all'indole del poema drammatico;
ma sono venute da una autorità non bene intesa, e  da  princìpi  arbitrari:  ciò
risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L'unità di luogo  è  nata  dal
fatto che la più parte delle tragedie  greche  imitano  un'azione  la  quale  si
compie in un sol luogo, e dalla idea  che  il  teatro  greco  sia  un  esemplare
perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L'unità di tempo ebbe origine da
un  passo  di  Aristotele,(1)  il  quale,  come  benissimo  osserva  il   signor
Schlegel,(2) non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto;  cioè
della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele avesse  realmente
inteso di stabilire un canone dell'arte, questa  sua  frase  avrebbe  il  doppio
inconveniente di non esprimere un'idea precisa, e di non essere accompagnata  da
alcun ragionamento. Quando poi vennero quelli  che,  non  badando  all'autorità,
domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero  trovarne
che una, ed è: che, assistendo lo  spettatore  realmente  alla  rappresentazione
d'un'azione, diventa per  lui  inverisimile  che  le  diverse  parti  di  questa
avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre  lui  sa
di non essersi mosso di luogo, e d'avere impiegate solo poche ore ad osservarla.
Questa ragione è evidentemente  fondata  su  un  falso  supposto,  cioè  che  lo
spettatore sia lì come parte dell'azione; quando è, per  così  dire,  una  mente
estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere  in  lui  dalle
relazioni dell'azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle che le  varie
parti dell'azione hanno tra di loro. Quando si considera  che  lo  spettatore  è
fuori dell'azione, l'argomento in favore delle unità svanisce. II. Queste regole
non sono in analogia con gli altri princìpi dell'arte ricevuti da quegli  stessi
che le credono necessarie. Infatti s'ammettono nella  tragedia  come  verisimili
molte cose che non lo sarebbero se ad esse s'applicasse il principio  sul  quale
si stabilisce la necessità delle due unità; il principio, cioè, che  nel  dramma
rappresentato siano verosimili que' fatti soli che s'accordano con  la  presenza
dello spettatore, dimanieraché possano parergli fatti reali. Se uno dicesse, per
esempio: que' due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come  se
credessero d'esser soli, distruggono ogni illusione,  perché  io  sento  d'esser
loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d'una moltitudine; gli
farebbe precisamente la stessa obiezione che i critici fanno alle tragedie  dove
sono trascurate le due unità. A quest'uomo non si può dare che una risposta:  la
platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità.  Chi
cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche  a  questi
casi, e non si sia imposto all'arte anche questo giogo,  io  credo  che  non  ne
troverebbe altro, se non che per questi casi non ci era un periodo d'Aristotele.
III. Se poi queste regole si confrontano con l'esperienza, la gran prova che non
sono necessarie alla illusione è, che il popolo si trova nello stato d'illusione
voluta dall'arte, assistendo ogni giorno e in tutti i paesi  a  rappresentazioni
dove esse non sono osservate; e  il  popolo  in  questa  materia  è  il  miglior
testimonio. Poiché  non  conoscendo  esso  la  distinzione  dei  diversi  generi
d'illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell'arte  definito
da alcuni critici pensatori;  niuna  idea  astratta,  niun  precedente  giudizio
potrebbe fargli ricevere un'impressione  di  verosimiglianza  da  cose  che  non
fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di  scena  distruggessero
l'illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel popolo che
nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a secondar
l'intenzioni dell'artista. Se dai teatri popolari  passiamo  ad  esaminare  qual
caso si sia fatto di queste regole  ne'  teatri  colti  delle  diverse  nazioni,
troviamo che nel greco non sono mai state stabilite per  principio,  e  che  s'è
fatto contro ciò  che  esse  prescrivono,  ogni  volta  che  l'argomento  lo  ha
richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli  più  celebri,  quelli  che
sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno conosciute,  o  non  se  ne
sono curati; che i tedeschi le rifiutano per riflessione.  Nel  teatro  francese
vennero introdotte a stento; e l'unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli  da
parte de' comici stessi, quando vi fu messa in pratica  da  Mairet  con  la  sua
Sofonisba, che si dice la prima  tragedia  regolare  francese:  quasi  fosse  un
destino che la regolarità deva sempre cominciare da  una  Sofonisba  noiosa.  In
Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che  io
sappia, e quindi probabilmente senza esame. IV. Per colmo poi  di  bizzarria,  è
accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in
fatto. Perché, senza parlare di qualche violazione dell'unità di  luogo  che  si
trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate  esclusivamente
regolari, è noto che l'unità di tempo non è osservata né pretesa nel suo stretto
senso, cioè nell'uguaglianza del tempo fittizio attribuito all'azione col  tempo
reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese
si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme il est
très-rare (dice un critico francese) de trouver des  sujets  qui  puissent  être
resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on  l'a  étendue
jusqu'à vingt-quatre heures.(3) Con una tale transazione i trattatisti non hanno
fatto altro che riconoscere l'irragionevolezza della regola, e si sono messi  in
un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacché  si  potrà  ben
discutere con chi è di parere  che  l'azione  non  deva  oltrepassare  il  tempo
materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto,  con  qual
ragione pretenderà che uno si tenga in un limite fissato  così  arbitrariamente?
Cosa si può mai dire a un critico, il quale crede che si  possano  allargare  le
regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più  ragionevole  chiedere
il molto che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste
regole; ma non se ne può trovare una per ottenere una  facilitazione  a  chi  le
voglia seguire. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la  durée
fictive de l'action pût se borner au temps du spectacle; mais c'est être  ennemi
des arts, et du plaisir qu'ils causent, que de leur imposer des lois  qu'ils  ne
peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources  les  plus  fécondes,  et  de
leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont le Public convient
tacitement avec les poètes, à condition qu'ils les employent à lui plaire, et  à
le toucher; et de ce nombre est l'extension feinte et supposée du temps réel  de
l'action  théâtrale.(4)  Ma  le  licenze  felici  sono  parole  senza  senso  in
letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano  un'idea  chiara
nel  loro  significato  proprio  e  comune,  e  che  usate  qui  metaforicamente
rinchiudono una contradizione. Si chiama ordinariamente licenza ciò  che  si  fa
contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno  in  questo  senso  licenze
felici, perché tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello
che la natura delle cose richieda. Si è  trasportata  questa  espressione  nella
grammatica, e vi sta bene; perché le regole grammaticali essendo di convenzione,
e per conseguenza alterabili, può uno  scrittore,  violando  alcuna  di  queste,
spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle arti del bello  la  cosa  sta
altrimenti. Esse devono essere fondate  sulla  natura,  necessarie,  immutabili,
indipendenti dalla  volontà  de'  critici,  trovate,  non  fatte;  e  quindi  la
trasgressione di esse non può esser altro  che  infelice.  -  Ma  perché  queste
riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta l'errore.  Quando
s'abbraccia  un'opinione  storta,  si  usa  per  lo  più  spiegarla  con   frasi
metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un  altro;  perché  la  frase
chiara svelerebbe la contradizione. E a  voler  mettere  in  chiaro  l'erroneità
della opinione, bisogna indicare  dove  sta  l'equivoco.  V.  Finalmente  queste
regole  impediscono  molte  bellezze,  e  producono  molti  inconvenienti.   Non
discenderò a dimostrare con esempi la prima parte di questa proposizione: ciò  è
stato fatto egregiamente più di una volta. E la cosa resulta tanto evidentemente
dalla più leggiera osservazione d'alcune tragedie  inglesi  e  tedesche,  che  i
sostenitori stessi delle regole sono costretti a riconoscerla.  Confessano  essi
che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo a una
imitazione ben altrimenti varia e forte:  non  negano  le  bellezze  ottenute  a
scapito delle regole; ma affermano che bisogna  rinunziare  a  quelle  bellezze,
giacché  per  ottenerle  bisogna  cadere  nell'inverosimile.   Ora,   ammettendo
l'obiezione, è chiaro  che  l'inverosimiglianza  tanto  temuta  non  si  farebbe
sentire che alla rappresentazione scenica;  e  però  la  tragedia  da  recitarsi
sarebbe di sua natura incapace di quel grado di perfezione, a cui  può  arrivare
la tragedia, quando non si  consideri  che  come  un  poema  in  dialogo,  fatto
soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare
dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe  preferire  sempre  questo  secondo
genere di tragedia: e nell'alternativa  di  sacrificare  o  la  rappresentazione
materiale, o ciò che forma l'essenza del bello poetico, chi potrebbe  mai  stare
in dubbio? Certo, meno d'ogni altro quei critici i quali sono sempre  di  parere
che le tragedie greche non siano mai state superate dai moderni, e che producano
il sommo effetto poetico, quantunque non servano più che alla  lettura.  Non  ho
inteso con ciò di concedere che i drammi senza le  unità  riescano  inverosimili
alla recita: ma  da  una  conseguenza  ho  voluto  far  sentire  il  valore  del
principio. Gl'inconvenienti che  nascono  dall'astringersi  alle  due  unità,  e
specialmente a quella di luogo, sono ugualmente confessati dai critici. Anzi non
par credibile che le  inverosimiglianze  esistenti  nei  drammi  orditi  secondo
queste regole, siano così tranquillamente tollerate da coloro  che  vogliono  le
regole a solo fine d'ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa
loro rassegnazione: Dans Cinna il faut que  la  conjuration  se  fasse  dans  le
cabinet d'Emilie, et qu'Auguste vienne dans ce mêne cabinet confondre Cinna,  et
lui pardonner: cela est peu naturel. La sconvenienza è  assai  bene  sentita,  e
sinceramente confessata. Ma la giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il
le faut.(5) Forse si è qui eccessivamente ciarlato su  una  questione  già  così
bene sciolta, e che a molti può parer troppo frivola. Rammenterò  a  questi  ciò
che disse molto sensatamente in un caso consimile un noto scrittore:  Il  n'y  a
pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s'y  point
tromper, s'il est possible.(6) E del rimanente, credo  che  una  tale  questione
abbia il suo lato importante. L'errore solo è frivolo in ogni senso.  Tutto  ciò
che ha relazione con l'arti della parola, e coi diversi  modi  d'influire  sulle
idee e  sugli  affetti  degli  uomini,  è  legato  di  sua  natura  con  oggetti
gravissimi. L'arte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati: essa è
considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri  come  un
mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa indifferente. Ed  è  certo
che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di  verità
e di  perfezione,  deve  alterare,  dirigere,  aumentare,  o  diminuire  la  sua
influenza.  Quest'ultime  riflessioni  conducono  a  una  questione  più   volte
discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt'altro che sciolta;  ed  è:
se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So  che  ai  nostri  giorni  sembra
pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il Pubblico di  tutte
le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi  sembra  però
che ci voglia molto coraggio per  sottoscriversi  senza  esame  a  una  sentenza
contro la quale sussistono le proteste  di  Nicole,  di  Bossuet,  e  di  G.  G.
Rousseau, il di cui nome  unito  a  questi  viene  qui  ad  avere  una  autorità
singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire  due  punti:  uno  che  i
drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali: l'altro  che  ogni  dramma
deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l'arte;  e
che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle  cose  che  si  devono
abbandonare, quantunque producano dei piaceri,  perché  essenzialmente  dannose.
Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori
nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno  dedotta
contro la poesia drammatica in generale. Mi  pare  che  siano  stati  tratti  in
errore dal non aver supposto possibile  altro  sistema  che  quello  seguito  in
Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile  del  più  alto  grado
d'interesse e immune dagl'inconvenienti di quello: un  sistema  conducente  allo
scopo  morale,  ben  lungi  dall'essergli  contrario.  Al  presente  saggio   di
componimento drammatico, m'ero proposto d'unire un discorso su  tale  argomento.
Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo,  mi
fo lecito d'annunziarlo; perché mi pare cosa  sconveniente  il  manifestare  una
opinione contraria all'opinione ragionata d'uomini di prim'ordine, senza addurre
le proprie ragioni, o senza prometterle almeno(7). Mi rimane a render conto  del
Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere  nominati
personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un  enimma.  Non  posso
meglio spiegarne l'intenzione,  che  riportando  in  parte  ciò  che  il  signor
Schlegel  ha  detto  dei  Cori  greci:  Il  Coro  è  da  riguardarsi   come   la
personificazione de' pensieri morali che  l'azione  ispira,  come  l'organo  de'
sentimenti del poeta che parla  in  nome  dell'intera  umanità.  E  poco  sotto:
Vollero i greci  che  in  ogni  dramma  il  Coro...  fosse  prima  di  tutto  il
rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell'umanità:
il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l'impressioni  violente
e dolorose d'un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando,  per
così dire, allo spettatore reale  le  sue  proprie  emozioni,  gliele  rimandava
raddolcite dalla vaghezza d'un'espressione lirica e  armonica,  e  lo  conduceva
così nel campo più tranquillo della contemplazione.(8) Ora m'è parso che,  se  i
Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si  possa  però
ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci
lirici  composti  sull'idea  di  que'  Cori.  Se  l'essere  questi  indipendenti
dall'azione e non applicati a personaggi li priva d'una gran parte  dell'effetto
che producevano quelli, può però, a mio  credere,  renderli  suscettibili  d'uno
slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il
vantaggio d'essere  senza  inconvenienti:  non  essendo  legati  con  l'orditura
dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri  e  si  scomponga  per
farceli stare. Hanno finalmente  un  altro  vantaggio  per  l'arte,  in  quanto,
riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli
diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi
i suoi propri sentimenti: difetto dei più  notati  negli  scrittori  drammatici.
Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla
recita, io propongo soltanto che  siano  destinati  alla  lettura:  e  prego  il
lettore d'esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui  se  ne
presenta; perché il progetto mi sembra potere essere atto a  dare  all'arte  più
importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e
più determinato  d'influenza  morale.  Premetto  alla  tragedia  alcune  notizie
storiche sul personaggio e sui fatti che sono l'argomento di essa, pensando  che
chiunque si risolve a leggere un componimento misto  d'invenzione  e  di  verità
storica, ami  di  potere,  senza  lunghe  ricerche,  discernere  ciò  che  vi  è
conservato di avvenimenti reali.


NOTIZIE STORICHE

Francesco di Bartolommeo Bussone, contadino, nacque in Carmagnola,  donde  prese
il nome di guerra che gli è rimasto nella storia. Non si sa  di  certo  in  qual
anno nascesse: il Tenivelli, che ne scrisse la vita nella Biografia  Piemontese,
crede che sia stato verso il  1390.  Mentre  ancor  giovinetto  pascolava  delle
pecore, l'aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo
invitò a venir con lui alla guerra. Egli lo seguì volentieri, e si mise con esso
al soldo di Facino Cane, celebre  condottiero.  Qui  la  storia  del  Carmagnola
comincia ad esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa  se
non  i  fatti  principali,  e  particolarmente  quelli  che  sono  accennati   o
rappresentati nella tragedia. Alcuni di essi sono raccontati  così  diversamente
dagli storici, che è impossibile formarsene e darne una opinione, certa e unica.
Tra le relazioni spesso varie, e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi  sono
parse più verosimili, o sulle quali gli  scrittori  vanno  più  d'accordo.  Alla
morte di Giovanni Maria Visconti Duca di  Milano  (1412),  il  di  lui  fratello
Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del Ducato. Ma questo
Stato, ingrandito dal  loro  padre  Giovanni  Galeazzo,  s'era  sfasciato  nella
minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo.
Molte città s'erano ribellate, alcune erano tornate in potere de'  loro  antichi
signori, d'altre s'erano fatti padroni i condottieri stessi delle truppe ducali.
Facino Cane uno di questi, il quale di Tortona, Vercelli ed  altre  città  s'era
formato un piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria
fu ucciso da' congiurati in Milano.  Filippo  sposò  Beatrice  Tenda  vedova  di
Facino, e con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute da lui,  e
de' suoi militi. Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva già un  comando.  Questo
esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò  il  figlio  naturale  di
Barnabò Visconti, Astorre,  il  quale  se  n'era  impadronito,  e  lo  sforzò  a
ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase  ucciso.  Il  Carmagnola  si  segnalò
tanto in questa impresa, che fu nominato condottiero dal Duca. Tutti gli storici
riguardano  il  Carmagnola  come  artefice  della  potenza  di  Filippo.  Fu  il
Carmagnola che gli riacquistò in poco tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e  altre
città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita  o  per  semplice  cessione  di
quelli che le avevano occupate: il terrore che già ispirava il  nome  del  nuovo
condottiero sarà probabilmente stato  il  motivo  di  queste  transazioni.  Egli
espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo, che  nel  1412
era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva  nel  1424  venti  città
"acquistate" a, per servirmi delle parole di Pietro Verri,  "colle  nozze  della
infelice Duchessa,(9) e colla fede e col valore del Conte Francesco".  Venne  il
Carmagnola creato dal  Duca  conte  di  Castelnovo;  sposò  Antonietta  Visconti
parente di esso, non si sa in qual grado; e si fabbricò  in  Milano  il  palazzo
chiamato ancora del Broletto. L'alta fama dell'esimio condottiero,  l'entusiasmo
de' soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero,  la  grandezza  forse  de
suoi servizi, gli alienarono l'animo del Duca. I nemici del Conte, tra  i  quali
il Bigli, storico  contemporaneo,  cita  Zanino  Riccio  e  Oldrado  Lampugnano,
fomentarono i sospetti e l'avversione del loro  signore.  Il  Conte  fu  spedito
governatore a Genova,  e  levato  così  dalla  direzione  della  milizia.  Aveva
conservato il comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo
rinunziasse.  Il  Carmagnola  rispose  pregandolo  che  non  volesse   spogliare
dell'armi un uomo nutrito tra l'armi: e ben s'accorse, dice  il  Bigli,(10)  che
questo era un consiglio de' suoi nemici, i  quali  confidavano  di  poter  tutto
osare, quando lo avessero ridotto a condizione privata. Non  ottenendo  risposta
né alle lagnanze, né alla domanda espressa d'essere licenziato dal servizio,  il
Conte si risolvette di  recarsi  in  persona  a  parlare  col  principe.  Questo
dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola  si  presentò  per  entrare  nel
castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi annunziare al Duca,
ebbe in risposta ch'era impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette, dicendo
d'aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata  la  prima
risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo  guardava  da  una  balestriera,  gli
rimproverò la sua ingratitudine, e la  sua  perfidia,  e  giurò  che  presto  si
farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al  cavallo,
e partì coi pochi compagni che  aveva  condotti  con  sé,  inseguito  invano  da
Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio di non arrivarlo.  Andò  il
Carmagnola in Piemonte, dove abboccatosi con Amedeo duca di Savoia  suo  natural
principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo; poi attraversando  la  Savoia,
la Svizzera e il Tirolo, si portò a  Treviso.  Filippo  confiscò  i  beni  assai
ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanese.(11) Giunto il  Carmagnola  a
Venezia il giorno 23 di febbraio del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu
dato alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi  a
lui e al suo seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio della repubblica con
300 lance.(12) I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice  contro  il
Duca Filippo, chiedevano l'alleanza dei Veneziani: il  Duca  instava  presso  di
essi perché volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un  Giovanni
Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca d'ammazzare il Carmagnola, purché
gli fosse concesso di ritornare  a  casa.  La  trama  fu  sventata,  e  levò  ai
Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse  mai  più  per  riconciliarsi  col  suo
antico principe. Il Bigli  attribuisce  in  gran  parte  a  questa  scoperta  la
risoluzione dei Veneziani per la guerra.  Il  doge  propose  in  senato  che  si
consultasse il Carmagnola: questo  consigliò  la  guerra:  il  doge  opinò  pure
caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini  e  con  altri  Stati
d'Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426.  Il  giorno  11
del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di terra
della repubblica; e il 15 gli fu dato dal doge il  bastone  e  lo  stendardo  di
capitano, all'altare di san Marco.  Trascorrerò  più  rapidamente  che  mi  sarà
possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la  quale  fu  interrotta  da  due
paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla tragedia.
"Ridussesi  la  guerra  in  Lombardia,  dove   fu   governata   dal   Carmagnola
virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con  la  città
di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle  guerre,  fu
tenuta mirabile."(13) Papa Martino V s'intromise; e sul finire dello stesso anno
fu conclusa la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani  Brescia  col  suo
territorio. Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise per la prima volta in
uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un  doppio  recinto  di  carri,
sopra ognuno de' quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli fatti, e dopo
la presa d'alcune terre, s'accampò sotto il castello di Maclodio, ch'era  difeso
da una guarnigione duchesca. Comandavano nel  campo  del  Duca  quattro  insigni
condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello,  Francesco  Sforza,  e  Nicolò
Piccinino.(14) Essendo nata discordia tra di loro, il giovine Filippo  vi  mandò
con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice  il
Bigli, alla nobiltà mancava l'ingegno. Questo storico  osserva  che  il  supremo
comando  dato  al  Malatesti  non  bastò  a  levar  di  mezzo  la  rivalità  de'
condottieri;  mentre  nel  campo  veneto  a  nessuno  repugnava  d'ubbidire   al
Carmagnola, benché avesse sotto di sé  condottieri  celebri,  e  principi,  come
Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova,  Antonio  Manfredi,  di  Faenza,  e
Giovanni Varano, di Camerino. Il Carmagnola seppe  conoscere  il  carattere  del
generale nemico, e cavarne profitto. Attaccò Maclodio, in  vicinanza  del  quale
era il campo duchesco.  I  due  eserciti  si  trovarono  divisi  da  un  terreno
paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata a guisa d'argine:  e  tra
le paludi s'alzavano qua e là delle macchie poste su un  terreno  più  sodo:  il
Conte mise in queste degli agguati, e si diede a provocare il nemico. Nel  campo
duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo  sono  poco  meno.  Ma
l'opinione che pare più comune, è che  il  Pergola  e  il  Torello,  sospettando
d'agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo  Sforza  e  il  Piccinino  la
volessero a ogni costo. Carlo fu  del  parere  degli  ultimi;  la  diede,  e  fu
pienamente sconfitto. Appena il suo  esercito  ebbe  affrontato  il  nemico,  fu
assalito a destra e a sinistra  dall'imboscate,  e  gli  furono  fatti,  secondo
alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri.  Il  comandante  fu  preso
anche  lui;  gli  altri  quattro,  chi  in  una  maniera,  chi  nell'altra,   si
sottrassero. Un figlio del Pergola si trovò tra i prigionieri. La notte dopo  la
battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri.
I commissari veneti, che seguivano l'esercito,  ne  fecero  delle  lagnanze  col
Conte; il  quale  domandò  a  qualcheduno  de'  suoi  cosa  fosse  avvenuto  de'
prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi in libertà, meno
un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati, secondo  l'uso.(15)
Uno storico che non solo scriveva in que' tempi, ma  aveva  militato  in  quelle
guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia  indicata  la
vera ragione di quest'uso militare d'allora. Egli l'attribuisce al timore che  i
soldati avevano di veder presto finite le guerre,  e  di  sentirsi  gridare  dai
popoli: alla zappa i soldati.(16) I Signori veneti furono punti  e  insospettiti
dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione. Infatti, prendendo al soldo un
condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra secondo  le  leggi  della
guerra comunemente seguite; e non potevano senza  indiscrezione  pretendere  che
prendesse il rischioso impegno d'opporsi  a  un'usanza  così  utile  e  cara  ai
soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e  a  privarsi  d'ogni
appoggio. Avevano bensì ragione di pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non
una devozione  illimitata:  questa  s'accorda  solamente  a  una  causa  che  si
abbraccia per entusiasmo o  per  dovere.  Non  trovo  però  che  dopo  le  prime
osservazioni de' commissari,  la  Signoria  abbia  fatte  col  Carmagnola  altre
lagnanze su questo fatto: non  si  parla  anzi  che  d'onori  e  di  ricompense.
Nell'aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca  un'altra  di  quelle
solite paci. La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per il  Conte  così  prosperi
cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in Soncino per il
Duca, si finse disposto a cedere per tradimento  quel  castello  al  Carmagnola.
Questo ci andò con una parte dell'esercito, e cadde in un agguato,  dove  lasciò
prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi  lui  a
stento. Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani, capitano dell'armata veneta sul Po,
venne alle prese coi galeoni del Duca. Il Piccinino  e  lo  Sforza,  facendo  le
viste di voler attaccare il  Carmagnola,  lo  rattennero  dal  venire  in  aiuto
all'armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro  genti  di  terra
sulle navi del Duca. Quando il Carmagnola s'avvide  dell'inganno,  e  corse  per
sostenere i suoi, la battaglia era vicino all'altra  riva.  L'armata  veneta  fu
sconfitta, e il capitano di essa fuggì in  una  barchetta.  Gli  storici  veneti
accusano qui il Carmagnola di tradimento. Gli storici che  non  hanno  preso  il
tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra  taccia  che
d'essersi lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che la  condotta  del
Trevisani fosse imprudente da principio, e irresoluta  nella  battaglia.(17)  Fu
bandito, e gli furono confiscati i beni; "e al capitano  generale  (Carmagnola),
per imputazione di non aver dato favore all'armata, con lettere  del  Senato  fu
scritta una lieve riprensione".(18) Il giorno 18 d'ottobre, il Carmagnola  diede
ordine al Cavalcabò, uno de' suoi condottieri,  di  sorprender  Cremona.  Questo
riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette
abbandonare l'impresa, e ritornare  al  campo.  Il  Carmagnola  non  credette  a
proposito d'andar col grosso dell'esercito a sostenere quest'impresa; e  mi  par
cosa strana che ciò gli sia stato  imputato  a  tradimento  dalla  Signoria.  La
resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo  spiega  benissimo  perché  il
generale non si sia ostinato a  combattere  una  città  che  sperava  d'occupare
tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacché non si sa
vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la  spedizione,  il  cattivo  esito
della quale non fu d'alcun vantaggio per il nemico. Ma  la  Signoria,  risoluta,
secondo l'espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò  in  qual
maniera potesse averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una  più  pronta  né
più sicura, che d'invitarlo a Venezia col pretesto di consultarlo sulla pace. Ci
andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono  fatti  onori  straordinari  a
lui, e al Gonzaga che l'accompagnava. Tutti gli storici, anche  veneziani,  sono
d'accordo in questo; pare anzi che raccontino con un sentimento  di  compiacenza
questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava prudenza
e virtù  politica.  Arrivato  a  Venezia,  "gli  furono  mandati  incontro  otto
gentiluomini, avanti ch'egli smontasse a casa sua, che  l'accompagnarono  a  San
Marco".(19) Entrato che fu nel palazzo ducale,  si  rimandarono  le  sue  genti,
dicendo loro che il Conte si fermerebbe a  lungo  col  doge.  Fu  arrestato  nel
palazzo, e condotto in prigione. Fu esaminato  da  una  Giunta,  alla  quale  il
Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il giorno  5  di
maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca  tra  le  due  colonne  della
Piazzetta, e decapitato. La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo
alcuni) si trovavano allora in Venezia. Nulla d'autentico si ha sull'innocenza o
sulla reità di questo grand'uomo. Era da aspettarsi che gli  storici  veneziani,
che volevano scrivere e viver tranquilli, l'avrebbero  trovato  colpevole.  Essi
esprimono quest'opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza  che  è
naturale a chi parla in  favore  della  forza.  Senza  perdersi  in  congetture,
asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e  con  le
sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo
essere stato adoprato è l'infamissimo primo, quello  che  non  prova  nulla.  Ma
oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino  la
reità del Carmagnola, molte  riflessioni  la  fanno  parere  improbabile.  Né  i
Veneziani  hanno  rivelato  mai  quali  fossero  le  condizioni  del  tradimento
pattuito;  né  da  altra  parte  s'è  saputo  mai  nulla  d'un  tale   trattato.
Quest'accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche
svantaggio di guerra,  il  quale  anche  si  spiega  senza  ricorrere  a  questa
supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno  che  atroce  quella  che
volesse imputato a perfidia del generale ogni evento infelice. Si  badi  inoltre
all'essere il Conte andato a Venezia senza esitazione, senza  riguardi  e  senza
precauzioni: si badi all'aver sempre la Signoria  fatto  un  mistero  di  questo
fatto, malgrado la taccia d'ingratitudine e d'ingiustizia che  gli  si  dava  in
Italia; si badi alla crudele precauzione di mandare il Conte al supplizio con le
sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in  quanto  s'adoprava  con
uno che non era veneziano, e non poteva aver  partigiani  nel  popolo;  si  badi
finalmente al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che
l'uno e l'altro ripugnano alla supposizione d'un trattato di questa sorte tra di
loro. Una riconciliazione segreta con un uomo che  gli  era  stato  orribilmente
ingrato, e che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far  la  guerra  da
stracco, anzi di lasciarsi  battere,  non  s'accordano  con  l'animo  impetuoso,
attivo, avido di gloria del Carmagnola.  Il  Duca  non  era  perdonatore;  e  il
Carmagnola che lo conosceva meglio d'ogni altro, non avrebbe mai potuto  credere
a una riconciliazione stabile e sicura con lui.  Il  disegno  di  ritornare  con
Filippo  offeso  non  poteva  mai  venire  in  mente  a  quell'uomo  che   aveva
esperimentate le retribuzioni di Filippo beneficato. Ho cercato se negli storici
contemporanei si trovasse qualche traccia  d'un'opinione  pubblica,  diversa  da
quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere;  ed  ecco  ciò  che  n'ho
potuto raccogliere. Un cronista di Bologna, dopo aver  raccontata  la  fine  del
Carmagnola, soggiunge: "Dissesi che questo hanno fatto perché  egli  non  faceva
lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva,  e  che
s'intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro  posto
nelle mani del Conte, capitano d'un tanto esercito, parendo loro di stare a gran
pericolo, e non sapendo con qual miglior modo  potessero  deporlo,  han  trovato
cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto  saviamente;
perché par pure, che per  questo  la  Signoria  abbia  molto  diminuita  la  sua
possanza, ed esaltata quella del Duca di  Milano."(20)  E  il  Poggio:  "Certuni
dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna;  ma  che  ne
fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e  odiosa  a
tutti."(21) Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma  di  poco  posteriore,
dice così: "Gli tolsero il valsente di più di trecento  migliaia  di  ducati,  i
quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro." Senza dar molto  peso
a quest'ultima congettura, mi pare che  le  prime  due,  cioè  il  timore  e  le
vendette private dell'amor proprio, bastino, per que' tempi, a  dare  di  questo
avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile  di  un  tradimento
contrario all'indole e all'interesse dell'uomo a cui  fu  imputato.  Tra  quegli
storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni  antiche,  le  hanno
esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch'io  sappia,  si  mostrò  persuaso
affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una giusta sentenza. Questo è  il
Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua  Storia,  che  si  riferisce  a
questo avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è  venuta  dal
non aver lui voluto informarsi esattamente de' fatti sui quali andava stabilita.
Ecco le sue parole: "O foss'egli allontanato, per una ripugnanza dell'animo, dal
portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva  un  tempo  ottenuto
gli onori, e sotto del quale aveva acquistata  la  celebrità;  ovvero  foss'egli
ancora nella fiducia, che umiliato il Duca  venisse  a  fargli  proposizioni  di
accomodamento, e gli sacrificasse i  meschini  nemici,  che  avevano  ardito  di
nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo,  il
Conte Francesco Carmagnola, malgrado  il  dissenso  dei  Procuratori  veneti,  e
malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma  liberi
al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri
nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427... Il  seguito  delle  sue  imprese
fece sempre più palese il suo animo;  poiché  trascurò  tutte  le  occasioni,  e
lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali  di  sostenersi.  In  somma
giunse a tale evidenza la cattiva fede  del  Conte  Francesco  Carmagnola,  che,
venne, dopo  formale  processo,  decapitato  in  Venezia...  come  reo  di  alto
tradimento." Fa stupore il vedere addotto in prova  della  reità  d'un  uomo  in
giudizio segreto di que' tempi, da  uno  storico  che  ne  ha  tanto  conosciuta
l'iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a' suoi lettori. In  quanto
al fatto de'  prigionieri,  ognuno  vede  gli  errori  della  relazione  che  ho
trascritta. Il Conte di Carmagnola  non  rimandò  liberi  tutti  i  soldati,  ma
quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che  il
Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati  fossero  rimandati
al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perché si entri  in
congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione,  quando
la storia ne dà per motivo un'usanza comune. La sorte  del  Carmagnola  fece  un
gran rumore in tutta l'Italia;  e  pare  che  in  particolare  i  Piemontesi  la
sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il  seguente
aneddoto raccontato dal Denina. Il primo sospetto che  i  Veneziani  ebbero  del
segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d'un loro agente di  Milano,
il quale era venuto a sapere "che un Carlo Giuffredo Piemontese che  si  trovava
fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re  Luigi,  andava
fra  i  suoi  famigliari  dicendo  essere  venuto  il  tempo  in  cui  sarebbesi
abbondantemente  vendicata  la  morte  del  Conte   Francesco   Carmagnola   suo
compatriotto".(22) Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di
vendetta, e di patriottismo municipale, ma come  un  indizio  del  caso  che  si
faceva di questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d'Italia,  che
lo considerava più specialmente come suo.  A  quegli  avvenimenti  che  si  sono
scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s'è  conservato  il  loro
ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne  eccettui  l'aver
supposto accaduto in Venezia l'attentato contra la vita del  Carmagnola,  quando
in vece accadde in Treviso.



IL CONTE DI CARMAGNOLA TRAGEDIA

*


PERSONAGGI STORICI

IL CONTE DI CARMAGNOLA. ANTONIETTA VISCONTI, sua moglie. UNA LORO FIGLIA, a  cui
nella tragedia si è attribuito il nome di MATILDE. FRANCESCO  FOSCARI,  Doge  di
Venezia.

Condottieri al soldo dei Veneziani: GIOVANNI FRANCESCO GONZAGA, PAOLO  FRANCESCO
ORSINI, NICOLÒ DA TOLENTINO,

Condottieri al soldo del Duca di Milano: CARLO MALATESTI, ANGELO DELLA  PERGOLA,
GUIDO TORELLO, NICOLÒ PICCININO, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome
di FORTEBRACCIO, FRANCESCO SFORZA, PERGOLA Figlio.

PERSONAGGI IDEALI

MARCO, Senatore Veneziano. MARINO, uno de' Capi del Consiglio dei  Dieci.  PRIMO
COMMISSARIO veneto nel campo. SECONDO COMMISSARIO.  UN  SOLDATO  Del  CONTE.  UN
SOLDATO prigioniero.

SENATORI, CONDOTTIERI, SOLDATI, PRIGIONIERI, GUARDIE

ATTO PRIMO


SCENA I

Sala del Senato, in Venezia.

IL DOGE e SENATORI seduti.


IL DOGE

È giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto, nobiluomini, il dì che statuito fu a
risolver da voi. Su questa lega, a cui Firenze con sì caldi preghi  incontro  il
Duca di Milan c'invita, oggi il partito si porrà. Ma pria, se alcuno è  qui  cui
non sia noto ancora che vile opra di tenebre e di sangue sugli occhi  nostri  fu
tentata, in questa stessa Venezia, inviolato  asilo  di  giustizia  e  di  pace,
odami: al nostro deliberar  rileva  assai  che'  alcuno  qui  non  l'ignori.  Un
fuoruscito al Conte di Carmagnola  insidiò  la  vita;  fallito  è  il  colpo,  e
l'assassino è in ceppi. Mandato egli era; e quei che  a  ciò  mandollo  ei  l'ha
nomato, ed è... quel Duca istesso di cui qui abbiam gli  ambasciatori  ancora  a
chieder pace, a cui più nulla preme che la nostra amistà. Tale arra  intanto  ei
ci dà della sua. Taccio la vile perfidia della trama, e l'onta aperta che in  un
nostro soldato a noi vien  fatta.  Due  sole  cose  avverto:  egli  odia  dunque
veracemente il Conte; ella è fra loro chiusa ogni via  di  pace;  il  sangue  ha
stretto tra lor d'eterna inimicizia un patto. L'odia... e lo teme: ei sa che  il
può dal trono quella mano sbalzar che in trono il pose; e disperando che  più  a
lungo in questa inonorata, improvida, tradita pace restar  noi  consentiamo,  ei
sente che sia per noi quest'uom; questo tra i primi guerrier d'Italia il  primo,
e, ciò che meno forse non è, delle sue forze istrutto come dell'arti sue; questo
che il lato saprà tosto trovargli ove più certa, e più mortal sia la ferita.  Ei
volle spezzar quest'arme in nostra  mano;  e  noi  adoperiamla,  e  tosto.  Onde
possiamo un più fedele e saggio avviso in questo, che dal Conte  aspettarci?  Io
l'invitai; piacevi udirlo? (segni di adesione) S'introduca il Conte.


SCENA II

IL CONTE, e detti.


IL DOGE

Conte di Carmagnola, oggi la prima occasion s'affaccia in che di voi si valga la
Repubblica, e vi mostri in che conto vi tiene: in grave affare  grave  consiglio
ci abbisogna. Intanto tutto per bocca mia questo Senato si rallegra con  voi  da
sì nefando periglio uscito; e protestiam che a noi fatta è l'offesa, e  che  sul
vostro capo or più che mai fia steso il nostro scudo, scudo di  vigilanza  e  di
vendetta.

IL CONTE

Serenissimo Doge, ancor null'altro io per  questa  ospital  terra,  che  ardisco
nomar mia patria, potei far che voti. Oh! mi sia dato alfin questa mia vita, pur
or sottratta al macchinar de' vili, questa che nulla or fa che giorno  a  giorno
aggiungere in silenzio, e che guardarsi tristamente, tirarla in luce  ancora,  e
spenderla per voi, ma di tal modo, che dir si possa un dì, che in  loco  indegno
vostr'alta cortesia posta non era.

IL DOGE

Certo gran cose, ove il bisogno il chieda, ci promettiam da voi. Per or ci giovi
soltanto il vostro senno. In suo  soccorso  contro  il  Visconte  l'armi  nostre
implora già da lungo Firenze. Il vostro avviso nella bilancia che teniam librata
non farà piccol peso.

IL CONTE

E senno e braccio e quanto io sono è cosa vostra: e certo se mai fu caso in  cui
sperar m'attenti che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo. E lo  darò:  ma
pria mi sia concesso di me parlarvi in breve, e un  core  aprirvi,  un  cor  che
agogna sol d'esser ben noto.

IL DOGE

Dite: a questa adunanza indifferente cosa che a cor vi stia giunger non puote.

IL CONTE

Serenissimo Doge, Senatori; io sono al punto in cui non posso a voi esser  grato
e fedel, s'io non divengo nemico all'uom  che  mio  signor  fu  un  tempo.  S'io
credessi che ad esso il più sottile vincolo di dover mi  leghi  ancora,  l'ombra
onorata delle vostre insegne fuggir vorrei, viver nell'ozio oscuro vorrei, prima
che romperlo, e me stesso far vile agli occhi miei. Dubbio  veruno  sul  partito
che presi in cor non sento, perch'egli è giusto ed onorato:  il  solo  timor  mi
pesa del giudizio altrui. Oh! beato colui cui la fortuna così  distinte  in  suo
cammin presenta le vie del biasmo e dell'onor,  ch'ei  puote  correr  certo  del
plauso, e non dar mai passo ove trovi  a  malignar  l'intento  sguardo  del  suo
nemico. Un altro campo correr degg'io, dove in periglio sono di riportar,  forza
è pur dirlo, il brutto nome d'ingrato, l'insoffribil nome di  traditor.  So  che
de' grandi è l'uso valersi d'opra ch'essi stiman rea, e profondere  a  quel  che
l'ha compita premi e disprezzo, il so; ma io  non  sono  nato  a  questo;  e  il
maggior, premio che bramo, il solo, egli è la  vostra  stima,  e  quella  d'ogni
cortese; e, arditamente il dico, sento di meritarla. Attesto il vostro  sapiente
giudizio, o Senatori, che d'ogni obbligo sciolto inverso il Duca mi tengo, e  il
sono. Se volesse alcuno de' benefizi che tra noi son corsi pareggiar le ragioni,
è noto al mondo qual rimarrebbe il debitor dei due. Ma  di  ciò  nulla:  io  fui
fedele al Duca fin che fui seco, e nol lasciai che quando ei mi  v'astrinse.  Ei
mi balzò dal grado col  mio  sangue  acquistato:  invan  tentai  al  mio  signor
lagnarmi. I miei nemici fatto avean siepe intorno  al  trono:  allora  m'accorsi
alfin che la mia vita anch'essa stava in periglio: a ciò non gli diei tempo. Ché
la mia vita io voglio dar, ma in campo, per nobil causa, e con onor,  non  preso
nella rete de' vili. Io lo lasciai, e a voi chiesi un asilo; e in questo  ancora
ei mi tese un agguato. Ora a costui più nulla io deggio; di nemico aperto nemico
aperto io sono. All'util  vostro  io  servirò,  ma  franco  e  in  mio  proposto
deliberato, come quei ch'è certo che giusta cosa imprende.

IL DOGE

E  tal  vi  tiene  questo  Senato:  già  tra  il  Duca  e   voi   ha   giudicato
irrevocabilmente Italia tutta. Egli la vostra fede ha liberata, a voi l'ha  resa
intatta, qual gliela deste il primo giorno. È  nostra  or  questa  fede;  e  noi
saprem tenerne ben altro conto. Or d'essa un  primo  pegno  il  vostro  schietto
consigliar ci sia.

IL CONTE

Lieto son io che un tal consiglio io possa darvi senza  esitanza.  Io  tengo  al
tutto necessaria la guerra, e della guerra, se oltre il presente è mai  concesso
all'uomo cosa certa veder, certo l'evento; tanto più, quanto fien l'indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta da lui Firenze; ma ferito e  stanco  il
vincitor; voti gli erari: oppressi dal terror, dai tributi  i  cittadini  pregan
dal ciel su l'armi loro istesse le sconfitte  e  le  fughe.  Io  li  conosco,  e
conoscer li deggio: a molti in mente dura il pensier del glorioso, antico  viver
civile; e subito uno sguardo rivolgon di desio là  dove  appena  d'un  qualunque
avvenir si mostri un raggio, frementi del presente e vergognosi. Ei  conosce  il
periglio; indi l'udite mansueto parlarvi;  indi  vi  chiede  tempo  soltanto  de
sbranar la preda che già tiensi tra l'ugne,  e  divorarla.  Fingiam  che  glielo
diate: ecco mutata la faccia delle cose; egli  soggioga  senza  dubbio  Firenze;
ecco satolle le costui schiere col tesor de' vinti, e più  folte  e  anelanti  a
nove imprese. Qual prence allor dell'alleanza sua far rifiuto oseria?  Beato  il
primo ch'ei chiamerebbe amico! Egli sicuro consulterebbe e come e quando  a  voi
mover la guerra, a voi rimasti soli. L'ira, che addoppia  l'ardimento  al  prode
che si sente percosso, ei non la trova che ne' prosperi casi: impaziente  d'ogni
dimora ove il guadagno è certo, ma  ne'  perigli  irresoluto:  a'  suoi  soldati
ascoso, del pugnar non vuole fuor che le prede. Ei nella rocca intanto, o  nelle
ville rintanato attende a  novellar  di  cacce  e  di  banchetti,  a  interrogar
tremando un indovino. Ora è il tempo di vincerlo: cogliete questo momento: ardir
prudenza or fia.

IL DOGE Conte, su questo fedel vostro avviso tosto il Senato  prenderà  partito;
ma il segua, o no, v'è grato; e vede in esso, non men che il  senno,  il  vostro
amor per noi. (parte il Conte)


SCENA III

IL DOGE, e SENATORI


IL DOGE

Dissimil certo da sì nobil voto nessun s'aspetta il mio. Quando il consiglio più
generoso è il più sicuro, in forse  chi  potria  rimaner?  Porgiam  la  mano  al
fratello che implora: un sacro nodo stringe i liberi Stati: hanno comuni tra lor
rischi e  speranze;  e  treman  tutti  dai  fondamenti  al  rovinar  d'un  solo.
Provocator dei deboli, nemico d'ognun che schiavo non gli sia, la pace con tanta
istanza a che ci chiede il  Duca?  Perché  il  momento  della  guerra  ei  vuole
sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo. Il nostro egli è, se non ci falla il
senno, né l'animo. Ei ci vuole ad uno ad  uno;  andiamgli  incontro  uniti.  Ah!
saria questa la prima  volta  che  il  Leon  giacesse  al  suon  delle  lusinghe
addormentato. No; fia tentato invan. Pongo il partito che si stringa la lega,  e
che la guerra tosto al Duca s'intimi, e delle nostre genti  da  terra  abbia  il
comando il Conte.

MARINO

Contro sì giusta e necessaria guerra io non sorgo a parlar; questo  sol  chiedo,
che il buon successo ad accertar si pensi. La metà dell'impresa è  nella  scelta
del capitano. Io so che vanta il Conte molti amici tra noi;  ma  d'una  cosa  mi
rendo certo, che nessun di questi l'ama più della patria; e per  me,  quando  di
lei si tratti, ogni rispetto è nulla. Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
serenissimo Doge, oppormi a voi, non è il  duce  costui  quale  il  richiede  la
gravità, l'onor di questo Stato. Non cercherò perché lasciasse il  Duca.  Ei  fu
l'offeso; e sia pur ver: l'offesa è tal che accordo  non  può  darsi;  e  questo
consento: io giuro  nelle  sue  parole.  Ma  queste  sue  parole  importa  assai
considerarle, perché tutto in esse ei s'è dipinto; e  governar  sì  ombroso,  sì
delicato e violento orgoglio, o Senatori, non mi par che sia minor pensier della
guerra istessa. Finor fu nostra cura il mantenerci la riverenza de' soggetti; or
altro studio far si dovria, come costui riverir degnamente. E quando egli  abbia
la man nell'elsa della nostra spada, potrem noi  dir  d'aver  creato  un  servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno di noi? Se nasce un disparer, fia  degno  che
nell'arti di guerra il voler nostro  a  quel  d'un  tanto  condottier  prevalga?
S'egli erra, e nostra è dell'error la pena, ché  invincibil  nol  credo,  io  vi
domando se fia concesso il farne lagno; e dove si riscotan  per  questo  onte  e
dispregi,  che  far?  soffrirli?  Non  v'aggrada,  io  stimo,  questo   partito;
risentirci? e dargli occasion che, in mezzo  all'opra,  e  nelle  più  difficili
strette ei ci abbandoni sdegnato, e al primo altro signor che il  voglia,  forse
al nemico, offra il suo braccio, e sveli quanto di noi pur sa,  magnificando  la
nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

IL DOGE

Il Conte un prence abbandonò; ma quale? un che da lui tenea lo Stato,  e  a  cui
quindi ei minor non potea mai stimarsi; un da pochi  aggirato,  e  questi  vili;
timido e stolto, che non  seppe  almeno  il  buon  consiglio  tor  della  paura,
nasconderla nel core, e starsi  all'erta;  ma  che  il  colpo  accennò  pria  di
scagliarlo: tale è il signor che inimicossi il Conte. Ma, lode al ciel, nulla in
Venezia io vedo che gli somigli. Se destrier,  correndo,  scosse  una  volta  un
furibondo e stolto fuor dell'arcione, e lo gettò nel fango; non fia  per  questo
che salirlo ancora un cauto e franco cavalier non voglia.

MARINO

Poiché sì certo è di quest'uomo il Doge, più non m'oppongo; e questo a  lui  sol
chiedo: vuolsi egli far mallevador del Conte?

IL DOGE

A sì preciso interrogar,  preciso  risponderò:  mallevador  pel  Conte,  né  per
altr'uom che sia, certo, io non entro; dell'opre mie, de' miei consigli il sono:
quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto che guardia al Conte non si faccia, e
a lui si dia l'arbitrio dello Stato in mano? Ei diritto, anderà; tale io diviso.
Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca occhio che tosto ce ne faccia accorti,
e braccio che invisibile il raggiunga?

MARCO

Perché i princìpi di sì bella impresa contristar con sospetti? E far disegni  di
terrori e di pene, ove null'altro che lodi e grazie può aver  luogo?  Io  taccio
che all'util suo sola una via gli è schiusa; lo star con noi. Ma deggio dir qual
cosa dee sovra ogni altra far per lui fidanza? La gloria ond'egli è già coperto,
e quella a cui pur anco aspira; il generoso, il fiero animo suo. Che  un  giorno
ei voglia dall'altezza calar de' suoi pensieri, e riporsi tra i vili, esser  non
puote. Or, se prudenza il vuol, vegli  pur  l'occhio;  ma  dorma  il  cor  nella
fiducia; e poi che in così giusta e grave causa, un tanto dono ci  manda  Iddio;
con quella fronte, e con quel cor che si riceve un dono, sia da noi ricevuto.

MOLTI SENATORI

Ai voti, ai voti!


IL DOGE

Si raccolgano i voti; e ognun rammenti quanto rilevi che di qui non  esca  motto
di tal deliberar, né cenno che presumer lo faccia.  In  questo  Stato  pochi  il
segreto hanno tradito, e nullo fu tra quei pochi che impunito andasse.


SCENA IV

Casa del Conte.


IL CONTE

Profugo, o condottiero. O come il vecchio  guerrier  nell'ozio  i  giorni  trar,
vivendo della gloria passata, in atto sempre  di  render  grazie  e  di  pregar,
protetto dal braccio altrui, che  un  dì  potria  stancarsi  e  abbandonarmi;  o
ritornar sul campo, sentir la vita, salutar  di  nuovo  la  mia  fortuna,  delle
trombe al suono destarmi, comandar; questo è il momento che ne  decide.  Eh!  se
Venezia in pace riman, degg'io chiuso e celato ancora in questo  asilo  rimaner,
siccome l'omicida nel tempio? E chi d'un regno fece il destin, non  potrà  farsi
il suo? Non troverò tra tanti prenci, in questa divisa Italia,  un  sol  che  la
corona, onde il vil capo di Filippo splende, ardisca invidiar?  che  si  ricordi
ch'io l'acquistai, che dalle man di dieci  tiranni  io  la  strappai,  ch'io  la
riposi su quella fronte, ed or null'altro  agogno  che  ritorla  all'ingrato,  e
farne un dono a chi saprà del braccio mio valersi?


SCENA V

MARCO, e IL CONTE


IL CONTE

O dolce amico; ebben qual nova arrechi?

MARCO

La guerra è risoluta, e tu sei duce.

IL CONTE

Marco, ad impresa io non m' accinsi mai con maggior cor che a questa:  una  gran
fede poneste in me: ne sarò degno, il giuro. Il giorno è questo  che  del  viver
mio ferma il destin: poi che quest'alma  terra  m'ha  nel  suo  glorioso  antico
grembo accolto, e dato di suo figlio il nome,  esserlo  io  vo'  per  sempre;  e
questo brando io consacro per sempre alla difesa e alla grandezza sua.

MARCO

Dolce disegno! non soffra il ciel che la fortuna il rompa... o tu medesmo.

IL CONTE

Io? come?

MARCO

Al par di tutti i generosi, che giovando altrui nocquer sempre a  sé  stessi,  e
superate tutte le vie delle più dure  imprese,  caddero  a  un  passo  poi,  che
facilmente l'ultimo de' mortali avria varcato. Credi ad un uom che t'ama: i  più
de' nostri ti sono amici; ma non tutti il sono. Di più non dico, né mi  lice;  e
forse troppo già dissi. Ma la mia parola nel fido orecchio dell'amico stia, come
nel tempio del mio cor, rinchiusa.

IL CONTE

Forse io l'ignoro? E forse ad uno ad uno non so quai siano i miei nemici?

MARCO

E sai chi te gli ha fatti? In pria l'esser tu tanto maggior  di  loro,  indi  lo
sprezzo aperto che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno non ti nocque finor;  ma
chi non puote nocer col tempo? Tu non pensi ad essi, se non  allor  che  in  tuo
cammin li trovi; ma pensan essi a te, più che non credi. Spregia il  grande,  ed
obblia; ma il vil si gode nell'odio. Or tu non irritarlo: cerca di spegnerlo; tu
il puoi forse. Consiglio di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei, io non ti do,
né tal da me l'aspetti. Ma tra la noncuranza e la servile cautela avvi una  via;
v'ha una  prudenza  anche  pei  cor  più  nobili  e  più  schivi;  v'ha  un'arte
d'acquistar l'alme volgari, senza discender fino ad esse:  e  questa  nel  senno
tuo, quando tu vuoi, la trovi.

IL CONTE

Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio le mille volte a me medesmo  io  il
diedi; e sempre all'uopo ei mi fuggì di mente; e sempre appresi a danno mio  che
dove semina l'ira, il pentimento miete. Dura scola ed inutile! Alfin  stanco  di
far leggi a me stesso, e trasgredirle, tra me fermai che, s'egli è  mio  destino
ch'io sia sempre in tai  nodi  avviluppato  che  mestier  faccia  a  distrigarli
appunto quella virtù che più mi manca, s'ella è pur virtù; se è mio  destin  che
un giorno io sia colto in tai nodi,  e  vi  perisca;  meglio  è  senza  riguardi
andargli incontro. Io ne appello a te stesso: i buoni mai non fur senza  nemici,
e tu ne hai dunque. E giurerei che un sol non è tra loro cui tu degni, non  dico
accarezzarlo, ma non dargli a veder che lo dispregi. Rispondi.

MARCO

È ver: se v'ha mortal di cui la sorte invidii, è sol colui che nacque in  luoghi
e in tempi ov'uom potesse aperto mostrar l'animo in fronte,  e  a  quelle  prove
solo trovarsi ove più forza è d'uopo  che  accorgimento:  quindi,  ove  convenga
simular, non ti faccia maraviglia che poco  esperto  io  sia.  Pensa  per  altro
quanto più m'è concesso impunemente fallire in ciò che a te; che  poche  vie  al
pugnal d'un nemico offre il mio petto; che me contra i privati odii assecura  la
pubblica ragion; ch'io vesto il saio stesso di quei che  han  la  mia  sorte  in
mano. Ma tu stranier, tu condottiero al soldo di togati signor, tu cui lo  Stato
dà tante spade per salvarlo, e niuna per salvar te... fa che gli amici tuoi odan
sol le tue lodi; e non dar loro la trista cura di scolparti.  Pensa  che  felici
non son, se tu nol sei. Che dirò più? Vuoi che una corda io  tocchi,  che  ancor
più addentro nel tuo cor risoni? Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia a  cui
tu se' sola speranza: il cielo dié loro un'alma per sentir la gioia, un'alma che
sospira i dì sereni, ma che nulla può far per conquistarli. Tu il puoi per esse;
e lo vorrai. Non dire che il tuo destin ti porta; allor che il forte  ha  detto:
io voglio, ei sente esser più assai signor di sé che non pensava in prima.

IL CONTE

Tu hai ragione. Il ciel si prende al certo qualche cura di me, poiché m'ha  dato
un tale amico. Ascolta; il buon successo potrà, spero,  placar  chi  mi  disama:
tutto in letizia finirà. Tu intanto  se  cosa  odi  di  me  che  ti  dispiaccia,
l'indole mia ne incolpa, un improvviso impeto primo, ma non mai l'obblio di  tue
parole.

MARCO

Or la mia gioia è intera. Va, vinci, e torna. Oh come atteso e caro  verrà  quel
messo che la gloria tua con la salute della patria annunzi!




FINE DELL'ATTO PRIMO




ATTO SECONDO


SCENA I

Parte, del campo ducale con tende.

MALATESTI e PERGOLA


PERGOLA

Sì, condottier; come ordinaste, in pronto son le mie bande.  A  voi  commise  il
Duca l'arbitrio della guerra: io v'ho ubbidito, ma con dolor;  ve  ne  scongiuro
ancora, non diam battaglia.

MALATESTI

Anzian d'anni e di fama, o Pergola, qui siete; io sento il peso del vostro voto;
ma cangiar non posso il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola ci  provoca  ogni  dì:
quasi ad insulto sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto: e due partiti  ci
rimangon soli; o lui cacciarne, o abbandonar la terra, che saria danno e scorno.

PERGOLA

A pochi è dato, a pochi egregi il dubitar di novo, quando han già  detto:  ell'è
così. S'io parlo è che tale vi tengo. Italia forse mai da' barbari  in  poi  non
vide a fronte due sì possenti eserciti:  ma  il  nostro  l'ultimo  sforzo  è  di
Filippo. In ogni fatto di guerra entra fortuna, e sempre vuol la sua parte:  chi
nol sa? Ma quando ne va il tutto, o Signore,  allor  non  vuolsi  dargliene  più
ch'ella non chiede; e questo esercito con cui  tutto  possiamo  salvar,  ma  che
perduto in una volta mai più rifar  non  si  potria,  non  dèssi  come  un  dado
gittarlo ad occhi chiusi, avventurarlo in un sì piccol campo, e in un campo  mal
noto, e quel che è peggio noto al nemico. Ei  qui  ci  trasse:  un  torto  argin
divide le due schiere: a destra e a sinistra  paludi,  in  esse  sparsi  i  suoi
drappelli; e noi fuori de' nostri alloggiamenti non  teniamo  un  palmo  pur  di
terren. Credete ad un che l'arti conosce di costui, che ha combattuto al  fianco
suo: qui c'è un'insidia. Forse la miglior via di  guerreggiar  quest'uomo  saria
tenerlo a bada, aspettar tempo, tanto che  alcun  dei  duci  ai  quali  è  sopra
prendesse a noia il suo superbo impero; e il fascio ch'egli  or  nella  mano  ha
stretto si rallentasse alfin. Pur, se a giornata venir si deve, non è questo  il
loco: usciam di qui, scegliamo un campo noi, tiriam quivi il nemico: ivi  in  un
giorno, senza svantaggio almanco, si decida.

MALATESTI

Due grandi schiere a fronte stanno;  e  grande  fia  la  battaglia:  d'una  tale
appunto abbisogna Filippo. A questi estremi a  poco  a  poco  ei  venne,  e  coi
consigli che or proponete: a trarnelo, fia d'uopo appigliarci agli  opposti.  Il
rischio vero sta nell'indugio; e nel mutare il campo rovina  certa.  Chi  sapria
dir quanto di numero e di cor scemato ei fia, pria che  si  ponga  altrove?  Ora
egli è quale bramar lo puote un capitan; con esso tutto lice tentar.


SCENA II

SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.


MALATESTI

Ditelo, o Sforza, e Fortebraccio;  voi  giungete  in  tempo:  ditelo  voi,  come
trovaste il campo? Che possiamo sperarne?

SFORZA

Ogni gran cosa. Quando gli ordini udir, quando lor parve che  una  battaglia  si
prepari, io vidi un feroce tripudio: alla  chiamata  esultando  venièno,  e  col
sorriso si fean cenno a vicenda. E quando  io  corsi  entro  le  file,  ad  ogni
schiera un grido s'alzava; ognuno in me fissando  il  guardo  parea  dicesse:  o
condottier, v'intendo.

FORTEBRACCIO

E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei, tutti mi furo intorno. Un mi  dicea:
quando udremo le trombe? Altri: noi siamo stanchi d'esser beffati;  e  tutti  ad
una la battaglia chiedean, come  già  certi  dell'ottenerla,  e  dubbi  sol  del
quando. Ebben, compagni, io rispondea, se il segno presto s'udrà,  mi  date  voi
parola di vincere  con  me?  Gli  elmi  levati  sull'aste,  un  grido  universal
d'assenso fu la risposta, ond'io gioisco  ancora.  E  a  tai  soldati  ci  venia
proposto d'intimar la ritratta? e che alle mani,  che  già  posate  sulle  spade
aspettano l'ordin di sguainarle e di ferire, si comandasse di  levar  le  tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi con tal ordine ormai?

PERGOLA

Dal parlar vostro un novo modo di milizia imparo; che i soldati comandino, e che
i duci ubbidiscano.

FORTEBRACCIO

O Pergola, i soldati a cui capo son io, fur da quel  Braccio  disciplinati,  che
per tutto ancora con maraviglia e con terror si noma; e non son usi  a  sostener
gli scherni dell'inimico.

PERGOLA

Ed io conduco genti da me, qual ch'io mi sia, disciplinate; e  sono  avvezze  ad
aspettar la voce del condottiero, ed a fidarsi in lui.

MALATESTI

Dimentichiamo or noi che numerati sono i momenti, e non ne resta alcuno  per  le
gare private?


SCENA III

TORELLO, e detti.


SFORZA

Ebben, Torello, siete mutato di parer? Vedeste l'animo ardente de' soldati?

TORELLO

Il vidi; udii le grida del furor, le grida della fiducia e del  coraggio;  e  il
viso rivolsi altrove, onde nessun dei prodi vi leggesse il pensier che  mal  mio
grado vi si pingeva: era il pensier che false son quelle gioie e brevi;  era  il
pensiero del valor che si perde. Io cavalcai lungo tutta la fronte: io  tesi  il
guardo, quanto lunge potei; rividi quelle macchie che sorgon qua e là dal  suolo
uliginoso che la via fiancheggia: là son gli agguati, il giurerei.  Rividi  quel
doppio cinto di muniti carri, onde assiepato è del nemico il  campo.  Se  l'urto
primo ei sostener non puote, ha una ritratta ove sfuggirlo e  uscirne  preparato
al secondo. Un novo è questo trovato di costui, per torre  ai  suoi  il  pensier
primo che s'affaccia ai vinti, il pensier della fuga. Ad atterrarlo due colpi  è
d'uopo: ei con un sol ne atterra. Perché, non giova chiuder gli occhi  al  vero,
non son più quelle guerre, in cui pe' figli e per le donne e per la patria terra
e per le leggi che la fan sì cara, combatteva il  soldato;  in  cui  pensava  il
capitano a  statuirgli  un  posto,  egli  a  morirvi.  A  mercenarie  genti  noi
comandiamo, in cui più di leggieri trovi il furor che la  costanza:  e'  corrono
volonterosi alla vittoria incontro; ma s'ella tarda, se son posti a lungo tra la
fuga e la morte, ah! dubbia è troppo la scelta di costoro. E questo  evento  più
che tutt'altro antiveder ci è forza. Vil tempo in cui tanto  al  comando  cresce
difficoltà, quanto la gloria scema! Io lo ripeto,  non  è  questo  un  campo  di
battaglia per noi.

MALATESTI

Dunque?

TORELLO

Si muti. Non siam pari al nemico; andiamo in luogo dove lo siam.

MALATESTI

Così Maclodio a lui lascerem quasi in dono? I valorosi, che vi son  chiusi,  non
potran tenersi più che due giorni.

TORELLO

Il so; ma non si tratta né d'un presidio qui, né  d'una  terra;  trattasi  dello
Stato.

SFORZA

E di che mai se non di terre si compon lo Stato? E quelle che indugiando, ad una
ad una già lasciammo sfuggir, quante son elle? Casal, Bina, Quinzano e...  e  se
vi piace noveratele voi, ché in tal pensiero troppo caldo io mi sento. Il  nobil
manto, che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano soffriam così che in  nostra
man si scemi, e che a lui messo omai da noi non giunga che una ritratta non  gli
annunzi. Intanto superbisce il nemico, e ai nostri indugi sfacciato insulta.

TORELLO

E questo è segno, o Sforza, ch'ei brama una battaglia.

SFORZA

Oh, che puot'egli bramar di più, che innanzi a sé cacciarne  con  la  spada  nel
fodero?

PERGOLA

Che puote bramar di più? Dirovvel io: che noi tutto arrischiam l'esercito in  un
campo ov'egli ha preso ogni vantaggio. Or questo poniamo in salvo; ché le  terre
è lieve riprender con gli eserciti.

FORTEBRACCIO

Con quali? Non, per mia fé, con quelli a cui s'insegna  a  diloggiar  quando  il
nemico appare, a non mirarlo in faccia, a lasciar soli nelle angosce i compagni;
ma con genti quali or le abbiam d'ira e di scorno accese, impazienti di  pugnar,
con queste si riparan le perdite, e si  vince.  Che  dobbiamo  aspettar?  Brandi
arrotati, perché lasciarli irrugginir?

SFORZA

Torello, voi temete d'agguati? Anch'io dirovvi: non son più  quelle  guerre,  in
cui minuti drappelletti movean, con l'occhio teso ogni  macchia  guatando,  ogni
rivolta. Un'oste intera sopra un'oste intera oggi rovescerassi: un tanto  stuolo
si vince sì, ma non s'accerchia; ei spazza innanzi a sé gl'intoppi, e  fin  ch'è
unito, dovunque sia, sul suo terreno è sempre.

FORTEBRACCIO (a Pergola e Torello)

Siete convinti?

TORELLO

Sofferite...

MALATESTI

Io il sono. Omai vano è più dir. Certo io mi tengo che tutti andrete  in  operar
d'accordo più che non foste in divisar disgiunti. Poi che un partito  e  l'altro
ha il suo periglio, scegliamo almen quel che più gloria ha seco.  Noi  darem  la
battaglia: alla frontiera io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro e  chiude  la
vanguardia; il mezzo tenga della battaglia Fortebraccio: e il nostro ufizio  sia
con impeto serrarci  addosso  al  campo  del  nemico,  aprirlo,  e  spingerci  a
Maclodio. Voi, Torello, e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra questa  giornata,
io pongo in vostra mano l'assicurarla: voi, discosti  alquanto,  il  retroguardo
avrete. O la fortuna, pur come suol, seconda i valorosi, e rompiamo il nemico; e
voi piombate sopra i dispersi. Ma s'ei  dura  incontro  l'impeto  nostro,  e  ci
vedete entrati donde uscir soli non possiam; venite a noi, reggete i periglianti
amici; ché, per cosa che avvenga, io vi  prometto,  retrocedere  a  voi  non  ci
vedrete.

FORTEBRACCIO

Non ci vedrete, no.

SFORZA

Siatene certi.

FORTEBRACCIO

Sia lode al ciel, combatteremo alfine: mai non accadde a capitan, ch'io  sappia,
per fare il suo mestier contender tanto.

PERGOLA

O  Carmagnola,  tu  pensasti  che  oggi  il  giovenil  corruccio  alla  prudenza
prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.

FORTEBRACCIO

Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi: ella cresce con gli anni, e tanto  cresce
che alfin diventa...

PERGOLA

Ebben, dite.

FORTEBRACCIO

Paura; poi che volete ad ogni modo udirlo.

MALATESTI

Fortebraccio!

PERGOLA

L'hai detto. Ad un soldato che già più volte avea pugnato e vinto prima  che  tu
vedessi una bandiera, oggi tu il primo hai detto...

MALATESTI

Da quel lato, presso Maclodio è posto il Carmagnola. Quegli fra  noi  che  avere
oggi pensasse altro nemico che costui,  sarebbe  un  traditor:  pensatamente  il
dico.

PERGOLA

Ritratto il voto che dapprima io diedi; e il do per la battaglia: ella fia quale
predissi allor; ma non importa. Allora potea schifarsi; or la domando io  primo:
io son per la battaglia.

MALATESTI

Accetto il voto ma non l'augurio: lo distorni il cielo sul capo del nemico.

PERGOLA

O Fortebraccio, tu m'hai offeso.

MALATESTI

Or via...

FORTEBRACCIO

Se così credi, sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale altro pur sia,  non
crederai ch'io voglia una parola ritirar che uscita dalle labbra mi sia.

MALATESTI (in atto di partire)

Chi resta fido a Filippo, mi segua.

PERGOLA

Io vi prometto che oggi darem battaglia, e che di noi non mancheravvi alcuno.  O
Fortebraccio, non giunger onta ad onta; io ti ripeto, tu m'hai offeso.  Ascolta,
io t'offro il modo che tu mi renda l'onor mio, serbando intatto il tuo.

FORTEBRACCIO

Che vuoi?

PERGOLA

Dammi il tuo posto. Ovunque tu combatta, a  tutti  è  noto  che  tu  volesti  la
battaglia, ed io, io devo ad ogni modo essere in luogo che l'amico e  il  nemico
aperto veda ch'io non ho... tu m'intendi.

FORTEBRACCIO

Io son contento. Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo. O forte, or  m'odi:
ora m'è dolce il dirti ch'io non t'offesi, no: per la fortuna del signor  nostro
tu soverchio temi: questo dir volli. Ma il timor che nasce in cor  di  quel  che
ama la vita, e l'ama più dell'onor, ma che nel cor  del  prode  muore  al  primo
periglio ch'egli affronta, e mai più non risorge, o valoroso, pensavi tu?...

PERGOLA

Nulla pensai: tu parli da generoso qual  tu  sei.  (a  Malatesti)  Signore,  voi
consentite al cambio?...

MALATESTI

Io ci consento; e son ben lieto di veder tant'ira tutta cader sovra il nemico.

TORELLO (allo Sforza)

Io stava col Pergola da prima; ingiusto, io spero, non vi parrà...

SFORZA

V'intendo; e con lui state alla vanguardia: ultimi e primi,  tutti  combatterem;
poco m'importa il dove.

MALATESTI

Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi. (partono)


SCENA IV

Campo veneziano. Tenda del Conte.

IL CONTE, un SOLDATO


SOLDATO

Signor, l'oste nemica è in movimento: la vanguardia è sull'argine, e s'avanza.

IL CONTE

I condottieri dove son?

SOLDATO

Qui tutti fuor della tenda i principali; e stanno gli ordin vostri aspettando.

IL CONTE

Entrino tosto. (parte il Soldato)


SCENA V


IL CONTE

Eccolo il dì ch'io bramai tanto. - Il giorno ch'ei non mi volle udir, che  invan
pregai, che ogni adito era chiuso, e che deriso, solo, io partiva, e  non  sapea
per dove, oggi con gioia io lo rammento alfine. Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
ma condottier de' tuoi nemici, ingrato! Io lo dicea; ma allor pareva  un  sogno,
un sogno della rabbia; ed ora è vero. Gli sono a fronte: ecco mi balza il  core:
io sento il dì della battaglia... E s'io... No: la vittoria è mia.


SCENA VI

IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO, altri CONDOTTIERI


IL CONTE

Compagni, udiste la lieta nova: l'inimico ha fatto ciò ch'io volea; così voi pur
farete. E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro, il più bel  dì  di  nostra
vita apporta. Non è tra voi chi una battaglia aspetti per farsi un nome, il  so;
ma questa sera l'avrem più glorioso; e la parola che al nostro  orecchio  sonerà
più grata, omai fia quella di Maclodio. Orsini, son pronti i tuoi?

ORSINI

Sì.

IL CONTE

Corri all'imboscate sulla destra dell'argine; raggiungi quei che  vi  stanno,  e
prendine il comando. E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi non vi  movete,  che
non sia lo scontro incominciato; quando ei fia, correte alle spalle  al  nemico.
Udite entrambi. Se dell'insidie egli s'avvede, e  tenta  ritrarsi,  appena  avrà
voltato il dorso, siategli addosso uniti: io son con  voi.  Provochi,  o  fugga,
oggi dev'esser vinto.

ORSINI

E lo sarà. (parte)

TOLENTINO

T'ubbidirem, vedrai. (parte)

IL CONTE (agli altri)

Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi assegnerò sul campo. Andiam, compagni;
si resista al prim'urto: il resto è certo.



CORO


S'ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo: d'ambo  i
lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren. Quinci spunta per l'aria
un vessillo; quindi  un  altro  s'avanza  spiegato:  ecco  appare  un  drappello
schierato; ecco un altro che incontro gli vien.

Già di mezzo sparito è il  terreno;  già  le  spade  rispingon  le  spade;  l'un
dell'altro le immerge nel seno; gronda il sangue; raddoppia il ferir. - Chi  son
essi? Alle belle contrade qual ne venne straniero a far guerra? Qual è quei  che
ha giurato la terra dove nacque far salva, o morir?

- D'una terra son tutti:  un  linguaggio  parlan  tutti:  fratelli  li  dice  lo
straniero: il comune lignaggio a ognun d'essi dal volto traspar. Questa terra fu
a tutti nudrice, questa terra di sangue ora intrisa, che  natura  dall'altre  ha
divisa, e ricinta con l'alpe e col mar.

- Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando trasse il primo il fratello a ferire?  Oh
terror! Del conflitto esecrando la cagione esecranda qual è? - Non la  sanno:  a
dar morte, a morire qui senz'ira ognun d'essi è venuto; e  venduto  ad  un  duce
venduto, con lui pugna, e non chiede il perché.

- Ahi sventura! Ma spose non hanno, non han madri gli stolti  guerrieri?  Perché
tutte i lor cari non vanno dall'ignobile campo a strappar? E i vegliardi che  ai
casti pensieri della tomba già schiudon  la  mente,  ché  non  tentan  la  turba
furente con prudenti parole placar?

- Come assiso talvolta il villano sulla porta del cheto abituro, segna il  nembo
che scende lontano sopra i campi che arati ei non ha; così udresti  ciascun  che
sicuro vede lungi le armate coorti, raccontar le migliaia de' morti, e la  pieta
dell'arse città.

Là, pendenti dal labbro materno vedi i figli che imparano intenti  a  distinguer
con nomi di scherno quei che andranno ad uccidere  un  dì;  qui  le  donne  alle
veglie lucenti de' monili far pompa e de' cinti,  che  alle  donne  diserte  de'
vinti il marito o l'amante rapì.

- Ahi sventura! sventura! sventura! Già la terra è  coperta  d'uccisi;  tutta  è
sangue la vasta pianura; cresce il grido, raddoppia il furor.  Ma  negli  ordini
manchi e divisi mal si regge, già cede una schiera; già  nel  volgo  che  vincer
dispera, della vita rinasce l'amor.

Come il grano lanciato dal pieno ventilabro nell'aria si  spande;  tale  intorno
per l'ampio terreno si sparpagliano i vinti guerrier.  Ma  improvvise  terribili
bande ai fuggenti s'affaccian sul calle; ma si senton  più  presso  alle  spalle
anelare il temuto destrier.

Cadon trepidi a pié de' nemici, gettan l'arme,  si  danno  prigioni:  il  clamor
delle turbe vittrici copre i lai del tapino che mor. Un  corriero  è  salito  in
arcioni; prende un foglio, il ripone, s'avvia, sferza, sprona,  divora  la  via;
ogni villa si desta al rumor.

Perché tutti sul pesto cammino dalle case, dai campi accorrete? Ognun chiede con
ansia al vicino, che gioconda novella recò? Donde ei venga, infelici, il sapete,
e sperate che gioia favelli? I fratelli hanno ucciso i fratelli: questa  orrenda
novella vi do.

Odo intorno festevoli  gridi;  s  orna  il  tempio,  e  risona  del  canto;  già
s'innalzan dai cori omicidi grazie ed inni che abbomina il ciel. Giù dal cerchio
dell'alpi frattanto lo straniero gli sguardi rivolve; vede i forti che mordon la
polve, e li conta con gioia crudel.

Affrettatevi, empite le schiere, sospendete i trionfi  ed  i  giochi,  ritornate
alle vostre bandiere: lo straniero discende; egli è qui. Vincitor! Siete  deboli
e pochi? Ma per questo a sfidarvi ei discende; e voglioso a quei campi v'attende
dove il vostro fratello perì.

Tu che angusta a' tuoi figli parevi, tu che in  pace  nutrirli  non  sai,  fatal
terra, gli estrani ricevi: tal giudizio comincia per te. Un  nemico  che  offeso
non hai, a tue mense insultando s'asside; degli stolti le spoglie divide; toglie
il brando di mano a' tuoi re.

Stolto anch'esso! Beata fu mai gente alcuna per sangue  ed  oltraggio?  Solo  al
vinto non toccano i guai; torna in pianto dell'empio il  gioir.  Ben  talor  nel
superbo viaggio non l'abbatte l'eterna vendetta;  ma  lo  segna;  ma  veglia  ed
aspetta; ma lo coglie all'estremo sospir.

Tutti fatti a sembianza d'un Solo, figli tutti d'un solo Riscatto, in qual  ora,
in qual parte del suolo, trascorriamo  quest'aura  vital,  siam  fratelli;  siam
stretti ad un patto: maledetto colui che l'infrange, che  s'innalza  sul  fiacco
che piange, che contrista uno spirto immortal!




FINE DELL'ATTO SECONDO




ATTO TERZO


SCENA I

Tenda del Conte.

IL CONTE e IL PRIMO COMMISSARIO


IL CONTE

Siete contenti?

PRIMO COMMISSARIO

Udir  l'alto  trionfo  della  patria;  vederlo;  essere  i  primi  a   salutarla
vincitrice; a lei darne l'annunzio; assistere  alla  fuga  de'  suoi  nemici;  e
mentre al nostro orecchio rimbomba il  suon  della  minaccia  ancora,  veder  la
gloria sua fuor del periglio uscir raggiante e più che mai serena, come  un  sol
dalle nubi; è gioia questa forse, o signor, cui la parola arrivi? Voi la vedete:
essa vi sia misura della riconoscenza; e ben ci tarda di rendervi tai grazie  in
altro nome che non è il nostro, e del Senato a  voi  riferir  la  letizia  e  il
guiderdone. Ei sarà pari al merto.

IL CONTE

Io già lo tengo. Venezia è salva; ho liberata in parte una grande  promessa;  ho
fatto alfine risovvenir di me tal che m'avea dimenticato; ho vinto.

PRIMO COMMISSARIO

Ed or si vuole assicurar della vittoria il frutto.

IL CONTE

.... Questa è mia cura.

PRIMO COMMISSARIO

Or che dal vostro brando sgombra è la via, noi ci aspettiam  che  tutta  voi  la
farete, né starem fin tanto che non si giunga del nemico al trono.

IL CONTE

Quando fia tempo.

PRIMO COMMISSARIO

E che? Voi non volete inseguire i fuggenti?

IL CONTE

Ora non voglio.

PRIMO COMMISSARIO

Ma il Senato lo crede... E noi ben certi che pari all'alta  occasion,  che  pari
alla vittoria il vostro ardor saria nel proseguirla, abbiamo a lui...

IL CONTE

Vi siete troppo affrettati.

PRIMO COMMISSARIO

E che dirà mai quando udrà che ancor siam qui?

IL CONTE

Dirà, che il meglio è di fidarsi a chi per lui già vinse.

PRIMO COMMISSARIO

Ma... che pensate far?

IL CONTE

Ve l'avrei detto più volentier pochi momenti or  sono;  pur  convien  ch'io  vel
dica. Io non mi voglio allontanar di qui pria ch'espugnate non  sian  le  rocche
che ci stan d'intorno. Voglio un solo nemico, e quello in faccia.

PRIMO COMMISSARIO

Or dunque i nostri voti...

IL CONTE

I vostri voti più arditi son del brando mio, più rapidi de' miei cavalli;...  ed
io... la prima volta è che mi sento dir pur ch'io m'affretti.

PRIMO COMMISSARIO

Ma pensaste abbastanza?

IL CONTE

E che! Sì nova mi giunge una vittoria?  E  vi  par  egli  che  questa  gioia  mi
confonda il core tanto che il primo mio pensier non sia per ciò che resta a far?


SCENA II

IL SECONDO COMMISSARIO, e detti.


SECONDO COMMISSARIO (al Conte)

Signor, se tosto non correte al riparo,  una  sfacciata  perfidia  s'affatica  a
render vana sì gran vittoria; e già l'ha fatto in parte.

IL CONTE

Come?

SECONDO COMMISSARIO

I prigioni escon del campo a torme; i condottieri ed i soldati a gara li  mandan
sciolti, né tener li puote fuor che un vostro comando.

IL CONTE

Un mio comando?

SECONDO COMMISSARIO

Esitereste a darlo?

IL CONTE

È questo un uso della guerra, il sapete. È così  dolce  il  perdonar  quando  si
vince! e l'ira presto si cambia in amistà ne' cori che batton  sotto  il  ferro.
Ah! non vogliate invidiar sì nobil premio a quelli che hanno per  voi  posta  la
vita, ed oggi son generosi, perché ier fur prodi.

SECONDO COMMISSARIO

Sia generoso chi per sé combatte, signor; ma  questi,  e  ad  onor  l'hanno,  io
credo, al nostro soldo han combattuto; e nostri sono i prigioni.

IL CONTE

E voi potete adunque  creder  così:  quei  che  gli  han  visti  a  fronte,  che
assaggiaro i lor colpi, e che a fatica su lor le mani  insanguinate  han  poste,
nol crederan sì di leggieri.

PRIMO COMMISSARIO

È questa dunque una giostra di piacer? Non vince per conservar, Venezia? E  vana
al tutto fia la vittoria?

IL CONTE

Io già l'udii, di novo la devo udir questa parola: amara, importuna mi vien come
l'insetto che, scacciato una volta,  anco  a  ronzarmi  torna  sul  volto...  La
vittoria è vana? Il suol d'estinti ricoperto, sparso e scoraggiato  il  resto...
il più fiorente esercito! col qual, se unito  ancora  e  mio  foss'egli,  e  mio
davver, torrei a correr tutta Italia; ogni disegno dell'inimico al vento;  anche
il pensiero dell'offesa a lui tolto; a stento usciti dalle mie mani, e di fuggir
contenti quattro tai duci, contro a' quai  pur  ieri  era  vanto  il  resistere;
svanito mezzo il terror di que' gran nomi; ai  nostri  raddoppiato  l'ardir  che
agli altri è scemo; tutta la scelta della guerra in noi; nostre le terre ch'egli
han sgombre... è nulla? Pensate voi che torneranno al Duca  que'  prigioni?  che
l'amino? che a loro caglia di lui più che di voi? ch'egli abbiano combattuto per
esso? Han combattuto perché all'uomo che segue  una  bandiera,  grida  una  voce
imperiosa in core: combatti, e vinci.  E'  son  perdenti;  e'  sono  tornati  in
libertà; si venderanno... oh! tale  ora  è  il  soldato...  a  chi  primiero  li
comprerà... Comprateli, e son vostri.

PRIMO COMMISSARIO

Quando assoldammo chi dovea con essi pugnar, comprarli noi credemmo allora.

SECONDO COMMISSARIO

Signor, Venezia in voi si fida; in voi vede essa un figlio;  e  quanto  all'util
suo, alla sua gloria può condur, s'aspetta che si faccia da voi.

IL CONTE

Tutto ch'io posso.

SECONDO COMMISSARIO

Ebben, che non potete in questo campo?

IL CONTE

Quel che chiedete: un uso antico, un uso caro ai soldati violar non posso.

SECONDO COMMISSARIO

Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto tien dietro ogni  voler,  sì  ch'uom  non
vede se per amore o per timor si pieghi, voi non potreste in questo  campo,  voi
fare una legge, e mantenerla?

IL CONTE

Io dissi ch'io non potea: meglio or dirò: nol voglio. Non più  parole;  con  gli
amici è questo il mio  costume  antico,  ai  giusti  preghi  soddisfar  tosto  e
lietamente, e gli altri apertamente rifiutar. Soldati!

SECONDO COMMISSARIO

Ma... che disegno è il vostro?

IL CONTE

Or lo vedrete. (a un Soldato che entra) Quanti prigion restano ancora?

IL SOLDATO Io credo quattrocento, signor.

IL CONTE

Chiamali... chiama i più distinti... quei  che  incontri  i  primi:  vengan  qui
tosto. (parte il Soldato) Io 'l potrei certo... Ov'io dessi un  tal  cenno,  non
s'udria nel campo una repulsa; ma i miei figli, i miei compagni del  periglio  e
della gioia, quei che fidano in me, che  un  capitano  credon  seguir  sempre  a
difender pronto l'onor della milizia ed il vantaggio, io  tradirli  così!  Farla
più serva, più vil, più trista che non è!... Signori, fidente  io  son,  come  i
soldati il sono; ma se cosa or da me chiedete a forza, che mi tolga  l'amor  de'
miei compagni, se mi volete separar da quelli, e a tal ridurmi ch'io  non  abbia
appoggio altro che il vostro, mio malgrado il dico, m'astringerete a dubitar...

SECONDO COMMISSARIO

Che dite!


SCENA III

I PRIGIONIERI, tra i quali PERGOLA figlio, e detti.


IL CONTE (ai Prigionieri)

O prodi indarno, o sventurati!... A voi dunque fortuna è più  crudel?  voi  soli
siete alla trista prigionia serbati?

UN PRIGIONIERE

Tale, eccelso signor, non era il nostro presentimento allor che  a  voi  dinanzi
fummo chiamati, udir ci parve il messo di  nostra  libertà.  Già  tutti  l'hanno
ricovrata color che agli altri duci, minor di voi, caddero in mano; e noi...

IL CONTE

Voi, di chi siete prigionier?

IL PRIGIONIERE

Noi fummo gli ultimi a render l'armi. In fuga o preso già tutto il resto,  ancor
per pochi istanti fu sospesa per noi l'empia fortuna della giornata;  alfin  voi
feste il cenno d'accerchiarci, o signor: soli, non vinti, ma reliquie de' vinti,
al drappel vostro...

IL CONTE

Voi siete quelli? Io son contento, amici, di rivedervi; e posso ben far fede che
pugnaste da prodi: e se tradito tanto valor non era, e pari a voi sortito aveste
un condottier, non era piacevol tresca esservi a fronte.

IL PRIGIONIERE

Ed ora ci fia sventura il non aver ceduto che a voi, signore?  E  quelli  a  cui
toccato men glorioso è il vincitor, l'avranno trovato più  cortese?  Indarno  ai
vostri la libertà chiedemmo; alcun non osa dispor di noi senza l'assenso vostro;
ma cel promiser tutti. Oh! se potete mostrarvi al Conte,  ci  dicean:  non  egli
certo dei vinti aggraverà la sorte;  non  fia  certo  per  lui  tolta  un'antica
cortesia della guerra,... ei che sapria esser piuttosto ad inventarla il primo.

IL CONTE (ai Commissari)

Voi gli udite, o  signori...  Ebben,  che  dite?...  Voi,  che  fareste?...  (ai
Prigionieri) Tolga il ciel che alcuno più altamente di me  pensi  ch'io  stesso.
Voi siete sciolti, amici. Addio: seguite la vostra  sorte,  e  s'ella  ancor  vi
porta sotto una insegna che mi sia nemica... ebben, ci rivedremo.

(segni di gioia tra i Prigionieri, che partono;  il  Conte  osserva  il  Pergola
figlio, e lo ferma)

O giovinetto, tu del volgo non sei; l'abito, e il  volto  ancor  più  chiaro  il
dice; e ti confondi con gli altri, e taci?

PERGOLA FIGLIO

O capitano, i vinti non han nulla da dir.

IL CONTE

La tua fortuna porti così, che ben ti mostri degno d'una miglior. Quale è il tuo
nome?

PERGOLA FIGLIO

Un nome cui crescer pregio assai difficil fia, che un grande  obbligo  impone  a
chi lo porta: Pergola è il nome mio.

IL CONTE

Che? Tu sei figlio di quel valente?

PERGOLA FIGLIO

Il son.

IL CONTE

Vieni ed abbraccia l'antico amico di tuo padre. Io era quale or tu  sei,  quando
il conobbi in prima. Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni delle  speranze.  E
tu fa cor: fortuna più giocondi princìpi a me concesse; ma le promesse sue  sono
pei prodi; e o presto o tardi essa  le  adempie.  Il  padre  per  me  saluta,  o
giovinetto, e digli ch'io non tel chiesi, ma che certo io sono ch'ei  non  volea
questa battaglia.

PERGOLA FIGLIO

Ah! certo, non la volea; ma fur parole al vento.

IL CONTE

Non ti doler: del capitano è l'onta della sconfitta; e sempre ben  comincia  chi
da forte combatte ove fu posto. Vien meco; (lo prende per mano) ai duci  io  vo'
mostrarti, io voglio renderti la tua  spada.  (ai  Commissari)  Addio,  signori;
giammai pietoso coi nemici vostri io non sarò, che dopo averli  vinti.  (partono
il Conte e Pergola figlio)


SCENA IV

I due COMMISSARI


SECONDO COMMISSARIO (dopo qualche silenzio)

Direte ancor che a presagir perigli troppo facil son io? che le parole de'  suoi
contrari, il mio sospetto antico, l'odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto contro
costui? ch'egli è sdegnoso, ardente, ma  leal?  che  da  lui  cercar  non  dessi
ossequi, ma servigi, e quando in grave caso il nostro volere a lui s'intimi,  il
dubitar ch'egli resista è un sogno? Vi basta questo?

PRIMO COMMISSARIO

C'è di più. Gli dissi che a noi premea che s'inseguisse il vinto: ei ricusò.

SECONDO COMMISSARIO

Ma che rispose?

PRIMO COMMISSARIO

Ei vuole assicurarsi delle rocche... ei teme...

SECONDO COMMISSARIO

Cauto ad un tratto è divenuto... e dopo una vittoria.

PRIMO COMMISSARIO

La parola a stento gli uscia di bocca: ella parea  risposta  all'indiscreto  che
t'assedia, e vuole il tuo segreto che per nulla il tocca.

SECONDO COMMISSARIO

Ma l'ha poi detto il suo segreto? E questo motivo ond'egli accontentar vi volle,
vi parve il solo suo motivo, il vero?

PRIMO COMMISSARIO

Nol so, non ci badai, tempo non ebbi che di pensar ch'io mi trovava  innanzi  un
temerario, e ch'io sentia parole inusitate ai pari nostri.

SECONDO COMMISSARIO

E s'egli al suo  signore  antico,  al  primo  ond'ebbe  onor  supremi,  all'alta
creatura della sua spada, più  terror  che  danno  volesse  far?  fargli  pensar
soltanto  quel  ch'egli  era  per  lui,  quel  che  gli  è  contro?  Tal  nemico
mostrarglisi, ch'ei brami d'averlo amico ancor? S'ei non potesse tutto  staccare
il suo pensier da un trono ch'egli alzò dalla polve; ov'ebbe il primo grado dopo
colui che v'è seduto? Se un duca ardente di  conquiste,  e  inetto  a  sopportar
d'una corazza il peso,  che  d'una  mano  ha  d'uopo  e  d'un  consiglio,  e  al
condottier lo chiede, e gli comanda ciò  ch'ei  medesmo  gl'inspirò,  più  grato
signor, più dolce al condottier paresse, che molti, e vigilanti, e  più  bramosi
di conservar che d'acquistar, cui preme sovr'ogni cosa il comandar davvero?

PRIMO COMMISSARIO

Tutto io m'aspetto da costui.

SECONDO COMMISSARIO

Teniamo questo sospetto: il suo contegno, i nostri accorgimenti il faran  chiaro
in breve, o ad altro almen ci guideranno. Ei trama certo. Colui che trama, e del
successo si pasce già, come se il tenga, ardito parla ancor che  nol  voglia;  e
quei che sprezza in faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto  un  altro,  o
pensa a diventarlo ei stesso. No: da Filippo ei non è sciolto in tutto. A quella
stirpe onde la sposa egli ebbe non è stranier: troppo gli è caro il nodo che  ad
essa un dì lo strinse. In quella figlia, che ha tanta parte in suo pensier,  non
scorre col suo confuso de' Visconti il sangue?

PRIMO COMMISSARIO

Come parlò! Come passò dall'ira al non curar! Con che  superba  pace  disubbidì!
Siam noi nel nostro campo? Di Venezia i mandati? Eran costoro vinti e  prigioni?
E più sicuro il guardo portavano di noi! Noi testimoni del suo poter, del  conto
in cui ci tiene, de' nostri acquisti così sparsi al vento, di tal gioia, di  tai
grazie, di tali abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote. Che avviso è il vostro?

SECONDO COMMISSARIO

Haccene due? Soffrire, dissimular, fargli querela  ancora  d'un'offesa  che  mai
creder non puote dimenticata, e insiem la strada aprirgli di  ripararla  a  modo
suo; gradire che ch'ei  ne  faccia;  chiedergli  soltanto  ciò  che  siam  certi
d'ottenerne; opporci sol quanto basti a far che vera  appaia  condiscendenza  il
resto; a dichiararsi non astringerlo mai; vegliare intanto; scriverne ai  Dieci,
ed aspettar comandi.

PRIMO COMMISSARIO

Viver così! Che si diria di noi? Dell'alto ufizio che  ci  fu  commesso,  a  cui
venimmo invidiati, e or tale diviene?

SECONDO COMMISSARIO

È sempre glorioso il posto dove si serve la sua patria, e dove si giunge ai fini
suoi. Soldati e duci tutti sono per lui, l'ammiran tutti,  nessun  l'invidia;  a
sommo onor si tiene bene ubbidirlo; e in questo sol c'è  gara  che  ad  essergli
secondo ognuno aspira. Voce sì cara e riverita in prima, che  forza  avrebbe  in
lor poscia che udita l'hanno in un tanto dì, che forza avrebbe se proferisse mai
quella parola, che in core han tutti, la rivolta? Guai! Che più? gli udimmo pur;
come de' suoi, è nel pensiero de' nemici in cima.

PRIMO COMMISSARIO

Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.

SECONDO COMMISSARIO

Il siamo.

Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti a prodigar  la  vita,  a  non  temere  il
periglio, ad amarlo, e delle imprese a non guardar che la speranza,  alfine  più
ch'uomini nel campo: ah! se fanciulli non fosser poi nel resto,  ed  i  sospetti
facili a palesar come a deporli; se una parola di lusinga, un atto  di  sommessa
amistà non li volgesse a talento di quel che  l'usa  a  tempo;  a  che  saremmo?
ubbidiria la spada? Saremmo ancora i signor noi?

PRIMO COMMISSARIO

Sta bene. Riesca, o no, questo partito è il solo.




FINE DELL'ATTO TERZO




ATTO QUARTO


SCENA I

Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia. MARCO Senatore, e MARINO  uno
dei Capi.


MARCO

Eccomi al cenno degli eccelsi Capi del Consiglio de' Dieci.

MARINO

Io parlo in nome di tutti lor. Vi si destina un grave incarco, fuor di  qui:  se
un argomento di confidenza questo sia... la vostra coscienza il diravvi.

MARCO

Essa mi dice che scarsa al merto ed all'ingegno mio dee la patria concederla, ma
intera alla fede ed al cor.

MARINO

La patria! È un nome dolce a chi l'ama oltre ogni cosa, e sente  di  vivere  per
lei; ma proferirlo senza tremar non dee chi resta amico de' suoi nemici.

MARCO

Ed io...

MARINO

Per chi parlaste oggi in Senato? Per  la  patria?  I  vostri  sdegni,  i  vostri
terrori eran per lei? Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio, o il periglio  di
chi? Chi difendeste... voi solo?

MARCO

Io so davanti a chi mi trovo. Sta la mia vita in vostra man, ma il mio voto  non
già: giudice ei non conosce fuor che il mio cor; né d'altro esser  può  reo  che
d'avergli mentito. A darne conto pur disposto son io.

MARINO

Tutto che puote por la patria in periglio, essere inciampo  all'alte  mire  sue,
dargli sospetto, è in nostra man. Perché ci siate or  voi,  se  nol  sapete,  se
mostrar vi giova di non saperlo, uditelo. Per ora d'oggi si parli;  non  vogliam
di tutta la vostra vita interrogar che un giorno.

MARCO

E che? fors'altro mi si appon? Di nulla temer poss'io; la mia condotta...

MARINO

È nota più a noi che a voi. Dalla memoria vostra forse assai cose ha  cancellato
il tempo: il nostro libro non obblia.

MARCO

Di tutto ragion darò.

MARINO

Voi la darete quando vi fia chiesta. Non più: quando il Senato diede il  comando
al Carmagnola, a molti era sospetta la sua fede; ad  altri  certa  parea:  potea
parerlo allora. Ei discioglie i prigioni, insulta i  nostri  mandati,  i  nostri
pari; ha vinto, e perde in perfid'ozio la vittoria. Il velo cade dal  ciglio  ai
più. Nel suo soccorso troppo fidando, il Trevisan s'innoltra nel Po, le navi del
nemico affronta; sopraffatto dal numero, richiede al  Capitan  rinforzo,  e  non
l'ottiene. Freme il Senato; poche voci appena s'alzano ancor per lui. Cremona  è
presa, basta sol ch'ei v'accorra; ei non v'accorre. Giunge  l'annunzio  oggi  al
Senato: alfine più non gli resta difensor che un solo: solo, ma caldo  difensor.
Per lui innocente è costui, degno di lode più che di scusa; e se ci fu sventura,
colpa è soltanto del destino... e nostra. Non è giustizia  che  il  persegue:  è
solo odio privato, è invidia, è basso orgoglio che non perdona al sommo,  a  chi
tacendo grida co' fatti: io  son  maggior  di  voi.  Certo  inaudito  è  un  tal
linguaggio: i Padri nel lor Senato oggi l'udiro; e muti  si  volsero  a  guardar
donde tal voce venìa, se uno straniero oggi, un nemico  premere  un  seggio  nel
Senato ardia. Chiarito è il Conte un traditor;  si  vuole  torgli  ogni  via  di
nocere. Ma l'arte tanta e l'audacia è di costui, che reso  ei  s'è  tremendo  a'
suoi signori; è forte di quella forza che gli abbiam fidata; egli ha il cor  de'
soldati; e l'armi nostre, quando voglia, son sue; contro di noi volger le puote,
e il vuol. Certo è  follia  aspettar  che  lo  tenti;  ognun  risolve  ch'ei  si
prevenga, e tosto. A forza aperta è impresa piena di perigli. E noi  starem  per
questo? E il suo maggior delitto sarà cagion perché impunito ei vada?  Sola  una
strada alla giustizia è schiusa, l'arte con cui l'ingannator  s'inganna.  Ei  ci
astrinse a tenerla; ebben, si tenga: questo è il voto  comun.  Che  fece  allora
l'amico di costui? Ve ne rammenta? Io vel dirò; ché men tranquillo al certo  era
in quel punto il vostro cor, dell'occhio che imperturbato  vi  seguia.  Perdeste
ogni ritegno, oltrepassaste il largo  confin  che  un  resto  di  prudenza  avea
prescritto al vostro ardor, dimenticaste ciò che promesso v'eravate,  intero  ai
men veggenti vi svelaste, a quelli cui parea novo  ciò  che  a  noi  non  l'era.
Ognuno allor pensò che oggi in Senato c'era un uom di soverchio, e  che  bisogna
porre il segreto dello Stato in salvo.

MARCO

Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi quel che ora io sia, non  so;  però  non
posso dimenticarmi che patrizio io sono, né  a  voi  tacer  che  un  dubbio  tal
m'offende. Sono un di voi: la causa dello Stato è la mia causa; e il suo segreto
importa a me non men che altrui.

MARINO

Volete alfine saper chi siete qui? Voi siete un uomo di cui si teme, un  che  lo
Stato guarda come un inciampo alla sua via. Mostrate che nol sarete; il  darvene
agio ancora è gran clemenza.

MARCO

Io sono amico al Conte: questa è l'accusa mia; nol nego, io il sono: e  il  ciel
ringrazio che vigor mi ha dato di confessarlo qui. Ma se nemico è della  patria?
Mi si provi, è il mio. Che  gli  si  appone?  I  prigionier  disciolti?  Non  li
disciolse il vincitor soldato? Ma invan pregato il condottier non  volle  frenar
questa licenza. Il potea forse? Ma l'imitò. Non ve  lo  astrinse  un  uso,  qual
ch'ei sia, della guerra? ed al Senato vera  non  parve  questa  scusa?  e  largo
d'ogni onor poscia non gli  fu?  L'aiuto  al  Trevisan  negato?  Era  più  grave
periglio il darlo; era l'impresa ordita ignaro il Conte; ei  non  fu  chiesto  a
tempo. E la sentenza che a sì turpe esiglio il Trevisan dannò,  tutta  la  colpa
non rovesciò sovra di lui?  Cremona?  Chi  di  Cremona  meditò  l'acquisto?  Chi
l'ordin dié che si tentasse? Il Conte. Del popol tutto che a rumor si  leva  non
può scarso drappel l'inaspettato impeto sostener; ritorna al  campo,  non  scemo
pur d'un combattente.  Al  Duce  buon  consiglio  non  parve  incontro  un  novo
impensato nemico avventurarsi; e abbandonò l'impresa. Ella è, fra tante  sì  ben
compiute, una fallita impresa; ma il tradimento ov'è? Fiero, oltraggioso da gran
tempo, voi dite, è il suo linguaggio: un  troppo  lungo  tollerar  macchiato  ha
l'onor nostro. Ed un'insidia, il lava? E poi che un nodo, un dì sì  caro,  ormai
non può tener Venezia e il Carmagnola, chi ci vieta  disciorlo?  Un'amistade  sì
nobilmente stretta, or non potria nobilmente finir? Come!  anche  in  questo  un
periglio si scorge! Il genio ardito del condottier; la fama  sua  si  teme,  de'
soldati l'amor! Se render piena testimonianza al ver, colpa si stima; se  a  tal
trista temenza oppor non lice la lealtà del Conte; il senso  almeno  del  nostro
onor la scacci. Abbiam di noi un più degno concetto; e non si creda  che  a  tal
Venezia giunta sia, che possa porla in periglio un uom. Lasciam codeste cure  ai
tiranni: ivi il valor si tema ove lo scettro è in una mano, e basta a strapparlo
un guerrier che dica: io sono più degno  di  tenerlo;  e  a'  suoi  compagni  il
persuada. Ei che tentar potria? Al Duca ritornar, dicesi, e seco le schiere trar
nel tradimento. Al Duca? All'uom  che  un'onta  non  perdona  mai,  né  un  gran
servigio, ritornar colui che gli compose e che gli scosse il trono? Chi non poté
restargli amico in tempo che pugnava per lui, ridivenirlo dopo averlo sconfitto!
Avvicinarsi a quella man che in  questo  asilo  istesso  comprò  un  pugnal  per
trapassargli il petto! L'odio solo, o signor, creder lo puote. Ah! qual  sia  la
cagion che innanzi a questo temuto seggio fa trovarmi, un'alta grazia mi fia, se
fare intender posso anco una volta il ver: qualche lusinga io  nutro  ancor  che
non fia forse invano. Sì, l'odio cieco, l'odio sol potea far che fosse in Senato
un tal sospetto proposto, inteso, tollerato. Ha molti fra noi nemici  il  Conte:
or non ricerco perché lo siano: il son. Quando nascoste all'ombra della pubblica
vendetta, le nimistà  private  io  disvelai;  quando  chiedea  che  a  provveder
s'avesse l'util soltanto dello Stato, e il giusto; allora ufizio  io  non  facea
d'amico, ma di fedel patrizio. Io già non scuso il mio parlar:  quando  proporre
intesi che sotto il vel di consultarlo ei sia richiamato a  Venezia,  e  gli  si
faccia onor più dell'usato, e tutto questo per tirarlo nel laccio... allor,  nol
nego...

MARINO

Più non pensaste che all'amico.

MARCO


Allora, dissimular nol vo', tutte sentii le potenze dell'alma sollevarsi  contro
un consiglio... ah fu seguito!... Un solo pensier non fu; fu  della  patria  mia
l'onor ch'io vedo vilipeso, il grido de' nemici e de' posteri; fu il primo senso
d'orror che un tradimento inspira all'uom che dee stornarlo, o starne a parte. E
se pietà d'un prode a tanti affetti pur si mischiò, dovea, poteva io forse farla
tacer? Son reo d'aver creduto che util puote a Venezia esser  soltanto  ciò  che
l'onora, e che si può salvarla senza farsi...

MARINO

Non più: se tanto udii fu perché ai Capi del  Consiglio  importa  di  conoscervi
appien. Piacque aspettarvi ai secondi pensier; veder si volle se un  più  maturo
ponderar v' avea tratto a più saggio e più civil consiglio. Or,  poiché  indarno
si sperò, credete voi che un decreto del Senato io voglia difender ora innanzi a
voi? Si tratta la vostra causa qui. Pensate a voi, non alla patria: ad altre,  e
forti, e pure mani è commessa la sua sorte: e nulla a cor  le  sta  che  il  suo
voler vi piaccia, ma che s'adempia, e che non sia sofferto pure  il  pensier  di
porvi impedimento. A questo vegliam noi. Quindi io non voglio altro da  voi  che
una risposta. Espresso sovra quest'uomo è del Senato il  voto;  compir  si  dee;
voi, che farete intanto?

MARCO

Quale inchiesta, signor!

MARINO

Voi siete a parte d'un gran disegno; e in vostro cor bramate che a voto ei vada:
non è ver?

MARCO

Che importa ciò ch'io brami, allo Stato? A prova ormai sa che dell'opre mie  non
è misura il desiderio, ma il dover.

MARINO

Qual pegno abbiam da voi che lo farete? In nome del Tribunale un ve ne chiedo: e
questo, se lo negate, un traditor vi tiene. Quel che si serba ai  traditor,  v'è
noto.

MARCO

Io... Che si vuol da me?

MARINO

Riconoscete che patria è  questa  a  cui  bastovvi  il  core  di  preferire  uno
stranier. Sui figli a stento e tardi essa la mano aggrava; e a perderne soltanto
ella consente quei che salvar non puote. Ogni error vostro è pronta ad  obbliar;
v'apre ella stessa la strada al pentimento.

MARCO

Al pentimento! Ebben, che strada?

MARINO

Il Mussulman disegna d'assalir Tessalonica: voi  siete  colà  mandato.  A  quale
ufizio, quivi noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi voi partirete.

MARCO

Ubbidirò.

MARINO

Ma un'arra si vuol di vostra fé: giurar dovete per quanto è sacro, che in parole
o in cenni nulla per voi traspirerà di quanto oggi s'è fisso.  Il  giuramento  è
questo: (gli presenta un foglio) sottoscrivete.

MARCO (legge)

E che, signor? Non basta?..

MARINO

E per ultimo, udite. Il messo è in via che  porta  al  Conte  il  suo  richiamo.
Ov'egli pronto ubbidisca, ed  in  Venezia  arrivi,  giustizia  troverà...  forse
clemenza. Ma se ricusa, se sta in forse, e segno dà di sospetto; un gran segreto
udite, e tenetelo in voi; l'ordine è dato che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce, quei l'uccide, e si perde. Io  più  non
odo nulla da voi: scrivete; ovvero... (gli porge il foglio)

MARCO

Io scrivo. (prende il foglio e lo sottoscrive)

MARINO

Tutto è posto in obblio. La vostra fede ha fatto il  più;  vinto  ha  il  dover:
l'impresa compirsi or dee dalla prudenza: e questa non può mancarvi, sol che  in
mente abbiate che ormai due vite in vostra man son poste. (parte)


SCENA II


MARCO

Dunque è deciso!... un vil son io!... fui posto al cimento; e  che  feci?...  Io
prima d'oggi non conoscea  me  stesso!...  Oh  che  segreto  oggi  ho  scoperto!
Abbandonar nel laccio un amico io potea! Vedergli al  tergo  l'assassino  venir,
veder lo stile che su lui scende, e non gridar: ti guarda!  Io  lo  potea;  l'ho
fatto... io più nol devo salvar; chiamato ho in testimonio il cielo  d'un'infame
viltà... la sua sentenza ho sottoscritta... ha la  mia  parte  anch'io  nel  suo
sangue! Oh che feci!... io mi lasciai dunque  atterrir?...  La  vita?...  Ebben,
talvolta senza delitto non si  può  serbarla:  nol  sapeva  io?  Perché  promisi
adunque? Per chi tremai? per me? per me? per questo disonorato  capo?...  o  per
l'amico? La mia ripulsa accelerava il colpo, non lo stornava. O Dio,  che  tutto
scerni, rivelami il mio cor; ch'io veda almeno in quale abisso son caduto,  s'io
fui più stolto; o codardo, o sventurato. O Carmagnola, tu  verrai!...  sì  certo
egli verrà... se anche di queste volpi stesse. in sospetto, ei penserà che Marco
è senator, che anch'io l'invito; e lunge ogni dubbiezza scaccerà;  rimorso  avrà
d'averla accolta... Io son che il perdo! Ma... di clemenza non parlò quel  vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda all'uom che  ha  tratto  nell'agguato,  a
quello ch'egli  medesmo  accusa,  e  che  gli  preme  di  trovar  reo.  Clemenza
all'innocente! Oh! il vil son io che gli credetti, o volli credergli; ei la nomò
perché comprese che bastante a corrompermi non era il rio timor che a  goccia  a
goccia ei fea scender sull'alma mia: vide che d'uopo m'era un nobil pretesto;  e
me lo diede. Gli astuti! i traditor! Come le parti  distribuite  hanno  tra  lor
costoro! Uno il sorriso, uno il pugnal, quest'altro le minacce... e  la  mia?...
voller che fosse debolezza ed inganno... ed io l'ho presa! Io  li  spregiava;  e
son da men di loro! Ei non gli sono amici!... Io non doveva essergli  amico:  io
la cercai; fui preso dall'alta indole sua, dal suo gran  nome.  Perché  dapprima
non pensai che incarco è l'amistà d'un uom che agli altri è sopra? Perché  allor
correr solo io nol lasciai la sua splendida via, s'io non potea seguire i  passi
suoi? La man gli stesi; il cortese la strinse; ed or ch'ei dorme,  e  il  nemico
gli è sopra, io la ritiro: ei si desta, e  mi  cerca;  io  son  fuggito!  Ei  mi
dispregia, e more! Io non sostengo questo pensier...  Che  feci!...  Ebben,  che
feci? Nulla finora: ho sottoscritto un foglio, e nulla più.  Se  fu  delitto  il
giuro, non fia virtù l'infrangerlo? Non sono che all'orlo ancor del  precipizio;
il vedo, e ritrarmi poss'io... Non posso un mezzo trovar?... Ma  s'io  l'uccido?
Oh! forse il disse per atterrirmi... E se davvero il disse? Oh  empi,  in  quale
abbominevol rete stretto m'avete! Un nobile consiglio per me non c'è;  qualunque
io scelga, è colpa. Oh dubbio atroce!... Io li ringrazio; ei m'hanno statuito un
destino; ei m'hanno spinto per una via; vi corro: almen mi giova  ch'io  non  la
scelsi: io nulla scelgo; e tutto ch'io faccio è forza e volontà d'altrui.  Terra
ov'io nacqui, addio per sempre: io spero ché ti morrò lontano, e pria che  nulla
sappia di te: lo spero: in fra i perigli certo per sua pietade il ciel  m'invia.
Ma non morrò per te. Che tu sii grande e gloriosa, che  m'importa?  Anch'io  due
gran tesori avea, la mia virtude, ed  un  amico;  e  tu  m'hai  tolto  entrambi.
(parte)


SCENA III

Tenda del Conte.

IL CONTE e GONZAGA


IL CONTE

Ebben, che raccogliesti?


GONZAGA

Io favellai, come imponesti, ai Commissari; e chiaro  mostrai  che  tutta  delle
vinte navi riman la colpa e la vergogna a lui che non  le  seppe  comandar;  che
infausta la giornata gli fu perché la  imprese  senza  di  te;  che  tu  da  lui
chiamato tardi in soccorso, romper non dovevi i  tuoi  disegni  per  servir  gli
altrui; che l'armi lor, tanto in tua man felici, sempre  il  sarian,  se  questa
guerra fosse commessa al senno ed al voler d'un solo.

IL CONTE

Che dicon essi?

GONZAGA

Si mostrar convinti ai detti miei: dissero in pria, che nulla dissimular volean;
che amaro al certo de' perduti navigli era il pensiero, e di Cremona la  fallita
impresa; ma che son lieti di saper che il fallo di te non fu; che di chiunque ei
sia, da te l'ammenda aspettano.

IL CONTE

Tu il vedi, o mio Gonzaga; se dai fede al volgo, sommo riguardo, arte profonda è
d'uopo con questi uomin di Stato. Io fui con essi quel ch'esser soglio; rigettai
l'ingiuste pretese lor, scender li feci alquanto dall'alto seggio ove si pon chi
avvezzo non è a vedersi altri che schiavi intorno; io mostrai  lor  fino  a  che
segno io voglio che altri signor  mi  sia:  d'allora  in  poi  mai  non  l'hanno
passato; io li provai saggi sempre e cortesi.

GONZAGA

E non pertanto dar consiglio ad alcuno io non vorrei di tener, questa via. Te da
gran tempo la gloria segue e la fortuna; ad essi util tu sei,  tu  necessario  e
caro, terribil forse: e tu la prova hai vinta; se pur può dirsi  che  sia  vinta
ancora.

IL CONTE

Che dubbi hai tu?

GONZAGA

Tu, che certezza? Io vedo dolci sembianti, e dolci detti ascolto: segni  d'amor;
ma pur, l'odio che teme, altri ne ha forse?

IL CONTE

No: di questo io nulla sono in pensier. Troppo a  regnar  son  usi;  e  san  che
all'uom da cui s'ottiene il molto chieder non dessi  improntamente  il  meno.  E
poi, mi credi, io li guardai dappresso: questa cupa arte lor,  questi  intricati
avvolgimenti di menzogna, questo finger, tacere, antiveder, di cui tanto li loda
e li condanna il mondo è meno assai di quel che al mondo appare.

GONZAGA

Se pur non era di lor arte il colmo il parer tali a te.

IL CONTE

No: tu li vedi con  l'occhio  altrui:  quando  col  tuo  li  veda,  tu  cangerai
pensiero. Havvene assai di schietti e  buoni;  havvene  tal  che  un'alta  anima
chiude, a cui pensier non osa avvicinarsi che gentil  non  sia:  anima  dolce  e
disdegnosa, in cui  legger  non  puoi,  che  tu  non  sia  compreso  d'amor,  di
riverenza, e di desio di somigliarle. Non temer; non sono  di  me  scontenti;  e
quando il fosser mai, io lo saprei ben tosto.

GONZAGA

Il Ciel non voglia che tu t'inganni.

IL CONTE

Altro mi duol: son stanco di questa guerra che condur  non  posso  a  modo  mio.
Quand'io non era ancora più che un soldato di ventura, ascoso e  perduto  tra  i
mille, ed io sentia che al loco mio non m'avea posto il cielo,  e  dell'oscurità
l'aria affannosa respirava fremendo, ed il comando sì  bello  mi  parea,...  chi
m'avria detto che l'otterrei, che a gloriosi duci, e a tanti e così prodi e così
fidi soldati io sarei capo; e che felice  io  non  sarei  perciò!...  (entra  un
Soldato) Che rechi?

SOLDATO

Un foglio di Venezia. (gli porge il foglio, e parte)

IL CONTE

Vediam. (legge) Non tel diss'io? mai non gli ebbi più  amici:  a  loro  il  Duca
chiede la pace, e conferir con meco braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?

GONZAGA Io vengo.

IL CONTE

Che dì tu di tal pace?

GONZAGA

Ad un soldato tu lo domandi?

IL CONTE

È ver; ma questa è guerra? O mia consorte, o figlia mia, tra poco io rivedrovvi,
abbraccerò gli amici: questo è contento al certo. Eppur del  tutto  esser  lieto
non so: chi potria dirmi se un sì bel campo io rivedrò più mai?




FINE DELL'ATTO QUARTO




ATTO QUINTO


SCENA I

Notte. Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.

Il DOGE, i DIECI, e il CONTE seduti.


IL DOGE (al Conte)

A questi patti offre la pace il Duca;  su  ciò  chiede  il  Consiglio  il  parer
vostro.

IL CONTE

Signori, un altro io ve ne diedi; e molto promisi allor: vi piacque. Io  attenni
in parte quel che promesso avea: ma lunge ancora dalle parole è il fatto; ed  or
non voglio farle obbliar però: sul labbro mio imprevidente militar baldanza  non
le mettea. Di novo avviso or chiesto, altro non posso che ridirvi il  primo.  Se
intera e calda e risoluta guerra far disponete, ah! siete a tempo: è  questa  la
miglior scelta ancora. Ei vi abbandona Bergamo e  Brescia;  e  non  son  vostre?
L'armi le han fatte vostre: ei non può tanto offrirvi quanto  sperar  di  torgli
v'è concesso. Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede voi non volete altro  che
il ver, se il modo mutar di  questa  guerra  a  voi  non  piace,  accettate  gli
accordi.

IL DOGE

Il parlar vostro accenna assai, ma poco spiega: un chiaro parer vi si domanda.

IL CONTE

Uditel dunque. Scegliete un duce, e confidate in lui:  tutto  ei  possa  tentar;
nulla si tenti senza di lui: largo poter gli date; stretto conto ei ne renda. Io
non vi chiedo ch'io sia l'eletto: dico sol che molto sperar non lice da chi  tal
non sia.

MARINO

Non l'eravate voi quando i prigioni sciolti voleste, e il furo? Eppur la  guerra
più risoluta non si fea per questo, né certa più. Duce e signor nel campo, forse
concesso non l'avreste.

IL CONTE

Avrei fatto di più: sotto alle mie bandiere venian quei prodi; e di  Filippo  il
soglio voto or sarebbe, o sederiavi un altro.

IL DOGE

Vasti disegni avete.

IL CONTE

E l'adempirli sta in voi: se ancor nol son, n'è cagion sola che la  man  che  il
dovea sciolta non era.

MARINO

A noi si disse altra cagion: che il Duca vi commosse a pietà, che l'odio  atroce
che già portaste al signor  vostro  antico,  sovra  i  presenti  il  rovesciaste
intero.

IL CONTE

Questo vi fu riferto? Ella è sventura di chi  regge  gli  Stati  udir  con  pace
l'impudente menzogna, i turpi sogni d'un vil di  cui  non  degneria  privato  le
parole ascoltar.

MARINO

Sventura è vostra che a tal riferto  il  vostro  oprar  s'accordi,  che  il  rio
linguaggio lo confermi, e il vinca.

IL CONTE

Il vostro grado io riverisco in voi, e questi generosi in mezzo a cui v'ha posto
il caso: e mi conforta almeno che il non mertato onor di che lor piacque cingere
il loro capitan, lo stesso udirvi io  qui,  mostra  ch'essi  han  di  lui  altro
pensiero.

IL DOGE

Uno è il pensier di tutti.

IL CONTE

E qual?

IL DOGE

L'udiste.

IL CONTE

È del Consiglio il voto quello che udii?

IL DOGE

Sì: il crederete al Doge.

IL CONTE

Questo dubbio di me?...

IL DOGE

Già da gran tempo non è più dubbio.

IL CONTE

E m'invitaste a questo? E taceste finor?

IL DOGE

Sì, per punirvi del tradimento, e non vi dar pretesti per consumarlo.

IL CONTE

Io traditor! Comincio a comprendervi alfin: pur troppo altrui creder non  volli.
Io traditor! Ma questo titolo infame infimo a me non giunge: ei non è  mio;  chi
l'ha mertato il tenga. Ditemi stolto: il soffrirò, che il merto: tale è  il  mio
posto qui; ma con null'altro lo cambierei, ch'egli è il  più  degno  ancora.  Io
guardo, io torno col pensier sul tempo che fui vostro soldato: ella  è  una  via
sparsa di fior. Segnate il giorno in cui vi parvi un traditor! Ditemi un  giorno
che di grazie e di lodi e di promesse colmo non  sia!  Che  più?  Qui  siedo;  e
quando io venni a questo che alto onor parea,  quando  più  forte  nel  mio  cor
parlava fiducia, amor, riconoscenza, e zelo... Fiducia no: pensa a fidarsi forse
quei che invitato tra gli amici arriva? Io veniva all'inganno! Ebben, ci  caddi;
ella è così. Ma via; poiché gettato è il finto volto del sorriso ormai, sia lode
al ciel; siamo in un campo almeno che anch'io conosco. A voi parlare or tocca; e
difendermi a me: dite, quai sono i tradimenti miei?

IL DOGE

Gli udrete or ora dal Collegio segreto.

IL CONTE Io lo ricuso. Ciò che feci per voi, tutto lo feci alla  luce  del  sol;
renderne conto tra insidiose tenebre non voglio. Giudice del guerrier, solo è il
guerriero. Voglio scolparmi a chi m'intenda; voglio  che  il  mondo  ascolti  le
difese, e veda...

IL DOGE

Passato è il tempo di voler.

IL CONTE

Qui dunque mi si fa forza? Le mie guardie! (alzando la voce, si move per uscire)

IL DOGE

Sono lunge di qui. Soldati! (entrano genti armate)

Eccovi ormai le vostre guardie.

IL CONTE

Io son tradito!

IL DOGE

Un saggio pensier fu dunque il rimandarle: a torto non  si  pensò  che,  in  suo
tramar sorpreso, farsi ribelle un traditor potria.

IL CONTE

Anche un ribelle, sì: come v'aggrada ormai potete favellar.

IL DOGE

Sia tratto al Collegio segreto.

IL CONTE

Un breve istante udite in pria. Voi  risolveste,  il  vedo,  la  morte  mia;  ma
risolvete insieme la vostra infamia eterna. Oltre l'antico confin l'insegna  del
Leon si spiega su quelle torri, ove all'Europa è  noto  ch'io  la  piantai.  Qui
tacerassi, è vero; ma intorno a voi, dove non giunge il muto terror  del  vostro
impero, ivi librato, ivi in note indelebili fia scritto il benefizio e la mercé.
Pensate ai vostri annali, all'avvenir. Tra poco il dì verrà che  d'un  guerriero
ancora uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro? Voi provocate la milizia. Or sono
in vostra forza, è ver; ma vi sovvenga ch'io non ci nacqui,  che  tra  gente  io
nacqui belligera, concorde: usa gran tempo a guardar come sua  questa  qualunque
gloria d'un suo concittadin, non fia che straniera all'oltraggio ella si  tenga.
Qui c'è un inganno: a ciò vi trasse un qualche vostro  nemico  e  mio:  voi  non
credete ch'io vi tradissi. È tempo ancora.

IL DOGE

È tardi. Quando il delitto meditaste, e baldo affrontavate  chi  dovea  punirlo,
tempo era allor d'antiveggenza.

IL CONTE

Indegno! Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti ch'io chiedessi  pietà,  ch'io  ti
pregassi: tu forse osasti di pensar che un prode pe' giorni suoi tremava. Ah! tu
vedrai come si mor. Va; quando  l'ultim'ora  ti  coglierà  sul  vil  tuo  letto,
incontro non le starai con quella fronte al certo, che a questa infame, a cui mi
traggi, io reco. (parte il Conte tra i Soldati)


SCENA II

Casa del Conte.

ANTONIETTA, e MATILDE


MATILDE

Ecco l'aurora; e il padre ancor non giunge.

ANTONIETTA

Ah! tu nol sai per prova: i  lieti  eventi  tardi,  aspettati  giungono,  e  non
sempre. Presta soltanto è la sventura, o figlia: intraveduta  appena,  ella  c'è
sopra. Ma la notte passò: l'ore penose del desio più non son: tra pochi  istanti
quella del gaudio sonerà. Non puote ei più tardar; da questo indugio  io  prendo
un fausto augurio: il consultar sì lungo tratto non han, che per fermar la pace.
Ei sarà nostro, e per gran tempo.

MATILDE

O madre, anch'io lo spero. Assai di notti in pianto, e  di  giorni  in  sospetto
abbiam passati. È tempo ormai che, ad ogni istante, ad  ogni  novella,  ad  ogni
susurrar del volgo più non si tremi, e all'alma combattuta quell'orrendo pensier
più non ritorni: forse colui che sospirate, or more.

ANTONIETTA

Oh rio pensier! ma almen per ora è  lunge.  Figlia,  ogni  gioia  col  dolor  si
compra. Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre tratto in  trionfo,  tra  i
più grandi accolto, portò l'insegne de' nemici al tempio?

MATILDE

Oh giorno!

ANTONIETTA

Ognun parea minor di lui; l'aria sonava del suo nome; e noi scevre dal volgo, in
alto loco intanto contemplavam quell'uno in cui rivolti eran tutti gli  sguardi:
inebbriato il cor tremava, e ripetea: siam sue.

MATILDE

Felici istanti!

ANTONIETTA

Che avevam noi fatto per meritarli? A questa gioia il  cielo  ci  trascelse  tra
mille. Il ciel ti scelse, il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte; tal  don
ti fece, che a chiunque il rechi, n'andrà superbo. A quanta invidia è  segno  la
nostra sorte! E noi dobbiam scontarla con queste angosce.

MATILDE

Ah! son finite... ascolta; odo un batter di remi... ei cresce... ei cessa...  Si
spalancan le porte... ah! certo ei giunge: o madre, io vedo un'armatura; è lui.

ANTONIETTA

Chi mai saria s'egli non fosse?... O sposo... (va verso la scena)



SCENA III

GONZAGA, e dette.


ANTONIETTA

Gonzaga!... ov'è il mio sposo? ov'è?... Ma voi  non  rispondete?  Oh  cielo!  il
vostro aspetto annunzia una sventura.

GONZAGA

Ah che pur troppo annunzia il vero!

MATILDE A chi sventura?

GONZAGA

O donne! Perché un incarco sì crudel m'è imposto?

ANTONIETTA

Ah! voi volete esser pietoso, e siete crudel: tremar più non ci fate. In nome di
Dio, parlate; ov'è il mio sposo?

GONZAGA Il cielo vi dia la forza d'ascoltarmi. Il Conte...

MATILDE

Forse è tornato al campo?

GONZAGA

Ah! più non torna... Egli è in disgrazia de' Signori... è preso.

ANTONIETTA

Egli preso! perché?

GONZAGA

Gli danno accusa di tradimento.

ANTONIETTA Ei traditore?

MATILDE

Oh padre!

ANTONIETTA

Or via, seguite: preparate al tutto siam noi: che gli faran?

GONZAGA

Dal labbro mio voi non l'udrete.

ANTONIETTA

Ahi l'hanno ucciso!

GONZAGA

Ei vive; ma la sentenza è proferita.

ANTONIETTA

Ei vive? Non pianger, figlia, or che d'oprare è il tempo.  Gonzaga,  per  pietà,
non vi stancate della nostra sventura; il ciel v'affida due derelitte: ei  v'era
amico: andiamo, siateci scorta ai giudici. Vien meco, poverella  innocente:  oh!
vieni: in terra c'è ancor pietà: son sposi e padri  anch'essi.  Mentre  scrivean
l'empia sentenza, in mente non venne lor  ch'egli  era  sposo  e  padre.  Quando
vedran di che dolor cagione è una parola di  lor  bocca  uscita,  ne  fremeranno
anch'essi; ah! non potranno non  rivocarla:  del  dolor  l'aspetto  è  terribile
all'uom. Forse scusarsi quel prode non degnò, rammentar  loro  quanto  per  essi
oprò; noi rammentarlo sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,  noi  pregheremo.
(in atto di partire)

GONZAGA

Oh ciel, perché non posso lasciarvi almen questa speranza!  A  preghi  loco  non
c'è; qui i giudici son sordi, implacabili, ignoti: il fulmin piomba, la man  che
il vibra è nelle nubi ascosa. Solo un conforto v'è concesso, il tristo  conforto
di vederlo, ed io vel reco. Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda è la  prova;
ma il Dio degl'infelici sarà con voi.

MATILDE

Non c'è speranza?

ANTONIETTA

Oh figlia! (partono)


SCENA IV

Prigione.


IL CONTE

A quest'ora il sapranno. Oh perché almeno lunge da  lor  non  moio!  Orrendo,  è
vero, lor giungeria l'annunzio; ma varcata l'ora  solenne  del  dolor  saria;  e
adesso innanzi ella ci sta: bisogna gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
o sol diffuso! o strepito dell'armi! o gioia de' perigli! o trombe! o grida  de'
combattenti! o mio destrier! tra voi era bello il  morir.  Ma...  ripugnante  vo
dunque incontro al mio destin, forzato, siccome un reo, spargendo in  sulla  via
voti impotenti e misere querele? E  Marco,  anch'ei  m'avria  tradito!  Oh  vile
sospetto! oh dubbio! oh potess'io deporlo pria di morir! Ma no: che val di  novo
affacciarsi alla vita, e indietro ancora volgere  il  guardo  ove  non  lice  il
passo? E tu, Filippo, ne godrai! Che importa? Io  le  provai  quest'empie  gioie
anch'io: quel che vagliano or so. Ma rivederle! ma i lor gemiti  udir!  l'ultimo
addio da quelle voci udir! tra quelle braccia ritrovarmi...  e  staccarmene  per
sempre! Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr'esse un guardo di pietà.


SCENA V

ANTONIETTA, MATILDE, GONZAGA, e il CONTE


ANTONIETTA

Mio sposo!...

MATILDE

Oh padre!

ANTONIETTA

Così ritorni a noi? Questo è il momento bramato tanto?...

IL CONTE

O misere, sa il cielo che per voi sole ei m'è tremendo. Avvezzo io son da  lungo
a contemplar la morte, e ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno ho di  coraggio;
e voi, voi non vorrete tormelo, è vero? Allor che  Dio  sui  boni  fa  cader  la
sventura, ei dona ancora il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro alla  sventura
or sia. Godiam di questo abbracciamento: è un don del cielo  anch'esso.  Figlia,
tu piangi! e tu, consorte!... Ah! quando ti  feci  mia,  sereni  i  giorni  tuoi
scorreano in pace; io ti chiamai compagna del mio tristo destin: questo pensiero
m'avvelena il morir. Deh ch'io non veda quanto per me sei sventurata!

ANTONIETTA

O sposo de' miei bei dì, tu che li festi; il core vedimi; io moio di  dolor;  ma
pure bramar non posso di non esser tua.


IL CONTE

Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora non far che troppo il senta.

MATILDE

Oh gli omicidi!

IL CONTE

No, mia dolce Matilde; il tristo grido della vendetta e  del  rancor  non  sorga
dall'innocente animo tuo, non turbi quest'istanti: son sacri. Il torto è grande;
ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali un'alta gioia anco riman. La morte! Il
più crudel nemico altro non puote che accelerarla.  Oh!  gli  uomini  non  hanno
inventata la morte: ella saria  rabbiosa,  insopportabile:  dal  cielo  essa  ci
viene; e l'accompagna il cielo con tal conforto, che né dar né torre gli  uomini
ponno. O sposa, o figlia, udite le  mie  parole  estreme:  amare,  il  vedo,  vi
piombano sul cor; ma un giorno avrete qualche dolcezza  a  rammentarle  insieme.
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi; questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi la riconduci: ella è lor sangue; ad  essi
fosti sì cara un dì! Consorte poi del lor nemico, il fosti men; le crude ire  di
Stato avversi fean gran tempo de' Carmagnola e de' Visconti il nome. Ma tu riedi
infelice; il tristo oggetto dell'odio è tolto: è un gran pacier la morte. E  tu,
tenero fior, tu che tra l'armi a rallegrare il mio pensier venivi, tu  chini  il
capo: oh! la tempesta rugge sopra di te! tu tremi, ed al singulto più non  regge
il tuo sen; sento sul petto le tue infocate  lagrime  cadermi;  e  tergerle  non
posso: a me tu sembri chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre può far per te;
ma pei diserti in cielo c è un Padre, il sai. Confida  in  esso,  e  vivi  a  dì
tranquilli se non lieti: Ei certo te li prepara. Ah! perché mai versato tutto il
torrente dell'angoscia avria sul tuo mattin, se non serbasse al resto  tutta  la
sua pietà? Vivi, e consola questa dolente madre. Oh ch'ella un giorno a un degno
sposo ti  conduca  in  braccio!  Gonzaga,  io  t'offro  questa  man  che  spesso
stringesti il dì della battaglia, e quando dubbi eravam  di  rivederci  a  sera.
Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede darmi che scorta e  difensor  sarai  di
queste donne, fin che sian rendute ai lor congiunti?

GONZAGA

Io tel prometto.

IL CONTE

Or sono contento. E quindi, se tu riedi al campo, saluta i miei fratelli,  e  dì
lor ch'io moio innocente: testimon tu fosti dell'opre mie, de' miei pensieri,  e
il sai. Dì lor che il brando io non macchiai con l'onta d'un tradimento: io  nol
macchiai: son io tradito.  E  quando  squilleran  le  trombe,  quando  l'insegne
agiteransi al vento, dona un pensiero al tuo compagno antico. E il dì che  segue
la battaglia, quando sul campo della strage il sacerdote, tra il  suon  lugubre,
alzi le palme, offrendo il sacrifizio per gli estinti al cielo, ricordivi di me,
che anch'io credea morir sul campo.

ANTONIETTA

Oh Dio, pietà di noi!

IL CONTE

Sposa, Matilde, ormai vicina è l'ora; convien lasciarci... addio.

MATILDE

No, padre...

IL CONTE

Ancora una volta venite a questo seno; e per pietà partite.

ANTONIETTA

Ah no! dovranno staccarci a forza. (si sente uno strepito d'armati)

MATILDE

Oh qual fragor!

ANTONIETTA

Gran Dio! (s'apre la porta di mezzo, e s'affacciano genti  armate;  il  capo  di
esse s'avanza verso il Conte: le due donne cadono svenute)

IL CONTE

O Dio pietoso, tu le involi a questo crudel momento; io ti ringrazio. Amico,  tu
le soccorri, a questo infausto loco le togli;  e  quando  rivedran  la  luce  dì
lor... che nulla da temer più resta.




FINE DELLA TRAGEDIA


(1) Sono differenti in questo (l'Epopea e la Tragedia), che quella ha  il  verso
misurato semplice, ed è raccontativa,  e  formata  di  lunghezza;  e  questa  si
sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di  mutarne  poco;
ma l'Epopea è smoderata per tempo,  ed  in  ciò  è  differente  dalla  Tragedia.
Traduzione del Castelvetro. 
(2) Corso di Letteratura drammatica, Lezione x.  
(3) Batteux, Principes de la littérature, Traité V, chap. 4. 
(4) Marmontel, Éléments de littérature, art. Unité. 
(5) Batteux, l. c. 
(6) Fleury, Mœurs des Israélites, X. 
(7) Altre circostanze non  hanno  permesso  all'autore  di  mantenere  questa
promessa. E lo dice senza riguardo, sapendo bene che  sono  mancanze  le  quali,
lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso
quello di benemerito. Del rimanente, questo punto è stato toccato in parte nella
Lettre à M.r Ch... sur l'unité de temps et de lieu dans la  tragédie.  E  forse,
per  ciò  che  riguarda  la  questione  generale,  basta  osservare  che   tutta
l'argomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma
non possa interessare, se non in quanto comunichi allo spettatore o  al  lettore
le passioni rappresentate in  esso.  Supposizione  venuta  dall'aver  preso  per
condizione universale e naturale del dramma ciò ch'era  un  fatto  speciale  de'
drammi esaminati da loro, e della quale la più parte  de'  drammi  immortali  di
Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica. 
(8) Corso  di Letteratura drammatica, Lezione III. 
(9) Filippo la  fece  decapitare  come  rea d'adulterio con Michele Orombelli. 
    Il più degli storici  la  credono  innocente.
(10) Hist. lib. 4; Rer. Ital. Script.,  T.  XIX,  col.  72.  
(11)  Tutto  questo racconto è cavato dal Bigli. 
(12) Sanuto, Vite dei duchi di Venezia; Rer. Ital., XXII, 978. 
(13) Machiavelli, Ist. Fior., Lib. 4. 
(14) Per servire  alla  dignità del verso, il nome di quest'ultimo personaggio 
nella tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio.  La  storia  stessa ha  
suggerito  questo  cambiamento; giacché il Piccinino era nipote di Braccio 
Fortebracci, e dopo  la  morte  dello zio fu capo de' soldati della fazione 
Braccesca. 
(15) Istos quoque jubeo  solita lege dimitti. Bigli, lib. 6. 
(16) Ad ligonem stipendiarii.  Chron.  Tarv.;  Rer. It., XIX, 864. 
(17) Ai 13 di luglio, essendo stato proclamato Nicolò  Trevisano,
che fu capitano nel Po, ed essendosi egli assentato,  gli  Avogadori  di  Comune
andarono al consiglio de' Pregadi, e messero di procedere  contro  di  lui,  per
essere stato rotto in Po da' galeoni del Duca di Milano ai 21 di giugno passato,
in vitupero del Dominio, e per non aver fatto  il  suo  dovere,  immo  vilissime
essersi portato; immo perché andò pregando gli altri che fuggissero via. Sanuto,
Rer. Ital., XXII, 1017. 
(18) Navagero, Stor. Ven.; Rer. Ital., XXIII, 1096. 
(19) Sanuto: Rer. It., XXII, 1028. 
(20) Cronica di Bologna: Rer. It., XVIII 645. 
(21) Poggii, Hist. lib. VI. 
(22) Rivoluzioni d'Italia, lib. XX, cap. 1.
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