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Denis Diderot - La Religiosa


Denis Diderot LA RELIGIOSA

Introduzione traduzione e note di Antonio Di Giorgio

Ai miei genitori, e ai miei fratellini, Alessandra e Francesco

La Religieuse

Nel 1796 fu dato alle stampe un romanzo che narrava la vicenda di  una  giovane,
che tentò invano di  protestare contro i voti pronunciati non liberamente: è  La
religieuse di  Denis Diderot. Già il titolo  è  significativo,  e  sottende  due
impostazioni. Il titolo, infatti, anticipa che l’autore descriverà  due  realtà:
la canonica - Susanna è monaca professa e corista- e la virtù -Susanna è davvero
una religiosa. L’esposizione è espressa in forma  di  memoriale.  Il  romanzo  è
stato frainteso nel suo contenuto dalla polemica laicista dell’illuminismo,  cui
Diderot dedicò se stesso. Non si può prendere  in  esame  La  Religiosa  solo  e
soltanto  nei  suoi  capitoli,  ma  deve  essere  colta  tutta  l’essenza  della
narrazione: il rischio sarebbe di fare del romanzo uno strumento di polemica, di
cui si è servita la Rivoluzione del 1789 svilendone il  lirismo.  Diderot  è  un
illuminista, e la polemica fu suo pane, tuttavia è  lui  stesso  a  chiarire  la
natura del suo romanzo.

La protagonista.
 Il caso di Suzanne Simonin, la protagonista,  attinge  ad  un  fatto  realmente
accaduto. È stata tentata l’identificazione di Susanna  con una monaca, ma di là
da questo riconoscimento, o meglio di questo debito di Diderot alla cronaca,  si
deve tener presente che egli prese a cuore  il  caso  della  sorella,  Catherine
Diderot (1719-1746), che liberamente aveva preso i voti. L’arco di tempo in  cui
si snodano gli eventi vissuti da Susanna è preciso. A sedici anni e mezzo  entra
in convento come educanda, poi la costringono a rimanere.   Nel  suo  memoriale,
Susanna descrive l’ipocrisia che ha incontrato in convento, ma non  generalizza,
spendendo  non  poche  parole  per  elogiare  le  consorelle  pie  ed  umili   e
l’arcidiacono padre Hébert, il suo liberatore dalle angherie di madre  Cristina.
Accanto a lui,i giovani preti per i quali Susanna implora Dio, e  infine   padre
Le moine, grande indagatore dell’animo umano, che la metterà  in  guardia  dalla
corruzione della superiora di Sant’Eutropio. Susanna non vuol disonorare l’abito
religioso e, mancandole la vocazione, vuole lasciarlo: questo le fa  onore  agli
occhi del lettore. È con quello che chiameremmo il “senno di  poi”  che  Susanna
scrive, e ciò è essenziale per introdurci nella dinamica degli  avvenimenti  che
racconterà rivivendoli. Diderot lascia i suoi interventi  narrativi  inserendoli
su un piano specifico, costruendoli in esposizioni che la protagonista dà al suo
interlocutore, il marchese di Croismare.  Quando  Susanna  scrive  è  gravemente
spossata dai colpi subiti durante la fuga, a cui si collega solo alla  fine  del
memoriale Nell’analisi  del  romanzo  si  possono  cogliere  due  relazioni:  il
rapporto tra Susanna e i suoi familiari e il rapporto tra  Susanna  e  lo  stato
religioso. Non vi è una sola riga di biasimo nel memoriale della  Religiosa  nei
confronti dei suoi genitori, vi sono semmai accenti di pietà. Quando la madre la
fa partecipe della sua angoscia nel  sentire  la  morte  prossima,  incapace  di
salvare la figlia dallo sdegno del marito,  vediamo  Susanna,  nella  solitudine
della sua camera, cercare di  capacitarsi  del  suo  destino  prestabilito:  “Mi
rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto mia madre mi disse. Mi
inginocchiai. Pregai Dio affinché mi ispirasse. Pregai molto. Rimasi   incollata
col volto per terra; non si invoca mai la voce del cielo, se  non  quando  si  è
risoluti, ed è raro che ella non ci consigli  di obbedire (cap. IV)”. Entrata in
convento, la religiosa viene amorevolmente accolta dalla buona e saggia madre De
Moni, la sola priora di cui Susanna tessa l’elogio, e  una  delle  rare  monache
devote e pie che incontrò nel suo cammino.  Divenuta  monaca  corista,  dopo  la
morte della saggia priora, il capitolo delle  religiose  elegge  superiora  suor
Santa Cristina: “Suor Santa Cristina succedette alla madre De Moni.  Ah  signore
che abisso tra l’una e l’altra! Vi ho detto quale  donna  fu  la  prima.  Questa
aveva  un  carattere  infimo,  la  mentalità  assai   ristretta   e   piena   di
superstizioni; aderiva alle novità... prese in avversione tutte le  favorite  di
colei che l’aveva preceduta e in un momento la  casa  fu  piena  di  maldicenze,
d’accuse di calunnie e di persecuzioni...  Fui  indifferente  per  non  dire  di
peggio alla nuova superiora, per il fatto che la precedente mi voleva  bene.  Ma
non tardai a peggiorare la mia sorte (cap.  VIII) ”.

Tutta la vicenda che si snoda nel priorato di Suor Santa Cristina è  un’eco  del
giansenismo. La voce narrante, che a buon diritto  chiameremmo  Diderot-Susanna,
dà adito a quanto la cultura raziocinante dell’era  dei  lumi  aveva  contro  la
religione superstiziosa e farisea. Gli intellettuali francesi attribuirono  alla
parola religione il senso definito da autori classici, quali Cicerone,  Lucrezio
e Orazio,   vale  a  dire  credenza  popolare.  Diderot,  pertanto,  prende  una
posizione  precisa  nei  confronti  del  rapporto  tra  stato  e   chiesa.   Nel
Dictionnaire philosophique (1764) Voltaire analizza la voce  religione  in  otto
questioni e nella quarta afferma che “una volta che una religione  è  legalmente
stabilita, in uno stato, i tribunali sono tutti occupati  nell’impedire  che  si
rinnovi la maggior parte che si facevano in quella religione prima  che  venisse
pubblicamente ammessa”. Il Concilio  di  Trento,  sulla  forzatura  dello  stato
religioso così delibera: “Sottopone il sacro Concilio all’escomunicatione  tutti
a ciascuno di qualità e conditione si siano... se  per  qualche  modo  haveranno
forzato alcuna vergine o vedova over altra qual si sia  donna contro sua voglia,
eccetto nei casi espressi in iure, ad  entrar  ne  manasterii,  over  a  pigliar
l’habito”. La storia di Susanna, si conclude dopo l’episodio presso il monastero
di Sant’Eutropio  ad  Arpajon.  Questa  realtà  apparentemente  serena  cela  un
disordine. Ordre et desordre è il binomio con cui la Religiosa definisce  questa
realtà. Si potrebbe affrettatamente dire  che  Susanna  è  giudice  dello  stato
religioso, ma questo sarebbe lontano dagli intenti di Diderot. La competenza che
l’enciclopedista francese ha del cerimoniale monastico  è  tale  da  convalidare
l’affermazione  di  sua  figlia:  si  deve  tener   presente,  del  resto,   che
difficilmente qualcuno, al di là delle mura claustrali, avrebbe potuto conoscere
le usanze del chiostro senza avere avuto un contatto diretto.

La religiosa


            La risposta del signor marchese di Croismare, se mai me ne darà,  mi
fornirà le prime  righe di  questo  scritto.  Prima  di  scrivergli,  ho  voluto
conoscerlo. È un uomo di mondo, si è distinto sotto le armi, è anziano,  vedovo,
ha una figlia e due figli ai quali vuole molto bene e dai quali  è  adorato.  Di
nobili natali, è uomo colto, intelligente, di umore gaio, con un gusto  spiccato
per le belle arti. È soprattutto una persona originale. Mi hanno fatto  l’elogio
della sua sensibilità, del suo senso dell’onore, e della sua probità; e dal vivo
interesse che ha dimostrato per il mio affare, nonché da tutto quello che  mi  è
stato detto di lui, ho desunto che non mi ero affatto compromessa rivolgendomi a
lui. Non c’è però da illudersi che si risolva a mutare la mia sorte senza sapere
chi sono, ed è questo il motivo che mi induce a vincere il mio amor proprio e la
mia ritrosia nel cominciare queste memorie in cui descrivo una parte  delle  mie
sventure, rinunciando ad ogni pretesa di stile, con l’ingenuità dei miei giovani
anni e la franchezza del  mio  carattere.  Poiché  il  mio  protettore  potrebbe
esigerlo, o potrebbe anche venirmi l’estro di portarle a termine in un tempo  in
cui fatti remoti potrebbero non esser più presenti alla memoria, ho pensato  che
il riassunto che li conclude, e la profonda impressione che me ne resterà finché
vivo, basteranno a farmeli ricordare con esattezza.

        Mio padre era avvocato. Aveva sposato mia madre allorché era già in  età
alquanto avanzata. Ebbe tre figlie. Possedeva un patrimonio più che  sufficiente
per accasarle convenientemente, ma  per  questo  occorreva  almeno  che  la  sua
tenerezza fosse equamente suddivisa, e non mi è certamente possibile fare di lui
un simile elogio. Certamente io ero superiore alle mie sorelle per  intelligenza
e per l’aspetto, nonché per il carattere e le doti che possedevo, ma pareva  che
questo affliggesse i miei genitori. Poiché i vantaggi che la  natura  e  il  mio
impegno personale mi avevano accordato diventavano per me fonte  di  dispiaceri,
fin dalla più tenera età ho desiderato  assomigliare  alle  sorelle  per  essere
amata, vezzeggiata, festeggiata e perdonata come loro. Se avveniva che  qualcuno
dicesse a mia madre: “Avete delle figliole deliziose...” mai  il complimento  mi
riguardava. A volte ero ampiamente vendicata di siffatta ingiustizia, ma le lodi
ricevute mi costavano così care quando restavamo  sole,  che  l’indifferenza,  e
persino le ingiurie, sarebbero state altrettanto gradite: quanto più grande  era
stato l’interesse che gli estranei mi avevano testimoniato, tanto  maggiore  era
il risentimento dei miei una volta che se n’erano andati. Quante volte ho pianto
per non essere  nata  brutta,  sciocca,  stupida,  orgogliosa,  con  tutti  quei
difetti, insomma, per cui le mie sorelle meritavano la predilezione  dei  nostri
genitori!
        Mi sono chiesta allora da dove provenisse quella stranezza in un padre e
in una madre che erano peraltro onesti, giusti e  devoti.  Debbo  confessarvelo,
signore? Alcuni discorsi sfuggiti a mio padre, che era violento per  natura,  in
certi  impeti  di  collera,  l’avere  associato  alcune  circostanze  a  diversi
intervalli di tempo, talune mezze parole di vicini, chiacchiere di domestici, mi
hanno fatto sospettare una ragione che in parte li scuserebbe. Forse  mio  padre
nutriva qualche dubbio sulla mia nascita; forse ricordavo a mia madre una  colpa
commessa e l’ingratitudine di un uomo cui aveva dato troppo ascolto: come  posso
saperlo? Ma quand’anche i miei sospetti fossero infondati,  che  rischierei  nel
confidarveli? Voi brucerete questo mio scritto e io vi prometto di  bruciare  le
vostre risposte.
        Dato che eravamo venute al  mondo  a  poca  distanza  l’una  dall’altra,
crescemmo tutte e tre insieme. Si presentarono dei partiti.  La  maggiore  delle
mie sorelle fu chiesta in sposa da un giovane attraente. Era bello ed aveva  più
criterio di quanto la sua giovane età promettesse. Mi  accorsi  che  egli  aveva
posto l’occhio su di me e intuii  che  presto  lei  sarebbe  stata  soltanto  il
pretesto delle sue assiduità. Presentii  tutte  le  afflizioni  che  una  simile
preferenza mi avrebbe attirato e misi in guardia mia madre.  Fu  forse  la  sola
cosa  nella  mia  vita  che  le  sia  stata  gradita,  ed  ecco  come  ne  venni
ricompensata. Quattro giorni dopo, o almeno pochi giorni dopo, mi fu  detto  che
era stato fissato per me un posto in convento, e fin dal giorno seguente vi  fui
condotta. Stavo tanto male a casa mia  che  quella  decisione  non  mi  addolorò
affatto.
        Così entrai a Santa Maria, il mio primo  convento,  tutta  allegra.  Nel
frattempo il pretendente di mia sorella, non vedendomi  più,  mi  dimenticò,  ed
essi si sposarono. Si chiama K; è notaio ed abita a Corbeil,  e  ha  un  pessimo
rapporto con la moglie. La mia seconda sorella andò  sposa  a  un  certo  signor
Bauchon, mercante in seterie a Parigi, in via Quincampoix, e con  lui  si  trova
bene.
        Dopo che le mie sorelle furono sistemate, credetti che avrebbero pensato
a me e che non avrei tardato a uscire di convento. Avevo allora  sedici  anni  e
mezzo. Le mie sorelle avevano  ricevuto  doti  abbastanza  cospicue,  ed  io  mi
ripromettevo  di  esser  trattata  alla  stessa  maniera;  la  mia  fantasia  si
abbandonava a progetti seducenti fino a che  fui  chiamata  in  parlatorio.  Era
padre Serafino, il direttore spirituale di mia madre, ed anche il mio.  Non  gli
fu quindi difficile spiegarmi il motivo della sua visita:  il  suo  compito  era
quello di convincermi a prendere il velo. Mi ribellai a una proposta così strana
e gli dichiarai chiaro e tondo che non sentivo nessuna inclinazione per la  vita
monastica.
        “Tanto peggio” mi disse, “perché i vostri genitori si sono spogliati  di
tutto per le vostre sorelle e non vedo proprio che cosa potrebbero fare per  voi
nelle strettezze in cui sono ridotti a vivere... Riflettete,  signorina:  dovete
entrare per sempre, in questa casa  oppure  andarvene  in  qualche  convento  di
provincia dove vi si riceverà per una  modica  pensione  e  dal  quale  uscirete
soltanto alla morte dei vostri genitori che può essere ancora lontana...”
        Mi risentii con molta amarezza, versai fiumi di  lacrime.  La  superiora
era già al corrente di tutto e mi aspettava al ritorno dal  parlatorio.  Ero  in
disordine da non poter spiegare. Mi disse:
        “Ma che cosa avete, mia cara figliola? [Sapeva meglio  di  me  che  cosa
avessi.] In che stato siete! Non si è mai vista  una  disperazione  simile  alla
vostra. Mi fate tremare. Avete forse perduto il vostro signor padre o la  vostra
signora madre?”
        Fui tentata di risponderle gettandomi tra le sue  braccia:  “Piacesse  a
Dio!...,” ma mi contentai di esclamare: “ahimè! non ho né padre, né madre;  sono
una sventurata che detestano e che vogliono seppellire viva qui dentro.”
        Lasciò che passasse la piena e che tornasse la  calma.  Le  spiegai  con
maggior chiarezza ciò che mi era stato appena annunciato. Sembrò aver  pietà  di
me; mi compianse. Mi incoraggiò a non abbracciare uno stato  per  il  quale  non
sentivo alcun gusto; mi promise di pregare,  di  fare  le  sue  rimostranze,  di
perorare la mia causa. Oh, signore,  come  sono  ipocrite  queste  superiore  di
convento! Non ne avete idea. In effetti, scrisse. Non ignorava  quali  sarebbero
state le risposte. Me le  comunicò,  e  soltanto  molto  tempo  dopo  imparai  a
dubitare della sua buona fede. Intanto venne a scadere il  termine  che  mi  era
stato concesso perché prendessi una decisione, ed ella venne a ricordarmelo  con
studiata tristezza. Dapprima rimase silenziosa, poi lasciò cadere qualche parola
di commiserazione da cui capii il resto. Ci fu un’altra scena di disperazione, e
poche altre avrò da descriverne. Sapersi controllare è la loro grande arte.  Poi
mi disse, e a onor del vero credo che allora piangesse:
        “Allora, figliola mia, ci state dunque per lasciare! cara figliola,  non
vi vedremo più!...”
        Aggiunse altre parole che non  udii.  Ero  riversa  su  una  sedia;  ora
tacevo, ora singhiozzavo, restavo immobile oppure mi alzavo, mi appoggiavo  alla
parete o andavo a sfogare il mio dolore sul suo petto. Le cose  erano  a  questo
punto allorché soggiunse:
        “Ma perché non fate una cosa?  Statemi  ad  ascoltare  e  non  andate  a
raccontare che ve l’ho consigliato io; conto  su  una  discrezione  assoluta  da
parte  vostra  giacché  non  vorrei  per  nulla  al  mondo  che  mi  si  dovesse
rimproverare. Che cosa vi si chiede? Che prendiate il velo? E allora, perché non
lo prendete? Dopo tutto a che cosa vi impegnate? A niente. A restare ancora  due
anni con noi. Chi sarà vivo allora? Chi sarà morto? Due sono  lunghi...  possono
avvenire tante cose in due anni...”
        A queste  insidiose  affermazioni  fece  seguire  tante  carezze,  tante
manifestazioni d’amicizia, tante dolci bugie: sapevo dov’ero, non sapevo dove mi
avrebbero condotta, e così mi lasciai persuadere.  Ella  dunque  scrisse  a  mio
padre. La sua lettera era perfetta: oh, quanto a  questo  non  si  poté  far  di
meglio. Non vi si taceva niente: né la mia pena, né  il  mio  dolore  o  le  mie
proteste. Vi assicuro che una fanciulla più  scaltra  di  me  ne  sarebbe  stata
tratta in inganno; tuttavia finiva  col  dare  il  mio  consenso.  E  con  quale
sollecitudine furono fatti i preparativi! Venne  stabilito  il  giorno,  vennero
confezionati i miei abiti, giunse il momento della cerimonia  senza  che,  ancor
oggi, io possa scorgere il minimo intervallo tra tante cose.
        Dimenticavo di dirvi che vidi mio padre e mia madre, che  non  trascurai
nulla per toccarne il cuore, e che li trovai inflessibili.
        Il sermone fu  fatto  dall’abate  Blin,  dottore  della  Sorbona,  e  la
vestizione dal signor vescovo di Alep. Questa cerimonia di  per  sé  non  è  già
allegra,  ma  quel  giorno  fu  più  triste.  Anche  se  le  monache,  piene  di
sollecitudine, fossero tutte intorno a me per sostenermi, venti volte mi  sentii
mancare le ginocchia e mi vidi sul punto di cadere sui gradini dell’altare.  Non
sentivo niente, non vedevo niente, ero istupidita. Mi portavano, e io andavo; mi
interrogavano e vi era chi rispondeva  per  me.  Ciononostante,  quella  crudele
cerimonia ebbe fine; tutti se ne andarono ed io rimasi  in  mezzo  al  banco  al
quale mi avevano aggregata. Le mie compagne mi attorniarono; mi abbracciavano  e
si dicevano: “Ma  guardatela,  sorella,  com’è  bella,  come  il  velo  nero  fa
risaltare il candore della sua carnagione! come le sta bene il soggolo! come  le
arrotonda il volto! e come le fa lisce le guance! come l’abito dà  rilievo  alla
sua vita sottile e alle sue braccia!...”
        Io le ascoltavo appena.  Ero  desolata.  E  tuttavia,  devo  ammetterlo,
quando fui sola nella mia cella, mi ricordai delle loro adulazioni e  non  potei
fare a meno di controllare nel mio piccolo specchio. Mi sembrò che  non  fossero
del tutto fuori luogo.
        Quel giorno alla novizia vengono riserbati  onori  particolari.  Per  me
furono addirittura esagerati, ma io non  vi  fui  molto  sensibile.  Finsero  di
credere il contrario e me lo dissero, benché fosse chiaro che  non  era  affatto
vero. La sera, dopo le preghiere, la superiora venne nella mia cella:
        “In verità,” mi disse dopo avermi osservata  per  un  momento,  “non  so
perché  quest’abito  vi  ripugni  tanto;  vi  sta  a  meraviglia  e  voi   siete
incantevole; suor Susanna è una bellissima monaca, tutti vi ameranno di più  per
questo. Vediamo un po’, camminate. Non vi tenete abbastanza dritta:  non  dovete
stare curva in quel modo...”
        Mi atteggiò la testa, i piedi, le mani, la vita, le  braccia;  fu  quasi
una lezione di Marcel sulle grazie monastiche, giacché ogni stato ha le proprie.
Poi si sedette e mi disse:
        “Va bene così, ma adesso parliamo un po’ seriamente. Ci  sono  due  anni
davanti a voi. I vostri  genitori  possono  cambiar  parere;  forse  voi  stessa
vorrete restare quando vorranno farvi uscire. Ciò non sarebbe impossibile.”
        “Disingannatevi, signora!”
        “Siete stata a lungo tra di noi, ma non conoscete ancora la nostra vita.
Ha le sue pene, lo ammetto, ma ha anche le sue dolcezze...”
        Vi sarà facile immaginare, signore, tutto quello che poté  aggiungere  a
proposito del mondo e del chiostro. È scritto ovunque, e  ovunque  nella  stessa
maniera, grazie a Dio mi hanno  fatto  leggere  le  innumerevoli  storie  che  i
religiosi vanno diffondendo sul loro stato, che ben conoscono e  che  detestano,
contro il mondo che amano, che disprezzano e che non conoscono.
        Non starò a descrivervi nei particolari il mio noviziato: ad  osservarne
tutta l’austerità, non si resisterebbe. Invece, è il tempo più dolce della  vita
monastica. Una madre delle novizie è  la  suora  più  indulgente  che  si  possa
trovare. La sua arte consiste nel nascondervi le spine dello stato; è  il  corso
di seduzione più abile e sottile che si possa immaginare. È lei  che  rende  più
fitte le tenebre che vi circondano, che vi culla,  che  vi  addormenta,  che  vi
sottomette, che vi suggestiona.  La  nostra  madre  si  attaccò  a  me  in  modo
particolare. Non credo che esista un’anima, giovane e senza esperienza, in grado
di resistere a quella sua arte funesta. Il mondo ha i  suoi  precipizi,  ma  non
penso che vi si arrivi per una china così facile. Se avevo starnutito due  volte
di seguito,  ero  dispensata  dall’uffizio,  dal  lavoro,  dalla  preghiera;  mi
coricavo prima, mi alzavo più tardi: la  regola  cessava  di  esistere  per  me.
Immaginate, signore, che vi erano giorni in  cui  non  sospiravo  altro  che  il
momento di sacrificarmi. Non accade fatto seccante nel mondo  senza  che  se  ne
parli; si ritoccano i fatti veri, se ne inventano dei falsi: e poi sono  lodi  a
non finire e rendimenti di grazie a Dio che  ci  preserva  da  quelle  umilianti
avventure.
        Intanto si avvicinava il  tempo  che  avevo  affrettato  col  desiderio.
Allora mi feci triste. Sentii risvegliarsi e farsi  più  grandi  le  ripugnanze.
Andavo a confidarle alla superiora o alla madre delle novizie.  Sono  donne  che
sanno vendicarsi di tutte le seccature che le provocate.  Non  crediate  infatti
che si divertano della parte ipocrita che debbono recitare e  delle  sciocchezze
che sono costrette a ripetervi: alla fine diventa così monotono per loro! Ma poi
vi si adattano, e tutto per un migliaio di  scudi  che  entra  nelle  casse  del
convento. Ecco l’alto scopo per il quale mentono tutta la  vita  e  preparano  a
giovani innocenti una  disperazione  di  quaranta,  di  cinquant’anni,  e  forse
un’infelicità eterna: giacché è certo,  signore,  che  su  cento  religiose  che
muoiono prima dei cinquant’anni ve ne sono giusto cento dannate,  senza  contare
quelle che nel frattempo diventano pazze, stupide o furiose.
        Un giorno avvenne che una di queste scappò dalla cella  nella  quale  la
tenevano rinchiusa. Io la vidi. Ecco l’epoca della  mia  felicità  e  della  mia
sventura, a seconda del modo, signore,  mi tratterete. Non ho mai  visto  niente
di più orrido. Era scarmigliata, quasi senza l’abito,  e  si  trascinava  dietro
catene di ferro; aveva gli occhi smarriti; si strappava i capelli; si percuoteva
il petto con i pugni: correva, urlava, rivolgeva  a  sé  e  alle  altre  le  più
terribili imprecazioni, cercava disperatamente  una  finestra  per  buttarsi  di
sotto. Fui presa dal terrore. Tremavo in tutte le membra. Vidi la mia sorte  nel
destino di quella sventurata e  senza  indugio,  dentro  di  me,  presi  la  mia
decisione: sarei morta mille volte piuttosto che subire quella sorte.
        Intuendo quale effetto quello spettacolo avrebbe prodotto su di  me,  si
sentirono in dovere di prevenirlo. Su quella  monaca  mi  furono  dette  non  so
quante ridicole menzogne che si contraddicevano fra loro: che  era  già  un  po’
stramba quando era stata accolta in convento; che aveva avuto un grande spavento
in un momento delicato; che era vittima di visioni; che si credeva in  relazione
con gli angeli; che aveva fatto letture perniciose tali da  turbarne  la  mente;
che aveva sentito parlare gli innovatori di una morale troppo rigorosa  i  quali
le avevano incusso un tale timore dei giudizi di  Dio,  che  la  sua  mente  già
scossa ne era stata sconvolta; che ella non vedeva più che demoni,  l’inferno  e
voragini di fuoco; che tutte ne  erano  grandemente  rattristate;  che  un  caso
simile in convento era  assolutamente  inaudito,  e  chissà  quante  altre  cose
ancora. Naturalmente non mi convinsero. Ad ogni istante mi tornava in  mente  la
mia monaca folle ed io mi ripetevo il giuramento di non pronunciare alcun voto.
        E intanto ecco giungere il momento in cui si trattava di  dimostrare  se
sapevo tener fede alla mia parola. Una mattina, dopo l’uffizio, vidi entrare  la
superiora nella cella. Aveva una lettera in mano. Il suo volto era atteggiato  a
tristezza e abbattimento. Le braccia le pendevano lungo il corpo.  Sembrava  che
la sua mano non avesse la forza di sollevare quella lettera. Mi  guardava,  e  i
suoi occhi sembravano gonfi di lacrime. Ella taceva, ed io pure;  aspettava  che
parlassi per prima. Ne ebbi la tentazione, ma mi trattenni. Mi  chiese  come  mi
sentissi; mi disse che l’uffizio quel giorno era stato  davvero  lungo;  che  io
avevo tossito un po’; che le sembrava stessi poco bene. Al che risposi: “No, mia
cara madre.” Teneva sempre la lettera in quella sua mano  penzolante,  e  mentre
faceva tutte quelle domande la posò sui suoi ginocchi dove in parte era nascosta
dalla mano; infine, dopo essersi dilungata su qualche domanda a proposito di mio
padre, di mia madre, vedendo che non le chiedevo che cosa fosse quella carta, mi
disse: “Ecco una lettera...”
        A queste parole, sentii che il mio cuore si turbava e  aggiunsi  con  la
voce spezzata e le labbra tremanti:
        “È di mia madre?”
        “Avete indovinato: prendete, leggete...”
        Mi ripresi un poco, afferrai la lettera, la lessi dapprima con una certa
fermezza, ma via via che andavo avanti nella  lettura,  spavento,  indignazione,
collera, dispetto, le passioni più diverse si  succedevano  in  me;  avevo  voci
diverse, assumevo espressioni diverse, facevo movimenti diversi.   Qualche volta
tenevo appena in mano quel foglio, a volte  lo  tenevo  come  se  avessi  voluto
strapparlo, o  lo  stringevo  con  violenza  come  se  fossi  stata  tentata  di
appallottolarlo e di buttarlo lontano da me.
        “Ebbene, figliola mia, che cosa risponderemo a questa?”
        “Signora, lo sapete bene.”
        “Ma no, non lo so. Le circostanze sono contrarie, la vostra famiglia  ha
subìto delle perdite. Gli affari delle vostre sorelle vanno male,  tutte  e  due
hanno molti  figli.  Si  sono  dissanguati  per  maritarle  e  si  rovinano  per
sostenerle. È impossibile che vi costituiscano  un  po’  di  dote;  avete  preso
l’abito; hanno affrontato delle spese; con questo vostro passo  avete  suscitato
delle speranze; la voce della  vostra  professione  imminente  si  è  sparsa  in
società. D’altra parte, potete sempre contare  sul  mio  appoggio.  Non  ho  mai
spinto nessuno a scegliere la vita  religiosa.  Dio  soltanto  può  chiamarci  a
questa scelta, ed è molto pericoloso mescolare la propria voce alla sua. Non  mi
metterò mai a parlare al vostro cuore, se la grazia è per lui muta. Fino ad oggi
non  ho  da  rimproverarmi  l’infelicità  di  un’altra  persona,  vorreste   che
cominciassi con voi, figliola mia, voi che mi siete tanto cara? Non  ho  neppure
dimenticato che avete fatto i primi passi obbedendo ai miei suggerimenti  e  non
tollererò che se ne abusi  per  farvi  assumere  impegni  contrari  alla  vostra
volontà. Perciò  vediamo  insieme  la  situazione,  concertiamoci.  Volete  fare
professione?”
        “No, signora.”
        “Non sentite nessuna inclinazione per lo stato religioso?”
        “No, signora.”
        “Non obbedirete ai vostri genitori?”
        “No, signora.”
        “Che cosa intendete divenire, allora?”
        “Tutto, eccetto monaca. Non voglio esserlo, non lo sarò.”
        “Ebbene, non lo sarete; ma cerchiamo di mettere insieme una risposta per
vostra madre...”
        Ci accordammo su alcune idee. Ella scrisse e mi fece leggere la  lettera
che anche quella volta mi parve eccellente.
        Intanto mi fecero parlare con il direttore  spirituale  della  casa,  mi
mandarono  il  dottore  che  aveva  tenuto  la  predica  alla   vestizione,   mi
raccomandarono alla madre delle novizie, incontrai il  vescovo  d’Alep;  dovetti
sostenere alcune discussioni con delle pie donne che s’immischiavano  dei  fatti
miei senza che le conoscessi. Erano abboccamenti continui con  monaci  e  preti.
Venne mio padre, mi scrissero le mie sorelle, per ultima si fece viva mia madre:
resistei a tutto. Nel frattempo fu deciso il giorno della professione dei  voti;
nulla fu trascurato per ottenere il mio consenso, ma  quando  si  vide  che  era
inutile sollecitarlo, si scelse il partito di farne a meno.
        Da quel momento  fui  rinchiusa  nella  mia  cella,  mi  fu  imposto  il
silenzio, fui isolata da tutti, abbandonata a me stessa. E vidi chiaramente  che
erano decisi a disporre di me senza di me. Non volevo pronunciare i voti: questo
almeno era sicuro, e tutti i terrori veri o  falsi  che  volevano  incutermi  di
continuo non riuscivano a far vacillare la mia decisione. Tuttavia  ero  in  uno
stato pietoso. Non sapevo quanto potesse durare, e se fosse  venuto  a  cessare,
sapevo ancor meno quello che poteva accadermi.  In  mezzo  a  tante  incertezze,
scelsi un partito, signore, che giudicherete come meglio crederete.  Non  vedevo
più nessuno, né la superiora, né la madre delle novizie,  né  le  mie  compagne.
Feci avvertire la prima e finsi di adeguarmi alla volontà dei miei genitori,  ma
il mio proposito era di far terminare in maniera clamorosa quella persecuzione e
di protestare pubblicamente contro la violenza che intendevano usare  contro  di
me. Dissi dunque che  erano  padroni  della  mia  sorte,  che  avrebbero  potuto
disporre  a  loro  piacimento,  che  dal  momento  che  esigevano  che   facessi
professione, l’avrei fatta. Allora la gioia si diffuse  in  tutta  la  casa,  le
carezze ricominciarono con tutte le lusinghe e tutte le  seduzioni.  “Dio  aveva
parlato al mio cuore. Nessuna più di me era fatta per lo  stato  di  perfezione.
Era impossibile che ciò non accadesse, tutti se lo erano sempre  aspettato.  Non
si adempiono i propri doveri con tanta edificazione e costanza, quando non si  è
veramente chiamate. La madre delle novizie non aveva mai visto in nessuna  delle
sue allieve una vocazione più manifesta. Era assai sorpresa dal capriccio che mi
era preso, ma aveva sempre detto alla nostra madre superiora che occorreva tener
duro e che sarebbe passato; che  le  monache  migliori  avevano  avuto  di  quei
momenti; che erano suggerimenti dello spirito maligno  il  quale  raddoppiava  i
suoi sforzi quando era sul punto di perdere la sua preda; che  ormai  stavo  per
sfuggirgli; che per me non c’erano più che rose; che  gli  obblighi  della  vita
monastica mi sarebbero parsi tanto più sopportabili in quanto  me  li  ero  così
ingigantiti; che quell’improvviso appesantimento del giogo era  una  grazia  del
cielo che si serviva di tale mezzo per renderlo più leggero...”
        Mi sembrava abbastanza singolare che la stessa cosa  potesse  venire  da
Dio e dal diavolo, a seconda di come a loro piacesse considerarla. Vi sono molte
circostanze simili in religione, e tra coloro che mi hanno consolata, alcuni  mi
hanno detto che i miei pensieri erano altrettante istigazioni di  Satana,  altri
che erano ispirazioni di Dio. Lo stesso male viene o da Dio che  ci  mette  alla
prova, o dallo spirito maligno che ci tenta.
        Mi comportai con discrezione; ritenni di poter rispondere  di  me.  Vidi
mio padre. Mi parlò freddamente. Vidi mia madre. Mi abbracciò. Ricevetti lettere
di congratulazioni delle mie sorelle e di molti altri. Seppi  che  a  tenere  il
sermone sarebbe stato un certo signor Sornin, vicario di  Saint-Roch  e  che  il
signor Thierry, cancelliere dell’università avrebbe ricevuto i miei voti.  Tutto
andò bene sino alla vigilia del gran giorno, a parte il fatto che avendo  saputo
che la cerimonia sarebbe stata clandestina, che ci  sarebbero  state  pochissime
persone e che la porta della chiesa sarebbe stata aperta  soltanto  ai  parenti,
per mezzo della suora addetta alla ruota convocai tutte le persone del vicinato,
i miei amici, le mie amiche; ottenni anche il permesso di scrivere ad alcuni dei
miei conoscenti.  Nessuno  si  aspettava  tutta  quell’affluenza  di  gente.  Fu
necessario, lasciarla entrare, e l’assemblea fu  all’incirca quanta ne occorreva
per il mio progetto.
        Oh, signore, che notte fu quella che precedette  la  cerimonia!  Non  mi
coricai affatto e rimasi tutto il tempo seduta sul  letto.  Invocai  l’aiuto  di
Dio: alzavo le mani al cielo, lo chiamavo a  testimone  della  violenza  che  mi
veniva  inflitta.  Mi  raffigurai  la  parte  che  dovevo  sostenere  ai   piedi
dell’altare, una fanciulla che protestava ad  alta  voce  contro  un’azione  cui
sembrava aver acconsentito, lo scandalo degli  astanti,  la  disperazione  delle
monache, il furore dei miei genitori. “Oh, mio  Dio,  che  ne  sarà  di  me?...”
Pronunciando queste parole mi sentii mancare  e  caddi  svenuta  sul  guanciale;
quando rinvenni fui presa da un grande brivido. Il tremito mi faceva battere  le
ginocchia, battere i denti rumorosamente. Poi, m’invase una terribile vampata di
calore. La mia mente si offuscò. Non ricordo né  di  essermi  spogliata,  né  di
essere uscita dalla cella. Tuttavia fui trovata nuda in camicia da notte,  stesa
per terra davanti alla porta della  superiora,  immobile  e  quasi  senza  vita.
Queste cose le seppi in seguito. Ero  stata  riportata  nella  mia  cella  e  la
mattina seguente la superiora, la madre delle  novizie,  e  quelle  che  vengono
chiamate le assistenti attorniavano  il  mio  letto.  Ero  molto  abbattuta.  Mi
rivolsero alcune domande e si resero  conto  dalle  mie  risposte  che  non  ero
affatto consapevole di ciò che era avvenuto. Nessuno me ne  parlò.  Mi  chiesero
come stavo, se persistevo nella mia santa risoluzione e se mi sentivo  in  grado
di sopportare la fatica della giornata. Risposi di sì, e contrariamente ad  ogni
loro attesa non vi fu nessun mutamento.
        Tutto era stato predisposto fin dal  giorno  prima.  Furono  suonate  le
campane perché tutti quanti sapessero che si stava per  creare  un’infelice.  Il
cuore mi batté ancora. Mi sembrava che avessero vinto. Vennero a   vestirmi  con
cura: quel giorno  è  un  giorno  di  gala.  Adesso  che  ricordo  tutte  quelle
cerimonie, mi sembra  che  avrebbero  avuto  qualcosa  di  solenne  e  di  assai
commovente per una giovane innocente che non si fosse  sentita  portata  ad  una
vocazione diversa.
        Fui condotta in chiesa. Si celebrò la santa messa. Il  buon  vicario  il
quale supponeva in me una rassegnazione che non avevo affatto, mi tenne un lungo
sermone in cui non vi era una sola parola che non fosse in contrasto con i  miei
sentimenti. Era davvero ridicolo tutto quello che mi diceva sulla mia  felicità,
sulla grazia, sul mio coraggio, il mio zelo, il mio fervore  e  tutti  i  nobili
sentimenti che mi attribuiva. Il contrasto fra il suo  elogio  e  il  passo  che
stavo per compiere mi turbò; ebbi momenti d’incertezza, ma  che  durarono  poco.
Sentii ancor meglio che mi mancava tutto quello che era  necessario  per  essere
una buona monaca.
        Infine giunse il momento terribile. Allorché dovetti entrare  nel  luogo
in cui dovevo pronunciare i voti,  le  gambe  non  mi  ressero;  due  delle  mie
compagne mi presero sotto le braccia. La mia testa era reclinata su una di  loro
ed esse mi trascinavano a fatica. Non  so  che  cosa  accadesse  nell’animo  dei
presenti, ma ciò che vedevano era una giovane vittima  morente  che  si  portava
all’altare e da ogni petto sfuggivano sospiri e  singhiozzi  tra  i  quali  sono
certa che non si udivano quelli di mio padre e di  mia  madre.  Erano  tutti  in
piedi; alcune giovinette erano salite su delle sedie e stavano  aggrappate  alle
sbarre della grata. Aleggiava un profondo silenzio allorché colui che presiedeva
alla mia professione mi disse:
        “Maria Susanna Simonin, promettete di dire la verità?”
        “Lo prometto.”
        “È per vostra libera scelta e di  vostra  spontanea  volontà  che  siete
qui?”
        Risposi: “No.” Ma quelle che mi accompagnavano risposero per me “Sì.”
        “Maria Susanna Simonin, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?”
        Esitai un momento. Il prete aspettava, ed io risposi:
        “No, signore,”
        Ricominciò:
        “Maria Susanna Simonin, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?”
        Gli risposi con voce più ferma:
        “No, signore.”
        Si interruppe e mi disse:
        “Figliola mia, riprendetevi, ed ascoltatemi.”
        “Signore,” gli dissi, “voi  mi  chiedete  se  prometto  a  Dio  castità,
povertà e obbedienza: vi ho sentito bene e vi rispondo di no.”
        E voltandomi poi verso i presenti tra i quali  si  era  levato  un  gran
mormorio, feci cenno che volevo parlare; il mormorio cessò e io dissi:
        “Signori, e soprattutto voi, padre mio e madre mia, vi  chiamo  tutti  a
testimoni...”
        A queste parole una delle suore lasciò cadere il velo della grata e vidi
che era inutile proseguire.  Le  monache  mi  circondarono,  mi  subissarono  di
rimproveri; io le ascoltavo senza proferir parola. Fui condotta nella mia  cella
dove fui confinata sottochiave. Qui, sola,  abbandonata  alle  mie  riflessioni,
cominciai a tranquillizzarmi l’animo. Ripensai al passo compiuto e  non  ne  fui
affatto pentita. Mi resi conto che dopo lo scalpore suscitato,  era  impossibile
che restassi più a lungo  in  quel  luogo,  e  che  forse  non  avrebbero  osato
rimandarmi in convento. Non sapevo che cosa avrebbero fatto di me, ma niente  mi
sembrava peggiore del farmi  monaca  contro  la  mia  volontà.  Per  un  periodo
alquanto lungo nessuno  mi  rivolse  la  parola.  Coloro  che  mi  portavano  da
mangiare, entravano, posavano il pasto per terra e se ne andavano  in  silenzio.
Dopo un mese mi  consegnarono  degli  abiti  secolari.  Mi  tolsero  quelli  del
convento. Venne la superiora e mi disse di seguirla. La seguii fino  al  portone
d’ingresso; salii su una carrozza dove trovai mia madre, sola, che mi aspettava.
Mi sedetti sul sedile davanti a lei e la carrozza partì.  Restammo  per  qualche
tempo l’una di fronte all’altra senza proferir parola. Io tenevo gli occhi bassi
e non osavo guardarla. Non so cosa stesse  succedendo  dentro  di  me,  ma  d’un
tratto mi gettai ai suoi piedi e piegai la testa sulle sue ginocchia. Non dicevo
parola, ma singhiozzavo e mi sentivo soffocare. Lei mi respinse  duramente.  Non
mi rialzai. Il sangue cominciò a uscirmi dal naso. Nonostante la sua resistenza,
le afferrai una mano e inondandola di lacrime e di sangue, premendo la bocca  su
quella mano, la baciavo e le andavo dicendo:
        “Siete sempre mia madre, e io sono sempre vostra figlia...”
        Mi rispose respingendomi ancor più rudemente e strappando  la  sua  mano
dalle mie:
        “Alzatevi, sciagurata, alzatevi.”
        Obbedii, mi sedetti di nuovo e mi tirai la cuffia sul viso. C’era  stata
tanta autorità e tanta fermezza nel suono della sua voce che sentii  il  bisogno
di nascondermi ai suoi occhi. Le lacrime e il sangue che mi colava dal  naso  si
mescolavano, mi scendevano lungo le braccia e senza accorgermene  ne  ero  tutta
coperta. Dalle poche parole che disse, ne dedussi che il  suo  abito  e  la  sua
biancheria si erano macchiati e che la cosa la seccava. Giungemmo  a  casa  dove
fui condotta senza indugio in una cameretta che era stata allestita per me.
        Per le scale mi gettai ancora ai suoi  ginocchi,  la  trattenni  per  le
vesti, ma il solo risultato fu di farla voltare verso di me e guardarmi  con  un
moto sdegnoso della testa, della bocca e  degli  occhi,  che  voi  riuscirete  a
immaginare meglio di quanto non sappia descrivere.
        Entrai nella mia nuova prigione dove trascorsi sei  mesi  e  inutilmente
sollecitai la grazia di parlarle, di vedere mio padre, o di  scrivere  loro.  Mi
portavano da mangiare, mi servivano. Un domestico mi accompagnava alla messa nei
giorni di festa, poi mi rinchiudeva di nuovo. Io leggevo, lavoravo, piangevo,  a
volte cantavo; così passavano  le  mie  giornate.  Mi  sosteneva  il  sentimento
segreto che la mia sorte, per quanto dura, potesse cambiare. Ma ormai era deciso
che sarei stata monaca, e lo fui.
        Tanta mancanza di umanità, tanta caparbietà da parte dei  miei  genitori
finirono col confermarmi ciò che  sospettavo  sulla  mia  nascita;  non  ho  mai
trovato altro modo per scusarli.
        Mia madre credeva apparentemente che  un  giorno  potessi  rimettere  in
discussione la divisione dei beni, che reclamassi la legittima, e intendessi far
considerare la figlia naturale alla stregua delle figlie  legittime.  Ma  quella
che era soltanto una congettura, si trasformò in certezza.
        Mentre ero rinchiusa in casa, raramente esercitavo le pratiche esteriori
della religione: tuttavia permettevano che  andassi  a  confessarmi  la  vigilia
delle feste solenni. Vi ho già detto che avevo lo stesso direttore spirituale di
mia madre. Gli parlai, gli descrissi tutta la durezza del comportamento adottato
nei miei confronti da circa tre anni. Ne era a  conoscenza.  Ebbi  a  lamentarmi
soprattutto di mia madre con amarezza e risentimento. Quel prete era entrato  in
religione  in  età  già  avanzata  e  aveva  una  certa  umanità.   Mi   ascoltò
tranquillamente e mi disse:
        “Figliola mia, compiangete vostra  madre,  compiangetela  ancor  più  di
quanto non la biasimate. È di animo buono; siate certa che si comporta così  suo
malgrado.”
        “Suo malgrado, signore? E chi può obbligarvela? Non  è  lei  che  mi  ha
messo al mondo? E che differenza c’è tra me e le mie sorelle?”
        “Molta.”
        “Molta! Non vi capisco...”
        Stavo per cominciare un confronto tra me e le  mie  sorelle,  quando  mi
interruppe e mi disse:
        “Via, via, il difetto dei vostri genitori non è la mancanza di  umanità.
Cercate di sopportare con pazienza la vostra  sorte,  e  di  farvene  almeno  un
merito agli occhi di Dio. Vedrò vostra madre e siate certa che per aiutarvi farò
ricorso a tutto l’ascendente che possiedo sul suo animo.”
        Quel molta, che mi aveva risposto, fu per me come un lampo di luce:  non
dubitai più sulla verità di ciò che avevo pensato sulla mia nascita.

        Il sabato seguente, verso le cinque e mezzo del pomeriggio quando calava
la sera, la domestica addetta al mio servizio, salì da me e mi disse:
        “La signora vostra madre ordina che vi vestiate.”
        Un’ora dopo:
        “La signora vuole che scendiate con me.”
        Trovai alla porta una carrozza sulla quale  salii  con  la  domestica  e
venni a sapere che andavamo dai Foglianti, da padre Serafino.
        Ci aspettava. Era solo. La domestica  si  allontanò  ed  io  entrai  nel
parlatorio. Mi sedetti inquieta e curiosa di ciò che aveva  da  dirmi.  Ed  ecco
come mi parlò:
        “Signorina, l’enigma la condotta severa  dei  vostri  genitori  vi  sarà
spiegata; me ne ha dato il permesso la signora vostra madre. Siete una fanciulla
assennata, avete intelligenza, fermezza di propositi. Avete un’età in cui vi  si
potrebbe confidare un segreto, anche se non vi riguardasse. Già molto  tempo  fa
ho esortato per la prima volta la vostra signora madre a  rivelarvi  quello  che
adesso state per sapere; non vi si è mai potuta risolvere: è duro per una  madre
confessare una colpa grave alla propria creatura. Conoscete il suo carattere;  è
difficilmente  compatibile  con  quella  umiliazione  che  comporta  una  simile
confessione. Ha ritenuto di poter farvi fare ciò che voleva,  senza  ricorrervi;
si è sbagliata; ne è irritata; oggi decide di seguire il mio consiglio. È  stata
lei ad incaricarmi di dirvi che non siete figlia del signor Simonin.”
        Gli risposi senza esitare:
        “Lo sospettavo.”
        “Ora, signorina, vedete, considerate, soppesate,  giudicate  voi  se  la
vostra signora madre può, senza il consenso, o anche con il consenso del  vostro
signor padre, considerarvi alla stessa stregua di figlie delle quali  non  siete
la sorella; se può confessare al vostro signor padre un fatto sul quale egli  ha
già fin troppi sospetti.”
        “Ma, signore, chi è mio padre?”
        “Questo, signorina, non mi è stato confidato. Non  vi  è  alcun  dubbio,
signorina,” aggiunse, “che le  vostre  sorelle  hanno  goduto  di  incomparabili
vantaggi su di voi e che sono state  prese  tutte  le  precauzioni  possibili  e
immaginabili,  attraverso  i  contratti  di  matrimonio,  rogiti,  stipulazioni,
fidecommessi  ed  altri  mezzi,  per  ridurre  a  zero   la   vostra   legittima
nell’eventualità in cui faceste ricorso alla legge per ottenerla. Se  perdete  i
vostri genitori, troverete ben poca cosa. Se rifiutate di entrare  in  convento,
forse rimpiangerete di non esservi.”
        “È impossibile, signore, e io non chiedo nulla.”
        “Voi non sapete che cos’è la fatica, il dolore, l’indigenza...”
        “Conosco almeno il prezzo della libertà e il peso di una condizione alla
quale non si è chiamati.”
        “Vi ho detto quanto avevo da dirvi; ora spetta a voi, signorina, fare le
vostre riflessioni.”
        Poi si alzò.
        “Vi prego, signore, ancora una domanda.”
        “Chiedete pure ciò che volete.”
        “Le mie sorelle sono a conoscenza di ciò che mi avete rivelato?”
        “No, signorina.”
        “E come hanno potuto avere il coraggio di  spogliare  la  loro  sorella?
Giacché loro mi credono tale.”
        “Ah, signorina! l’interesse, l’interesse! Non avrebbero trovato i  buoni
partiti che hanno trovato. Ognuno pensa a se in questo mondo, e non vi consiglio
di contare su di loro nel caso in cui vi vengano a mancare  i  vostri  genitori.
Potete essere sicura che vi contenderanno fino all’ultimo centesimo  la  piccola
parte che dovreste dividere con loro. Hanno molti  figlioli;  sarà  un  pretesto
ineccepibile per ridurvi alla mendicità. Inoltre non possono  più  fare  niente;
sono  i  mariti  che  fanno  tutto.  Se   nutrissero   qualche   sentimento   di
commiserazione, l’aiuto che vi darebbero all’insaputa dei loro mariti diverrebbe
fonte di discordie domestiche. Io non vedo altro che cose del  genere:  o  figli
abbandonati,  o  figli,  sia  pure  legittimi,  aiutati  a  scapito  della  pace
domestica. Senza contare, signorina, che il pane che si riceve dagli altri è  un
pane amaro. Se avete fiducia in me, vi riconcilierete  con  i  vostri  genitori;
farete ciò che vostra madre si aspetta da voi;  prenderete  il  velo;  vi  verrà
costituita una piccola pensione con  la  quale  passerete  dei  giorni,  se  non
proprio felici,  almeno  sopportabili.  Non  vi  nasconderò  d’altro  canto  che
l’abbandono apparente di vostra madre, l’ostinatezza nel volervi rinchiudere,  e
alcune altre circostanze che mi sfuggono, ma che un tempo sapevo, hanno prodotto
su vostro padre esattamente lo stesso effetto che su di voi. La  vostra  nascita
gli era sospetta. Ora non più. E pur non essendone al corrente, non ha dubbi che
voi gli apparteniate come figlia solo in virtù della  legge  che  attribuisce  i
figli a colui che porta il titolo di marito. Suvvia, signorina, voi siete  buona
e saggia; pensate a ciò che avete appena saputo.”
        Mi alzai, mi misi a piangere. Vidi che anche lui  era  intenerito;  alzò
lentamente gli occhi al cielo e mi riaccompagnò. Ritrovai la  domestica  che  mi
aveva accompagnata; risalimmo in carrozza e tornammo a casa.
        Era tardi. Buona parte della notte riflettei  su  quanto  mi  era  stato
rivelato; continuai a riflettervi l’indomani. Non avevo padre; gli  scrupoli  mi
avevano privato di madre; si erano premuniti affinché non  potessi  aspirare  ai
diritti della mia nascita  legale;  una  prigionia  domestica  durissima,  senza
nessuna speranza, nessuna risorsa. Forse se certe spiegazioni mi  fossero  state
date prima, dopo che le mie sorelle si erano sistemate, mi avrebbero  tenuta  in
quella casa che la gente continuava a frequentare e si sarebbe trovato  qualcuno
al quale il mio carattere, la mia intelligenza, il mio aspetto e  i  miei  doni,
sarebbero sembrati una dote bastante. La cosa non era ancora impossibile, ma  lo
scalpore  suscitato  in  convento  la  rendeva  più  difficile.  Si   concepisce
difficilmente che una fanciulla sui diciassette anni sia potuta giungere a  tali
estremi senza una fermezza di carattere poco comune.  Gli  uomini  lodano  molto
questa qualità, ma mi sembra che ne facciano volentieri a meno  nelle  fanciulle
di cui intendono fare le loro spose. Pure, era una via d’uscita da tentare prima
di prendere in considerazione un’altra soluzione. Decisi di parlarne a mia madre
e le feci chiedere un colloquio che mi fu accordato.
        Era inverno. Mia madre era seduta in  una  poltrona  davanti  al  fuoco:
aveva un volto severo, lo sguardo fisso e i lineamenti immobili. Mi avvicinai  a
lei, mi buttai ai suoi piedi e le chiesi perdono di tutti i miei torti.
        “Il perdono dipende da ciò che state per dirmi. Alzatevi; vostro padre è
assente, avete tutto il tempo di spiegarvi. Avete visto padre  Serafino,  sapete
infine chi siete e ciò che potete aspettarvi da me, se il vostro progetto non  è
quello di punirmi finché vivrò per una colpa che  ho  già  fin  troppo  espiata.
Ebbene, signorina, che cosa volete da me? Che cosa avete deciso?”
        “Mamma,” le risposi, “so che non ho niente e che  non  posso  pretendere
niente. Lungi da me l’intenzione di accrescere le vostre  sofferenze,  qualunque
sia la loro natura; forse mi avreste trovata più sottomessa alla vostra  volontà
se mi aveste messa prima al corrente di  alcune  circostanze  che  difficilmente
potevo sospettare. Ma adesso finalmente so. Mi  conosco,  e  non  mi  resta  che
comportarmi secondo le necessità della mia condizione.  Non  sono  più  sorpresa
delle distinzioni che sono state fatte tra me e le mie  sorelle;  riconosco  che
sono giuste, le sottoscrivo. Ma sono pur sempre  vostra  figlia,  voi  mi  avete
portato nel vostro seno e spero che non lo dimenticherete.”
        “Che sia meledetta,” esclamò vivamente, “se non vi riconoscessi mia  per
quanto è in mio potere!”
        “Ebbene, mamma,” le dissi, “rendetemi il vostro  affetto,  rendetemi  la
vostra presenza; rendetemi la tenerezza di colui che si crede mio padre.”
        “Poco ci manca, che non sappia la verità sulla vostra nascita  come  noi
due. Non vi vedo mai accanto a lui  senza  sentire  i  suoi  rimproveri;  me  li
rivolge con la durezza con la quale vi tratta; non sperate da parte sua i teneri
sentimenti di un padre. E inoltre, debbo  confessarvelo,  voi  mi  ricordate  un
tradimento, un’ingratitudine così odiosa da parte di un  altro,  che  non  posso
sopportarne l’idea; quell’uomo si frappone fra noi, mi respinge,  e  l’odio  che
debbo a lui si riversa su di voi.”
        “Come!” replicai, “non posso sperare che mi trattiate, voi e  il  signor
Simonin,  come  un’estranea,  un’estranea  che  avreste  accolta   per   spirito
umanitario?”
        “Non possiamo farlo, né l’uno, né l’altra. Figlia mia, non mi avvelenate
ulteriormente la vita. Se non aveste delle sorelle, so quel che dovrei fare;  ma
ne avete due, e tutte e due hanno una famiglia numerosa. Da tanto tempo ormai si
è spenta la passione che mi sorreggeva; la coscienza ha ripreso i suoi diritti.”
        “Ma colui al quale debbo la vita?”
        “Non c’è più; è morto senza ricordarsi di voi; e questa  la  meno  grave
delle sue colpe...”
        A questo punto la sua espressione si alterò, i suoi occhi  si  accesero,
lo sdegno le scompose i tratti del volto. Voleva parlare, ma  il  tremito  delle
labbra le impediva di articolare parola. Era seduta; piegò la testa fra le  mani
per nascondermi i moti violenti che le  sconvolgevano  l’animo.  Rimase  per  un
certo tempo in quello stato, poi si alzò, fece qualche giro intorno alla  camera
senza dir parola; cercava a fatica di trattenere le lacrime  che  scorrevano,  e
andava dicendo:
        “Mostro! Non è certo per volontà sua se non siete  morta  soffocata  nel
mio seno con tutto quello che mi ha fatto soffrire, ma Dio ci ha tenute in  vita
l’una e l’altra  perché  la  madre  espiasse  la  propria  colpa  attraverso  la
figlia... Figlia mia, voi non avrete nulla, non avrete mai nulla.  Il  poco  che
posso fare per voi, lo tolgo alle vostre sorelle:  ecco  le  conseguenze  di  un
momento di debolezza. Spero  tuttavia  di  non  avere  niente  da  rimproverarmi
morendo; avrò guadagnato la vostra dote con la mia economia. Non abuso dei mezzi
del mio sposo. Ogni giorno metto da parte quello che di tanto in  tanto  ottengo
dalla sua liberalità. Ho venduto i gioielli che avevo ed  ho  avuto  da  lui  il
permesso di disporre a mio piacimento della somma che ne ho ricavato. Mi piaceva
il gioco, non gioco più; mi piacevano gli spettacoli, e me ne sono  privata;  mi
piaceva la compagnia, vivo ritirata; mi piaceva il fasto, vi ho  rinunciato.  Se
entrate in convento, secondo la mia volontà e  quella  del  signor  Simonin,  la
vostra dote sarà il frutto di tutto ciò che io sopporto ogni giorno.”
        “Ma, mamma,” le risposi, “vengono ancora a  casa  nostra  delle  persone
dabbene. Forse vi sarà qualcuno che soddisfatto della mia persona,  non  esigerà
nemmeno i risparmi che avete destinato alla mia sistemazione.”
        “Ormai è da escludersi. Lo scandalo che avete suscitato, vi ha perduto.”
        “È un male senza rimedio?”
        “Senza rimedio.”
        “Ma se io non trovo un marito, è proprio necessario che mi rinchiuda  in
un convento?”
        “A meno che non vogliate perpetuare il  mio  dolore  e  i  miei  rimorsi
finché non chiuda gli occhi. Arriverò a quel giorno: le vostre sorelle, in  quel
momento terribile, saranno intorno al mio letto:  ditemi  se  potrò  vedervi  in
mezzo a loro; quale sarebbe l’effetto della vostra  presenza  in  quegli  ultimi
istanti! Figlia mia, giacché lo siete mio  malgrado,  le  vostre  sorelle  hanno
ricevuto per legge un nome che voi portate con  la  frode.  Non  addolorate  una
madre che sta per spirare; lasciatela scendere in pace  nella  tomba;  fate  che
possa dire a se stessa, allorché sarà sul punto di apparire  davanti  al  grande
giudice, che ha riparato il proprio errore per quanto stava in  lei;  lasciatela
illudersi che, dopo la sua morte, voi non seminerete discordia in questa casa, e
che non rivendicherete diritti che non vi spettano.”
        “Mamma,” le risposi, “state tranquilla quanto a questo; fate  venire  un
uomo di legge; fategli redigere un atto di rinuncia ed  io  sottoscriverò  tutto
quello che vorrete.”
        “È impossibile: un figlio non si disereda da solo; può essere unicamente
il castigo di un padre o di una madre irritati a giusto titolo.  Se  piacesse  a
Dio richiamarmi a sé domani, domani dovrei giungere a questi estremi  e  aprirmi
con mio marito al fine di prendere con lui le stesse decisioni. Non mi  esponete
a una confessione che mi renderebbe odiosa ai suoi  occhi  e  che  comporterebbe
conseguenze tali da disonorarvi. Se mi  sopravviverete,  resterete  senza  nome,
senza fortuna e senza una posizione definita. Ditemi, disgraziata, che  ne  sarà
di voi; quali idee volete che porti con me morendo? Bisognerà perciò che dica  a
vostro padre... Che cosa gli dirò? Che non siete sua figlia!... Figlia  mia,  se
bastasse gettarsi ai vostri piedi per ottenere da  voi...  Ma  voi  non  sentite
niente; voi avete l’anima inflessibile di vostro padre...”
        In quel momento entrò il signor  Simonin.  Vide  il  turbamento  di  sua
moglie. Le voleva bene e aveva un  carattere  violento.  Si  fermò  di  botto  e
volgendo uno sguardo terribile verso di me, esclamò:
        “Uscite!”
        Se fosse stato mio padre,  non  gli  avrei  obbedito,  ma  non  lo  era.
Aggiunse, parlando al domestico che mi faceva luce:
        “Ditele di non farsi più vedere.”
        Mi rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto  mia  madre
mi aveva detto. Caddi in ginocchio; pregai Dio che mi ispirasse; pregai a  lungo
con il viso che toccava il pavimento. Non si invoca quasi mai la voce del  cielo
se non quando non sappiamo a cosa decidersi, ed è raro che essa non ci  consigli
di obbedire. Fu dunque la decisione che presi: “Vogliono che mi  faccia  monaca.
Forse è tale anche la volontà di Dio. Ebbene,  mi  farò  monaca.  Giacché  debbo
essere comunque infelice, che importa il luogo!” Raccomandai alla domestica  che
si occupava di me di avvertirmi quando mio padre fosse uscito.  Il  giorno  dopo
sollecitai subito un incontro con  mia  madre;  mi  fece  rispondere  che  aveva
promesso al signor Simonin di non rivolgermi la parola, ma che potevo  scriverle
con una matita che mi venne data. Scrissi perciò su un pezzetto  di  carta  quel
foglio fatale è stato ritrovato, e se ne è fatto uso contro  di  me  in  maniera
inconfutabile:
        “Mamma, sono spiacente per tutti i dolori che  vi  ho  inflitto;  ve  ne
chiedo perdono; intendo non causarvene più. Fate di me tutto ciò che vorrete; se
è vostra volontà ch’io entri in religione, mi auguro che  sia  anche  quella  di
Dio.”
        La domestica prese lo scritto e lo portò a mia madre. Poco dopo risalì e
mi disse con trasporto:
        “Signorina, giacché bastava una sola parola  per  fare  la  felicità  di
vostro padre, di vostra madre, e la vostra,  perché  averla  differita  tanto  a
lungo? Il signore e la signora hanno una faccia come non ho mai visto da  quando
sono qui: si bisticciavano continuamente per causa vostra. Grazie a Dio,  ora  è
finita...”
        Mentre mi parlava, pensavo che avevo appena firmato la mia  sentenza  di
morte e tale presentimento, signore, si avvererà, se voi mi abbandonate.
        Trascorsero alcuni giorni senza che sentissi parlare di niente;  ma  una
mattina, verso le nove, la porta si aprì bruscamente; era il signor Simonin  che
entrava in veste da camera e berretta da notte. Da quando sapevo che non era mio
padre, la sua  presenza  non  mi  incuteva  spavento.  Mi  alzai,  gli  feci  la
riverenza. Mi sembrò di avere due cuori: non potevo pensare a  mia  madre  senza
intenerirmi, senza aver voglia di piangere, ma con il  signor  Simonin  le  cose
stavano diversamente. Non vi è dubbio che un  padre  ispira  un  certo  tipo  di
sentimento che non si prova per altri che lui al  mondo:  per  saperlo,  bisogna
essersi trovati faccia a faccia a un uomo che ha rivestito a  lungo,  e  che  ha
appena perduto, questo carattere augusto; gli altri lo  ignoreranno  sempre.  Se
passavo dalla sua presenza  a  quella  di  mia  madre,  mi  sembrava  di  essere
un’altra.
        Mi disse:
        “Susanna, riconoscete questo biglietto?”
        “Sì, signore.”
        “L’avete scritto liberamente?”
        Non potei che rispondere di sì.
        “Siete almeno decisa a mettere in atto ciò che promettete?”
        “Lo sono.”
        “Avete delle preferenze per un convento particolare?”
        “No, mi sono indifferenti.”
        “Basta così.”  Mi lasciò e scese.
        Ecco quanto risposi;  ma  disgraziatamente  le  mie  parole  non  furono
scritte. Trascorsi una quindicina di giorni nell’ignoranza più completa  di  ciò
che stava accadendo, ma ebbi l’impressione che  si  fossero  rivolti  a  diversi
conventi, e che lo scandalo che avevo suscitato  la  prima  volta  impediva  che
fossi ricevuta come postulante.
        A Longchamp furono sollevate meno difficoltà.  Probabilmente  perché  si
lasciò intendere che conoscevo la musica e che avevo  una  bella  voce.  I  miei
genitori esagerarono abbondantemente le difficoltà che avevano incontrato  e  la
grazia che mi facevano accogliendomi in quel convento. Mi  indussero  persino  a
scrivere alla superiora. Non misuravo le  conseguenze  di  quella  testimonianza
scritta che esigevano da  me;  evidentemente  temevano  che  un  giorno  potessi
rinnegare i miei voti; volevano avere un’attestazione scritta di mio  pugno  che
li avevo pronunciati in piena  libertà.  Senza  tale  motivo,  come  mai  quella
lettera che doveva restare  nelle  mani  della  superiora,  sarebbe  passata  in
seguito nelle mani dei miei cognati? Ma è meglio chiudere gli  occhi  su  questo
particolare: mi fanno vedere il signor Simonin come non  voglio  vederlo.  Ormai
non è più di questo mondo.

        Mi condussero a Longchamp: fu mia madre ad accompagnarmi. Non chiesi  di
salutare il signor Simonin; confesso  che  il  pensiero  mi  venne  solo  strada
facendo. Mi aspettavano: ero già conosciuta per la mia  storia  e  i  miei  doni
musicali. Non si parlò della  prima,  ma  tutti  avevano  fretta  di  vedere  se
l’acquisizione fatta dal convento fosse all’altezza delle aspettative. Dopo  che
ci fummo intrattenute su molti argomenti senza interesse,  giacché  potete  bene
immaginare che dopo quel che mi era accaduto non si fece parola né di Dio, né di
vocazione, né dei pericoli del mondo, né della dolcezza della vita in  convento,
e che non si sfiorarono nemmeno le pie insulsaggini con cui si cerca di riempire
quei primi momenti, la superiora disse:
        “Voi, signorina, conoscete la musica, sapete cantare. Noi abbiamo qui un
clavicembalo; se volete, potremmo andare nel nostro parlatorio...”
        Avevo il cuore oppresso, ma non  era  il  momento  di  mostrare  la  mia
ripugnanza. Mia madre uscì per prima, io la seguii;  la  superiora  chiudeva  il
breve corteo con alcune monache spinte dalla curiosità. Era già sera;  portarono
delle candele; mi sedetti davanti al clavicembalo. A lungo accennai a varie arie
sulla tastiera, cercando un brano nella mia testa che è piena di musica,  e  non
riuscii a trovarne. Dato che la superiora mi esortava, cantai sciattamente,  per
abitudine, perché  il  pezzo  mi  era  familiare:  Tristi  preparativi,  pallide
fiaccole, luce più orrenda delle tenebre... Non so quale effetto produsse il mio
canto, ma non mi ascoltarono a lungo: mi interruppero  con  delle  lodi  che  mi
meravigliai di aver meritato così rapidamente e senza tanta fatica. Mia madre mi
affidò alla superiora, mi porse la mano da baciare, e se ne andò.
        Eccomi dunque in un altro convento, postulante, e per di più con  l’aria
di postulare di mia spontanea volontà. Ma voi, signore, voi che conoscete  tutto
quello che è accaduto fino a questo momento che cosa ne pensate? Allorché  volli
ricorrere contro i miei voti, la  maggior  parte  di  questi  fatti  non  furono
allegati; gli uni, perché erano verità destituite di prove, gli altri, perché mi
avrebbero resa odiosa senza giovarmi; non si sarebbe vista in me che una  figlia
snaturata, che insultava la memoria dei propri genitori per ottenere la libertà.
Avevano la prova di ciò che era contro di me, ciò che era a  mio  vantaggio  non
poteva essere allegato, né essere provato. Personalmente non volli  nemmeno  che
venisse insinuato nei giudici il sospetto della  mia  nascita;  alcune  persone,
poco esperte di leggi, mi  consigliarono  di  chiamare  in  causa  il  direttore
spirituale mio e di mia madre. La cosa era impossibile, e quand’anche  lo  fosse
stata, non l’avrei permessa. Ma a proposito, prima ch’io lo dimentichi e che  il
desiderio del mio tornaconto vi impedisca di pensarci, a meno che non  siate  di
diverso parere, credo che non si debba far sapere che conosco la musica e  suono
il clavicembalo. Basterebbe per farmi riconoscere: l’esibizione  di  queste  mie
qualità mal si accorda con l’esistenza oscura e la sicurezza che vado  cercando.
Le persone della mia condizione ignorano tali cose, e anch’io  debbo  ignorarle.
Se fossi costretta ad espatriare, me  ne  servirei  invece  per  guadagnarmi  da
vivere. Espatriare! Ma ditemi perché quest’idea mi spaventa. Perché non so  dove
andare; perché sono giovane e senza esperienza;  perché  temo  la  miseria,  gli
uomini e il vizio; perché ho sempre vissuto fra quattro mura e  se  mi  trovassi
fuori di Parigi, mi crederei sperduta nel mondo. Forse tutto questo non è  vero,
ma è quello ch’io sento. Dipende soltanto da voi, signore, ch’io non sappia dove
andare, o che fare.
        A Longchamp, come nella maggior parte dei conventi, la superiora  cambia
ogni tre anni. Allorché vi fui condotta, era  stata  da  poco  chiamata  a  tale
carica, una certa signora de Moni. Non  posso  dirvene  troppo  bene.  Eppure  a
perdermi è stata la sua bontà. Era una donna assennata, che conosceva  il  cuore
umano. Era piena di indulgenza, benché nessuno meno di lei  ne  avesse  bisogno;
eravamo tutte figlie sue. Non vedeva se non le colpe che non poteva fare a  meno
di vedere, o la cui gravità non le consentiva di chiudere gli occhi. Ne parlo in
maniera disinteressata; io ho compiuto il mio dovere in tutto  e  per  tutto  ed
ella riconoscerebbe che non commisi alcuna colpa di cui mi dovesse punire o  che
mi dovesse perdonare. Se dimostrava una certa predilezione, erano  i  meriti  ad
ispirargliela. Dopo di che, non so  se  sia  opportuno  dirvi  che  tra  le  sue
favorite non fui la meno diletta. So che sto facendo  di  me  stessa  un  grande
elogio, più grande di quanto non immaginiate, giacché non l’avete conosciuta. Il
nome di favorita è quello che le altre d’animo  meschino  danno  alle  preferite
della superiora. Se avessi un difetto da rimproverare alla signora de Moni, è di
essersi sempre lasciata dominare  apertamente  dalla  sua  inclinazione  per  la
virtù, la pietà, la franchezza,  la  dolcezza,  i  doni  naturali,  l’onestà,  e
inoltre di non aver ignorato che quelle  che  non  potevano  aspirare  alla  sua
predilezione ne erano di conseguenza tanto più umiliate. Aveva  anche  il  dono,
forse più comune in convento che fuori, nel mondo, di giudicare immediatamente i
caratteri. Era raro che una monaca che non le fosse piaciuta a prima  vista,  le
piacesse in seguito. Non le ci volle molto a prendermi in simpatia, e nei  primi
tempi ebbi in lei  una  fiducia  assoluta.  Sventurate  coloro  che  non  gliela
concedevano senza sforzo!  Bisognava  proprio  che  fossero  cattive,  prive  di
qualità, e che ne fossero consapevoli. Volle  parlarmi  della  mia  avventura  a
Santa Maria, gliela raccontai senza nulla dissimulare, proprio come  a  voi;  le
raccontai tutto quello che ho scritto a voi. La mia nascita, le mie pene, niente
fu dimenticato. Mi compianse, mi consolò, mi fece sperare  in  un  avvenire  più
dolce.
        Terminò intanto il periodo del postulato e giunse  quello  di  indossare
l’abito. Lo indossai. Feci il mio noviziato senza ripugnanza.  Sorvolo  su  quei
due anni perché il solo sentimento triste che provai fu  quello  di  avanzare  a
passo a passo verso l’inizio di uno stato per il quale non ero affatto tagliata.
A volte questo sentimento mi assaliva con forza. Allora ricorrevo senza  indugio
alla mia buona superiora, che mi abbracciava, che dava sollievo alla mia  anima,
che mi esponeva energicamente le sue ragioni e che finiva sempre col dirmi:
        “E gli altri stati non hanno forse le loro spine? Noi non  sentiamo  che
le nostre. Su, figliola mia, mettiamoci in ginocchio, e preghiamo.”
        Allora si prosternava, pregava ad alta voce,  ma  con  tanto  calore  ed
eloquenza, con tanta dolcezza ed elevazione, e forza, che la  si  sarebbe  detta
ispirata dallo Spirito di Dio. I suoi  pensieri,  le  sue  espressioni,  le  sue
immagini, penetravano fin nel profondo del cuore. Dapprima la si ascoltava; poi,
a poco a poco, si era trascinati, ci si univa a lei,  l’anima  trasaliva,  e  si
condividevano i suoi slanci. Il suo scopo non  era  quello  di  sedurmi,  ma  in
pratica accadeva proprio questo. La si lasciava con un cuore ardente, la gioia e
l’estasi impresse sul volto, ed erano così dolci le lacrime che si versavano! Lo
stesso effetto si verificava in lei e vi rimaneva a lungo, proprio come in  noi.
Non mi riferisco alla mia sola esperienza, ma a quella di tutte le suore. Alcune
mi hanno detto che sentivano nascere  nel  loro  intimo  il  bisogno  di  essere
consolate, come nasce quello di un piacere molto grande, e credo che  a  me  sia
mancata soltanto un po’ più d’abitudine per arrivare a questo punto.
        Ciò nonostante, mentre si avvicinava il momento della  mia  professione,
provai una malinconia così profonda da mettere realmente a  dura  prova  la  mia
buona superiora. Quella sua virtù la abbandonò, come mi confessò lei stessa:
        “Non so,” mi disse, “che cosa stia accadendo in me;  quando  venite,  mi
sembra che Dio si ritragga e che il suo spirito taccia; inutilmente mi sforzo di
eccitarmi, cerco delle idee, voglio esortare la mia anima; mi ritrovo una  donna
banale, limitata; ho paura di parlare.”
        “Ah, mia cara madre,” le dissi, “quale presentimento!  Se  fosse  Dio  a
rendervi muta!...”
        Un giorno che mi sentivo più incerta e più abbattuta che mai,  mi  recai
nella sua cella; dapprima la mia presenza la lasciò turbata: evidentemente lesse
nei miei occhi, in tutta la mia persona, che il sentimento profondo racchiuso in
me era al di sopra delle sue forze; e lei non voleva lottare senza  la  certezza
di essere vittoriosa. Tuttavia  cominciò  ad  esortarmi  e  a  poco  a  poco  si
infervorò. Via via che il mio dolore decresceva, la sua  esaltazione  aumentava;
d’un tratto si mise in ginocchio ed io seguii il suo esempio.  Mi  convinsi  che
ero sul punto di condividere il suo slancio, e me lo auguravo. Pronunciò  alcune
parole, poi, all’improvviso, tacque. Aspettavo inutilmente: non aggiunse  altro;
si rialzò, si sciolse in lacrime, mi afferrò  la  mano  e  stringendomi  fra  le
braccia:
        “Ah, mia cara figliola,” disse, “che effetto crudele avete  prodotto  su
di me! Ecco, è finita, lo spirito mi ha abbandonata, lo sento; che Dio stesso vi
parli giacché non si compiace più di farsi sentire per bocca mia.”
        In vero non so che cosa fosse accaduto in lei: forse le  avevo  ispirato
una sfiducia nelle sue forze che non scomparve più, forse l’avevo resa timida, o
avevo veramente spezzato i suoi rapporti con il cielo. Il fatto si è che il dono
di saper consolare, non le tornò più. Il giorno  prima  della  mia  professione,
l’andai a trovare. La sua malinconia non era  da  meno  della  mia.  Mi  misi  a
piangere, ed ella pure. Mi gettai ai suoi piedi, mi benedisse, mi fece rialzare,
mi abbracciò e mi congedò dicendo:
        “Sono stanca di vivere, mi auguro di morire. Ho chiesto  a  Dio  di  non
farmi conoscere un giorno simile, ma tale non è la sua volontà. Andate,  adesso.
Parlerò a vostra madre, passerò la notte in preghiera,  pregate  anche  voi.  Ma
adesso coricatevi, ve lo ordino.”
        “Permettete,” le risposi, “che mi unisca a voi.”
        “Ve lo permetto dalle nove alle undici, non oltre.  Alle  nove  e  mezzo
comincerò a pregare e così pure farete voi; ma alle undici mi lascerete  pregare
da sola e voi vi riposerete. Coraggio, mia cara figliola, veglierò davanti a Dio
per il resto della notte.”
        Volle pregare, ma non ne fu capace. Io dormivo, e intanto  quella  santa
donna se ne andava per i corridoi bussando ad ogni porta, svegliava le monache e
le faceva scendere silenziosamente in chiesa. Vi si recarono tutte,  e  allorché
tutte vi furono riunite, le invitò  a  rivolgersi  al  cielo  per  me.  Dapprima
ciascuna pregò per conto proprio, poi la superiora spense i lumi e tutte insieme
cantarono il Miserere, salvo la madre che prosternata ai piedi degli altari,  si
torturava crudelmente dicendo:
        “Oh, mio Dio, se mi avete abbandonata per una  colpa  che  ho  commesso,
concedetemi il perdono. Non vi chiedo di restituirmi il dono che mi avete tolto,
ma che voi stesso vi rivolgiate a quell’innocente che dorme mentre io vi  invoco
qui per lei. Mio Dio, parlatele, parlate ai suoi genitori, e perdonatemi.”
        L’indomani entrò di buon’ora nella mia cella; ancora immersa nel  sonno.
Io non la sentii. Si sedette accanto al mio letto. Mi aveva  posato  leggermente
una mano sulla fronte e mi guardava. Sul suo volto si manifestavano di volta  in
volta inquietudine, turbamento e dolore, e fu così che mi apparve allorché aprii
gli occhi. Non mi fece parola di quanto era accaduto durante la notte; mi chiese
soltanto se mi fossi coricata presto. Le risposi:
        “All’ora che mi avete ordinato.”
        Mi chiese se avessi dormito:
        “Profondamente,” risposi.
        “Me lo aspettavo,” esclamò, e poi volle sapere come mi sentissi.
        “Benissimo! E voi, mia cara madre?”
        “Ahimè,” soggiunse, “non ho  visto  nessuno  pronunciare  i  voti  senza
inquietudine, ma per nessuno ho provato il turbamento che provo per voi.  Vorrei
di tutto cuore che foste felice.”
        “Se mi amerete sempre, lo sarò.”
        “Ah, se non dipendesse che da questo! Non avete pensato a niente durante
la notte?”
        “No.”
        “Non avete fatto nessun sogno?”
        “Nessuno.”
        “Che cosa provate adesso, nel vostro cuore?”
        “Mi sento come stupidita. Obbedisco al mio destino  senza  ripugnanza  e
senza slancio; sento che la necessità mi travolge e mi lascio  andare.  Ah,  mia
cara madre! non c’è in me l’ombra di quella dolce gioia, di quella trepidazione,
di quella malinconia, di quella dolce inquietudine che  talvolta  ho  notato  in
altre giunte a questo  stesso  momento.  Mi  sento  vuota,  non  saprei  nemmeno
piangere. Lo vogliono, è necessario. Ecco la sola  idea  che  mi  passi  per  la
mente... Ma voi non mi dite niente.”
        “Non sono venuta per far  conversazione  con  voi,  ma  per  vedervi  ed
ascoltarvi. Aspetto vostra madre. Cercate di non  commuovermi;  lasciate  che  i
sentimenti s’accumulino nella mia anima. Quando ne sarà colma, vi lascerò. Debbo
tacere; io mi conosco. Ho un solo impulso, ma violento; non deve  trovare  sfogo
con voi. Riposatevi ancora un momento, ch’io vi veda;  ditemi  soltanto  qualche
parola e lasciate che io colga qui ciò che sono venuta a  cercarvi.  Poi  me  ne
andrò e Dio farà il resto.”
        Tacqui, ricaddi  sul  guanciale,  le  tesi  una  mano  ch’ella  afferrò.
Sembrava che meditasse, e che meditasse profondamente; si sforzava di tenere gli
occhi chiusi, ma a volte li apriva, volgeva lo sguardo  verso  l’alto  prima  di
posarlo nuovamente su di me; si agitava; aveva l’anima in  tumulto,  senza  posa
perdeva e ritrovava il controllo di sé. In verità  quella  donna  era  nata  per
essere profetessa: ne aveva il volto e il carattere. Era stata bella, ma  l’età,
svigorendo i tratti del volto e  incidendovi  rughe  profonde,  aveva  conferito
dignità alla sua fisionomia. Aveva occhi piccoli, ma che davano l’impressione di
guardare dentro lei stessa o di attraversare gli oggetti vicini e di scrutare al
di là di essi, a una distanza infinita, sempre nel passato o  nell’avvenire.  Di
tanto in tanto mi stringeva con forza la mano. Mi  chiese  bruscamente  che  ore
fossero:
        “Saranno presto le sei.”
        “Addio, me ne vado. Fra poco verranno a vestirvi ed io non voglio  esser
presente per farmi distrarre. La mia sola preoccupazione è di  mantenermi  calma
nei primi momenti.”
        Era appena uscita che la madre delle novizie e le mie compagne fecero il
loro ingresso; mi tolsero gli abiti del convento e  mi  rivestirono  con  quelli
secolari; è un uso che voi conoscete. Non sentii niente di quello che si  diceva
intorno a me; ero ridotta quasi allo stato di automa; non mi accorsi di  niente.
Solo, a tratti, ero percorsa da leggeri fremiti convulsi. Mi  dicevano  ciò  che
bisognava fare, spesso erano costrette a ripeterlo, perché la  prima  volta  non
sentivo; io lo facevo. Non perché pensassi ad altro, ma perché ero come assente.
Avevo la testa stanca come quando si  è  riflettuto  troppo.  Nel  frattempo  la
superiora si intratteneva con mia  madre.  Non  ho  mai  saputo  ciò  che  fosse
accaduto durante quell’incontro che durò a lungo;  mi  riferirono  soltanto  che
quando si separarono, mia madre era così turbata che non riusciva a ritrovare la
porta dalla quale era entrata, e che la superiora era uscita con i pugni stretti
alle tempie.
        Suonarono le campane. Scesi. C’era poca gente. Mi  fu  rivolto,  bene  o
male, un fervorino; non sentii niente. Disposero  di  me  durante  tutta  quella
mattinata che è stata inesistente nella mia vita,  giacché  non  ho  mai  saputo
quanto fosse durata; non so né cosa  ho  fatto,  né  cosa  ho  detto.  Mi  hanno
sicuramente interrogata, sicuramente ho risposto. Ho pronunciato i voti, ma  non
ne conservo alcun ricordo e mi sono ritrovata monaca con la stessa innocenza con
cui fui fatta cristiana; non capii niente di quella  mia  professione  come  non
avevo capito niente in quella del mio battesimo, con  la  differenza  che  l’una
conferisce la grazia e l’altra la presuppone. Ebbene,  signore,  benché  io  non
abbia protestato a Longchamp come avevo fatto a Santa Maria, credete che sia per
questo più vincolata? Faccio appello  al  vostro  giudizio;  faccio  appello  al
giudizio di Dio. Mi trovavo in uno  stato  di  prostrazione  così  profonda  che
qualche giorno dopo, allorché mi fu detto che ero di turno in  coro,  non  capii
che cosa volesse dire. Chiesi se era proprio vero che avevo pronunciato i  voti;
fu necessario aggiungere a queste prove la testimonianza di tutta  la  comunità;
quella di alcuni estranei che erano stati invitati alla cerimonia.  Rivolgendomi
più volte alla superiora, le ripetevo: “Ma allora, è proprio vero?”
        E mi aspettavo sempre che rispondesse:
        “No, figliola mia, vi ingannano.”
         Le  sue  reiterate  assicurazioni  non  mi  convincevano  affatto,  non
riuscendo a capire come avessi potuto dimenticare ogni circostanza di tutta  una
giornata così tumultuosa, così varia,  così  densa  di  avvenimenti  insoliti  e
straordinari, persino la faccia di coloro che si erano  affaccendate  intorno  a
me, e quella del prete che mi aveva rivolto il suo fervorino, e di colui davanti
al quale avevo pronunciato i voti. La sola cosa che ricordi è di  aver  cambiato
gli abiti del convento con quelli secolari. Da quel momento sono stata  ciò  che
fisicamente si dice alienata. Sono stati necessari mesi  interi  per  trarmi  da
quello stato, ed io attribuisco alla lunghezza di quella specie di convalescenza
l’oblio profondo di quanto è accaduto. Proprio come coloro che hanno sofferto di
una lunga malattia, che  hanno  parlato  con  lucidità,  che  hanno  ricevuto  i
sacramenti e che, dopo aver ritrovato la salute, non  ne  conservano  il  benché
minimo ricordo. Ne ho visti diversi esempi in convento e ho detto a  me  stessa:
“Ecco quello che probabilmente è accaduto il giorno  della  professione.”  Resta
poi da sapere se tali azioni siano azioni  compiute  dall’uomo  e  se  egli  sia
realmente presente, anche se in apparenza lo è.

        In quello stesso anno subii tre perdite gravi: quella di  mio  padre,  o
per meglio dire di colui che passava  per  tale.  Era  anziano.  Aveva  lavorato
molto. Si spense. Quella della mia superiora, e quella di mia madre.
        Questa degna religiosa avvertì molto tempo prima  l’approssimarsi  della
sua ora. Si condannò al silenzio. Si fece portare la  bara  nella  cella.  Aveva
perso il sonno e passava i giorni e  le  notti  a  meditare  e  a  scrivere.  Ha
lasciato quindici meditazioni che a me sembrano di grande bellezza. Ne  possiedo
una copia. Se un giorno vi cogliesse  la  curiosità  di  vedere  quali  pensieri
suggerisce quell’istante supremo, ve le farò leggere. Si intitolano: Gli  ultimi
istanti della suora de Moni.
        All’avvicinarsi della morte, si fece  vestire.  Stava  distesa  sul  suo
letto dove le somministrarono gli ultimi sacramenti. Tra le braccia,  teneva  un
crocifisso. Era notte.  Il  bagliore  delle  candele  rischiarava  quella  scena
lugubre. Noi le stavamo intorno,  ci  scioglievamo  in  lacrime,  la  sua  cella
risuonava di grida, quando, d’un tratto, le brillarono  gli  occhi.  Si  sollevò
bruscamente, parlò. La sua voce era forte quasi come prima  della  malattia.  Le
tornò il dono perduto. Ci rimproverò per quelle nostre  lacrime  che  sembravano
lacrime di invidia per la sua felicità eterna.
        “Figlie mie,” disse, “il vostro dolore vi ottenebra  la  ragione,  ma  è
lassù,” diceva indicando il cielo, “che io  potrò  aiutarvi;  i  miei  occhi  si
abbasseranno sempre su questa  casa;  intercederò  per  voi,  e  sarò  esaudita.
Avvicinatevi tutte quante, che io vi  abbracci;  venite  ad  accogliere  la  mia
benedizione e il mio addio.”
        Fu nel pronunciare queste ultime parole che passò a miglior vita  quella
donna rara, lasciando dietro di sé rimpianti che non finiranno mai.
        Mia madre morì al ritorno da un breve viaggio che  fece  verso  la  fine
dell’autunno presso una delle sue figliole. La sua salute era stata molto scossa
da certi dispiaceri. Non ho mai saputo il nome di mio padre, né la storia  della
mia nascita. Colui che era stato il suo direttore spirituale, e anche il mio, mi
consegnò un pacchetto da parte sua: erano  cinquanta  luigi  con  un  biglietto,
avvolti e cuciti in un pezzo di stoffa. C’era scritto:
        “Figlia mia, è ben poca cosa, ma la mia coscienza  non  mi  consente  di
disporre di una somma maggiore; è il resto di quanto ho potuto economizzare  sui
piccoli regali del signor Simonin. Vivete santamente, è  la  cosa  migliore  che
possiate fare, anche per la vostra felicità in questo mondo. Pregate per me;  la
vostra nascita è la sola colpa grave ch’io abbia commesso; aiutatemi ad espiarla
e che Dio mi perdoni di avervi messa al  mondo  in  considerazione  delle  buone
opere che voi farete. Soprattutto non turbate la pace della famiglia,  e  benché
la scelta dello stato che avete abbracciato non sia stata volontaria come  avrei
desiderato, guardatevi bene dal cambiarla. Perché non sono stata  io,  rinchiusa
in un convento per tutta la vita? Non sarei tanto angosciata al pensiero che fra
poco dovrò subire il temibile giudizio. Pensate, figlia mia,  che  la  sorte  di
vostra madre nell’altro mondo, dipende molto dalla  vostra  condotta  su  questa
terra: Dio, che vede tutto, mi attribuirà, nella sua giustizia, tutto il bene  e
tutto il male che farete voi. Addio, Susanna; non chiedete  niente  alle  vostre
sorelle. Non sono in grado di aiutarvi. Non sperate niente da vostro padre. Egli
mi ha preceduta, ha già visto il grande giorno, mi attende; la mia presenza sarà
per lui meno terribile della sua per me. Addio, ancora una volta!  Ah,  infelice
madre! ah, infelice figlia! Sono arrivate le vostre sorelle; non  sono  contenta
di loro: prendono, portano via, leticano  per  questioni  di  interesse  che  mi
affliggono. Quando si avvicinano al mio letto, mi volto  dall’altra  parte.  Che
cosa vedrei in loro? Due creature nelle quali la povertà ha spento il sentimento
della natura. Anelano a quel poco che lascio, al medico e  all’infermiera  fanno
domande senza pudore, che svelano con quale impazienza attendano il  momento  in
cui me ne andrò e che le renderà padrone di tutto ciò  che  mi  circonda.  Hanno
avuto sentore, non so come, che potessi avere un po’ di denaro  nascosto  tra  i
materassi; hanno tentato di tutto per farmi  alzare  e  ci  sono  riuscite.  Per
fortuna il mio depositario era venuto il giorno prima ed io gli avevo consegnato
il pacchetto con questa lettera che ha scritto sotto la mia dettatura.  Bruciate
la lettera, e quando saprete della mia morte,  evento  ormai  imminente,  farete
dire una messa per me e rinnoverete i vostri voti, giacché desidero  sempre  che
non abbandoniate il convento: l’idea d’immaginarvi nel mondo, senza mezzi, senza
sostegno, giovane, renderebbe ancor più penosi i miei ultimi istanti.”

        Mio padre morì il 5 gennaio, la mia superiora  verso  la  fine  di  quel
mese, e mia madre il giorno dopo Natale.
        Alla madre de Moni successe suor  Santa  Cristina.  Ah,  signore!  Quale
differenza fra l’una e l’altra! Vi ho detto che donna  fosse  la  prima.  Questa
aveva invece un carattere meschino, una mentalità ristretta e piena  di  confuse
superstizioni. Aveva una certa inclinazione per le  idee  nuove,  conferiva  con
sulpiziani, con gesuiti. Prese in antipatia  tutte  le  favorite  di  colei  che
l’aveva preceduta: in poco tempo la casa fu  piena  di  discordie,  di  odi,  di
maldicenze, di accuse, di calunnie e di  persecuzioni.  Fu  necessario  spiegare
questioni teologiche in cui non capivamo niente,  sottoscrivere  certe  formule,
piegarci a pratiche singolari. La madre de Moni  non  approvava  affatto  quelle
penitenze che si praticano sul corpo. Si era flagellata soltanto  due  volte  in
vita sua: una volta, il giorno prima della  mia  professione,  un’altra  in  una
circostanza analoga. Di quelle  penitenze  diceva  che  non  correggevano  alcun
difetto e servivano unicamente a incoraggiare  l’orgoglio.  Voleva  che  le  sue
suore stessero bene e avessero il corpo sano e lo spirito  sereno.  Subito  dopo
aver assunto la sua carica, per prima cosa  si  era  fatta  consegnare  tutti  i
cilici e le discipline, e inoltre aveva proibito di alterare gli alimenti con la
cenere, di dormire per terra e di procurarsi strumenti del  genere.  La  seconda
invece, fece riconsegnare ad ogni suora  il  cilicio  e  la  disciplina  e  fece
ritirare il Nuovo e l’Antico Testamento. Le favorite del  regno  precedente  non
sono mai le favorite del regno che segue. Io fui indifferente, per non  dire  di
peggio, alla superiora attuale, per la semplice ragione  che  la  precedente  mi
aveva prediletta, ma non tardai a peggiorare la mia sorte  con  azioni  che  voi
chiamerete imprudenza o fermezza, a seconda del punto  di  vista  dal  quale  le
considererete.
        La prima, fu quella di abbandonarmi a tutto il dolore che provavo per la
scomparsa della nostra superiora; di farne  l’elogio  in  ogni  circostanza;  di
occasionare confronti fra lei  e  quella  che  allora  ci  governava,  confronti
certamente non favorevoli a quest’ultima; di  descrivere  la  vita  al  convento
negli anni precedenti; di suscitare il ricordo della pace di  cui  godevamo,  la
sua indulgenza per noi, il cibo sia spirituale che temporale del quale allora ci
nutriva; e di esaltare le abitudini, i sentimenti, il carattere di suor de Moni.
La seconda fu quella di gettare nel fuoco il cilicio e  di  disfarmi  della  mia
disciplina; di richiamare l’attenzione delle  mie  amiche  sull’argomento  e  di
spingerne alcune a seguire il mio esempio. La terza, fu quella di procurarmi  un
Antico e un Nuovo Testamento. La quarta, di rifiutare ogni scelta, di  attenermi
al titolo di cristiana, senza accettare il nome di giansenista o  di  molinista.
La quinta fu quella di osservare strettamente la regola della casa  rifiutandomi
di fare qualcosa in più o in meno di quanto esigeva, e quindi, di non  prestarmi
a  nessun  atto  facoltativo,  giacché  quelli  obbligatori  mi  sembravano  già
abbastanza duri; di non salire all’organo  che  nei  giorni  di  festa,  di  non
cantare se non quando avrei dovuto farlo nel coro, di non tollerare più  che  si
abusasse della mia compiacenza e dei miei doni, e che si esigesse da me tutto, e
tutti i giorni. Lessi le Costituzioni, le rilessi tanto da saperle a memoria. Se
mi veniva ordinata una cosa che non vi fosse espressa in maniera chiara,  o  che
non vi fosse espressa affatto, o che mi sembrasse  in  contraddizione  con  tali
regole, risolutamente mi rifiutavo di obbedire,  prendevo  il  libro  e  dicevo:
“Questi, e non altri, sono gli impegni che ho assunto.”
        I miei discorsi fecero sì che alcune delle mie compagne si  schierassero
dalla mia parte.  L’autorità  delle  maestre  ne  risultò  assai  sminuita;  non
potevano più disporre di noi come se  fossimo  state  loro  schiave.  Quasi  non
passava giorno senza qualche scena clamorosa. Nei casi incerti le  mie  compagne
mi consultavano ed io ero sempre dalla parte della regola contro il  dispotismo.
Ben presto ebbi l’aria, e forse anche il comportamento, di una faziosa.
        I grandi Vicari dell’arcivescovo venivano chiamati di  continuo.  Io  mi
presentavo, mi difendevo, difendevo le mie compagne, e non è accaduto  una  sola
volta che fossi condannata, giacché stavo bene attenta ad  essere  sempre  dalla
parte della ragione. Dal punto di vista dei miei doveri, ero  inattaccabile:  li
adempivo scrupolosamente, né chiedevo mai i piccoli favori che una  superiora  è
sempre libera di accordare o di rifiutare. Non  comparivo  mai  nel  parlatorio;
visite non ne ricevevo giacché non conoscevo nessuno.  Avevo  però  bruciato  il
cilicio e gettato la disciplina; avevo consigliato ad altre di  fare  la  stessa
cosa; non volevo sentir parlare di giansenismo né in bene, né in male. Quando mi
chiedevano se ero sottomessa  alla  Costituzione,  rispondevo  di  esserlo  alla
Chiesa;  se  accettavo  la  Bolla,  rispondevo   che   accettavo   il   Vangelo.
Ispezionarono la mia cella: vi scoprirono l’Antico e il Nuovo Testamento. Mi ero
lasciata sfuggire  alcune  affermazioni  indiscrete  sull’intimità  sospetta  di
alcune delle favorite; la superiora aveva dei colloqui lunghi e frequenti con un
giovane ecclesiastico ed io ne avevo messo in luce la ragione e il pretesto. Non
tralasciai niente di quanto poteva farmi temere, odiare, perdere, e  ottenni  il
mio scopo. Non vi furono più lamentele sul mio conto presso i superiori,  ma  si
ingegnarono a  rendermi  dura  la  vita.  Fu  proibito  alle  altre  monache  di
avvicinarmi e ben presto mi ritrovai sola. Avevo un numero ristretto di  amiche;
sospettarono che avrebbero cercato di sottrarsi di nascosto all’imposizione  che
avevano dovuto subire  e  che  non  potendo  intrattenersi  con  me  di  giorno,
sarebbero venute a trovarmi  di  notte  o  ad  ore  proibite.  Ci  spiarono:  mi
sorpresero ora con l’una, ora con l’altra. Di tale imprudenza  ne  fecero  l’uso
che vollero e fui castigata nel modo più disumano: mi condannarono per settimane
intere a restare in ginocchio per tutto il tempo  dell’uffizio,  separata  dalle
altre, in mezzo al coro; a vivere di pane e d’acqua; a starmene chiusa in cella;
ad attendere alle mansioni più umili del convento. Quelle che venivano  definite
le mie complici non erano trattate molto  meglio  di  me.  Quando  non  potevano
cogliermi in fallo, sospettavano di me;  mi  venivano  impartiti  tutti  insieme
ordini incompatibili fra loro e mi punivano  per  non  averli  eseguiti.  A  mia
insaputa si anticipavano  le  ore  delle  funzioni,  dei  pasti;  si  sovvertiva
l’organizzazione abituale della vita claustrale di modo  che,  pur  stando  bene
attenta, ogni giorno infrangevo qualche regola e ogni giorno venivo punita.  Non
mi manca il coraggio, ma nessuno resiste all’abbandono,  alla  solitudine,  alla
persecuzione. Le cose arrivarono a un punto tale che il tormentarmi  divenne  un
divertimento. Era ormai lo svago di cinquanta persone congiurate contro  di  me.
Mi è impossibile entrare nei dettagli di quelle  cattiverie:  mi  impedivano  di
dormire, di vegliare, di pregare. Un giorno mi rubavano parte degli  abiti,  poi
era la volta delle chiavi o del breviario. Danneggiavano la  mia  serratura.  Mi
impedivano di far bene ciò che dovevo fare o rovinavano le cose che avevo  fatto
bene. Mi venivano attribuiti discorsi  mai  fatti  e  azioni  mai  compiute.  Mi
rendevano responsabile di tutto, e la mia vita era un susseguirsi di colpe reali
o simulate, e di castighi.
        La mia salute non resse davanti a  prove  tanto  lunghe  e  tanto  dure;
piombai nello sconforto, nel dolore, nella malinconia.  Da  principio  andavo  a
cercare forza ai piedi dell’altare, e talvolta ve la trovai.  Oscillavo  tra  la
rassegnazione e la disperazione, sottomettendomi di volta in volta  all’asprezza
del mio destino, o pensando di liberarmene  con  mezzi  violenti.  In  fondo  al
giardino c’era un pozzo profondo: quante volte ci sono andata! Quante  volte  vi
ho guardato dentro! Accanto, c’era una panchina di pietra; quante  volte  mi  ci
sono seduta, con la testa appoggiata  all’orlo  del  pozzo!  Quante  volte,  nel
tumulto dei pensieri, mi sono alzata bruscamente, decisa a porre un termine alle
mie angustie! Chi mi ha trattenuta? Perché preferivo piangere,  gridare  a  gran
voce, calpestare il velo, strapparmi i capelli  e  graffiarmi  il  viso  con  le
unghie? Se era Dio che mi impediva di perdermi, perché non evitarmi anche  tutte
quelle manifestazioni?
        Vi dirò una cosa che forse vi parrà molto strana e che nondimeno è vera:
sono assolutamente certa che le mie frequenti visite a  quel  pozzo  sono  state
notate e che le mie crudeli nemiche hanno caldamente sperato  che  un  giorno  o
l’altro avrei messo in atto il proposito che covava  dentro  di  me.  Quando  mi
dirigevo da quella  parte,  ostentatamente  se  ne  allontanavano  e  guardavano
altrove. Diverse volte ho trovato la porta del giardino aperta  in  ore  in  cui
avrebbe  dovuto  essere  chiusa,  e  stranamente  nei  giorni  in  cui   avevano
particolarmente infierito su di me,  in  cui  avevano  spinto  all’esasperazione
l’irruenza del mio carattere e credevano che la mia mente fosse alienata. Ma non
appena credetti di intuire che quel mezzo per liberarmi dalla vita era, per così
dire, offerto alla mia disperazione, che mi conducevano per mano a quel pozzo  e
che lo avrei trovato sempre pronto ad accogliermi, smisi di  curarmene.  La  mia
attenzione si volse altrove. Rimanevo nei corridoi e  misuravo  l’altezza  delle
finestre; la sera, mentre mi spogliavo, saggiavo senza rendermene conto la forza
delle  mie  giarrettiere;  un  altro  giorno  rifiutavo  il  cibo:  scendevo  al
refettorio e rimanevo con la schiena contro la parete, le mani penzoloni lungo i
fianchi, gli occhi chiusi, e non toccavo le pietanze che  mi  venivano  servite.
Quando ero in quello stato perdevo a tal punto la coscienza  di  me  stessa  che
tutte le monache uscivano e io  rimanevo  lì.  Si  allontanavano  ostentatamente
senza far rumore e mi lasciavano sola; poi venivo punita per  non  essere  stata
presente agli esercizi. Che dirvi d’altro? Mi levarono  con  tutti  i  mezzi  la
voglia di togliermi la vita, poiché mi sembrò che,  lungi  dall’opporvisi,  tali
mezzi mi venissero offerti. Evidentemente non vogliamo venir cacciati da  questo
mondo e forse, se avessero finto di trattenermi, oggi non sarei più viva. Forse,
quando ci si toglie la vita, si vuol far sì che gli altri si  disperino.  Ma  se
così facendo crediamo di dar loro soddisfazione, allora la  nostra  vita  ce  la
teniamo. Si tratta di moti assai sottili del  nostro  animo.  In  verità,  se  è
possibile che ricordi in quali condizioni mi trovavo quando ero accanto  a  quel
pozzo, credo che  dentro  di  me  gridassi  contro  quelle  disgraziate  che  si
allontanavano per favorire un delitto: “Fate un passo verso di me, mostratemi il
benché minimo desiderio di salvarmi, accorrete per trattenermi e siate certe che
arriverete troppo tardi.” In realtà vivevo soltanto perché desideravano  la  mia
morte. Fuori dal chiostro l’accanimento nel tormentare  e  nel  volere  l’altrui
perdita finisce con l’esaurirsi, nei chiostri invece non si esaurisce  mai.  Ero
giunta a questo punto allorché riandando col pensiero alla mia vita passata,  mi
venne  l’idea  di  fare  annullare  i  miei  voti.  Fu  dapprima   un   pensiero
superficiale: sola, abbandonata, senza appoggi, in che modo condurre in porto un
progetto così difficile, anche se avessi goduto di tutto quell’aiuto  che  a  me
mancava? L’idea bastò comunque a tranquillizzarmi; il mio spirito  si  acquietò,
ritrovai la padronanza di me stessa. Evitai  qualche  castigo  e  sopportai  con
maggior pazienza quelli che mi venivano inflitti. Il  cambiamento  fu  notato  e
suscitò stupore. Di colpo si arrestò la cattiveria, come un nemico vile  che  ti
insegue e al quale fai fronte nel momento in cui meno se lo aspetta.
        Una domanda che dovrei rivolgerle, signore,  è  perché  fra  tante  idee
funeste che passano per la testa di una monaca disperata, non  vi  è  quella  di
appiccare il fuoco alla casa. A me non è venuta in mente, e  neppure  ad  altre,
benché sia la cosa più facile da farsi: in un giorno di gran vento basta portare
una torcia in un solaio, in una legnaia o in un corridoio. Non vi sono mai stati
conventi bruciati: eppure in queste circostanze si  spalancano  le  porte  e  si
salvi  chi  può.  Forse  perché  preferiamo  ignorare  un  aiuto  che   dovremmo
condividere con quelle che odiamo? Ma quest’ultima supposizione è troppo sottile
per essere vera.
        A forza di riflettere su una cosa, se ne sente la fondatezza e si arriva
persino a crederla possibile. A questo punto si è davvero molto forti. Per me si
trattò di una quindicina di giorni. La mia mente galoppa. Che cosa doveva  fare?
redigere un memoriale e farlo esaminare da qualcuno: due iniziative non prive di
pericolo. Da quando c’erano stati in me tutti quei mutamenti,  venivo  osservata
più attentamente di sempre. C’era un occhio che mi seguiva di continuo; ogni mio
passo veniva spiato, ogni mia parola soppesata. Fui di nuovo avvicinata,  furono
sondati  i  miei  pensieri.  Mi  interrogavano,  ostentavano  commiserazione   e
amicizia; riandavano alla  mia  vita  passata,  mi  accusavano  fiaccamente,  mi
scusavano; speravano che mi comportassi meglio, mi prospettavano un avvenire più
tranquillo. Ciò nonostante, giorno e notte, ad ogni istante, con ogni  pretesto,
bruscamente, sordamente, entravano nella mia cella, scostavano le tende,  se  ne
andavano. Dopo aver preso l’abitudine di coricarmi vestita,  avevo  presa  anche
quella di scrivere la mia confessione. Nei giorni che sono  stabiliti  andavo  a
chiedere carta e inchiostro alla  superiora,  la  quale  non  me  li  rifiutava.
Cominciai quindi ad attendere il  giorno  della  confessione  e  intanto  andavo
redigendo a memoria tutto quello che intendevo esporre. Si trattava, in sintesi,
di quanto ho scritto a voi fino a questo punto, con la sola  differenza  che  mi
servivo di nomi inventati. Commisi però tre sciocchezze: la  prima  fu  di  dire
alla superiora che avrei avuto molto da scrivere e adducendo questo pretesto, di
chiederle più carta di quanta ne  viene  concessa  di  solito;  la  seconda,  di
occuparmi del mio memoriale e di trascurare la confessione;  la  terza,  di  non
rimanere al confessionale che un istante, dato che appunto non  avevo  preparato
la confessione e perciò non ero pronta a quell’atto di religione. Di  tutto  ciò
non sfuggì nulla, e se ne dedusse che la  carta  che  avevo  chiesto  era  stata
destinata ad uno scopo diverso da quello  che  avevo  dichiarato.  Ma  se,  come
appariva chiaro, non era servita alla mia confessione, che cosa ne avevo fatto?
        Pur non  avendo  immaginato  di  suscitare  tante  inquietudini,  sentii
comunque che non  si  doveva  trovare  nella  mia  cella  uno  scritto  di  tale
importanza. In  un  primo  momento  pensai  di  cucirlo  nel  traversino  o  nei
materassi, poi di nasconderlo fra gli abiti,  di  sotterrarlo  in  giardino,  di
buttarlo nel fuoco. Non immaginerete mai quale fosse la mia fretta di  scriverlo
e l’imbarazzo che mi creò quando fu  scritto.  Prima  lo  sigillai,  poi  me  lo
infilai in seno e mi recai all’uffizio che stava suonando. La  mia  inquietudine
era tale che ogni mio movimento la tradiva. Ero seduta  accanto  a  una  giovane
monaca che mi voleva bene; a volte mi era capitato di cogliere la pietà nel  suo
sguardo e di vederla piangere per  me.  Non  mi  rivolgeva  mai  la  parola,  ma
certamente soffriva delle mie pene.  Noncurante  di  ciò  che  poteva  accadere,
decisi di affidarle il mio memoriale. In un momento  di  preghiera,  durante  il
quale tutte le monache si inginocchiano curvandosi fino a sembrare  immerse  nei
loro stalli, mi sfilai delicatamente il plico dal petto e glielo tesi dietro  di
me. Ella lo prese e a sua volta se lo nascose in petto. Fu questo il favore  più
grande fra quanti ne avevo ricevuti da lei e che già erano assai  numerosi:  per
mesi interi, senza compromettersi, si era data da fare  per  rimuovere  tutti  i
piccoli ostacoli che venivano frapposti fra me e i  miei  doveri  per  avere  il
diritto di castigarmi. Veniva a bussare alla  mia  porta  quando  era  l’ora  di
uscire; rimetteva ordine dove era stato creato disordine; andava a suonare  o  a
rispondere quando era necessario, si trovava ovunque mi dovevo  trovare  io.  Io
ignoravo tutto ciò.
        Avevo scelto il partito migliore. Quando uscimmo dal coro, la  superiora
mi disse:
        “Suor Susanna, seguitemi.”
        La seguii; poi, fermandosi davanti a un’altra porta:
        “Ecco,” mi disse, “la vostra cella.  Quella  dove  dormivate  prima,  la
prenderà suor San Girolamo.”
        Entrai, e lei entrò con me. Stavamo entrambe sedute senza parlare quando
apparve una monaca con degli indumenti che posò su una sedia.
        La superiora  mi  disse  allora:  “Suor  Santa  Susanna,  spogliatevi  e
indossate questi abiti.”
        Obbedii in  sua  presenza  mentre  lei  seguiva  attenta  tutti  i  miei
movimenti.
        La suora che aveva portato quegli indumenti era già sulla  porta.  Tornò
indietro, prese quelli che mi ero tolti ed uscì. La superiora la seguì.  Non  mi
fu detto il perché di tutto quell’armeggiare, né io lo chiesi. Nel frattempo  la
mia cella era stata accuratamente frugata; materassi  e  guanciale  erano  stati
scuciti; fu spostato tutto ciò che si poteva spostare  o  che  si  supponeva  lo
fosse stato. Ripercorsero i miei passi: verso il confessionale,  in  chiesa,  in
giardino, al pozzo, verso la panchina di pietra. Io stessa  vidi  una  parte  di
quelle ricerche. Il resto, lo sospettai. Non trovarono niente. Rimasero peraltro
convinte che c’era qualcosa. Continuarono a spiarmi per diversi giorni. Andavano
dove ero andata, scrutando  ovunque,  ma  invano.  Alla  fine  la  superiora  si
persuase che la verità l’avrebbe saputa soltanto da me. Un  giorno  entrò  nella
mia cella e mi disse:
        “Suor Susanna, avete dei difetti,  ma  non  quello  di  mentire.  Ditemi
dunque la verità: che cosa ne avete fatto di tutta la carta che vi ho dato.”
        “Signora, ve l’ho già detto.”
        “Non può essere. Me ne avete  chiesta  molta  e  non  siete  rimasta  al
confessionale che pochi istanti.”
        “È vero.”
        “Allora, che cosa ne avete fatto?”
        “Quello che vi ho detto.”
        “Se è così, giurate per la santa obbedienza votata a Dio che questa è la
verità e io vi crederò, nonostante le apparenze.”
        “Non vi è concesso, signora, esigere un  giuramento  per  cosa  di  così
lieve importanza, né a me è consentito farlo. Non posso giurare.”
        “Voi mi ingannate,  suor  Susanna,  e  non  sapete  a  quali  rischi  vi
esponete. Che cosa avete fatto della carta che vi ho dato?”
        “Ve l’ho detto.”
        “Dov’è?”
        “Non l’ho più.”
        “Che cosa ne avete fatto?”
        “Ciò che si fa di quella specie di scritti che diventano inutili  quando
hanno servito al loro scopo.”
        “Giuratemi, per la santa obbedienza, che tutta  la  carta  è  servita  a
scrivere la vostra confessione e che non l’avete più.”
        “Vi ripeto, signora, che non posso giurare, giacché questa seconda  cosa
non è più importante della prima.”
        “Giurate,” mi disse, “o...”
        “Non giurerò.”
        “Non giurerete?”
        “No, signora.”
        “Allora, siete colpevole?”
        “E di che cosa posso essere colpevole?”
        “Di tutto; non vi è niente di cui non siate capace. Avete  ostentato  di
lodare colei che mi ha preceduta, per umiliarmi; di avere in spregio gli usi che
aveva proscritto, le leggi che aveva abolito  e  che  io  ho  creduto  opportuno
ristabilire; avete istigato alla ribellione tutta la comunità; avete infranto le
regole; avete  seminato  discordia,  avete  mancato  a  tutti  i  vostri  doveri
costringendomi a punirvi e a punire quelle che avete sobillato, e  questa  è  la
cosa che mi costa di più. Avrei potuto infierire contro  di  voi  ricorrendo  ai
sistemi più duri; vi ho risparmiata,  ho  creduto  che  avreste  riconosciuto  i
vostri torti, che avreste ritrovato la  disposizione  d’animo  che  conviene  al
vostro stato, e che sareste tornata a me. Non l’avete fatto.  Nel  vostro  animo
accadono cose non lodevoli; avete dei progetti; l’interesse del  convento  esige
che io li conosca e li conoscerò, ve lo garantisco io. Suor Susanna,  ditemi  la
verità.”
        “Ve l’ho detta.”
        “Adesso me ne vado, ma farete bene a temere il mio ritorno... Mi metto a
sedere, vi concedo ancora un  momento  per  decidervi...  Le  vostre  carte,  se
esistono...”
        “Non le ho più.”
        “Oppure il giuramento che contenevano soltanto la vostra confessione.”
        “Non lo posso fare.”
        Rimase un momento in silenzio, poi uscì e tornò con  quattro  delle  sue
favorite che avevano l’aria  smarrita  e  furente.  Mi  gettai  ai  loro  piedi,
implorai la loro misericordia. Gridavano tutte insieme:
        “Nessuna misericordia, signora! Non vi lasciate commuovere: che consegni
le sue carte o che se ne vada in pace.”
        Abbracciavo ora i ginocchi dell’una,  ora  dell’altra.  Chiamandole  per
nome, dicevo:
        “Suor Santa Agnese, suor Santa Giulia, che  cosa  vi  ho  fatto?  Perché
aizzate la superiora contro di me? Mi sono forse  comportata  così,  io?  Quante
volte non ho interceduto per voi? Lo avete dimenticato. E voi eravate in  colpa,
mentre io non lo sono.”
        La superiora, immobile, mi guardava e mi diceva:
        “Consegna le tue carte, sciagurata, o rivela ciò che contenevano.”
        “Signora,” le dicevano, “non gliele chiedete più;  siete  troppo  buona;
voi non la conoscete;  è  un’anima  indocile  che  non  si  può  domare  se  non
ricorrendo a estremi rimedi. È lei che vi costringe. Peggio per lei.”
        “Mia cara madre,” le dicevo, “non ho fatto niente  che  possa  offendere
Dio o gli uomini, ve lo giuro.”
        “Non è questo il giuramento che voglio.”
        “Ha scritto di sicuro contro di voi, contro di noi; un memoriale al gran
vicario, all’arcivescovo, e Dio  sa  come  avrà  descritto  la  vita  dentro  il
convento. È facile credere al male! Signora, dobbiamo domare questa creatura, se
non volete che sia lei a disporre di noi.”
        La superiora aggiunse:
        “Vedete, suor Susanna...”
        Mi alzai bruscamente e le dissi:
        “Ho visto tutto, signora; capisco  bene  che  mi  sto  perdendo,  ma  un
momento prima o un momento dopo, non vale la pena di stare a pensarci.  Fate  di
me quel che volete; date ascolto  al  loro  furore,  consumate  pure  la  vostra
ingiustizia.” Senza  attendere,  tesi  loro  le  braccia.  Le  sue  compagne  le
afferrarono. Mi strapparono il velo; mi spogliarono senza pudore. Sul  petto  mi
trovarono un ritrattino  della  mia  superiora.  Lo  presero.  Le  supplicai  di
lasciarmelo baciare ancora una volta; me lo rifiutarono.  Mi  buttarono  addosso
una camicia, mi levarono le calze, mi coprirono con un sacco, e con la testa e i
piedi nudi, mi fecero percorrere i corridoi. Gridavo, chiedevo aiuto, ma avevano
fatto suonare la campana per avvertire che nessuno si facesse  vedere.  Invocavo
il cielo, cadevo per terra, e allora mi trascinavano. Quando  arrivai  in  fondo
alle scale, avevo i piedi insanguinati e le gambe piene di lividi.  Ero  in  uno
stato tale da commuovere un cuore di sasso. Intanto  avevano  aperto  con  delle
grosse chiavi un piccolo sotterraneo buio,  dove  mi  gettarono  su  una  stuoia
imputridita dall’umidità. Vi trovai un pezzo di pane nero e una  brocca  d’acqua
oltre a qualche  vaso  indispensabile  e  grossolano.  La  stuoia  arrotolata  a
un’estremità fungeva anche da guanciale. Su un blocco di pietra c’era un teschio
con un crocifisso di legno.
        Il mio primo impulso fu quello di uccidermi;  mi  portai  le  mani  alla
gola, mi strappai gli abiti con i denti, gridai  orrendamente,  urlai  come  una
belva. Battei la testa  contro  le  pareti,  mi  coprii  di  sangue.  Cercai  di
distruggermi finché le forze non mi mancarono. Non ci volle molto tempo.  Fu  lì
che trascorsi tre giorni, e credevo che vi sarei rimasta per tutta la vita. Ogni
mattina veniva una delle mie aguzzine, e mi diceva:
        “Obbedite alla vostra superiora, e uscirete presto di qui.”
        “Non ho fatto niente, non so quello che vogliono da  me.  Ah,  suor  San
Clemente, vi è un Dio...”
        Il terzo giorno, verso le nove di sera, fu aperta  la  porta:  erano  le
stesse suore che mi avevano portata lì. Dopo aver  fatto  l’elogio  della  virtù
della nostra superiora, mi annunciarono che ella  mi  faceva  grazia  e  che  mi
avrebbero rimessa in libertà.
        “È troppo tardi,” dissi, “lasciatemi, voglio morire qui.”
        Frattanto mi avevano sollevata e mi trascinavano via. Mi portarono nella
mia cella, dove trovai la superiora.
        “Mi sono rivolta a Dio perché mi illuminasse sulla vostra sorte ed  Egli
mi ha toccato il cuore: vuole che  io  abbia  pietà  di  voi  e  gli  obbedisco.
Mettetevi in ginocchio e chiedetegli perdono.”
        Mi misi in ginocchio e dissi:
        “Mio Dio, vi chiedo perdono delle colpe che ho  commesso,  come  voi  lo
chiedeste per me sulla croce.”
        “Che orgoglio!” esclamarono. “Si paragona a Gesù Cristo  sulla  croce  e
paragona noi ai Giudei che l’hanno crocifisso.”
         “Non  considerate  me,”  dissi  loro,  “ma  considerate  voi  stesse  e
giudicate.”
        “Non basta,” affermò la superiora, “giuratemi per la  santa  obbedienza,
che non parlerete mai di quello che è accaduto.”
        “Ciò che avete fatto è dunque molto grave, se  esigete  ch’io  giuri  di
mantenere il silenzio? Nessuno, se non la vostra coscienza, ne saprà mai niente,
ve lo giuro.”
        “Lo giurate?”
        “Sì, ve lo giuro.”
        Dopo di che mi  spogliarono  delle  vesti  che  mi  avevano  dato  e  mi
lasciarono rivestire con le mie.

        L’umidità mi era penetrata nelle ossa; ero in condizioni critiche. Avevo
il corpo coperto di lividi; da diversi giorni non avevo preso che qualche goccia
d’acqua e un po’  di  pane.  Credetti  che  quella  persecuzione  sarebbe  stata
l’ultima che avrei dovuto sopportare. Tale  è  l’effetto  momentaneo  di  quelle
scosse violente le quali mostrano quale sia la forza della natura nelle  persone
ancor giovani: mi ristabilii in pochissimo  tempo  e  quando  ricomparvi  trovai
tutta la comunità convinta che fossi stata  malata.  Ripresi  gli  esercizi  del
convento e il mio posto in chiesa.
        Non avevo dimenticato le mie carte, né la giovane monaca alla  quale  le
avevo affidate. Ero sicura che aveva ben custodito il mio deposito, ma  che  non
lo aveva tenuto senza una certa inquietudine. Alcuni giorni dopo che fui  uscita
di prigione, nel coro, proprio nel momento in cui  glielo  avevo  dato,  e  cioè
allorché ci mettiamo in ginocchio e piegate le une verso  le  altre  scompariamo
negli stalli, mi sentii tirare piano piano per l’abito. Tesi la  mano  e  mi  fu
consegnato un biglietto che conteneva queste poche parole:
        “Come sono stata in pensiero per voi! E di queste carte crudeli che cosa
ne devo fare?”
        Dopo averlo letto lo appallottolai fra le mani e  lo  inghiottii.  Tutto
questo accadeva all’inizio della Quaresima. Si avvicinava il  tempo  in  cui  la
curiosità di ascoltarci richiama a Longchamp la buona e la  cattiva  società  di
Parigi. Avevo una voce molto bella che  non  si  era  sciupata.  È  proprio  nei
conventi che si bada ai  minimi  interessi:  ebbero  per  me  qualche  riguardo,
godetti di un po’ più di libertà; le monache che  istruivo  nel  canto  poterono
avvicinarmi senza doverne subire le conseguenze. Quella a cui avevo affidato  il
mio memoriale era fra queste; nelle ore  di  ricreazione  che  trascorrevamo  in
giardino, la prendevo in disparte,  la  facevo  cantare,  e  mentre  cantava  le
dicevo:
        “Voi conoscete molta gente, io non conosco nessuno. Non  vorrei  che  vi
comprometteste; preferirei morire piuttosto che esporvi al  sospetto  di  avermi
aiutata. Voi sareste perduta, amica mia, lo so, e questo non  mi  salverebbe.  E
anche se la vostra perdita rappresentasse la mia salvezza, io non  la  vorrei  a
questo prezzo.”
        “Lasciamo stare,” mi disse, “che cosa avete fatto del mio biglietto?”
        “State tranquilla, l’ho inghiottito.”
        “State tranquilla anche voi, mi occuperò del vostro caso.”
        Notate bene, signore, che mentre lei mi parlava,  io  cantavo,  che  lei
cantava mentre io rispondevo e che la nostra conversazione era inframmezzata  da
pezzi di canto.
        Quella giovane, signore, è ancora nel convento e la sua sorte è  fra  le
vostre mani. Se si venisse a scoprire quanto ha fatto per  me,  non  le  sarebbe
risparmiato nessun tormento. Non vorrei averle aperto la porta di  una  segreta.
Preferirei essere io a tornarvi. Perciò, signore, bruciate queste lettere. Se si
eccettua  l’interesse  che  vorrete  dimostrare  per  la  mia  sorte,  esse  non
contengono niente che valga la pena di esser  conservato.  Ecco  quello  che  vi
dicevo allora, ma ahimè! la mia giovane amica non è più di questo  mondo,  e  io
sono sola.
        Ella non tardò a mantenere la parola e a tenermi  informata  secondo  il
nostro solito sistema. Giunse la settimana santa: vi fu una  notevole  affluenza
di pubblico alle “tenebre”. Cantai abbastanza bene da suscitare  il  fragore  di
quegli applausi scandalosi tributati ai vostri  attori  nei  teatri  e  che  non
dovrebbero mai essere sentiti nei templi  del  Signore,  soprattutto  durante  i
giorni solenni e tristi in cui si celebra la memoria di  suo  figlio  inchiodato
sulla croce per l’espiazione delle  colpe  del  genere  umano.  Le  mie  giovani
allieve erano ben preparate; alcune avevano una bella voce;  quasi  tutte  erano
dotate di espressione e buon  gusto  e  mi  parve  che  il  pubblico  le  avesse
ascoltate con piacere e che la comunità fosse soddisfatta del successo dovuto ai
miei sforzi.
        Voi sapete, signore, che il giovedì si trasporta il Santissimo  dal  suo
tabernacolo ad un sepolcro particolare dove esso rimane fino al venerdì mattina.
Durante quest’intervallo di tempo si susseguono le adorazioni delle monache  che
si recano al sepolcro l’una dopo l’altra, oppure a due a  due.  Su  una  tabella
viene indicata a ciascuna la propria ora  di  adorazione.  Come  fui  felice  di
leggervi: Suor Santa Susanna e suor Sant’Orsola, dalle 2 alle 3 del mattino.  Mi
recai dunque al sepolcro all’ora stabilita; la mia compagna  vi  si  trovava  di
già.  Ci  mettemmo  l’una  accanto  all’altra  sui   gradini   dell’altare;   ci
prosternammo insieme, adorammo Dio per una mezz’ora.  A  questo  punto,  la  mia
giovane amica mi tese la mano e strinse la mia dicendo: “Forse  non  avremo  mai
l’occasione di stare insieme tanto a lungo e tanto liberamente; Dio sa in  quali
costrizioni viviamo e ci perdonerà  se  gli  prendiamo  un  po’  del  tempo  che
dovremmo dedicare a Lui. Non ho letto il vostro memoriale, ma  non  è  difficile
immaginare ciò che contiene. Presto avrò la risposta, ma qualora vi autorizzi  a
procedere  allo  scioglimento  dei  vostri  voti,  non   pensate   che   dovrete
necessariamente conferire con uomini di legge?”
        “È vero.”
        “E che avrete bisogno di libertà?”
        “È vero.”
        “E che se intendete far bene, approfitterete  della  condizione  attuale
per procurarvela?”
        “Ci ho pensato.”
        “Allora lo farete?”
        “Vedrò.”
        “Ancora una cosa: se la vostra iniziativa prende l’avvio, rimarrete  qui
abbandonata a tutto il furore della comunità. Avete previsto le persecuzioni che
vi attendono?”
        “Non saranno peggiori di quelle che ho già subito.”
        “Non ne sono sicura.”
        “Perdonatemi. In primo luogo non oseranno privarmi della mia libertà.”
        “E perché?”
        “Perché allora sarò sotto la protezione della legge; dovranno far sì che
mi vedano; sarò, per così dire, tra il mondo e il chiostro; avrò la  possibilità
di parlare, quella di fare le mie rimostranze; vi chiamerò  tutte  a  testimoni.
Non oseranno farmi dei torti dei quali potrei lamentarmi; staranno attenti a non
rendere il caso ancor peggiore.  Io  non  chiederei  di  meglio  che  di  essere
trattata male, ma non lo faranno. State tranquilla che assumeranno  un  contegno
del tutto opposto a quello adottato  finora.  Mi  rivolgeranno  esortazioni;  mi
spiegheranno il torto che farò a me stessa e al convento e potete star certa che
passeranno alle minacce soltanto quando avranno visto che dolcezza  e  seduzione
non serviranno a niente, e avranno escluso di far ricorso alla forza.”
        “È davvero incredibile che nutriate tanta avversione per  uno  stato  di
cui adempite gli obblighi con una tale facilità e un tale scrupolo.”
        “Ma io la sento questa avversione; è nata con  me,  e  non  mi  lascerà.
Finirei con l’essere una cattiva monaca; e devo prevenire quel momento.”
        “E se per disgrazia non ce la farete?”
        “Se non ce la farò, chiederò di  cambiare  convento,  oppure  morirò  in
questo.”
        “Si soffre a lungo prima di morire. Ah, amica mia, il vostro passo mi fa
fremere: tremo nel timore che i vostri voti non siano sciolti, ma tremo anche al
pensiero che lo siano. In tal caso, che ne sarà di voi? Che  farete  nel  mondo?
Siete bella, ricca di spirito e di qualità, ma dicono che tutto questo non serve
a niente con la virtù. Ed io so che voi sarete sempre virtuosa.”
        “Voi rendete giustizia a me, ma non alla virtù. Io  faccio  assegnamento
soltanto su di essa: più è rara fra gli uomini, tanto più deve essere tenuta  in
considerazione.”
        “La si loda, ma non si fa niente per essa.”
        “Ma è la virtù che  mi  incoraggia  e  mi  sostiene  nel  mio  progetto.
Potranno farmi qualunque obiezione,  ma  dovranno  rispettare  i  miei  costumi.
Almeno non si dirà, come si dice di quasi tutte  le  altre,  che  io  sia  stata
indotta ad abbandonare il mio stato dietro la spinta di una  passione  sfrenata.
Non vedo nessuno, non conosco  nessuno.  Chiedo  di  essere  libera,  perché  il
sacrificio della mia  libertà  non  è  stato  volontario.  Avete  letto  il  mio
memoriale?”
        “No, ho aperto il pacchetto che mi avete dato perché era senza indirizzo
e ho pensato che potesse essere per me, ma sin dalle prime righe  ho  capito  di
che si trattava e non sono andata avanti.  Che  felice  ispirazione  aveste  nel
darmelo! Un minuto dopo, l’avrebbero trovato su di voi...  Ma  ormai  il  nostro
turno sta per finire: inginocchiamoci, affinché le monache  che  prenderanno  il
nostro posto, ci trovino nella posizione dovuta. Chiedete a Dio che vi  illumini
e vi guidi; unirò ai vostri sospiri i miei sospiri e la mia preghiera.”
        La mia anima era un po’ sollevata. La mia compagna pregava eretta; io mi
prosternai con la fronte appoggiata sull’ultimo gradino dell’altare e le braccia
tese sui gradini superiori. Non credo di essermi mai rivolta a Dio  con  maggior
consolazione e maggior fervore. Il cuore mi palpitava con violenza; in un attimo
dimenticai tutto quello che mi circondava. Non so per  quanto  tempo  rimasi  in
quella posizione, né per quanto ancora vi sarei rimasta, ma dovette  essere  uno
spettacolo  davvero  commovente  per  la  mia  compagna  e  le  due  suore   che
sopraggiunsero. Quando mi rialzai, credetti di essere sola. Mi sbagliavo:  erano
tutte e tre in piedi dietro le mie spalle, e si  scioglievano  in  lacrime.  Non
avevano osato interrompermi; aspettavano che uscissi spontaneamente dallo  stato
di trasporto e di rapimento in cui mi vedevano.  Quando  mi  voltai  dalla  loro
parte, il mio volto doveva esprimere qualcosa che incuteva rispetto, a giudicare
dall’effetto che produsse su di loro e da quello che poi mi dissero, e cioè  che
in quel momento assomigliavo alla nostra superiora di prima quando ci consolava,
e che il vedermi aveva provocato in loro lo stesso trasalimento. Se avessi avuto
una qualche inclinazione per l’ipocrisia o il  fanatismo,  e  se  avessi  voluto
impormi nel convento, sono certa che vi sarei riuscita. La mia anima si  accende
facilmente, si esalta, si commuove; quella stessa buona superiora  mi  ha  detto
cento volte abbracciandomi che nessuno avrebbe amato Dio come me, che  io  avevo
un cuore di carne, mentre le altre lo avevano di pietra. Non  vi  è  dubbio  che
condividevo la sua estasi con estrema facilità; e che durante le  sue  preghiere
ad alta voce, mi accadeva a volte di rubarle la parola, di seguire il filo delle
sue idee e, come per ispirazione, di  ritrovarmi  a  dire  ciò  che  lei  stessa
avrebbe detto. Le altre l’ascoltavano in silenzio o la seguivano; io  invece  la
interrompevo, o la anticipavo, o parlavo con lei. Molto a  lungo  durava  in  me
l’impressione che  avevo  ricevuta;  evidentemente  dovevo  restituirgliene  una
parte, giacché se nelle altre si vedeva che avevano conversato con lei,  in  lei
si  vedeva  che  aveva  parlato  con  me.  Ma  che  vuol  dire  quando  non  c’è
vocazione?...
        Finito il nostro turno, cedemmo il posto alle monache che venivano  dopo
di noi. Prima di separarci, la mia giovane compagna ed io  ci  abbracciammo  con
grande tenerezza.
        La scena del sepolcro fece rumore in convento; si aggiunga  il  successo
ottenuto con le “tenebre” del venerdì santo: cantai, suonai, fui applaudita. Oh,
teste folli delle monache! Non ebbi quasi niente da fare per  riconciliarmi  con
tutta la comunità; furono loro a venirmi incontro, con la  superiora  in  testa.
Alcune persone del gran mondo cercarono di fare la mia conoscenza. Ciò collimava
troppo bene con il mio progetto perché potessi rifiutarmi. Conobbi così il Primo
Presidente, la signora di Soubise, e  una  quantità  di  gente  dabbene,  frati,
preti, militari, magistrati, donne pie, donne di mondo e fra  gli  altri  quella
specie di giovani vanesi che voi chiamate tacchi rossi e che io mi  affrettai  a
congedare. Non coltivai altre conoscenze se non quelle che non potevano  venirmi
rimproverate; il resto, lo abbandonai a quelle fra le nostre consorelle che  non
erano di gusti tanto difficili.
        Dimenticavo di dirvi che il primo segno di bontà che mi  testimoniarono,
fu quello di riassegnarmi la mia  cella.  Ebbi  il  coraggio  di  richiedere  il
ritrattino della nostra superiora di prima, e loro non  ebbero  il  coraggio  di
rifiutarmelo. Ha ripreso il suo posto sul mio cuore e  vi  resterà  finché  avrò
vita. Tutte le mattine il mio primo impulso è quello di elevare l’anima  a  Dio,
il secondo è quello di baciare quel ritratto; quando voglio pregare e  sento  la
mia anima indifferente, me lo tolgo dal collo, me lo metto davanti, lo guardo  e
ne ricevo ispirazione. È davvero peccato che  non  abbiamo  conosciuto  i  santi
personaggi le cui immagini sono esposte alla nostra venerazione.  Farebbero  una
ben altra impressione su di noi; non ci lascerebbero così freddi ai loro piedi o
in loro presenza.

        Ebbi la risposta al mio memoriale. Veniva da un certo signor  Manouri  e
non era né favorevole, né  sfavorevole.  Prima  di  pronunciarsi  sul  caso,  mi
chiedeva un gran numero di delucidazioni che non avrei potuto dargli se  non  di
persona. Svelai perciò la mia identità e invitai il signor Manouri  a  venire  a
Longchamp. Quel genere di signori si sposta difficilmente.  Tuttavia  venne.  Ci
intrattenemmo molto a lungo: prendemmo accordi circa una corrispondenza  con  la
quale mi avrebbe fatto pervenire con sicurezza le sue domande  e  io  gli  avrei
mandato le mie  risposte.  Per  parte  mia  dedicai  tutto  il  tempo  che  egli
consacrava al mio caso, a ben disporre gli animi, a interessare gente  alla  mia
sorte e a procurarmi delle protezioni.  Mi  feci  conoscere;  raccontai  il  mio
comportamento nel primo convento, le mie pene tra le  mura  domestiche,  la  mia
protesta a Santa  Maria,  il  mio  soggiorno  a  Longchamp,  la  vestizione,  la
professione dei voti, la crudeltà con la quale ero stata trattata da  quando  li
avevo pronunciati. Mi compiansero, mi offrirono aiuto; presi  atto  della  buona
volontà che mi veniva testimoniata per il  tempo  in  cui  avrei  potuto  averne
bisogno senza  fornire  ulteriori  spiegazioni.  Nel  convento  non  era  ancora
trapelato niente. Avevo già ottenuto da Roma il permesso di fare ricorso  contro
i miei voti, ben presto l’azione sarebbe stata intentata e in  convento  nessuno
sospettava niente. Vi lascio quindi immaginare quale fu la  sorpresa  della  mia
superiora quando le fu notificata, a nome di suor  Maria  Susanna  Simonin,  una
protesta contro i suoi voti, con la richiesta di lasciare l’abito monastico e di
uscire dal chiostro per disporre di se stessa come meglio avesse creduto.
        Avevo ben previsto che avrei trovato  innumerevoli  opposizioni:  quella
delle leggi, quelle del convento, e quella dei miei cognati e delle mie  sorelle
allarmati. Avevano ereditato tutti i beni di famiglia e temevano che  una  volta
libera mi sarei rivalsa su di loro. Scrissi alle mie sorelle, feci appello  alla
loro coscienza, ricordando come i voti mi fossero stati imposti; offrii loro  di
rinunciare con atto autenticato a tutte le mie pretese sull’eredità di mio padre
e di mia madre. Non lasciai niente di  intentato  per  convincerle  che  non  si
trattava di un passo dettato  dall’interesse  o  dalla  passione.  Non  mi  feci
illusioni circa i loro sentimenti; l’atto da me  proposto,  redatto  mentre  ero
ancora vincolata dai voti, non sarebbe stato valido, ed esse non avevano  alcuna
certezza che  lo  avrei  ratificato  quando  fossi  stata  libera.  E  poi,  che
convenienza avevano ad accettare le mie proposte? Potevano lasciare una  sorella
senza asilo e senza fortuna? Avrebbero potuto godere  del  suo  patrimonio?  Che
cosa avrebbe detto la gente? Se venisse a  chiederci  un  pezzo  di  pane,  come
potremmo rifiutarglielo? E se le fosse saltato in mente di sposarsi, chissà  che
genere di uomo avrebbe sposato? E se avesse avuto dei figli?... Dobbiamo opporci
con tutte le nostre forze a questo pericoloso tentativo. Ecco ciò che dissero  e
ciò che fecero.
        Appena la superiora ebbe ricevuto l’atto giuridico  della  mia  domanda,
accorse nella mia cella:
        “Ma come, suor Susanna,” mi disse, “volete lasciarci?”
        “Sì, signora.”
        “E farete ricorso contro i vostri voti?”
        “Sì, signora.”
        “Non li avete forse pronunciati liberamente?”
        “No, signora.”
        “E chi vi ha costretta?”
        “Tutto.”
        “Il vostro signor padre?”
        “Mio padre, sì.”
        “La vostra signora madre?”
        “Proprio lei.”
        “E perché non protestare ai piedi dell’altare?”
        “Ero così poco in me, che non ricordo nemmeno di averci  assistito  alla
cerimonia.”
        “Come potete parlare così?”
        “Dico la verità.”
        “Come! Non avete sentito il sacerdote quando vi  chiedeva:  “Suor  Santa
Susanna Simonin, promettete a Dio obbedienza, castità e povertà?””
        “Non lo ricordo.”
        “E voi credete che gli uomini vi crederanno?”
        “Mi credano o non mi credano, non per questo i fatti saranno meno veri.”
        “Figliola mia, se venisse dato ascolto  a  pretesti  simili,  immaginate
quali abusi ne deriverebbero!  Avete  fatto  un  passo  sconsiderato;  vi  siete
lasciata trascinare da un desiderio di vendetta; provate rancore per i  castighi
che mi avete  costretta  ad  infliggervi;  avete  creduto  che  sarebbero  stati
sufficienti per sciogliere i vostri voti. Vi siete sbagliata: non  è  possibile,
né davanti a Dio, né davanti agli uomini. Pensate che lo spergiuro è la peggiore
delle colpe. Pensate che voi l’avete già commessa nel vostro cuore, e ora  state
per consumarla nei fatti.”
        “Non sarò spergiura. Non ho giurato niente.”
        “Se vi è stato fatto qualche torto, non è già stato riparato?”
        “Non sono stati quei torti a farmi decidere.”
        “Che cosa è stato allora?”
        “La mancanza di vocazione, la mancanza di libertà nei miei voti.”
        “Se non eravate chiamata, se eravate costretta, perché  non  lo  diceste
quando era tempo?”
        “E a che cosa mi sarebbe servito?”
        “Perché non dimostraste la stessa  fermezza  che  avevate  dimostrato  a
Santa Maria?”
        “La fermezza dipende forse da noi? Fui ferma la prima volta; la  seconda
ero come inebetita.”
        “Perché non  avete  consultato  un  uomo  di  legge?  Perché  non  avete
protestato? Avete avuto ventiquattro ore  di  tempo  per  constatare  il  vostro
ripensamento.”
        “Che cosa ne sapevo, io, di queste  formalità?  E  anche  se  le  avessi
sapute, ero forse in grado di fare ricorso? E se anche fossi stata in  grado  di
fare ricorso, l’avrei forse potuto? Ma come, signora! Voi stessa  non  vi  siete
resa conto della mia alienazione? Se vi chiamo a testimone, giurerete che ero in
possesso di tutte le mie facoltà mentali?”
        “Lo giurerò.”
        “Ebbene, signora, sarete voi, e non io, la spergiura.”
        “Figliola mia, farete uno  scandalo  inutile.  Tornate  in  voi,  ve  ne
scongiuro per il vostro interesse, per quello  del  convento;  queste  cose  non
accadono senza portarsi dietro uno strascico di discussioni scandalose.”
        “Non sarà colpa mia.”
        “La gente è cattiva: farà le peggiori supposizioni sul  vostro  spirito,
sul vostro cuore, sui vostri costumi; crederanno...”
        “Credano pure ciò che vogliono.”
        “Suvvia, parlatemi a cuore aperto;  se  avete  qualche  segreta  ragione
d’essere scontenta, qualunque essa sia, c’è un rimedio a tutto.”
        “Ero, sono, e sarò per tutta la vita, scontenta del mio stato.”
        “E se fosse lo spirito maligno che è sempre attorno a  noi  e  vuole  la
nostra perdita, che approfitta della  troppo  grande  libertà  che  vi  è  stata
concessa da qualche tempo, per ispirarvi tendenze funeste?”
        “No, signora; voi sapete quanto mi costi un giuramento:  ebbene,  chiamo
Dio a testimone che il mio cuore è innocente e che non  ha  mai  nutrito  nessun
sentimento di cui dovessi vergognarmi.”
        “È inconcepibile.”
        “Eppure, signora, non vi è nulla di  più  concepibile.  Ciascuno  ha  il
proprio carattere, ed io ho il mio. A voi piace la vita monastica, io  la  odio;
voi avete ricevuto da Dio la grazia del vostro stato, io non ne ho  alcuna.  Nel
mondo, voi vi sareste perduta, e qui vi assicurate la salvezza eterna; io invece
mi perderei qui, e spero di  salvarmi  nel  mondo.  Sono  e  sarei  una  cattiva
monaca.”
        “E perché? Nessuno adempie i propri doveri meglio di voi.”
        “Ma a fatica, e controvoglia.”
        “Il vostro merito è ancor più grande.”
        “Nessuno può sapere meglio di me quello che merito, e sono  costretta  a
riconoscere che sottomettendomi a tutto, io non merito niente.  Sono  stanca  di
essere ipocrita; facendo ciò che salva le altre, mi detesto e mi danno. In poche
parole, signora, non conosco vere suore se non quelle che  sono  trattenute  qui
dentro dal loro amore per la vita ritirata e che vi resterebbero  anche  se  non
fossero circondate da grate e mura per trattenerle. Sono molto lontana da  loro!
Il mio corpo è qui, ma non il mio cuore; esso è fuori, e  se  dovessi  scegliere
tra la morte e la clausura perpetua, non esiterei  a  morire.  Ecco  quello  che
penso.”
        “Come! voi lascereste senza rimorsi questo velo,  questi  abiti  che  vi
hanno consacrata a Cristo?”
        “Sì, signora, perché li ho presi senza riflessione e senza libertà...”
        In verità le risposi con molta moderazione se  penso  a  quello  che  mi
suggeriva il cuore. Esso mi diceva: “Oh, quando giungerà il momento in cui potrò
stracciarli e buttarli lontano da me!”
        Ciò nonostante, la mia risposta la scosse. La superiora impallidì, tentò
ancora di parlare, ma le sue labbra tremavano; non sapeva bene nemmeno  lei  che
cosa dirmi. Io misuravo a gran passi la cella, ed ella allora esclamò:
        “Oh, mio Dio! che diranno le nostre sorelle? Oh, Gesù! volgete su di lei
uno sguardo pietoso! Suor Santa Susanna?”
        “Signora?”
        “Ma allora, è un partito preso? Voi volete disonorarci, farci  diventare
la favola pubblica, perdervi!”
        “Voglio uscire di qui.”
        “Ma se è solamente perché questo convento non vi piace...”
        “È questo convento, è il mio stato, è la religione;  non  voglio  essere
rinchiusa ne qui, né altrove.”
        “Figliola mia, voi siete posseduta dal demonio; è lui che vi spinge alla
ribellione, che vi fa parlare, che vi trascina. Non  c’è  niente  di  più  vero:
guardate in che stato siete!”
        Mi detti un’occhiata e vidi che in effetti il mio abito  era  scomposto,
il  soggolo  di  traverso  e  che  il  velo  mi  era  caduto  sulle  spalle.  Mi
infastidivano le parole di quella perfida superiora con il suo tono raddolcito e
falso, e le dissi indispettita:
        “No, signora, no, non voglio più saperne di questo abito, non voglio più
saperne...”
        Intanto cercavo di riaggiustarmi il velo; le mani mi tremavano, e più mi
sforzavo di metterlo a posto, meno ci riuscivo;  spazientita,  lo  afferrai  con
violenza, lo strappai, lo  buttai  per  terra,  e  rimasi  di  fronte  alla  mia
superiora con la fronte cinta da una fascia e tutta scapigliata.  Nel  frattempo
lei, incerta se restare o uscire, andava e veniva dicendo:
        “Oh, Gesù! questa qui è posseduta dal demonio, è davvero  posseduta  dal
demonio...”
        E l’ipocrita si faceva il segno della croce con il rosario.  Non  mi  ci
volle molto  a  tornare  in  me;  sentii  l’indecenza  della  mia  condizione  e
l’imprudenza dei miei discorsi; mi ricomposi come  meglio  potei;  raccattai  il
velo e me lo rimisi, poi, volgendomi verso di lei, le dissi:
        “Signora, non sono né pazza, né posseduta dal demonio; mi vergogno della
mia violenza e ve ne chiedo perdono. Ma giudicate voi stessa quanto poco  mi  si
addica la vita del chiostro, e come sia giusto  che  io  cerchi,  se  posso,  di
venirne fuori.”
        E lei, senza ascoltarmi, ripeteva:
        “Che dirà la gente? Che diranno le nostre sorelle?”
        “Signora,” le dissi, “volete evitare  uno  scandalo?  Ci  sarà  pure  un
mezzo. La dote non mi interessa; io non chiedo che la libertà.  Non  chiedo  che
voi mi apriate le porte, ma che facciate in modo, oggi, domani, nei  giorni  che
verranno, che siano mal sorvegliate. Voi vi dovrete soltanto accorgere della mia
evasione il più tardi possibile...”
        “Sciagurata, che cosa osate propormi?”
        “Un consiglio, che una buona e  savia  superiora  dovrebbe  seguire  con
tutte quelle monache per le quali il convento è una prigione. E il convento  per
me è una prigione mille volte più orrenda di quella in cui vengono  rinchiusi  i
malfattori; non posso che uscirne o morirvi... Signora,” seguitai  assumendo  un
tono grave e uno sguardo fermo, “mi ascolti: se le leggi  alle  quali  ho  fatto
appello deludessero le mie  aspettative  e  se,  spinta  dagli  impulsi  di  una
disperazione che conosco fin troppo  bene...  c’è  un  pozzo...  ci  sono  delle
finestre in convento... ovunque vi sono  dei  muri...  l’abito  si  può  fare  a
pezzi... e si può anche far ricorso alle mani...”
        “Basta, sciagurata! mi fate fremere d’orrore... Come! Voi potreste...”
        “Potrei, in mancanza di tutto quello che mette bruscamente fine ai  mali
della vita, potrei rifiutare il cibo; si è padroni di mangiare e di bere,  si  è
padroni anche di non farlo... Se mai accadesse, dopo  tutto  quello  che  vi  ho
detto, che io trovassi il coraggio... - e voi sapete bene che il coraggio non mi
manca, e che talvolta  ce  ne  vuole  di  più  per  vivere  che  per  morire  -,
immaginatevi al cospetto di Dio e  del  suo  giudizio,  e  ditemi  chi,  tra  la
superiora e la monaca, gli sembrerebbe più colpevole... Io, signora, non  chiedo
e non chiederò mai niente al convento; risparmiatemi  una  colpa,  risparmiatevi
dei lunghi rimorsi: mettiamoci d’accordo...
        “Ma vi rendete conto, suor Susanna? Io dovrei mancare al primo dei  miei
doveri, dovrei collaborare a una colpa, rendermi complice di un sacrilegio!”
        “Il vero sacrilegio, signora, sono io che lo  commetto  tutti  i  giorni
profanando con il disprezzo gli abiti sacri che indosso.  Toglietemeli,  non  ne
sono degna; fate cercare in paese gli stracci della contadina più povera, e fate
in modo che la porta della clausura mi venga socchiusa...”
        “E dove andrete per stare meglio?”
        “Non so dove andrò, ma si sta male soltanto laddove Dio non ci vuole,  e
Dio, qui, non mi vuole.”
        “Non possedete niente.”
        “È vero, ma l’indigenza non è la cosa che mi fa più paura.”
        “Abbiate almeno paura dei disordini ai quali essa trascina.”
        “Il passato, signora, si fa garante dell’avvenire; se avessi voluto dare
ascolto al peccato, ora sarei libera. Ma se mi sarà dato  di  uscire  da  questo
convento, ciò avverrà con il vostro consenso,  o  per  l’autorità  delle  leggi.
Avete la scelta.”
        Era stata una lunga discussione. Nel ricordarla, arrossisco  delle  cose
indiscrete e ridicole che avevo fatto e detto, ma ormai  era  troppo  tardi.  La
superiora stava ancora esclamando “che dirà la  gente!  che  diranno  le  nostre
sorelle!”, allorché la campana che ci chiamava all’uffizio ci  avvertì  che  era
giunto il momento di separarci.
        Nel lasciarmi, la superiora mi disse:
        “Suor Santa Susanna, adesso state per andare in chiesa: chiedete  a  Dio
che vi tocchi il cuore e che  vi  renda  la  consapevolezza  del  vostro  stato.
Interrogate la vostra coscienza e ascoltate ciò che essa vi dirà: è  impossibile
che non vi faccia dei rimproveri. Vi dispenso dal canto.”
        Scendemmo a  poca  distanza  l’una  dall’altra.  Quando  l’uffizio  ebbe
termine, mentre tutte le suore stavano per  separarsi,  la  superiora  dette  un
colpetto sul suo breviario che le fece fermare.
        “Sorelle,” disse, “vi invito a prosternarvi ai piedi  dell’altare  e  ad
implorare la misericordia di Dio su una monaca che egli ha abbandonato,  che  ha
perduto l’amore e lo spirito della religione, e che sta per  compiere  un’azione
sacrilega agli occhi di Dio e scandalosa agli occhi degli uomini.”
        Non saprei descrivervi la  sorpresa  generale;  in  un  batter  d’occhio
ciascuna di loro, senza muoversi, scrutò il viso delle sue compagne cercando  di
individuare la colpevole dal suo imbarazzo.  Si  prosternarono  tutte  quante  e
pregarono in silenzio. Dopo un lasso di tempo abbastanza lungo, la priora intonò
a bassa voce il Veni Creator e  le  monache  ripresero  a  bassa  voce  il  Veni
Creator. Poi, dopo un altro momento di silenzio, la superiora batté sul leggio e
tutte quante uscimmo.
        Vi lascio immaginare il mormorio che si levò dalla piccola comunità “Chi
è? chi non è? che cosa ha fatto? Che cosa vuol fare?...” Gli  interrogativi  non
durarono a lungo. La mia domanda cominciava a fare scalpore in società; ricevevo
continuamente visite: chi veniva a rimproverarmi, chi a darmi consigli,  chi  mi
approvava, chi mi biasimava. Avevo un solo modo per giustificarmi agli occhi  di
tutti, ed era di metterli al corrente della condotta dei miei genitori.  Non  vi
sarà difficile immaginare con quale  riserbo  lo  dovessi  fare.  Solo  a  poche
persone, che mi restarono sinceramente affezionate, e al signor Manouri, che  si
era incaricato di patrocinare la mia causa, potevo confidarmi a cuore aperto.
        Quando ero spaventata dai tormenti che mi  venivano  minacciati,  quella
segreta, dove già una volta ero stata trascinata, tornava a presentarsi alla mia
immaginazione in tutto il suo orrore: conoscevo bene il  furore  delle  monache.
Comunicai i miei timori al signor Manouri ed egli mi disse:
         “È  impossibile  evitarvi  ogni  genere  di  afflizioni:   ne   dovrete
sopportare, e sicuramente vi siete preparata. Dovete armarvi di pazienza e farvi
coraggio con la speranza che finiranno. Quanto alla segreta, vi prometto che non
ci tornerete mai più; ci penserò io...”
        Pochi giorni dopo, infatti, presentò alla superiora  l’ordine  di  farmi
comparire ogni  qualvolta  fosse  stato  richiesto.  Il  giorno  seguente,  dopo
l’uffizio, fui ancora raccomandata alle preghiere pubbliche della  comunità:  le
monache pregarono in silenzio, e a voce bassa fu intonato  lo  stesso  inno  del
giorno prima. Stessa cerimonia il terzo giorno  con  la  differenza  che  mi  fu
ordinato di rimanere in piedi in  mezzo  al  coro,  e  che  furono  recitate  le
preghiere per gli agonizzanti, le litanie dei santi, cui rispondeva  ogni  volta
la formula ora pro ea. Il quarto giorno fu la volta di una messa  in  scena  che
caratterizzava alla perfezione l’indole  bizzarra  della  superiora.  Alla  fine
dell’uffizio, mi fecero sdraiare in una  bara  in  mezzo  al  coro:  misero  dei
candelieri e un’acquasantiera ai lati della bara; mi coprirono con un sudario  e
recitarono l’uffizio dei morti. Dopo di  che  ogni  monaca,  nell’andarsene,  mi
asperse di acqua benedetta, dicendo “Requiescant in  pace”.  Bisogna  capire  la
lingua dei conventi per cogliere la minaccia racchiusa in queste ultime  parole.
Due monache sollevarono il sudario e  mi  lasciarono  lì,  con  la  pelle  tutta
bagnata dall’acqua con la quale mi avevano malignamente innaffiata. Gli abiti mi
si asciugarono addosso; non avevo di che cambiarmi.
        Questa mortificazione fu seguita da un’altra. La comunità si riunì;  fui
guardata come una reproba; il passo che avevo compiuto fu tacciato di apostasia;
a tutte le suore fu proibito di parlarmi,  di  soccorrermi,  di  avvicinarmi,  e
persino di toccare le cose che fossero  servite  a  me.  Questi  ordini  vennero
rigorosamente eseguiti. I nostri corridoi sono stretti e  in  alcuni  punti  due
persone si incrociano a malapena: se mentre camminavo per i corridoi una  monaca
fosse venuta nella mia direzione, tornava sui suoi passi oppure  si  schiacciava
contro la parete, tenendosi il velo e l’abito per paura che mi  sfiorassero.  Se
dovevano ricevere qualcosa da me, io la posavo per terra e  loro  la  prendevano
con una pezzuola; se  avevano  qualcosa  da  darmi,  me  la  buttavano.  Se  per
disgrazia mi avevano toccato, si credevano insozzate e andavano a confessarsi  e
a farsi assolvere dalla superiora. È stato  detto  che  l’adulazione  è  vile  e
bassa, ma è anche assai crudele e ingegnosa allorché si tratta di piacere grazie
alle mortificazioni che inventa.
        Quante volte mi sono ricordata le parole della mia celeste superiora  de
Moni:
        “Tra tutte queste creature che vedete intorno a me,  così  docili,  così
innocenti, così dolci, sappiate, figliola mia, che non ve n’è  quasi  una  sola,
no, quasi una sola, di cui non possa fare una bestia feroce; strana  metamorfosi
che è tanto più facile subire quanto più si è entrate giovani  in  una  cella  e
perciò meno si conosce la vita di società. Questo discorso vi stupisce.  Dio  vi
guardi dallo sperimentarne la verità, suor Susanna, la buona monaca è quella che
porta nel chiostro qualche grave colpa da espiare.”
        Mi fu tolto ogni incarico. In chiesa, gli stalli a sinistra e  a  destra
del mio venivano lasciati vuoti. Nel refettorio, ero sola a una tavola e nessuno
mi serviva; ero costretta ad andare in cucina per chiedere la mia  porzione.  La
prima volta la suora cuciniera mi gridò:
        “Non entrate, state lontana...”
        Le obbedii.
        “Che cosa volete?”
        “Da mangiare.”
        “Da mangiare? Non siete degna di vivere.”
        Qualche volta me ne andavo e passavo la giornata senza mangiare  niente.
Qualche volta insistevo e allora mi mettevano sulla soglia certe vivande che  ci
si sarebbe vergognati a presentare a delle bestie; io le raccattavo piangendo  e
me ne andavo. Se mi capitava di arrivare per ultima  alla  porta  del  coro,  lo
trovavo chiuso. Allora mi inginocchiavo e aspettavo  la  fine  dell’uffizio.  Se
trovavo chiusa la porta del giardino, me ne tornavo nella  mia  cella.  Intanto,
mentre le mie forze andavano declinando per il cibo scarso, la  cattiva  qualità
di quello che prendevo  e  ancor  più  per  il  dolore  che  provavo  nel  dover
sopportare così innumerevoli e reiterate manifestazioni di inumanità, sentii che
se avessi persistito nella sofferenza senza protestare, non avrei mai  visto  la
fine del mio processo. Mi decisi perciò a  parlare  alla  superiora;  ero  mezza
morta di paura e ciò nonostante andai a bussare pian piano alla sua porta. Aprì,
e nel vedermi arretrò di diversi passi, gridandomi:
        “Allontanatevi, apostata!”
        Indietreggiai.
        “Ancora...”
        Indietreggiai ancora.
        “Che cosa volete?”
        “Giacché né Dio, né gli uomini mi hanno  condannata  a  morire,  voglio,
signora, che ordiniate di lasciarmi vivere.”
        “Vivere,” mi disse, ripetendomi le parole  della  suora  cuciniera,  “ne
siete forse degna?”
        “Dio soltanto può saperlo, ma vi avverto che se mi rifiutano  ancora  il
cibo, sarò costretta a fare le mie rimostranze a coloro che mi hanno presa sotto
la loro protezione. Sono qui soltanto di passaggio, in attesa che vengano decisi
la mia sorte e il mio stato.”
         “Andatevene,”  mi  disse,  “non  sporcatemi  con  i   vostri   sguardi;
provvederò.”
        Me ne andai, ed ella sbatté con violenza la porta. È probabile che abbia
dato degli ordini, ma non per questo fui trattata meglio. Le monache si facevano
un vanto di disobbedire; mi gettavano le vivande più grossolane e per di più  le
insozzavano di cenere e di ogni sorta di immondizie.

        Questa fu la mia esistenza finché durò il processo. Il parlatorio non mi
fu del tutto vietato; non potevano togliermi la libertà di conferire con i  miei
giudici o con il mio avvocato. Questi fu addirittura costretto alle minacce  per
poter incontrarmi. Una monaca mi accompagnava e protestava  se  parlavo  a  voce
bassa; si impazientiva se restavo troppo a lungo; mi interrompeva, mi  smentiva,
mi  contraddiceva,  ripeteva  i  miei  discorsi  alla  superiora,  li  travisava
istillando veleno, attribuendomi propositi  che  non  avevo  mai  espresso.  Che
altro? Giunsero al punto di derubarmi, di spogliarmi, togliermi sedie, coperte e
materassi. Non mi davano più biancheria; gli abiti mi cadevano a brandelli,  non
avevo quasi più calze, né scarpe. A stento riuscivo ad ottenere dell’acqua;  più
di una volta sono stata costretta ad attingerla io stessa  dal  pozzo,  da  quel
pozzo di cui vi ho parlato; mi ruppero i vasi e così fui ridotta a bere  l’acqua
che avevo tirato su senza poterla portar via. Se passavo sotto le finestre,  ero
costretta a scappar via per non  correre  il  rischio  di  buscarmi  addosso  le
immondizie buttate dalle celle. Alcune monache mi hanno sputato  sul  viso.  Ero
diventata di una sporcizia ripugnante. Temendo che me ne lamentassi con i nostri
direttori spirituali mi proibirono di confessarmi.
        Un giorno di festa solenne - era, credo, il giorno dell’Ascensione -  mi
bloccarono la serratura e non potei andare a messa. Forse sarei mancata a  tutte
le altre funzioni senza la visita del  signor  Manouri  al  quale  in  un  primo
momento fu detto che nessuno sapeva che cosa ne fosse stato di me, che non mi si
vedeva più, e che non osservavo più nessuna pratica religiosa. Dopo innumerevoli
sforzi, riuscii tuttavia a far saltare la serratura e mi recai  alla  porta  del
coro che trovai chiusa come accadeva ogni volta che non arrivavo tra  le  prime.
Ero sdraiata per terra, con la testa e la schiena appoggiate contro un muro e le
braccia incrociate  sul  petto,  quando  terminò  la  funzione  e  le  suore  si
apprestarono ad uscire. La prima si fermò di botto mentre  le  altre  arrivavano
dietro di lei. La superiora immaginò subito di che cosa si trattasse e disse:
        “Camminatele sopra: è soltanto un cadavere.”
        Alcune obbedirono e mi calpestarono;  altre  furono  meno  disumane,  ma
nessuna osò tendermi la mano per rialzarmi. Mentre ne ero  assente,  mi  tolsero
dalla cella l’inginocchiatoio, il ritratto della  nostra  fondatrice,  le  altre
immagini pie, il crocifisso; non mi rimase che quello appeso al  rosario  e  che
non mi fu lasciato a lungo. Vivevo dunque tra quattro muri nudi, in  una  camera
senza porta, senza sedie, in piedi o su  un  pagliericcio,  senza  nessun  vaso,
nemmeno quelli più necessari, costretta a  uscire  di  notte  per  soddisfare  i
bisogni naturali, accusata la mattina di disturbare il riposo del  convento,  di
girovagare, di stare impazzendo. Poiché la mia cella non si poteva più chiudere,
entrarono di notte facendo  un  gran  baccano.  Gridando  smuovevano  il  letto,
rompevano le finestre, mi terrorizzavano in mille  modi.  Il  rumore  saliva  al
piano di sopra, scendeva al piano di sotto e quelle  che  non  prendevano  parte
alla gazzarra dicevano che in camera mia accadevano  cose  strane;  che  avevano
sentito voci lugubri, grida, sbattere di catene e che io  parlavo  continuamente
con fantasmi e spiriti maligni; che dovevo aver fatto un patto con il demonio  e
che quanto prima si sarebbe dovuto evitare il mio corridoio.
        In una comunità vi sono anime semplici. Sono addirittura la maggioranza.
Queste credevano a ciò che si diceva loro, non osavano passare davanti alla  mia
porta e nella loro immaginazione distorta mi vedevano con una faccia ripugnante,
si facevano il segno della croce quando mi incontravano e fuggivano gridando:
        “Vattene, Satana! Mio Dio, aiutatemi!...”
        Una volta accadde che una delle più giovani fosse in fondo al corridoio,
che io andassi verso di lei, e che non ci fosse più modo di evitarmi.  Fu  colta
da un terrore indicibile; dapprima volse il viso contro il muro, mormorando  con
voce tremante:
        “Dio mio! Dio mio! Gesù! Maria!”
        Intanto io seguitavo ad andare avanti: sentendomi vicina,  si  copre  il
viso con le mani per paura di vedermi,  si  butta  tutta  dalla  mia  parte,  si
precipita con violenza tra le mie braccia, ed esclama:
        “Aiuto! Aiuto! Misericordia! Sono perduta! Suor  Santa  Susanna  non  mi
fate del male; suor Santa Susanna, abbiate pietà di me...”
        Così dicendo, eccola che cade mezza morta  per  terra.  Alle  sue  grida
accorrono, la portano via.
        Non vi so dire come fu travisato quest’episodio. Se ne fece  una  storia
delle più criminose: si disse che il demone dell’impurità si era impadronito  di
me. Mi furono attribuiti  intenti,  azioni  che  non  oso  nominare,  oltre  che
desideri anormali ai quali fu attribuito l’evidente disordine in cui  era  stata
trovata la giovane monaca.
        A onor del vero, io non  sono  un  uomo  e  ignoro  che  cosa  si  possa
immaginare di una donna e di un’altra donna insieme, e ancor meno di  una  donna
sola. Tuttavia, dato che il mio letto era senza cortine e per di più  si  poteva
entrare in camera mia a qualunque ora, che posso dirvi, signore?  Con  tutto  il
loro ritegno esteriore, con la modestia dei loro sguardi, la castità della  loro
espressione, bisogna proprio che quelle donne abbiano il cuore davvero corrotto.
Se non altro esse sanno che si possono  commettere  da  sole  azioni  disoneste,
mentre io non lo so; perciò non ho mai capito bene di che cosa  mi  accusassero,
ed esse si esprimevano in termini così oscuri che non ho mai saputo che cosa  ci
fosse da rispondere.
        Se dovessi riferire nei particolari quelle persecuzioni,  non  la  farei
più finita. Ah, signore! se avete dei figli, la mia sorte vi  insegni  che  cosa
preparereste loro se lasciaste che entrassero in religione senza  manifestare  i
segni della vocazione più salda e più sicura. Come si è ingiusti nel  mondo!  Si
permette a un figlio di disporre della propria libertà in un’età in cui non  gli
è consentito disporre  di  uno  scudo.  Uccidete  vostra  figlia  piuttosto  che
imprigionarla in un chiostro contro la sua volontà. Quante volte  ho  desiderato
che mia madre mi avesse soffocata alla nascita. Sarebbe stata meno  crudele.  Ci
credereste che mi tolsero il breviario e che mi proibirono di pregare Dio?  Come
ben potete immaginare, non obbedii:  era,  ahimé,  la  mia  unica  consolazione.
Levavo le mani al cielo, gridavo, e osavo sperare che le mie grida fossero udite
dal solo essere che vedeva tutta la mia miseria. Ascoltavano alla mia  porta,  e
un giorno che mi rivolgevo a lui con il cuore pieno d’ambascia e invocavo il suo
aiuto, mi dissero:
        “Chiamate Dio invano, non c’è più Dio per voi. Morite disperata, e siate
dannata..”
        Altre aggiunsero:
        “Così sia per l’apostata! Così sia per lei!”
        Ma ecco un episodio che vi sembrerà ben più strano di tutti  gli  altri.
Non so se si tratti di cattiveria o illusione; comunque sia, benché non  facessi
niente che  rivelasse  una  mente  malata,  e  a  maggior  ragione  uno  spirito
ossessionato dalle forze infernali, discussero fra loro se non fosse il caso  di
farmi esorcizzare, e all’unanimità fu concluso che avevo rinunciato al battesimo
e alla cresima, che i demoni mi possedevano e mi tenevano lontana  dagli  uffizi
divini. Un’altra soggiunse che durante certe preghiere io  digrignavo  i  denti,
che in chiesa ero percorsa da un fremito e che all’elevazione del Santissimo  mi
torcevo le braccia. Un’altra ancora asserì ch’io calpestavo il  crocifisso,  che
non portavo più il rosario (che mi avevano rubato), e  proferivo  bestemmie  che
non oso ripetervi. Tutte quante  affermarono  che  in  me  accadevano  cose  non
naturali e che si doveva avvertire il gran vicario. Così fu fatto.
        Il gran vicario era un certo monsignor Hébert, uomo anziano e di  grande
esperienza, brusco di modi, ma giusto e illuminato. Gli fu descritto nei  minimi
particolari il disordine del convento. Era sicuramente un grande disordine e  se
io ne ero la  causa,  era  una  causa  davvero  innocente.  Come  di  certo  voi
immaginerete, nel rapporto che gli fu consegnato, non vennero tralasciati i miei
vagabondaggi notturni, le mie assenze dal coro, lo strepito nella mia cella, ciò
che l’una aveva visto, ciò che l’altra aveva sentito, la mia avversione  per  le
cose  sante,  le  bestemmie,  gli  atti  osceni  che   mi   venivano   imputati.
Dell’avventura della giovane monaca,  ne  fecero  poi  quello  che  vollero.  Si
trattava di accuse così gravi e così numerose, che con tutto il suo buon  senso,
monsignor Hébert non poté fare a meno di prestarvi fede almeno in  parte  e  non
credere che vi fosse una larga parte di verità. La cosa  gli  pareva  abbastanza
importante per occuparsene di persona;  fece  annunciare  la  propria  visita  e
infatti giunse scortato da due giovani ecclesiastici addetti alla sua persona  e
che lo aiutavano nelle sue difficili mansioni.
        Qualche giorno prima, di notte, sentii che qualcuno entrava furtivamente
nella mia cella. Non dissi niente e attesi che mi venisse rivolta la parola. Una
voce bassa e tremante mi chiamava:
        “Suor Santa Susanna, dormite?”
        “No, non dormo. Chi è?”
        “Sono io.”
        “Chi voi?”
        “La vostra amica che muore di paura e rischia di perdersi per  darvi  un
consiglio forse inutile. Statemi a sentire: domani, o dopo, ci  sarà  la  visita
del gran vicario; sarete  accusata:  preparatevi  a  difendervi.  Addio:  fatevi
coraggio e il Signore sia con voi.”
        Ciò detto, si allontanò leggera come un’ombra.
        Come vedete, vi sono dunque anche nei conventi anime compassionevoli che
non si lasciano indurire.
        Intanto il mio processo seguiva il suo  corso  suscitando  un  interesse
appassionato. Una folla di persone, di  ogni  stato,  sesso  e  condizione,  che
nemmeno conoscevo, s’interessò alla mia sorte e intercedette in mio favore.  Voi
foste fra questi, e forse la storia dei mio processo vi è più  nota  che  a  me,
giacché verso la fine non potevo più conferire con il signor Manouri. Gli  venne
detto che ero malata. Sospettò che lo stessero ingannando ed ebbe paura  che  mi
avessero gettato in una segreta.  Si  rivolse  all’arcivescovado,  dove  non  si
degnarono di dargli ascolto. Si era insinuato che fossi pazza, o forse  qualcosa
di peggio. Si  rivolse  ai  giudici;  insisté  sull’esecuzione  dell’ordine  già
intimato alla superiora di farmi comparire, viva o morta, quando le fosse  stato
intimato. I giudici secolari  interpellarono  i  giudici  ecclesiastici;  questi
ultimi previdero le conseguenze che l’incidente avrebbe  potuto  avere,  se  non
fossero stati presi subito dei provvedimenti e fu  questo  che,  verosimilmente,
accelerò la visita del gran vicario. Quei signori infatti,  stufi  delle  eterne
beghe di convento, di solito non si  affrettano  ad  immischiarsene:  sanno  per
esperienza che la loro autorità viene sempre elusa e compromessa.
        Approfittai del consiglio della mia amica per invocare l’aiuto  di  Dio,
rassicurare la mia anima e preparare la mia difesa. Non chiesi  al  cielo  altro
che la fortuna di essere interrogata ed ascoltata senza parzialità; la  ottenni,
ma ora sentirete a quale prezzo.
        Se era nel mio interesse comparire davanti al mio  giudice  innocente  e
savia, era altrettanto importante per la mia superiora che mi vedessero cattiva,
posseduta dal demonio, colpevole e  pazza.  Perciò,  mentre  io  raddoppiavo  in
fervore e in preghiere, le mie consorelle raddoppiarono in malvagità; mi dettero
da  mangiare  quanto  bastava  per  non  morire  di  fame;  mi  subissarono   di
mortificazioni; moltiplicarono intorno a me i motivi di terrore; mi privarono di
ogni riposo notturno; misero in opera tutto quel che  può  minare  la  salute  e
turbare la mente; usarono nella crudeltà una raffinatezza di cui non avete idea.
Giudicate voi stessi da questo episodio. Un giorno che uscivo  dalla  mia  cella
per andare in chiesa o da qualche altra parte, vidi delle  molle  per  terra  in
mezzo al corridoio; mi chinai per raccattarle e metterle in modo che  colei  che
le aveva smarrite potesse ritrovarle facilmente. La luce mi impedì di vedere che
erano arroventate; le presi  in  mano,  e  questo  bastò  perché  nel  lasciarle
ricadere mi portassero via tutta la pelle dal palmo della mano nuda.  Di  notte,
nei posti dove dovevo passare, mettevano degli ostacoli per terra o  all’altezza
della testa; mi sono ferita cento volte. Non so come ho fatto a  non  uccidermi.
Non avevo niente per farmi luce ed ero costretta a  procedere  tremante  con  le
mani protese. Sotto i piedi mi seminavano bicchieri rotti.
        Ero ben decisa a raccontare tutto e riuscii a mantenere più  o  meno  la
parola. Trovavo chiusa la porta  delle  latrine  ed  ero  costretta  a  scendere
diversi piani e a correre in fondo al  giardino  quando  la  porta  era  aperta;
quando non lo era... Ah, signore, come sono cattive le donne recluse quando sono
sicure di assecondare l’odio della loro  superiora  e  credono  di  servire  Dio
gettandovi nella disperazione! Era tempo che arrivasse l’arcidiacono; era  tempo
che finisse il mio processo.

        Ecco il momento più terribile della mia vita. Dovete  pensare,  signore,
che io ignoravo assolutamente sotto quali tinte ero stata dipinta agli occhi  di
questo ecclesiastico, e che  egli  arrivava  con  la  curiosità  di  vedere  una
fanciulla posseduta dal  demonio  o  che  fingeva  di  esserlo.  Credettero  che
soltanto un forte spavento potesse mostrarmi in quello stato,  ed  ecco  in  che
modo si comportarono per procurarmelo.
        Il giorno della sua visita; di primo mattino, la superiora  entrò  nella
mia cella; la accompagnavano tre monache, di cui una  portava  un’acquasantiera,
un’altra un crocifisso, e la terza delle corde. Con voce forte e minacciosa,  la
superiora mi disse: “Alzatevi... mettetevi in ginocchio e raccomandate l’anima a
Dio.”
        “Signora,” le chiesi, “prima di obbedirvi, potrei chiedervi che cosa  ne
sarà di me, che cosa avete deciso e che cosa devo chiedere a Dio?”
        Un sudore freddo mi inondò tutta; tremavo, sentivo che le  ginocchia  mi
si piegavano; guardavo con terrore le tre monache fatali. Erano in  piedi  l’una
accanto all’altra, con il volto cupo, le labbra  strette  e  gli  occhi  chiusi.
Dalla mia bocca erano uscite  parole  rotte  dallo  spavento;  a  giudicare  dal
silenzio, credetti che non mi avessero sentita; perciò, con voce debole e che si
andava spegnendo, dissi:
        “Quale grazia devo chiedere a Dio?”
        Mi risposero:
        “Chiedetegli perdono per i peccati di tutta la vostra  vita;  parlategli
come se foste sul punto di comparire dinanzi a lui.”
        Nel sentire queste parole  credetti  che  avessero  tenuto  consiglio  e
avessero preso la decisione di sbarazzarsi di me. Avevo sentito dire che a volte
era questa la pratica che vigeva nei  conventi  di  certi  monaci:  giudicavano,
condannavano, suppliziavano. Non credevo che  fosse  mai  stata  esercitata  una
giurisdizione così disumana in nessun convento di donne, ma erano tante le  cose
che non avevo indovinato. Eppure vi accadevano!  All’idea  della  morte  vicina,
volli gridare, ma dalla mia bocca aperta non usciva alcun suono. Tesi  verso  la
superiora le braccia  supplichevoli.  Mi  sentii  venir  meno  e  il  mio  corpo
vacillava all’indietro. Caddi, ma la mia caduta non fu violenta. In quei momenti
di angoscia, in cui insensibilmente le forze ci abbandonano, le  membra  cedono,
si  afflosciano,  per  così  dire,   le   una   sulle   altre   e   la   natura,
nell’impossibilità di sostenersi, sembra che cerchi di  venir  meno  mollemente.
Persi conoscenza e sentimento;  sentivo  soltanto  ronzare  intorno  a  me  voci
confuse e lontane. Non so se fossero le monache a parlare o le  mie  orecchie  a
ronzare; io, in ogni modo, non sentivo che quel brusio ininterrotto. Ignoro  per
quanto tempo  rimasi  in  quello  stato,  ma  ne  riemersi  per  una  sensazione
improvvisa di fresco che mi provocò una leggera  convulsione  e  mi  strappò  un
profondo sospiro. Ero intrisa d’acqua che colava a terra  dai  miei  abiti:  era
l’acqua di una grande acquasantiera  che  mi  avevano  rovesciata  addosso.  Ero
sdraiata sul fianco, stesa in quell’acqua, con la bocca semiaperta e  gli  occhi
spenti e socchiusi. Cercai di aprirli e di guardare,  ma  mi  sembrò  di  essere
avvolta in un’aria spessa attraverso la quale intravedevo soltanto un ondeggiare
di vesti cui cercavo  inutilmente  di  aggrapparmi.  Facevo  forza  sul  braccio
libero. Avrei voluto alzarlo, ma lo  sentivo  troppo  pesante.  A  poco  a  poco
diminuì quella mia estrema debolezza; mi sollevai, appoggiai la  schiena  contro
il muro. Avevo le mani nell’acqua, la testa reclinata sul petto; dalle labbra mi
usciva un lamento inarticolato, spezzato e doloroso.  Quelle  quattro  donne  mi
guardavano con un’aria improntata a necessità, a inflessibilità, che mi toglieva
il coraggio di implorarle. La superiora disse:
        “Mettetela in piedi.”
        Mi presero sotto le ascelle e mi sollevarono. La superiora soggiunse:
        “Dal momento che non vuole raccomandarsi a Dio, peggio per  lei,  sapete
che cosa vi resta da fare; procedete...”
         Credetti  che  le  corde  che  avevano  portato  fossero  destinate   a
strangolarmi. Le guardai, e i miei occhi si riempirono  di  lacrime.  Chiesi  il
crocifisso da baciare; me lo rifiutarono. Chiesi le  corde  da  baciare;  me  le
presentarono. Mi chinai, presi lo scapolare della superiora e lo baciai.
        Dissi:
        “Signore, abbiate pietà di  me!  Care  sorelle,  cercate  di  non  farmi
soffrire.”
        Offrii il collo.
        Non potrei dirvi che cosa ne fu di me, né che cosa mi fecero: sono certa
che coloro che vengono condotti al supplizio, come io credevo di  esserlo,  sono
morti prima di essere giustiziati. Mi ritrovai sul pagliericcio che  mi  serviva
da letto, con le braccia legate dietro la schiena, seduta, e un gran  crocifisso
di ferro sulle mie ginocchia...
        Capisco, signor marchese, tutto il male che  vi  faccio;  ma  voi  avete
voluto sapere se meritavo veramente la compassione che mi aspettavo da voi.
        Fu in quel momento che sentii la superiorità della  religione  cristiana
su tutte le religioni del mondo; quale profonda saggezza in quella che la  cieca
filosofia chiama la follia della croce. Nello stato in cui  mi  trovavo,  a  che
cosa mi sarebbe servita l’immagine di un legislatore felice e ricolmo di gloria?
Io vedevo l’innocente, con il fianco trafitto, la fronte incoronata di spine, la
mani e i piedi forati dai chiodi, mentre spirava tra le sofferenze, e mi dicevo:
“Ecco il mio Dio, e io oso lamentarmi!...” Mi aggrappai a  quell’idea  e  sentii
che la consolazione mi rinasceva nel cuore; riconobbi la vanità della vita e fui
troppo felice di perderla prima di avere avuto il tempo di moltiplicare  le  mie
colpe. Intanto però contavo i miei anni, constatavo di avere  appena  diciannove
anni, e sospiravo. Ero  troppo  indebolita,  troppo  abbattuta,  perché  il  mio
spirito potesse levarsi al di sopra dei terrori della morte;  in  piena  salute,
credo che avrei potuto risolvermi con più coraggio.
        Nel frattempo tornarono la superiora e le sue discrete  e  mi  trovarono
con più presenza di spirito di quanto non si sarebbero  aspettate  e  di  quanto
avrebbero voluto. Mi misero in piedi, mi velarono la faccia, poi due di loro  mi
presero sotto le ascelle, mentre una terza mi spingeva da dietro e la  superiora
mi ordinava di camminare. Andavo senza  sapere  dove  andassi,  ma  credendo  di
andare al supplizio. E intanto mi dicevo:
        “Mio Dio, abbiate pietà di me! Mio Dio, non  mi  abbandonate!  Mio  Dio,
perdonatemi, se vi ho offeso!”
        Entrai in chiesa. Il gran vicario aveva celebrato la messa. La  comunità
vi era tutta radunata. Dimenticavo di dirvi che quando fui sulla  porta  le  tre
monache che mi conducevano mi stringevano da vicino, mi spingevano con violenza,
sembravano tutte indaffarate intorno a me e  mi  trascinavano  per  le  braccia,
mentre altre mi trattenevano da dietro per dare l’impressione che  resistessi  e
che mi ripugnasse entrare in chiesa, cosa che non era affatto vera. Mi portarono
verso i gradini  dell’altare;  facevo  fatica  a  stare  in  piedi,  e  loro  mi
spingevano in ginocchio come se recalcitrassi e mi trattenevano come  se  avessi
avuto l’intenzione di fuggire. Cantarono  il  Veni  Creator,  venne  esposto  il
Santissimo, venne impartita la benedizione. Al momento della benedizione, quando
ci si inchina in segno di venerazione, quelle che mi avevano  afferrata  per  le
braccia mi curvarono quasi di forza mentre le altre mi premevano le  mani  sulle
spalle. Sentivo quei diversi movimenti, ma non mi riusciva indovinare lo  scopo.
Infine tutto si fece chiaro.
        Dopo la benedizione, il gran  vicario  si  tolse  i  paramenti,  rivestì
soltanto la cotta e la stola e si avvicinò ai gradini dell’altare  dove  io  ero
inginocchiata. I due ecclesiastici gli stavano a fianco e tutti e tre, guardando
dalla mia parte, volgevano  le  spalle  all’altare  sul  quale  era  esposto  il
Santissimo. Il gran vicario mi si avvicinò e mi disse:
        “Alzatevi, suor Susanna.”
        Le monache  che  mi  trattenevano  mi  alzarono  bruscamente,  altre  mi
circondavano e mi tenevano  per  la  vita  come  se  avessero  avuto  paura  che
scappassi.
        “Slegatela.”
        Non gli obbedirono. Finsero di  trovare  poco  opportuno  e  addirittura
pericoloso lasciarmi libera, ma vi ho detto che quello era  un  uomo  deciso,  e
infatti ripeté con voce ferma e dura:
        “Slegatela.”
        Obbedirono. Non appena ebbi le mani libere, emisi  un  lamento  acuto  e
doloroso che lo fece impallidire; quelle monache ipocrite che erano vicino a  me
si  scostarono  come  spaventate.  Si  riprese;  le  monache  si  riavvicinarono
tremando; io rimasi immobile mentre egli mi diceva:
        “Che cosa avete?”
        Per tutta risposta gli mostrai le braccia: la corda con la quale  me  le
avevano legate mi era penetrata profondamente nella carne che era tutta violetta
per il sangue che non circolava quasi più e si era travasato.  Credette  che  mi
lamentassi per il dolore improvviso del sangue  che  ricominciava  a  circolare.
Disse:
        “Toglietele il velo.”
        Era stato cucito in diversi punti senza che me ne  accorgessi,  di  modo
che fu necessario usare ancora violenza per una cosa che non  l’avrebbe  affatto
richiesta; bisognava che quel prete mi vedesse ossessionata, invasata o pazza. A
forza di tirare, il filo si ruppe in più punti, mentre il velo o il mio abito si
strapparono da altre parti. Così mi videro.
        Il mio viso è interessante; il profondo dolore l’aveva  alterato,  senza
togliergli niente del suo carattere; la mia voce  ha  un  timbro  che  tocca  il
cuore: si sente che la mia espressione  è  quella  della  verità.  Tutte  queste
qualità messe insieme produssero una  profonda  impressione  di  pietà  sui  due
giovani  assistenti  dell’arcidiacono.  Lui,  invece,  era  estraneo  a   questi
sentimenti: era giusto, ma poco sensibile; apparteneva al novero di  coloro  che
per loro sventura sono nati per praticare la virtù senza avvertirne la dolcezza;
fanno il bene per un certo senso dell’ordine, così come ragionano. Prese un capo
della stola e posandomela sulla testa mi disse:
        “Suor Susanna, credete in Dio Padre, Figliolo e Spirito Santo?”
        Risposi:
        “Credo.”
        “Credete nella nostra santa madre Chiesa?”
        “Credo.”
        “Rinunciate a Satana e alle sue opere?”
        Invece di rispondere, con un gran grido feci un movimento improvviso  in
avanti e la stola non fu più a contatto  della  mia  testa.  Il  vicario  rimase
turbato, i suoi compagni impallidirono; tra le monache, alcune  fuggirono  e  le
altre che erano nei loro stalli si alzarono in un gran tumulto. Fece  cenno  che
stessero tranquille e intanto mi guardava e si aspettava di vedere  qualcosa  di
straordinario. Lo rassicurai dicendo:
        “Non è niente, signore. Una di queste suore mi ha punto con qualcosa  di
aguzzo.”
        E alzando gli occhi e mani  al  cielo  aggiunsi  versando  un  fiume  di
lacrime:
        “Mi hanno ferita nel momento in cui mi chiedevate se rinunciavo a Satana
e alle sue opere, e capisco bene perché l’hanno fatto.”
        Per bocca della  superiora  tutte  protestarono  vivamente  che  non  mi
avevano toccata. L’arcidiacono mi impose di  nuovo  la  stola  sulla  testa;  le
monache stavano per riavvicinarsi, ma egli fece cenno che si  scostassero  e  di
nuovo mi chiese se rinunciavo a Satana e alle sue opere. Gli risposi fermamente:
        “Rinuncio, rinuncio!”
        Si fece portare un crocifisso e me lo dette da baciare;  lo  baciai  sui
piedi, sulle mani e sulla piaga del costato. Mi ordinò di adorarlo ad alta voce:
io lo posai per terra e dissi in ginocchio:
        “Vi adoro, mio Dio, mio salvatore, voi che siete morto sulla croce per i
miei peccati e per tutti quelli del genere  umano;  concedetemi  il  merito  dei
vostri patimenti; fate scendere su di me una goccia del sangue che avete versato
e fate ch’io sia purificata. Mio Dio, perdonatemi come io perdono a tutti i miei
nemici.”
        Poi mi disse:
        “Fate un atto di fede”, e lo feci..
        “Fate un atto d’amore”, e lo feci..
        “Fate un atto di speranza”, e lo feci..
        “Fate un atto di carità”, e lo feci.
        Non ricordo con  quali  parole  li  avessi  formulati,  ma  ritengo  che
sembrassero patetiche, giacché strappai dei singhiozzi ad alcune  monache,  feci
versare lacrime ai due giovani ecclesiastici e l’arcidiacono stupito  mi  chiese
da dove avessi tratto le preghiere che avevo appena recitato. Gli risposi:
        “Dal fondo del cuore; sono questi i miei pensieri e i  miei  sentimenti.
Chiamo a testimone Dio che ci ascolta ovunque ed è presente  su  questo  altare.
Sono cristiana, sono  innocente;  se  ho  commesso  qualche  colpa,  lo  sa  Dio
soltanto, e lui soltanto ha il diritto di chiedermene conto e di punirmi...”
        A queste parole, il gran  vicario  lanciò  alla  superiora  uno  sguardo
terribile.
        Il resto di  quella  cerimonia  in  cui  la  maestà  di  Dio  era  stata
insultata, le cose più sante profanate e il  ministro  della  Chiesa  ingannato,
giunse alla fine e le monache si ritirarono. Con me rimasero la  superiora  e  i
giovani ecclesiastici. L’arcidiacono si sedette, e tirando fuori il rapporto che
gli era stato presentato contro di me, lo lesse ad alta voce e mi interrogò  sui
capi d’accusa che conteneva.
        “Perché non vi confessate?” mi chiese.
        “Perché me lo impediscono.”
        “Perché non vi avvicinate ai Sacramenti?”
        “Perché me lo impediscono.”
        “Perché non assistete né alla messa, né alle funzioni religiose?”
        “Perché me lo impediscono.”
        La superiora volle prendere la parola, ma con quel suo tono particolare,
il gran vicario le disse:
        “Tacete, signora... Perché, di notte, uscite dalla vostra cella?”
        “Perché mi hanno privato dell’acqua, della  brocca  per  l’acqua,  e  di
tutti i vasi necessari ai bisogni naturali.”
        “Perché di notte si sente rumore nel vostro  corridoio  e  nella  vostra
cella?”
        “Perché fanno di tutto per togliermi il riposo.”
        La superiora volle parlare ancora; per la seconda volta il gran  vicario
le disse:
         “Vi  ho  già  detto  di   tacere,   signora;   rispondete   quando   vi
interrogherò... Che cos’è questa storia di una monaca  che  vi  hanno  strappata
dalle mani e che è stata trovata riversa per terra nel corridoio?”
        “È a causa dell’orrore che le avevano ispirato nei miei riguardi.”
        “È amica vostra?”
        “No, signore.”
        “Non siete mai entrata nella sua cella?”
        “Mai.”
        “Non avete mai fatto niente di indecente a lei, o ad altre?”
        “Mai.”
        “Perché vi hanno legata?”
        “Lo ignoro.”
        “Perché la vostra cella non si chiude?”
        “Perché ho rotto la serratura.”
        “Perché l’avete rotta?”
         “Per  aprire  la  porta   e   assistere   alla   funzione   il   giorno
dell’Ascensione.”
        “Quel giorno, allora, vi hanno vista in chiesa?”
        “Sì, signore.”
        La superiora intervenne:
        “Non è vero, signore, tutta la comunità...”
        La interruppi:
        “...assicurerà che la porta del coro era chiusa; che  mi  hanno  trovata
prosternata davanti a quella porta e che  voi  avete  ordinato  di  calpestarmi.
Alcune lo hanno fatto; ma io le perdono e perdono voi, signora, per quell’ordine
che avete dato. Non sono venuta per accusare, ma per difendermi.”
        “Perché non avete né rosario, né crocifisso?”
        “Perché me li hanno tolti.”
        “Dov’è il vostro breviario?”
        “Me l’hanno tolto.”
        “Ma allora, in che modo pregate?”
        “Prego con il cuore e con  la  mente,  benché  mi  abbiano  proibito  di
pregare.”
        “Chi ve l’ha proibito?”
        “La signora.”
        La superiora si accingeva di nuovo a parlare.:
        “Signora, - le disse - è vero o falso che le avete proibito di  pregare?
Rispondete sì o no.”
        “Io credevo, e avevo motivo di credere...”
        “Non si tratta di questo; le avete, sì o no, proibito di pregare?”
        “Gliel’ho proibito, ma...”
        Stava per proseguire.
        “Ma,” riprese l’arcidiacono, “ma... Suor Susanna, perché siete  a  piedi
nudi?”
        “Perché non mi danno né calze, né scarpe.”
        “Perché la vostra biancheria  e  i  vostri  abiti  sono  così  logori  e
sporchi?”
        “Perché da più di tre mesi mi rifiutano  la  biancheria  e  perché  sono
costretta a coricarmi vestita.”
        “Perché vi coricate vestita?”
        “Perché non ho né tende, né  materasso,  né  coperte,  né  lenzuola,  né
camicia da notte.”
        “Perché non ne avete?”
        “Perché me li hanno tolti.”
        “Vi danno da mangiare?”
        “Lo domando.”
        “Allora non ve ne danno?”
        Tacqui, egli soggiunse:
        “È davvero incredibile un trattamento  così  severo  senza  che  abbiate
commesso qualche colpa che l’abbia meritato.”
        “La mia colpa sta nel non avere vocazione religiosa,  e  di  aver  fatto
ricorso contro dei voti che non ho pronunciato liberamente.”
        “La decisione in merito spetta  alle  leggi,  e  in  qualunque  modo  si
pronuncino,  voi  siete  intanto  tenuta  ad  adempiere  i  doveri  della   vita
religiosa.”
        “Nessuno, signore, li adempie con maggiore scrupolo.”
        “Dovete essere trattata alla stessa stregua delle vostre compagne.”
        “Non chiedo altro.”
        “Non avete da lamentarvi di nessuno?”
        “No, signore, ve l’ho detto,  non  sono  venuta  per  accusare,  ma  per
difendermi.”
        “Andate.”
        “Dove debbo andare, signore?”
        “Nella vostra cella.”
        Feci qualche passo, poi tornai e mi prosternai ai piedi della  superiora
e dell’arcidiacono.
        “Ebbene?” mi disse l’arcidiacono, “che c’è di nuovo?”
        Mostrandogli la testa tutta contusa, i piedi  insanguinati,  le  braccia
scarnite e piene di lividi, l’abito sporco e strappato, gli dissi: “Guardate!”

        Mi pare di sentirvi, signor marchese, voi e la maggior parte  di  coloro
che leggeranno queste memorie: “tanti orrori, così diversi,  così  ininterrotti!
Un susseguirsi di atrocità così raffinate in anime religiose!  È  inverosimile,”
direte voi e diranno gli altri. Sono d’accordo; ma tutto questo è vero, e  possa
il cielo, ch’io chiamo a  testimone,  giudicarmi  con  tutto  il  suo  rigore  e
condannarmi al fuoco eterno, se ho permesso alle calunnie  di  oscurare  una  di
queste righe con la sua ombra più leggera. Benché a  lungo  abbia  provato  come
l’avversione di una superiora rappresentasse uno stimolo potente alla perversità
naturale, soprattutto allorché questa può farsi un merito,  lodarsi  e  vantarsi
dei propri misfatti, il risentimento non mi impedirà di essere  giusta.  Più  ci
penso, e più mi convinco che ciò che mi accade non era ancora accaduto a nessuno
e forse mai più accadrà. Alla Provvidenza, le cui vie ci  sono  ignote,  piacque
una volta (e piacesse a Dio che fosse la prima e  l’ultima)  accumulare  su  una
sola sventurata tutte quante le crudeltà che per i suoi imperscrutabili  disegni
sono suddivise tra  la  moltitudine  infinita  delle  sventurate  che  l’avevano
preceduta in un chiostro e che sarebbero venute dopo di  lei.  Ho  sofferto,  ho
sofferto molto; ma mi sembra, e mi è sempre sembrato, che il destino  di  quelle
che mi perseguitano fosse da compiangersi molto più del mio.  Preferirei,  avrei
preferito morire piuttosto che cambiarmi con loro. Spero che per la vostra bontà
le mie sofferenze finiscano. Il ricordo, la  vergogna,  e  i  rimorsi  del  male
commesso non le abbandoneranno fino all’ora suprema.  Già  si  accusano  fra  di
loro, siatene certo; si accuseranno per tutta la vita, e il terrore scenderà con
loro nella tomba. Nonostante questo, signor marchese, la mia situazione presente
è deplorevole, la vita è un gran peso; sono una donna e il mio spirito è  debole
come in tutte quelle del mio sesso; Dio può abbandonarmi e non mi sento  più  né
la forza, né il coraggio di sopportare ancora quello che ho  sopportato.  Signor
marchese, state attento, un momento fatale potrebbe tornare;  quand’anche  foste
straziato dai rimorsi, quand’anche consumaste i vostri occhi a piangere sul  mio
destino, non per questo risalirei dall’abisso in cui fossi caduta.  Quell’abisso
si chiuderebbe per sempre su una disperata.

        “Andate,” mi disse l’arcidiacono.
        Uno dei due  ecclesiastici  mi  tese  la  mano  per  farmi  rialzare,  e
l’arcidiacono aggiunse:
        “Ho interrogato voi; ora interrogherò la vostra superiora, e non  uscirò
di qui prima che l’ordine sia stato ristabilito.”
        Mi ritirai. Il convento era in allarme; tutte  le  monache  erano  sulla
soglia delle loro celle e si parlavano da un capo all’altro del  corridoio.  Non
appena io apparvi, si ritirarono e ci fu un lungo sbatacchiare di porte  che  si
chiudevano con violenza le une dopo le altre. Rientrai nella mia cella; mi  misi
in ginocchio contro il muro, e pregai Dio di tener conto della  moderazione  con
la quale avevo parlato all’arcidiacono e di fargli riconoscere la mia  innocenza
e la verità.
        Stavo pregando allorché l’arcidiacono, i suoi due  accompagnatori  e  la
superiora comparvero nella mia cella. Vi ho già detto che nella  mia  cella  ero
senza tende, senza sedia, senza inginocchiatoio, senza materasso, senza coperte,
senza lenzuola, senza vaso di sorta, senza porta che chiudesse, e  con  i  vetri
quasi tutti rotti alla finestra. Mi alzai, e l’arcidiacono fermandosi di botto e
volgendo gli occhi pieni di indignazione verso la superiora, le disse:
        “Allora, signora?”
        “Lo ignoravo,” fu la sua risposta.
        “Lo ignoravate? Voi mentite! Avete forse trascorso un solo giorno  senza
venire qui, e non ne venivate quando siete scesa?... Suor Susanna,  parlate:  la
superiora non è entrata qui oggi?”
        Non risposi. Non insisté; ma  i  due  giovani  ecclesiastici,  lasciando
cadere le braccia, con la testa bassa e gli occhi rivolti a terra, non  potevano
nascondere la loro  pena  e  il  loro  stupore.  Uscirono  tutti,  e  io  sentii
l’arcidiacono che diceva alla superiora nel corridoio:
        “Siete indegna della  vostra  carica;  meritereste  di  essere  deposta.
Esporrò le mie accuse a monsignore. Intanto, si ripari a questo disordine  prima
ch’io me ne vada.”
        E mentre continuava a camminare e a scuotere la testa, andava dicendo:
        “È orribile. Delle  cristiane!  Delle  monache!  Delle  creature  umane!
orribile.”
        Da quel momento non sentii più parlare di niente,  ma  ebbi  biancheria,
tende, lenzuola, coperte, vasi, il mio breviario, i libri di pietà, il  rosario,
il crocifisso, i vetri alle finestre, in una parola tutto ciò che mi  restituiva
allo stato comune delle monache; mi fu ridata anche la possibilità di andare  in
parlatorio, ma soltanto per parlare della mia causa.
        La mia causa andava male. Il signor Manouri pubblicò un primo  memoriale
che fece poca  impressione.  C’erano  troppa  intelligenza,  scarso  sentimento,
pochissime ragioni. Non è il caso di farne una colpa al mio abile  avvocato.  Io
non volevo assolutamente che ledesse la reputazione dei  miei  genitori;  volevo
che risparmiasse lo stato religioso e soprattutto il convento in cui mi trovavo;
non volevo che dipingesse con tinte troppo  odiose  i  miei  cognati  e  le  mie
sorelle. In mio favore c’era soltanto  una  prima  protesta,  a  onor  del  vero
solenne, ma fatta in un altro convento e mai  rinnovata  da  allora.  Quando  si
impongono dei limiti così ristretti alla propria difesa e si ha a che  fare  con
un avversario che invece scatena liberamente i propri attacchi, che calpesta  il
giusto e l’ingiusto, che afferma e nega  con  la  stessa  impudenza  e  che  non
arrossisce né delle accuse, ne dei  sospetti,  né  della  maldicenza,  né  della
calunnia, è difficile vincere un processo, specialmente davanti a dei  tribunali
dove la noia e l’abitudine delle cause trattate  non  permettono  quasi  che  si
esaminino con un certo scrupolo quelle più importanti, e dove  le  contestazioni
come la mia vengono sempre considerate con occhio  critico  dall’uomo  politico.
Questi teme infatti che sulla scia del successo di una monaca che ricorra contro
i  propri  voti,  un’infinità  di  altre  monache  tentino  lo   stesso   passo.
Segretamente si avverte che se si tollerasse che le  porte  di  quelle  prigioni
venissero abbattute a favore di una sventurata, vi accorrerebbe una folla intera
e cercherebbe di forzarle. Fanno di tutto per scoraggiarci e farci rassegnare al
nostro destino inducendoci a disperare di poterlo  mai  cambiare.  Eppure  a  me
sembra che in uno Stato ben organizzato dovrebbe essere il contrario: entrare in
religione difficilmente, uscirne facilmente. E perché non aggiungere questo caso
a tanti altri in cui il benché minimo vizio di forma rende nulla  una  procedura
peraltro ineccepibile? I conventi sono così essenziali alla costituzione di  uno
Stato? I monaci e le monache li ha forse istituiti Gesù Cristo?  La  Chiesa  non
può proprio farne a meno? Che bisogno ha lo sposo di tante vergini folli,  e  la
specie umana di tante vittime? Non  si  sentirà  mai  la  necessità  di  ridurre
l’ampiezza di queste voragini in cui si perdono  le  generazioni  future?  Tutto
quel pregare per abitudine, vale un obolo che la pietà offre a un  povero?  Dio,
che ha creato l’uomo socievole, approva forse che l’uomo si rinchiuda? Dio,  che
l’ha creato così incostante, così fragile, può forse autorizzare  l’audacia  dei
voti? Quei voti che contraddicono la tendenza generale  della  natura,  potranno
mai essere osservati se non da poche creature, mal costituite, in  cui  i  germi
delle passioni sono appassiti e che si potrebbero a buon diritto collocare tra i
mostri se i nostri lumi ci  permettessero  di  conoscere  la  struttura  interna
dell’uomo con la stessa facilità con cui ne conosciamo  la  sua  forma  esterna?
Tutte quelle lugubri cerimonie con le quali si  celebrano  la  vestizione  e  la
professione quando si consacra un  uomo  o  una  donna  alla  vita  monastica  e
all’infelicità, sospendono  forse  le  funzioni  animali?  O  invece  queste  si
risvegliano nel silenzio, nella costrizione e nell’ozio  con  una  violenza  che
ignora la gente libera, presa com’è da tante distrazioni? Dov’è che  si  trovano
menti ossessionate da spettri impuri che le perseguitano e le sconvolgono? Dov’è
che si trova quella noia profonda, quel pallore, quella magrezza, tutti  sintomi
della natura che langue e si consuma? Dove sono le notti turbate  da  gemiti,  i
giorni bagnati di lacrime versate senza ragione e precedute  da  una  malinconia
che non si sa a che cosa attribuire? Dov’è che la  natura,  rivoltandosi  contro
una costrizione per la quale non è creata, infrange gli ostacoli che le  vengono
frapposti, diventa furiosa, trascina l’economia animale in  un  disordine  senza
rimedio? Dov’è che il dolore e il malumore  hanno  annullato  tutte  le  qualità
sociali? Dov’è che non si trova né padre, né madre, né fratello, né sorella,  né
parente, né amico? Dov’è che l’uomo,  considerandosi  soltanto  come  un  essere
caduco, tratta i legami  più  dolci  di  questo  mondo  con  distacco,  come  un
viaggiatore tratta  gli  oggetti  in  cui  si  imbatte?  Dove  hanno  dimora  il
turbamento, il  disgusto,  i  deliqui?  Dov’è  la  sede  del  servilismo  e  del
dispotismo? Dove sono gli odi che non si spengono? Dove sono le passioni  covate
nel silenzio? Dove hanno dimora la crudeltà e la curiosità?  Non  conosciamo  la
storia di questi asili - continuava il signor Manouri nella sua arringa - non la
conosciamo. E in un altro punto aggiungeva: “Fare  voto  di  povertà,  significa
impegnarsi con giuramento ad  essere  pigro  e  ladro;  fare  voto  di  castità,
significa promettere a Dio l’infrazione costante della più saggia  e  della  più
importante delle sue leggi; far voto  d’obbedienza  vuol  dire  rinunciare  alla
prerogativa inalienabile dell’uomo, la libertà. Se si osservano questi voti,  si
è criminali; se non si osservano, si è spergiuri. La vita claustrale è una  vita
da fanatici o da ipocriti.”
        Una fanciulla chiese ai genitori  il  permesso  di  entrare  nel  nostro
convento. Suo padre le disse che acconsentiva, ma  che  le  dava  tre  anni  per
riflettere. L’imposizione parve  dura  alla  giovane  tutta  piena  di  fervore;
nondimeno dovette sottomettersi. Poiché la sua vocazione era sempre salda,  ella
tornò dal padre per dirgli che tre anni erano ormai trascorsi.
        “Bene, figlia mia,” le rispose il padre, “vi ho accordato tre  anni  per
mettervi alla prova, spero che vorrete accordarmene altrettanti per prendere  la
mia decisione.”
        Questa nuova imposizione parve molto più  dura  alla  fanciulla  che  vi
sparse sopra qualche lacrima, ma il padre era un uomo  risoluto  e  tenne  duro.
Dopo quasi sei anni, ella entrò in convento, fece  professione.  Era  una  buona
monaca, semplice, pia, precisa in tutti i suoi doveri, ma volle il  caso  che  i
direttori abusassero della sua franchezza per informarsi, in confessione, su ciò
che accadeva nel convento. Le nostre superiore lo sospettarono; la  rinchiusero,
le proibirono  qualunque  esercizio  religioso;  diventò  pazza.  Come  potrebbe
resistere la testa alla persecuzione di cinquanta persone che dalla mattina alla
sera non fanno altro che tormentarvi? Precedentemente, avevano teso  alla  madre
un tranello che mette bene in luce  l’avarizia  del  chiostro.  Ispirarono  alla
madre della reclusa il desiderio di recarsi al convento e di visitare  la  cella
della figlia. Si rivolse ai vicari che le  accordarono  il  permesso  richiesto.
Entrò, corse alla cella della sua figliola, ma  quale  fu  il  suo  stupore  nel
vedere soltanto quattro pareti nude. Avevano portato via tutto, certe che quella
madre tenera e sensibile non avrebbe lasciato la figliola in tale stato. Infatti
fece mettere altri mobili nella cella, la rifornì di indumenti e di  biancheria,
affermando chiaramente alle monache che quella curiosità le costava troppo  cara
per potersela permettere una seconda volta, e che tre o quattro visite  all’anno
come quella avrebbero rovinato gli altri suoi  figli.  L’ambizione  e  il  lusso
sacrificano nei conventi una parte delle famiglie per avvantaggiare l’altra  che
ne rimane fuori. Sono la sentina in cui vengono gettati i rifiuti della società.
Quante madri come la mia espiano una colpa segreta con un’altra colpa.

        Il signor Manouri rese pubblico un secondo memoriale che ottenne un  po’
più d’effetto. Vi furono calorosi interventi a  mio  favore.  Ancora  una  volta
proposi alle mie sorelle di lasciar  loro  il  possesso  intero  e  indisturbato
dell’eredità dei miei genitori. Vi fu un momento in cui il  mio  processo  prese
una piega assai favorevole e in cui io sperai nella libertà; il  mio  disinganno
fu perciò più grande. All’udienza la mia causa fu perorata e  perduta.  L’intera
comunità ne era al corrente quando ancora io non ne sapevo niente. Era tutto  un
agitarsi frenetico, un gioire, piccoli abboccamenti segreti, un andare e  venire
dalla superiora, un incrociarsi di visite  tra  le  monache.  Io  ero  tutta  un
tremito; non potevo restare nella mia cella e  non  potevo  uscirne;  non  c’era
un’amica tra le cui braccia potessi rifugiarmi. Com’è crudele la mattina in  cui
si pronuncia la sentenza di un  grande  processo!  Volevo  pregare,  ma  non  ci
riuscivo; mi inginocchiavo, mi raccoglievo, cominciavo una preghiera, ma la  mia
mente finiva sempre, mio malgrado, per essere trascinata tra i miei giudici:  li
vedevo, sentivo gli avvocati, mi rivolgevo a loro, interrompevo il mio,  trovavo
che la mia causa non era difesa a dovere. Non conoscevo nessuno dei  magistrati,
eppure  me  li  figuravo  in  mille  modi,  ora  favorevoli,  ora  loschi,   ora
indifferenti. Ero  indicibilmente  agitata,  con  le  idee  confuse.  Al  rumore
succedette un profondo silenzio; le monache non si parlavano più; mi  parve  che
nel coro le loro voci fossero più squillanti del solito: o per lo meno  le  voci
di quelle che cantavano, poiché ve n’erano che non cantavano affatto.  Terminata
la funzione, si ritirarono in silenzio. Pensai che l’attesa le rendesse inquiete
come  me.  Nel  pomeriggio  però,  rumore  e  movimento  ripresero   dappertutto
improvvisamente: sentii porte che si  aprivano  e  si  chiudevano,  monache  che
andavano e venivano, il mormorio di persone  che  si  parlavano  a  voce  bassa.
Avvicinai l’orecchio alla serratura, ma mi parve che tacessero mentre  passavano
e che camminassero in punta di piedi. Intuii  di  aver  perso  il  processo;  il
dubbio non mi sfiorò neppure per un istante. Cominciai a  girare  per  la  cella
senza dir parola; soffocavo, non riuscivo nemmeno a  lamentarmi.  Incrociavo  le
braccia sulla testa, appoggiavo  la  fronte  ora  contro  un  muro,  ora  contro
l’altro; volevo riposarmi sul letto, ma il  cuore  mi  batteva  tanto  forte  da
impedirmelo: sono certa che sentivo battere il mio cuore e  in  tal  maniera  di
sollevare l’abito. Ero in questo stato allorché vennero a dirmi  che  chiedevano
di me. Scesi, ma non osavo andare avanti. La suora che mi  aveva  avvertita  era
così allegra che ne dedussi che la notizia  da  comunicarmi  doveva  essere  ben
triste; e tuttavia andai. Giunta davanti alla porta del parlatorio mi fermai  di
botto e mi rifugiai in un angolo fra due pareti;  non  riuscivo  a  reggermi  in
piedi. Ciò nonostante entrai. Non c’era nessuno; aspettai; avevano fatto in modo
che colui che mi aveva fatto chiamare,  comparisse  prima  di  me.  Naturalmente
pensavano che fosse un emissario del mio avvocato e  volevano  sapere  quel  che
sarebbe accaduto fra noi due. Perciò  si  erano  tutte  riunite  per  ascoltare.
Quando comparve, io ero seduta con la testa piegata  sul  braccio  e  appoggiata
contro le sbarre della grata.
        “Vengo da parte del signor Manouri,” mi disse.
        “È per informarmi che ho perduto il processo,” replicai.
        “Non lo so, signora, ma egli mi  ha  consegnato  questa  lettera.  Aveva
l’aria molto addolorata quando me l’ha consegnata e sono venuto di  corsa,  come
mi ha raccomandato.”
        “Datemi...”
        Mi tese la lettera ed io la presi senza muovermi e senza  guardarlo;  la
posai sulle ginocchia e non  cambiai  posizione.  L’uomo  mi  chiese:  “Non  c’è
nessuna risposta?”
        “No,” gli dissi. “Andate pure.”
        Se ne  andò,  mentre  io  rimasi  immobile  senza  potermi  muovere,  né
decidermi a uscire.
        In convento non è consentito scrivere,  né  ricevere  lettere  senza  il
permesso della superiora. A lei vengono consegnate sia quelle  che  si  ricevono
che quelle che si scrivono. Dovevo perciò portarle la mia.
        Mi incamminai per farlo, ma credetti che  non  sarei  mai  arrivata.  Un
prigioniero che esca dalla cella per andare ad ascoltare la propria condanna non
cammina più lentamente, né con maggior prostrazione. Eccomi davanti alla  porta.
Le  monache  mi  scrutavano  da  lontano;  non  volevano  perdere  niente  dello
spettacolo del mio dolore e della mia umiliazione.  Bussai,  mi  fu  aperto.  La
superiora era con qualche altra monaca: me ne accorsi  dall’orlo  delle  sottane
giacché non osai alzare gli occhi. Le presentai la lettera con mano tremante; la
prese, la lesse e me la restituì. Me ne tornai nella mia cella;  mi  buttai  sul
letto con la lettera accanto, e lì rimasi  senza  leggerla,  senza  alzarmi  per
andare a pranzo, senza fare nessun movimento fino  all’uffizio  del  pomeriggio.
Alle tre e mezzo la campana mi avvertì che era ora di scendere.  Alcune  monache
erano già arrivate; la superiora che era all’ingresso del coro, mi  fermò  e  mi
chiese di mettermi in ginocchio lì fuori; le altre monache entrarono e la  porta
fu chiusa. Dopo la funzione, uscirono tutte quante;  le  lasciai  passare  e  mi
alzai per seguirle, ultima. Fin da quel momento cominciai a condannarmi da  sola
a tutto quello che avrebbero voluto: mi avevano proibito l’ingresso  in  chiesa,
mi proibii spontaneamente il refettorio e la ricreazione. Presi in esame la  mia
condizione sotto tutti gli aspetti senza vedere altra via d’uscita se non  nella
necessità che avevano dei miei doni musicali e nella mia sottomissione. Mi sarei
contentata di quella specie d’oblio in cui mi lasciarono per diversi giorni.
        Vennero per me diverse persone a trovarmi, ma l’unica visita che  mi  fu
dato di ricevere fu quella del signor Manouri. Entrando in parlatorio lo  trovai
esattamente come ero io quando avevo ricevuto  il  suo  inviato,  con  la  testa
posata sulle braccia e le braccia appoggiate alla grata. Lo riconobbi,  non  gli
dissi niente. Non osava guardarmi, né parlarmi.
        “Signora,” mi disse senza muoversi, “vi ho scritto;  avete  ricevuto  la
mia lettera?”
        “L’ho ricevuta, ma non l’ho letta.”
        “Allora non sapete...”
        “No, signore, non ignoro niente. Ho indovinato qual è il mio  destino  e
sono rassegnata.”
        “Come vi trattano?”
        “Per il momento non si occupano ancora di me, ma  il  passato  m’insegna
ciò che l’avvenire mi prepara. Non ho che una consolazione,  ed  è  che  privata
della speranza che  mi  sosteneva,  è  impossibile  che  soffra  quanto  ho  già
sofferto. Morirò. La colpa che ho commesso è di quelle che non si  perdonano  in
convento. Non chiedo a Dio di intenerire il cuore di coloro alla cui discrezione
gli è piaciuto abbandonarmi, bensì  di  concedermi  la  forza  di  soffrire,  di
salvarmi dalla disperazione e di chiamarmi a lui quanto prima.”
        “Signora,” mi disse piangendo, “se foste stata  mia  sorella  non  avrei
potuto far di meglio...”
        Quest’uomo è di cuore sensibile.
        “Signora,” soggiunse, “se posso esservi utile a qualcosa, disponete pure
di me. Andrò a trovare il primo presidente che ha stima di me; andrò a trovare i
grandi vicari e l’arcivescovo.”
        “Non andate a trovare nessuno, signore, tutto è finito.”
        “E se fosse possibile farvi cambiare convento?”
        “Ci sono troppi ostacoli.”
        “E quali sono questi ostacoli?”
        “Un permesso difficile da ottenere, un’altra dote da costituire, se  non
si può ritirare quella consegnata al convento dove mi trovo.  E  poi,  che  cosa
troverò in un altro convento? Il mio cuore inflessibile, superiore senza  pietà,
monache che non saranno migliori di queste, gli stessi doveri, le  stesse  pene.
Tanto vale che finisca qui i miei giorni; saranno più brevi.”
        “Ma, signora, molta gente onesta si è interessata al vostro  caso  e  in
genere si tratta di persone facoltose. Non cercheranno di trattenervi qui, se ve
ne andate senza portar via niente.”
        “Questo lo credo anch’io.”
        “Una monaca che se ne va o che muore, accresce il  benessere  di  quelle
che restano.”
        “Ma quella gente onesta, quelle persone facoltose non pensano più a  me,
e vedrete la loro freddezza quando si tratterà di farmi una dote a  loro  spese.
Perché volete che sia più facile per la gente di mondo far uscire  dal  chiostro
una monaca senza vocazione che per le persone pie farvene entrare una che  abbia
una vera vocazione? È forse più facile dare a quest’ultima una  dote?  Mio  caro
signore, tutti si sono tirati indietro; dal giorno che ho perso il processo, non
vedo più nessuno.”
        “Affidatemi, signora, questo incarico; vedrete che sarò più fortunato.”
        “Non chiedo nulla, non spero nulla e a nulla mi  oppongo;  in  me  si  e
spezzata anche l’ultima molla. Se solo potessi sperare che Dio opererà in me  un
cambiamento e che le qualità necessarie  allo  stato  monastico  prenderanno  il
posto nella mia anima della speranza  ormai  perduta  di  abbandonarlo...  Ma  è
impossibile; questo abito mi si è incollato alla pelle, alle ossa, e non  me  ne
viene che un maggior disagio. Ah, che  destino!  Essere  per  sempre  monaca,  e
sentire che non sarò mai altro che una cattiva monaca! passare tutta la  vita  a
battere la testa contro le sbarre della prigione!”
        A questo punto mi misi a gridare; cercavo, ma non potevo,  di  soffocare
le mie grida. Il signor Manouri, sorpreso da quello sfogo,  mi  chiese:  “Potrei
farvi una domanda, signora?”
        “Fate pure, signore.”
        “Un dolore così cocente ha forse qualche segreto motivo?”
        “No, signore. Odio la vita solitaria, sento bene che la odio, sento  che
la odierò sempre. Non potrei mai assoggettarmi a tutte le meschinità  di  cui  è
intessuta la giornata di una reclusa; è una trama di puerilità che disprezzo. Se
avessi potuto, mi ci sarei abituata. Cento volte ho  cercato  di  impormelo,  di
piegarmi ai suoi obblighi; non mi riesce. Ho invidiato, ho chiesto a Dio  quella
felice imbecillità delle mie compagne; non l’ho ottenuta, e non me la concederà.
Faccio tutto male, dico tutto di traverso; la mancanza di vocazione traspare  da
tutti i miei atti, è chiaro. Ad ogni istante insulto la vita monastica. Chiamano
orgoglio la mia inettitudine; si ingegnano a umiliarmi.  Colpe  e  punizioni  si
moltiplicano senza fine e le giornate  trascorrono  a  misurare  con  gli  occhi
l’altezza dei muri.”
        “Non posso abbatterli, signora, ma posso fare qualcos’altro.”
        “Non tentate di far niente, signore.”
        “Voi dovete cambiare convento, e io me ne occuperò.  Verrò  di  nuovo  a
trovarvi: spero  che  non  vi  nascondano.  Avrete  presto  mie  notizie.  State
tranquilla che se siete d’accordo, riuscirò a farvi uscire di qui. Se  dovessero
maltrattarvi, fatemelo sapere.”
        Era tardi quando il signor Manouri se ne andò. Tornai nella mia cella  e
poco dopo suonò l’uffizio della sera. Giunsi fra le prime.  Lasciai  passare  le
monache e mi tenni per detto che dovevo restare fuori della  porta.  Infatti  la
superiora me la chiuse in faccia.  La  sera,  a  cena,  mi  fece  cenno,  mentre
entravo, di sedermi per terra in mezzo  al  refettorio.  Le  obbedii  e  non  mi
servirono altro che pane e acqua. Ne mangiai un po’  annaffiandolo  di  lacrime.
L’indomani  fu  tenuto  consiglio.  Tutta  quanta  la  comunità  fu  chiamata  a
giudicarmi. Fui condannata a rimanere senza ricreazione, a seguire per  un  mese
l’uffizio dalla porta del coro, a mangiare pane seduta per  terra  in  mezzo  al
refettorio, a fare onorevole ammenda per tre giorni di seguito, a  rinnovare  la
vestizione e i voti, a portare il cilicio, a  digiunare  un  giorno  su  due,  a
flagellarmi dopo l’uffizio della sera, ogni venerdì. Mentre  veniva  pronunciata
la sentenza, io stavo in ginocchio, con il velo sugli occhi.
        Fin dal giorno dopo, la superiora venne nella mia cella con  una  monaca
che portava un cilicio sul braccio e quell’abito di stoffa grossolana con cui mi
avevano fatta vestire quando ero stata condotta nella segreta.  Capii  che  cosa
volesse dire: mi spogliai, o meglio mi strapparono il velo e  tutto  quello  che
indossavo. Poi indossai quell’abito. Avevo la testa nuda, i piedi nudi,  i  miei
lunghi capelli mi ricadevano sulle spalle,  e  tutto  il  mio  abbigliamento  si
riduceva a quel  cilicio  che  mi  avevano  dato,  a  una  camicia  ruvida  e  a
quell’abito che dal collo mi scendeva fino ai piedi. Fu così che rimasi  vestita
per tutta la giornata e che comparvi a tutti gli esercizi.
        La sera, allorché mi fui ritirata nella cella sentii che venivano  verso
di me salmodiando le litanie; era  tutto  il  convento  disposto  su  due  file.
Entrarono, ed io mi presentai. Mi misero una corda intorno al collo, in una mano
mi misero una fiaccola accesa e nell’altra una disciplina. Una monaca afferrò un
capo della corda, mi tirò tra le due file e la processione si incamminò verso un
piccolo oratorio interno consacrato a Santa Maria.  Erano  arrivate  cantando  a
bassa  voce;  se  ne  andarono  in  silenzio.  Arrivata  che  fui   all’oratorio
rischiarato da due luci, mi ingiunsero di chiedere perdono a Dio e alla comunità
per lo scandalo provocato. La monaca che  mi  teneva  per  la  corda  mi  andava
dicendo a bassa voce quel che dovevo ripetere, ed  io  lo  ripetevo  parola  per
parola. Dopo di che mi tolsero la corda,  mi  spogliarono  fino  alla  vita,  mi
raccolsero i capelli che erano sparsi sulle spalle, li fecero andare da una sola
parte del collo, mi misero nella mano destra la disciplina che prima  era  nella
mano sinistra, e intonarono il Miserere. Capii che cosa si aspettavano da me,  e
lo  eseguii.  Terminato  il  Miserere,  la  superiora  mi  rivolse   una   breve
esortazione. Furono spente le luci, le monache si ritirarono ed io mi rivestii.
        Dopo che fui rientrata nella mia cella, avvertii dei violenti dolori  ai
piedi; guardai e vidi che erano tutti  coperti  di  sangue  a  causa  dei  tagli
prodotti da cocci di vetro  che  per  cattiveria  avevano  disseminato  sul  mio
cammino.
        Nei due giorni  seguenti  feci  onorevole  ammenda  nello  stesso  modo.
L’ultimo giorno, aggiunsero un salmo al Miserere.
        Il quarto giorno mi restituirono l’abito religioso  all’incirca  con  la
stessa cerimonia con la quale lo si indossa nelle solennità pubbliche.
        Il quinto giorno rinnovai i voti. Per un mese  eseguii  il  resto  della
penitenza che mi avevano imposto, dopo di che rientrai più  o  meno  nell’ordine
solito della comunità, ripresi il mio posto nel coro e nel refettorio, ripresi a
eseguire i compiti che mi spettavano nel convento. Ma quale fu la  mia  sorpresa
allorché posai gli occhi sulla giovane amica che si interessava alla mia  sorte.
Mi parve cambiata quasi quanto me; era di una magrezza spaventosa; il suo  volto
era soffuso del pallore della morte, aveva le labbra bianche e  gli  occhi  semi
spenti. Le dissi a bassa voce:
        “Suor Orsola, che cosa avete?”
        Mi rispose:
        “Che cos’ho? Vi voglio bene, e voi me lo chiedete! Era ora  che  finisse
il vostro supplizio o io ne sarei morta.”
        Se negli ultimi due giorni della mia onorevole ammenda non mi ero ferita
i piedi, era perché lei aveva avuto  il  pensiero  di  spazzare  furtivamente  i
corridoi ammucchiando sui lati i cocci di vetro. I giorni in cui ero  condannata
a digiunare a pane e acqua, lei si privava di una parte  della  sua  razione  di
cibo che avvolgeva in un  panno  bianco  e  buttava  nella  mia  cella.  Avevano
estratto a sorte il nome delle monache che avrebbero dovuto tirarmi per la corda
ed era toccato a lei. Risolutamente  era  andata  dalla  superiora  e  le  aveva
affermato che avrebbe preferito morire  piuttosto  che  assolvere  quel  compito
infame e crudele. Per fortuna quella fanciulla apparteneva a una famiglia  assai
stimata e godeva di una cospicua pensione  che  amministrava  secondo  i  voleri
della superiora. Per qualche libbra di zucchero e di caffè trovò una monaca  che
la sostituì. Non ardirei pensare che la mano di Dio si sia abbattuta  su  quella
monaca indegna, ma ella è diventata pazza ed è stata  rinchiusa.  La  superiora,
invece vive, governa, tormenta, e sta benissimo.
        Non era possibile che la mia salute resistesse a  prove  così  lunghe  e
così dure. Mi ammalai. Fu in tale circostanza che  suor  Orsola  dimostrò  tutta
l’amicizia che nutriva per me: debbo a lei la vita. A volte lei stessa mi diceva
che non era un bene aiutarmi a mantenermi in vita, eppure non  vi  era  servigio
che non mi rendesse nei giorni in cui il turno di infermiera spettava a lei.  Se
gli altri giorni non ero abbandonata, era grazie  al  suo  interessamento,  alle
piccole ricompense che distribuiva a quelle che vegliavano su di  me  a  seconda
che ne fossi stata più o meno soddisfatta. Aveva chiesto di vegliare su di me la
notte e la superiora le aveva opposto un rifiuto col  pretesto  che  era  troppo
delicata per affrontare una simile fatica. Per lei fu un vero dolore.  Tutte  le
sue cure non impedirono che il male  progredisse.  Mi  ridussi  agli  estremi  e
ricevetti l’Estrema Unzione. Qualche minuto prima avevo chiesto di vedere  tutta
la comunità riunita. Mi fu accordato. Le monache circondarono il mio letto, e la
superiora stava in mezzo a loro. Al capezzale c’era la mia giovane amica che  mi
teneva una mano e la ricopriva di lacrime. Supponendo  che  avessi  qualcosa  da
dire, mi sollevarono e mi tennero seduta contro due guanciali. Rivolgendomi alla
superiora, la pregai allora di concedermi la sua benedizione e il perdono  delle
colpe che avevo commesso: chiesi perdono a tutte le mie compagne per lo scandalo
che avevo dato. Mi ero fatta  portare  accanto  un’infinità  di  piccolezze  che
servivano ad abbellire la mia cella o che servivano a me personalmente, e pregai
la superiora che mi permettesse di disporne; ella acconsentì ed io  le  detti  a
quelle che le erano servite da  satelliti  allorché  mi  avevano  gettata  nella
segreta. Feci avvicinare la monaca che mi aveva tirata per la  corda  il  giorno
della mia onorevole ammenda e mentre la baciavo e le presentavo il mio rosario e
il mio crocifisso le dissi:
        “Cara sorella, ricordatemi nelle vostre preghiere e siate certa che  non
vi dimenticherò davanti a Dio...”
        Ma perché Dio non mi ha presa in quel momento? Stavo andando a lui senza
turbamento. È una felicità così grande, e  chi  può  assicurarsela  una  seconda
volta? Che ne sarà di me nel momento supremo? Bisogna pure che ci arrivi.  Possa
Dio rinnovare i miei tormenti e concedermene uno altrettanto  sereno!  Vedevo  i
cieli spalancati, e certamente lo erano, giacché la coscienza  in  quei  momenti
non inganna, ed essa mi prometteva una felicità eterna.
        Dopo aver ricevuto i sacramenti, caddi in una specie di letargia. Le mie
condizioni rimasero disperate per tutta quella notte. Di tanto in tanto venivano
a tastarmi il polso; sentivo mani che mi sfioravano il volto, udivo voci diverse
che dicevano come in  lontananza:  “Sta  salendo...  Il  naso  è  freddo...  Non
arriverà a domani... Il rosario e il crocifisso saranno per voi...”  E  un’altra
voce piena di corruccio protestava: “Andate via, andate via;  lasciatela  morire
in pace; non l’avete forse tormentata abbastanza?” Fu un momento  davvero  dolce
per me, quello in cui uscendo dalla crisi e riaprendo gli occhi, mi ritrovai tra
le braccia della mia amica. Non mi aveva mai lasciata: aveva trascorso la  notte
ad assistermi, a ripetere le preghiere degli agonizzanti,  a  farmi  baciare  il
crocifisso accostandolo alle proprie labbra dopo averlo staccato dalle mie.  Nel
vedermi spalancare gli occhi e trarre un profondo sospiro,  credette  che  fosse
l’ultimo. E allora si mise a gridare e a chiamarmi sua amica, a dire: “Mio  Dio,
abbiate pietà di lei, e di me! Mio Dio, accogliete la  sua  anima!  Cara  amica,
quando sarete al cospetto di Dio, ricordatevi  di  suor  Orsola...”  La  guardai
sorridendo tristemente, versando una lacrima e stringendole la mano.
        In quel momento arrivò il dottor Bouvard che era il medico del convento.
A quel che dicono è un uomo che sa il fatto suo, ma è  dispotico,  orgoglioso  e
rude.
        Allontanò sgarbatamente la mia amica; mi tastò il polso e la  pelle.  Lo
accompagnavano la superiora e  le  sue  favorite.  A  monosillabi  fece  qualche
domanda su quanto era accaduto e  commentò:  “Se  la  caverà.”  E  guardando  la
superiora alla quale tale affermazione sembrava piacere poco:
        “Sì, signora,” soggiunse, “se la caverà; la pelle ha un aspetto normale,
la febbre è caduta e gli occhi cominciano a dar segno di vita.”
        A ciascuna delle sue parole, la gioia  illuminava  il  volto  della  mia
amica, mentre  su  quello  della  superiora  e  delle  sue  compagne  si  andava
manifestando non so qual disappunto dissimulato a fatica.
        “Signore,” dissi al dottore, “non chiedo di vivere.”
        “Peggio per voi,” fu la sua risposta.
        Dette un ordine e se ne  andò.  Pare  che  durante  la  letargia  avessi
ripetuto diverse volte:
        “Cara madre, vengo a raggiungervi,  e  vi  dirò  tutto.”  Certamente  mi
rivolgevo alla mia superiora di prima. Non detti  a  nessuno  il  suo  ritratto:
volevo portarlo con me nella tomba.
        Si avverò  la  previsione  del  dottor  Bouvard;  la  febbre  diminuì  e
scomparve del tutto con l’aiuto di  abbondanti  sudorazioni.  Nessuno  ebbe  più
dubbi sulla mia guarigione. In effetti guarii, ma ebbi una  convalescenza  assai
lunga.
        Era scritto che in  quel  convento  avrei  sofferto  tutti  i  patimenti
possibili e immaginabili.  Nella  mia  malattia  c’era  stato  come  un  maligno
contagio. Suor Orsola non mi aveva quasi  mai  lasciata.  Allorché  cominciai  a
recuperare le forze, le sue cominciarono a declinare. La sua digestione  divenne
difficile; nel pomeriggio era presa da svenimenti che a volte duravano un quarto
d’ora. Quando era in quello stato, era come morta. La vista  le  si  velava,  un
sudore freddo le imperlava la fronte e le gocce le scivolavano lungo le  guance.
Le braccia le pendevano inerti lungo i fianchi. Solo slacciandole e allentandole
un poco le vesti si riusciva a darle un po’ di sollievo. Quando si riprendeva da
quegli svenimenti, il suo primo impulso era di cercarmi accanto a sé; mi trovava
sempre. A volte, quando le rimaneva  un  po’  di  sentimento  e  di  conoscenza,
muoveva una mano intorno a  sé  senza  aprire  gli  occhi.  Il  gesto  era  così
significativo che le monache, dopo essersi  offerte  al  tocco  di  quella  mano
esitante che ricadeva inerte per non averle riconosciute,  mi  dicevano:  “Vuole
voi, suor Susanna, avvicinatevi...” Allora mi buttavo ai suoi ginocchi, attiravo
quella sua mano sulla mia fronte e ve la lasciavo  fino  a  che  durava  il  suo
svenimento. Quando era passato, mi diceva:
        “Allora, suor Susanna, sarò io che me ne andrò, e voi invece  rimarrete;
sarò io che la rivedrò per prima, le  parlerò  di  voi  ed  ella  non  mi  potrà
ascoltare senza piangere. Se vi sono lacrime amare, ve ne sono  anche  di  molto
dolci, e se lassù si ama, perché non vi si dovrebbe piangere?”
        Reclinava  la  testa  sul  mio  collo,  versava  molte  lacrime,  e  poi
soggiungeva:
        “Addio, suor Susanna, addio amica mia. Chi condividerà  le  vostre  pene
quando io non ci sarò più? Chi ? Ah, amica mia, come vi compiango! Me  ne  vado,
lo sento, me ne vado. Se foste felice, come rimpiangerei di morire!”
        Il suo stato mi spaventava. Ne parlai  alla  superiora.  Volevo  che  la
mettessero in infermeria, che la dispensassero dagli uffizi e dalla fatica degli
altri esercizi del convento, che chiamassero un medico. Mi risposero che non era
niente di grave, che quegli svenimenti sarebbero passati da soli, e la cara suor
Orsola non chiedeva di meglio che adempiere i propri obblighi e seguire la  vita
della comunità.
        Un giorno, dopo il mattutino al quale era  stata  presente,  non  la  si
rivide. Pensai che stesse davvero male e terminato l’uffizio del mattino,  corsi
da lei. La trovai sdraiata sul letto tutta vestita. Mi disse:
        “Siete qui, mia cara amica? Ero certa che non avreste tardato a venire e
vi  aspettavo.  Statemi  a  sentire.  Com’ero  impaziente  di  vedervi!  Il  mio
svenimento è stato tanto lungo e tanto profondo che ho creduto di  morire  e  di
non rivedervi più. Ecco, prendete: questa è la chiave del  mio  inginocchiatoio;
aprirete lo stipetto, toglierete  una  piccola  tavola  che  divide  in  due  il
cassetto in basso.
        Dietro, vi troverete un pacchetto di  carte;  non  mi  sono  mai  potuta
risolvere a separarmene, nonostante il pericolo che correvo nel conservarle e il
dolore che provavo nel leggerle. Ahimè! le lacrime le hanno quasi  completamente
cancellate. Quando non ci sarò più, le brucerete.”
        Era così debole e sfinita che non riuscì a pronunciare queste parole una
di seguito all’altra. Si soffermava quasi ad ogni sillaba, e poi parlava a  voce
così bassa che a stento riuscivo a sentirla, benché avessi l’orecchio  incollato
alla sua bocca. Presi la chiave, le indicai col dito l’inginocchiatoio  ed  ella
mi fece un cenno affermativo con  la  testa.  Poi,  presentendo  che  stavo  per
perderla, e persuasa che la sua malattia fosse una conseguenza della mia,  o  di
tutta la pena che le avevo cagionato, o delle cure che mi  aveva  prodigato,  mi
misi a piangere e a disperarmi con tutta  l’anima.  Le  baciai  la  fronte,  gli
occhi, il volto, le mani; le chiesi perdono. Ma lei era come distratta e non  mi
sentiva. Una delle sue mani si posava sul mio viso accarezzandolo; credo che non
mi vedesse più, forse pensava che fossi uscita perché mi chiamò:
        “Suor Susanna?”
        “Eccomi,” le risposi.
        “Che ore sono?”
        “Sono le undici e mezzo.”
        “Le undici e mezzo! Andate a pranzo; andate, tornerete subito.”
        La campanella del pranzo suonò e  dovetti  lasciarla.  Quando  fui  alla
porta, mi richiamò. Tornai indietro. Fece uno sforzo per porgermi le guance;  la
baciai, mi prese la mano e me la tenne stretta. Sembrava che  non  volesse,  che
non potesse lasciarmi: “Eppure è necessario,” disse lasciandomi la mano. “Dio lo
vuole. Addio, suor Susanna. Datemi il crocifisso.”
        Glielo misi tra le mani e me ne andai.
        Stavamo per alzarci da tavola. Mi rivolsi alla superiora e  in  presenza
di tutte le  monache  le  parlai  del  pericolo  che  correva  suor  Orsola,  la
sollecitai ad accertarsene di persona.
        “In tal caso,” disse, “sarà bene andare a vederla.”
        Salì, accompagnata  da  qualche  altra  monaca  mentre  io  la  seguivo.
Entrarono nella cella. La poveretta era già spirata. Era stesa sul letto,  tutta
vestita, con la testa reclinata sul guanciale, la bocca  semiaperta,  gli  occhi
chiusi e il crocifisso tra le mani. La superiora la guardò freddamente e disse:
        “È morta. Chi avrebbe mai detto che fosse così prossima alla  fine.  Era
una gran brava figliola. Fate suonare le campane per lei, e seppellitela.”
        Rimasi sola al suo capezzale. Non saprei descrivervi il  mio  dolore,  e
tuttavia invidiai la sua sorte. Mi avvicinai a lei, la  coprii  di  lacrime,  la
baciai più volte e con il lenzuolo le coprii  il  viso,  i  cui  lineamenti  già
cominciavano ad  alterarsi.  Poi  pensai  ad  eseguire  ciò  che  lei  mi  aveva
raccomandato di  fare.  Per  non  essere  interrotta  durante  quell’operazione,
aspettai che tutte le  monache  fossero  all’uffizio;  aprii  l’inginocchiatoio,
tolsi la tavoletta e trovai un rotolo di carte abbastanza voluminoso che bruciai
non appena scese la sera.  Era  sempre  stata  una  fanciulla  malinconica:  non
ricordo d’averla mai vista sorridere, salvo una volta durante la malattia.
        Ero dunque rimasta sola in quel convento, sola  al  mondo,  giacché  non
conoscevo un solo essere che si  interessasse  di  me.  Non  avevo  più  sentito
parlare dell’avvocato Manouri.  Supponevo  che  fosse  stato  scoraggiato  dalle
difficoltà oppure che distratto dagli svaghi o dai suoi  impegni,  avesse  ormai
dimenticato completamente l’aiuto che mi  aveva  promesso.  Non  gliene  serbavo
rancore: per carattere sono portata all’indulgenza; posso perdonare  tutto  agli
uomini, salvo  l’ingiustizia,  l’ingratitudine  e  l’inumanità.  Scusavo  perciò
l’avvocato Manouri il più possibile, e tutta quella gente di mondo  che  durante
il processo mi aveva dimostrato tanto interesse e per la quale non esistevo più,
e anche voi, signor marchese, allorché i nostri superiori  ecclesiastici  fecero
una visita al convento.
        Entrano, percorrono le celle, interrogano le monache, si  fanno  rendere
conto dell’amministrazione temporale e spirituale del  convento,  e  secondo  lo
spirito con il quale assolvono le loro funzioni, pongono riparo o accrescono  il
disordine. Rividi così l’onesto e rude monsignor Hébert con i suoi due giovani e
compassionevoli  ecclesiastici.  Ebbero  l’aria  di  ricordare  in  quale  stato
deplorevole ero comparsa dinanzi a loro. I loro occhi si inumidirono e sul  loro
volto osservai l’intenerimento e la gioia. Monsignor Hébert  si  sedette,  e  mi
fece sedere di fronte a lui; i suoi due coadiutori rimasero in piedi  dietro  la
sua sedia; i loro sguardi erano fissi su di me. Monsignor Hébert mi disse:
        “Allora, suor Susanna, come vi trattano adesso?”
        “Mi dimenticano, signore”, gli risposi.
        “Meglio così.”
        “È quello che mi auguro anch’io,  ma  avrei  una  grazia  importante  da
chiedervi: fate venire qui la madre superiora.”
        “Perché?”
        “Perché se mai dovessero lamentarsi di lei presso  di  voi,  mi  riterrà
senz’altro responsabile.”
        “Capisco. Ditemi comunque che cosa ne sapete.”
        “Vi supplico di farla chiamare, signore,  perché  lei  stessa  senta  le
vostre domande e le mie risposte.”
        “Parlate lo stesso.”
        “Voi mi volete perdere, signore.”
        “No, non abbiate  paura;  da  oggi  non  siete  più  soggetta  alla  sua
autorità; prima della fine della settimana sarete  trasferita  a  Sant’Eutropio,
poco lontano da Arpajon. Avete un amico fedele.”
        “Un amico fedele, signore! Non ho nessun amico.”
        “È il vostro avvocato.”
        “Il signor Manouri?”
        “In persona.”
        “Non credevo che si ricordasse ancora di me.”
        “È andato dalle vostre sorelle; è andato dal monsignore arcivescovo, dal
primo presidente, da tutte le persone note per la loro pietà. Vi  ha  costituito
una dote nel convento di cui vi ho parlato; dovrete restare qui  per  brevissimo
tempo. Perciò, se siete a conoscenza di qualche disordine,  potete  mettermi  al
corrente senza compromettervi. Ve l’ordino per la santa obbedienza.”
        “Io non so niente.”
        “Come! dopo l’esito del vostro processo si sono comportate con  voi  con
la dovuta moderazione?”
        “Hanno creduto o hanno dovuto credere  che  avessi  commesso  una  colpa
appellandomi contro i miei voti e me ne hanno fatto chiedere perdono a Dio.”
        “Sono proprio le circostanze di questo perdono che vorrei sapere.”
        Così dicendo scuoteva la testa,  aggrottava  le  sopracciglia.  Mi  resi
conto che dipendeva soltanto da me far ricadere sulla superiora  una  parte  dei
colpi di disciplina che mi aveva fatto  infliggere,  ma  tale  non  era  la  mia
intenzione. L’arcidiacono capì che non  avrebbe  saputo  niente  da  me  e  uscì
raccomandandomi il segreto circa quanto mi aveva confidato sul  trasferimento  a
Sant’Eutropio di Arpajon.
        Mentre quell’eccellente monsignore  Hébert  s’incamminava  da  solo  nel
corridoio, i suoi due assistenti si voltarono e mi  salutarono  con  aria  assai
affettuosa e dolce. Ignoro chi siano, ma che Dio mantenga  loro  quel  carattere
tenero e misericordioso così raro nel loro stato e che tanto si addice a  chi  è
depositario della debolezza dell’uomo e intercessore della misericordia di  Dio.
Credevo che monsignor Hébert fosse intento  a  consolare,  a  interrogare  o  ad
ammonire qualche altra monaca, allorché tornò nella mia cella.
        “Come avete conosciuto il signor Manouri?”
        “A causa del mio processo.”
        “Chi vi ha affidato a lui?”
        “La signora presidentessa.”
        “Lo avete dovuto incontrare spesso nel corso della vostra causa?”
        “No, signore, l’ho visto poche volte.”
        “In che modo lo avete tenuto al corrente?”
        “Con alcune note scritte di mio pugno.”
        “Avete copia di queste note?”
        “No, signore.”
        “Chi gliele consegnava?”
        “La signora presidentessa.”
        “Come avevate fatto la sua conoscenza?”
        “Tramite suor Orsola che era amica mia e sua parente.”
        “Avete visto il signor Manouri dopo la fine del processo?”
        “Una volta.”
        “È poco. Non vi ha mai scritto?”
        “No, signore.”
        “Voi non gli avete mai scritto?”
        “No, signore.”
        “Vi metterà certamente al corrente di ciò  che  ha  fatto  per  voi.  Vi
ordino di non incontrarlo in parlatorio; se  vi  scrive,  sia  direttamente  che
indirettamente, vi ordino di mandarmi la lettera senza aprirla. Senza aprirla, è
chiaro?”
        “Sì, signore. Vi obbedirò.”
        Quella diffidenza di monsignor Hébert, sia che mi riguardasse,  sia  che
riguardasse il mio benefattore, mi ferì.
        Il signor Manouri venne a Longchamp  quella  sera  stessa.  Mantenni  la
parola data all’arcidiacono e mi rifiutai di parlargli. Il giorno dopo  mi  fece
scrivere dal suo incaricato. Ricevetti la lettera, e senza aprirla la  mandai  a
monsignor  Hébert.  Se  ben  ricordo,  era  di  martedì.  Aspettavo  sempre  con
impazienza il risultato della promessa dell’arcidiacono e dei passi compiuti dal
signor Manouri. Il mercoledì, il giovedì, il venerdì trascorsero  senza  che  ci
fossero novità. Come mi parvero lunghe quelle  giornate!  Tremavo  all’idea  che
potesse essere sorta qualche difficoltà che avesse sconvolto tutti i piani.  Non
ritrovavo la mia libertà, ma cambiavo prigione, ed era già  qualcosa.  Un  primo
avvenimento felice fa germogliare in noi la speranza  di  un  secondo:  forse  è
questa l’origine del proverbio “ una fortuna non giunge senza un’altra”.
        Conoscevo bene le compagne che lasciavo e  non  mi  ci  voleva  molto  a
supporre che avrei pur sempre guadagnato qualcosa vivendo con  recluse  diverse.
Comunque fossero non avrebbero potuto essere né più cattive, né più malevole. Il
sabato mattina, verso le nove, ci fu grande agitazione in convento. Ci vuol  ben
poca cosa per mettere le monache in subbuglio. Andavano, venivano,  parlavano  a
bassa voce; le porte dei dormitori si  aprivano  e  si  chiudevano.  Come  avete
potuto constatare fin qui, è questo il segnale delle rivoluzioni monastiche. Ero
sola nella mia cella; aspettavo, e il cuore mi batteva.  Ascoltavo  alla  porta,
guardavo dalla finestra, mi agitavo senza sapere che cosa facessi; trasalendo di
gioia andavo dicendo a me stessa:
        “Vengono e prendere me; fra poco non ci sarò più...” e  infatti  non  mi
sbagliavo.
        Mi si presentarono due  persone  sconosciute:  erano  una  monaca  e  la
portinaia di Arpajon. In poche parole mi misero al corrente della ragione  della
loro visita. Presi in fretta e furia le poche  cose  che  mi  appartenevano;  le
gettai alla rinfusa nel grembiule della portinaia che ne fece dei pacchetti. Non
chiesi nemmeno di vedere la superiora; suor Orsola  non  c’era  più,  non  avevo
nessuno da salutare.
        Scendo; mi aprono la porta dopo aver ispezionato quello che portavo  con
me; salgo su una carrozza ed eccomi partita.
        L’arcidiacono, i due giovani ecclesiastici, la signora  presidentessa  e
il signor Manouri si erano  riuniti  dalla  superiora  di  Arpajon  dove  furono
avvertiti che avevo lasciato il convento. Via facendo, la monaca  mi  parlò  del
nuovo convento e ad ogni frase di  quell’elogio  che  me  ne  veniva  fatto,  la
portinaia aggiungeva a mo’ di ritornello: “È la pura verità.” La mia compagna si
rallegrava di essere stata scelta per venire a prendermi e voleva diventare  mia
amica, perciò mi confidò alcuni segreti e mi dette qualche consiglio sul modo di
comportarmi. Quei consigli naturalmente andavano bene per lei, ma  non  potevano
servire a me. Non so se avete visto il convento di Arpajon.  È  una  costruzione
quadrata, di cui una facciata  guarda  sulla  strada  maestra  e  l’altra  sulla
campagna e i giardini. Ad ogni finestra della facciata che  dava  sulla  strada,
c’erano una, due, o tre monache. Bastò quella circostanza a dirmela più lunga di
tutte le chiacchiere della monaca e della sua compagna sull’ordine  che  regnava
nel convento. Evidentemente conoscevano  la  carrozza  con  la  quale  arrivavo,
perché in un batter d’occhio tutte quelle teste velate scomparvero ed io  giunsi
alla porta della mia nuova prigione. La superiora mi venne  incontro  a  braccia
aperte, mi abbracciò, mi prese per mano e mi condusse nella sala della  comunità
dove alcune monache ci avevano già preceduto e dove altre accorsero.

        Questa superiora si chiama Signora di ***. Non so resistere al desiderio
di descriverla prima di proseguire. È piccola, tutta tonda e nondimeno vivace  e
svelta nei movimenti; la testa non le  sta  mai  ferma  sulle  spalle;  nel  suo
abbigliamento c’è sempre qualcosa di stonato; il viso è più bello che brutto;  i
suoi occhi, di cui il destro è più alto e più grande dell’altro, sono  pieni  di
fuoco e svagati; quando cammina, manda le braccia avanti  e  indietro.  Se  vuol
parlare? apre bocca prima di aver riordinato le idee e così balbetta un po’.  Se
è seduta? si agita sul sedile come se qualcosa la infastidisse.  Dimentica  ogni
decoro, si toglie il soggolo per grattarsi  la  pelle,  incrocia  le  gambe.  Vi
interroga, voi le rispondete, e lei non ascolta. Vi parla, e perde il  filo  del
discorso; si ferma di botto, non sa più che cosa stava dicendo, va in collera  e
vi dà della bestia, della stupida, dell’imbecille, se  non  la  rimettete  sulla
via. A volte è familiare fino a dare del tu, a volte imperiosa e altezzosa  fino
all’arroganza. I suoi momenti di dignità  non  durano  a  lungo  ed  è,  a  fasi
alterne, compassionevole e severa. Il suo viso scomposto rivela l’incoerenza del
suo animo e l’incostanza  del  suo  carattere;  perciò  nel  convento  ordine  e
disordine si susseguivano in permanenza. C’erano  giorni  in  cui  tutto  veniva
mischiato, educande e  novizie,  novizie  e  professe;  giorni  in  cui  le  une
correvano nelle celle delle altre e  insieme  bevevano  tè,  caffè,  cioccolata,
liquori; giorni in cui si celebrava l’uffizio con  una  rapidità  indecente.  In
mezzo a tutta quella confusione, di colpo il viso  della  superiora  cambia,  la
campana suona, le monache si chiudono, si ritirano,  il  silenzio  più  profondo
succede al rumore, alle grida, al tumulto. Si direbbe che all’improvviso tutto è
morto. In questi casi, se una  monaca  vien  meno  al  più  piccolo  dovere,  la
superiora la fa andare nella sua cella, la tratta  con  durezza,  le  ordina  di
spogliarsi e di darsi  venti  colpi  di  disciplina.  La  monaca  obbedisce,  si
spoglia, prende la disciplina, si flagella, ma si è appena  data  qualche  colpo
che la superiora torna ad essere compassionevole, le  strappa  lo  strumento  di
penitenza, si mette a  piangere,  dice  che  si  sente  molto  infelice  per  la
punizione che le deve infliggere, le bacia la fronte, gli occhi,  la  bocca,  la
carezza, la loda: “Ma guardate che pelle bianca e morbida! Che aria  florida!  e
che bel collo! e che bei capelli!... Sei pazza,  suor  Augustina  a  vergognarti
così! Sono donna, e sono la tua superiora! lascia cadere quella camicia! Oh, che
bel seno! com’è sodo! E io dovrei sopportare che  tutta  questa  bellezza  fosse
ferita dalle sferzate! che non sia mai...” La bacia ancora, l’aiuta a rialzarsi,
la riveste lei stessa, le dice le cose più tenere, la dispensa dalle funzioni  e
la rimanda nella sua cella.
        Si è sempre a disagio con donne di questo genere. Non si sa mai che cosa
possa piacere o dispiacere loro, che cosa si deve evitare e  che  cosa  si  deve
fare; non vi è nessuna regola: o si è servite in abbondanza, o si muore di fame;
l’economia del convento ne è tutta scombussolata; le  rimostranze  sono  accolte
male o ignorate. Si è sempre o troppo lontane o troppo vicine a superiore con un
carattere simile; non c’è né vera distanza, né un giusto mezzo; se ne  godono  i
favori, o si è in disgrazia senza sapere perché.
        Volete avere, in una cosa  da  nulla,  un  esempio  generale  della  sua
amministrazione? Due volte all’anno correva di cella in cella e  faceva  buttare
dalle finestre tutte le bottiglie di liquori che vi trovava,  e  quattro  giorni
dopo era lei stessa che ne rimandava alla  maggior  parte  delle  monache.  Ecco
com’era colei alla quale avevo fatto voto solenne di obbedienza,  dato  che  noi
portiamo sempre i nostri voti da un convento all’altro.
        Entrai con lei che mi guidava  tenendomi  allacciata  per  la  vita.  Fu
servita una merenda di frutta, marzapane e confetture.
        L’austero arcidiacono cominciò il mio  elogio  che  interruppe  dicendo:
“Hanno avuto torto, hanno avuto torto, lo  so...”  L’austero  arcidiacono  volle
continuare  e  la  superiora  lo  interruppe   dicendo:   “Come   hanno   potuto
allontanarla? È la modestia e la dolcezza in persona;  dicono  che  è  piena  di
qualità...” L’austero arcidiacono volle riprendere dalle ultime parole; di nuovo
la superiora lo interruppe  dicendomi  sottovoce  nell’orecchio:  “Vi  amo  alla
follia, e quando questi pedantoni se ne saranno andati, farò  venire  le  nostre
consorelle e voi canterete un’arietta,  vero?”  Mi  venne  una  gran  voglia  di
ridere. L’austero monsignor Hébert fu alquanto sconcertato, i suoi  due  giovani
assistenti sorridevano del suo imbarazzo e del mio.
        Intanto monsignor Hébert, ritrovando il suo carattere e  le  sue  solite
maniere le ordinò bruscamente di sedersi e le ingiunse di tacere.  La  superiora
si sedette, ma non si sentiva a suo agio: mentre  era  seduta,  si  agitava,  si
grattava la testa, si aggiustava l’abito  che  non  ne  aveva  affatto  bisogno,
sbadigliava. E  intanto  l’arcidiacono  discorreva  con  molto  buon  senso  del
convento che avevo appena  lasciato,  di  tutte  le  vicissitudini  in  cui  ero
incorsa, del convento nel quale  entravo,  degli  obblighi  contratti  verso  le
persone che mi avevano servito. A questo punto guardai  il  signor  Manouri  che
abbassò gli occhi. Allora la conversazione si fece generale; il penoso  silenzio
che era stato imposto alla superiora cessò. Mi avvicinai al signor Manouri e  lo
ringraziai per tutto quello che aveva fatto per  me.  Tremavo,  balbettavo,  non
sapevo quale riconoscenza promettergli. Il mio turbamento, il mio imbarazzo,  il
mio intenerimento, giacché ero veramente commossa,  lacrime  e  gioia  mescolate
insieme, tutto il mio modo di fare, parlarono con molta più eloquenza di  quanto
non avrei saputo fare io.
        La sua risposta non fu meno sconnessa del mio discorsetto;  era  turbato
quanto me. Non so quel che mi andava dicendo, ma capii che se  avesse  addolcito
la mia sorte, sarebbe stato più che ricompensato e che si sarebbe  ricordato  di
quello che aveva fatto con  un  piacere  ancor  più  grande  del  mio,  che  gli
dispiaceva molto che i suoi impegni che lo tenevano legato al Palazzo di  Parigi
non gli permettessero di fare visite frequenti al chiostro di  Arpajon,  ma  che
sperava di ottenere dal signor arcidiacono e dalla signora superiora il permesso
di informarsi sulla mia salute e sulle mie condizioni.
        L’arcidiacono non sentì, ma la superiora rispose:
        “Finché vorrete, signore. Suor Susanna farà tutto quello che le piacerà;
cercheremo di riparare qui tutti i patimenti che ha dovuto soffrire.”
        Poi, a me, sottovoce:
        “Figliola mia, hai proprio sofferto tanto? Ma come possono aver avuto il
coraggio di maltrattarti, quelle creature di Longchamp?  Ho  conosciuto  la  tua
superiora, siamo state educande insieme a Port-Royal. Era la bestia  nera  delle
sue compagne. Avremo tutto il tempo di vederci, mi racconterai...”
        Così dicendo mi afferrava una mano sulla quale dava dei colpetti con  la
sua. Anche i giovani ecclesiastici mi fecero i loro convenevoli. Era  tardi;  il
signor Manouri si congedò da noi; l’arcidiacono e i suoi  compagni  si  recarono
dal signor  ***..., signore di Arpajon, dal quale erano stati  invitati,  ed  io
rimasi sola con la superiora. Ma non fu per molto. Tutte le  monache,  tutte  le
novizie, tutte le  educande  accorsero  alla  rinfusa:  in  un  attimo  mi  vidi
circondata da  un  centinaio  di  persone.  C’erano  visi  di  ogni  tipo  e  si
intrecciavano frasi di ogni genere. Capii però che non erano scontente, né delle
mie risposte, né della mia persona.
        Dopo un certo tempo che durava quel chiacchierare importuno e  dopo  che
fu soddisfatta la prima curiosità, l’assembramento  si  disperse.  La  superiora
allontanò quelle che rimanevano e venne di persona a sistemarmi nella mia cella.
Me ne fece gli onori a modo suo, mostrandomi l’inginocchiatoio e dicendomi:
        “Ecco dove la mia amichetta pregherà Dio; voglio che le venga  messo  un
cuscino su questo gradino, perché i suoi ginocchietti non si facciano male.  Non
c’è più acqua benedetta in questa acquasantiera; quella suor  Dorotea  dimentica
sempre qualcosa. Provate questa poltrona, vedete un po’ se ci state comoda...”
        E mentre parlava, mi fece sedere, mi  fece  appoggiare  la  testa  sullo
schienale, mi baciò la fronte. Poi andò alla  finestra  per  assicurarsi  che  i
vetri si alzassero e si abbassassero facilmente; poi andò al letto, di cui  tirò
e ritirò le cortine per vedere se chiudevano bene.  Esaminò  le  coperte:  “sono
calde”, disse. Prese il  traversino  e  sprimacciandolo  e  facendolo  gonfiare,
diceva: “questa cara testolina starà benissimo appoggiata qui... Queste lenzuola
non sono fini, ma sono quelle della comunità... Questi materassi sono buoni.”
        Dopo di che viene verso di me, mi abbraccia e mi lascia. Durante  questa
scena, io dicevo dentro di me: “Che creatura folle!” E  mi  aspettavo  di  dover
affrontare giorni buoni e giorni cattivi.
        Mi sistemai nella cella, poi assistetti  all’uffizio  della  sera,  alla
cena e alla ricreazione che seguì. Alcun monache mi si  avvicinarono,  altre  si
allontanarono; le prime contavano  sulla  mia  protezione  nei  confronti  della
superiora, le altre erano  già  allarmate  per  la  predilezione  che  mi  aveva
dimostrato. Quei primi momenti trascorsero in elogi reciproci,  in  domande  sul
convento che avevo lasciato, in tentativi di conoscere il mio carattere, le  mie
inclinazioni, il mio gusto, la mia intelligenza. Vi sondano  dappertutto:  è  un
susseguirsi di piccoli tranelli che vi vengono tesi e dai quali si  traggono  le
conclusioni più esatte. Per esempio,  dicono  una  frase  maldicente  e  poi  vi
guardano; cominciano una storia e aspettano che chiediate il seguito o che ve ne
disinteressiate. Se usate un’espressione qualsiasi, la trovano deliziosa  benché
sappiano benissimo che non ha niente di speciale; di proposito vi  lodano  o  vi
biasimano. Cercano di penetrare nei vostri pensieri più segreti; vi  interrogano
sulle vostre letture, vi offrono libri sacri o profani, notano le vostre scelte.
Vi  invitano  a  commettere  lievi  infrazioni  alla  regola;  vi  fanno   delle
confidenze; vi buttan lì qualche frasetta sulle bizzarrie della superiora: tutto
viene raccolto e ripetuto. Vi  lasciano,  vi  riprendono;  indagano  sui  vostri
sentimenti, sui costumi, sulla pietà, sulla società, sulla religione, sulla vita
monastica, su tutto questo. Da questi esperimenti reiterati  deriva  un  epiteto
che vi caratterizza e che viene unito come soprannome al nome  che  portate;  fu
così che io venni chiamata suor Susanna la riservata.
        La prima sera ricevetti la visita della superiora che venne nel  momento
in cui mi stavo spogliando. Fu lei che mi tolse il velo e il soggolo  e  che  mi
pettinò per la notte; fu lei che mi spogliò. Mi disse cento paroline  dolci,  mi
fece mille carezze che mi misero un po’ in imbarazzo senza che  capissi  perché,
dato che non ci capivo nulla e neppure lei. E anche oggi che  ci  rifletto,  che
cosa avremmo potuto capirci? In ogni modo ne parlai al mio direttore  spirituale
il quale considerò quelle familiarità che  a  me  sembravano  e  continuavano  a
sembrare innocenti, con molta serietà e mi  proibì  severamente  di  prestarmici
ancora. La superiora mi baciò il collo,  le  spalle,  le  braccia  lodò  il  mio
bell’aspetto e la mia vita sottile, poi mi mise a letto; mi rimboccò le  coperte
da entrambi i lati,  mi  baciò  gli  occhi,  tirò  le  cortine  e  se  ne  andò.
Dimenticavo di dirvi che supponeva ch’io fossi stanca, e mi permise di restare a
letto finché avessi voluto.
        Profittai del suo permesso e credo che sia stata la sola notte buona che
abbia passato in convento. E dal convento non sono quasi mai uscita.  Il  giorno
dopo, verso le nove, sentii bussare  delicatamente  alla  porta.  Ero  ancora  a
letto; risposi, entrarono. Era una monaca che mi disse, piuttosto  di  malumore,
che era tardi e che la madre superiora chiedeva di me. Mi alzai,  mi  vestii  in
fretta e andai.
        “Buon giorno, figliola,” mi disse; “avete passato una buona notte?  Ecco
qui il caffè che vi aspetta da un’ora; credo sia buono; sbrigatevi a berlo e poi
parleremo...”
        E mentre parlava, stendeva un tovagliolo sulla tavola,  ne  spiegava  un
altro su di me, versava il caffè, lo inzuccherava.  Le  altre  monache  facevano
altrettanto, le une  nelle  celle  delle  altre.  Mentre  facevo  colazione,  la
superiora mi intrattenne sulle sue compagne, me le descrisse a seconda della sua
avversione o della sua simpatia, mi fece mille affermazioni di  amicizia,  mille
domande sul convento che avevo lasciato, sui miei genitori,  su  tutte  le  cose
sgradevoli che avevo dovuto subire; lodò, biasimò  secondo  il  suo  estro,  non
stette mai a sentire le mie risposte fino in fondo. Non la contraddissi mai;  fu
molto contenta  di  trovarmi  ricca  di  spirito,  giudiziosa  e  discreta.  Nel
frattempo venne una monaca, poi un’altra, poi una terza,  poi  una  quarta,  una
quinta. Parlarono degli uccelli di una certa madre, delle piccole manie  di  una
certa sorella, di tutte le imperfezioni ridicole delle  assenti.  Vi  fu  grande
allegria. In un angolo della cella c’era una spinetta; distrattamente  vi  posai
le dita. Arrivata di recente al convento e non conoscendo le monache sulle quali
stavano scherzando, mi divertivo ben poco; e  quand’anche  fossi  stata  più  al
corrente, non per questo mi sarei divertita di più. Ci vuole troppo spirito  per
scherzare come si deve, e poi, chi non ha qualcosa di ridicolo? Mentre ridevano,
io accennavo a qualche accordo; a poco a poco l’attenzione si rivolse  verso  di
me. La superiora venne dalla mia parte e dandomi un colpetto  sulle  spalle,  mi
disse:
        “Suvvia, suor Santa Susanna, divertici un po’;  prima  suona,  poi  dopo
canterai.”
         Feci  ciò  che  mi  diceva;  eseguii  alcuni  pezzi  che  mi   venivano
spontaneamente alle dita; improvvisai qualche preludio e  infine  cantai  alcuni
versetti dei salmi di Mondonville.
        “Davvero molto bene,” disse la superiora, “ma in chiesa abbiamo  santità
a sufficienza. Siamo sole; queste monache sono amiche mie e saranno anche amiche
tue; cantaci qualcosa di più allegro.”
        Alcune monache dissero:
        “Ma forse non conosce altro che questo; è stanca  del  viaggio,  bisogna
risparmiarla; per una volta ha già suonato abbastanza.”
        “No, no,” ribatté la superiora, “si accompagna che è una meraviglia,  ha
la voce più bella del mondo (effettivamente la mia voce non è brutta, benché sia
più intonata, dolce e flessibile che forte  e  ampia).  Non  la  lascerò  libera
finché non ci avrà cantato qualcos’altro.”
        Le parole delle monache mi avevano un po’ offesa; risposi alla superiora
che le monache non si divertivano più.
        “Ma io mi diverto ancora.”
        Mi  aspettavo  quella  risposta.  Perciò  cantai  una  canzone  alquanto
delicata e  tutte  applaudirono,  mi  abbracciarono,  mi  accarezzarono,  me  ne
chiesero un’altra: moine ipocrite, dettate dalla risposta della  superiora.  Fra
di loro non ve n’era una che non mi avrebbe rubato la voce e spezzato  le  dita,
se avesse potuto. Quelle che forse non avevano  mai  ascoltato  musica  in  vita
loro, si azzardarono a pronunciare sul mio conto giudizi ridicoli non  meno  che
spiacevoli, che però non ebbero presa sulla superiora.
        “Tacete,” ella disse, “suor Susanna suona  e  canta  come  un  angelo  e
voglio che venga qui tutti  i  giorni:  una  volta  sapevo  suonare  un  po’  il
clavicembalo e voglio rimettermici con lei.”
        “Ah, signora,” le dissi, “se si è saputo una volta, non si è dimenticato
tutto...”
        “Molto volentieri, lasciami il posto.”
        Dopo qualche preludio, suonò cose pazze, bizzarre, scucite come  le  sue
idee, ma attraverso tutti i difetti della sua  esecuzione,  mi  resi  conto  che
aveva la mano infinitamente più leggera della mia. Glielo dissi perché mi  piace
lodare, e raramente ho perso l’occasione  di  farlo,  quando  potevo  farlo  con
sincerità. È una cosa così dolce! Le monache si eclissarono una dopo l’altra  ed
io rimasi pressoché sola con la superiora a  parlare  di  musica.  Io  stavo  in
piedi; lei era seduta e mi afferrava le mani e mi diceva stringendole:
        “Non soltanto suona bene, ma ha anche  le  più  belle  dita  del  mondo;
guardate qui, suor Teresa...”
        Suor Teresa abbassava gli occhi, arrossiva, e balbettava; che io  avessi
o non avessi delle belle dita, che  la  superiora  avesse  torto  o  ragione  di
osservarlo, che importanza poteva avere  per  quella  monaca?  La  superiora  mi
teneva allacciata per la vita e trovava che avevo il più bel vitino  dei  mondo.
Mi aveva attirata a sé; mi aveva fatto sedere sulle sue ginocchia e mi sollevava
la testa con le mani e mi esortava a guardarla. Lodava  i  miei  occhi,  la  mia
bocca, le mie guance, il mio incarnato. Io non  rispondevo  niente,  tenevo  gli
occhi bassi e mi lasciavo andare a tutte quelle carezze come un’idiota.
        Suor Teresa era assorta, inquieta, andava a destra e a sinistra, toccava
tutto senza aver bisogno di niente, non  sapeva  che  fare  della  sua  persona,
guardava dalla  finestra,  credeva  di  aver  sentito  bussare  alla  porta.  La
superiora le disse:
        “Suor Santa Teresa, puoi andartene se ti annoi.”
        “Non mi annoio, signora.”
        “Il fatto è che ho mille cose da chiedere a questa figliola.”
        “Lo credo.”
        “Voglio sapere tutta la sua storia. Come potrò riparare  tutto  il  male
che le hanno fatto, se lo ignoro? Voglio  che  me  lo  racconti  senza  omettere
niente, sono sicura che ne avrò il  cuore  straziato  e  che  piangerò,  ma  non
importa. Suor Santa Susanna, quand’è che potrò sapere tutto?”
        “Quando me l’ordinerete, signora.”
        “Te lo chiederei fra poco, se ne avessimo il tempo. Che ore sono?”
        Suor Teresa rispose:
        “Sono le cinque, signora, e i vespri stanno per suonare.”
        “Può sempre cominciare.”
        “Ma signora, mi avevate promesso un momento di  consolazione  prima  dei
vespri. Ho dei pensieri che mi turbano; vorrei  proprio  aprire  il  cuore  alla
mamma.  Se  vado  all’uffizio  senza  averlo  fatto,  non  potrò  pregare,  sarò
distratta.”
        “No, no!” disse la superiora, “sei pazza con quelle tue idee.  Scommetto
che so già di che si tratta; ne parleremo domani.”
        “Ah, cara madre!” disse suor Teresa gettandosi ai piedi della  superiora
e sciogliendosi in lacrime, “fate che sia fra breve.”
        “Signora,” dissi alla superiora alzandomi dalle sue ginocchia  dove  ero
rimasta seduta, “concedete alla mia consorella ciò che ella vi  chiede;  non  la
fate ancora soffrire così; avrò sempre il tempo di  soddisfare  l’interesse  che
volete testimoniarmi, e quando avrete  ascoltato  la  mia  sorella  Teresa,  non
soffrirà più.”
        Feci il gesto di avviarmi verso la porta per  uscire;  la  superiora  mi
tratteneva  con  una  mano;  suor  Teresa,  in  ginocchio,  si  era  impadronita
dell’altra, la baciava e piangeva: la superiora le diceva:
        “In verità, suor Teresa, sei molto importuna con le tue inquietudini; te
l’ho già detto, è una cosa che non mi  piace,  che  m’infastidisce;  non  voglio
essere infastidita.”
        “Lo so, ma non sono  padrona  dei  miei  sentimenti;  vorrei  e  non  ci
riesco...”
        Nel frattempo mi ero ritirata e avevo lasciato la giovane suora  con  la
superiora. In chiesa non potei fare a meno di guardarla: c’erano ancora  in  lei
abbattimento e tristezza; i nostri occhi si  incontrarono  diverse  volte  e  mi
parve che le fosse difficile sostenere il mio sguardo. Quanto alla superiora, si
era assopita nel suo stallo.
        L’uffizio fu sbrigato con tale velocità. Da quel che potei giudicare, il
coro non era il luogo del convento dove si stesse più volentieri. Le monache  ne
uscirono veloci e cinguettanti come uno stormo d’uccelli che prenda il  volo  da
una gabbia e si dispersero le une nelle celle delle  altre,  correndo,  ridendo,
chiacchierando. La superiora si chiuse di nuovo nella sua cella e suor Teresa si
fermò sulla soglia della sua, spiandomi come se fosse stata  curiosa  di  sapere
che cosa avrei fatto. Io rientrai nella mia cella e la porta di suor  Teresa  si
chiuse solamente dopo un certo tempo, e si chiuse senza far rumore. Mi passò per
la testa che quella fanciulla potesse essere gelosa di me  e  temesse  ch’io  le
rubassi  il  posto  che  occupava  nelle  buone  grazie  e  nell’intimità  della
superiora. La osservai per diversi giorni di seguito e quando  i  miei  sospetti
furono sufficientemente confermati dai suoi scatti di collera, dai suoi  allarmi
puerili,  dalla  sua  insistenza  nel  pedinarmi,  nell’interrompere  i   nostri
colloqui, nel denigrare le mie qualità, nel mettere in risalto i miei difetti, e
ancora più dal suo pallore, dal suo dolore, dai suoi pianti, dal  suo  stato  di
salute fisica e persino mentale, l’andai a trovare e le dissi:
        “Che cosa avete, mia cara amica?”
        Non rispose; la mia visita la sorprese e la imbarazzò;  non  sapeva  che
dire o che fare.
        “Non siete giusta con me; ditemi la verità: voi  temete  ch’io  profitti
della simpatia che la nostra madre sente per me, che vi allontani dal suo cuore.
State tranquilla, non è nel mio carattere. Se mai fossi abbastanza fortunata  da
poter influenzare in qualche modo il suo animo...”
        “Voi avrete tutto quello che vorrete; lei vi ama; lei oggi  fa  per  voi
esattamente quello che ha fatto per me all’inizio.”
        “Ebbene, in tal caso siate certa ch’io non mi servirò della fiducia  che
vorrà concedermi se non per rendervi più cara a lei.”
        “E questo dipenderà da voi?”
        “Perché non dovrebbe dipendere da me?”
        Invece di  rispondermi,  mi  buttò  le  braccia  al  collo  e  mi  disse
sospirando:
        “Non è colpa vostra, lo  so  bene,  me  lo  dico  ad  ogni  istante;  ma
promettetemi...”
        “Che cosa volete che vi prometta?”
        “Che...”
        “Dite, coraggio! Farò tutto quello che dipenderà da me.”
        Esitò, si copri gli occhi con le mani e con voce così bassa  che  appena
la sentii: “Che la vediate meno che potrete.”
        La richiesta mi  parve  così  strana  che  non  potei  fare  a  meno  di
risponderle:
        “Che importa a  voi  ch’io  veda  di  frequente  o  di  rado  la  nostra
superiora? A me non dispiace affatto che voi la vediate di continuo. A  voi  non
deve dispiacere ch’io faccia altrettanto; non  vi  basta  la  mia  assicurazione
ch’io non vi faccia torto presso di lei, né a voi, né a nessun’altra?”
        Suor Teresa non mi rispose  che  con  queste  parole  che  pronunciò  in
maniera dolorosa staccandosi da me e buttandosi sul letto:
        “Sono perduta!”
        “Perduta! E perché? Bisogna proprio che  mi  crediate  la  creatura  più
perfida che ci sia al mondo!”
        Eravamo a questo punto quando entrò la superiora. Era passata nella  mia
cella e non avendomi trovata, aveva girato inutilmente per  tutto  il  convento.
Non le era venuto in mente che potessi essere da suor Santa Teresa. Dopo che  le
venne riferito dalle monache che aveva mandato alla  mia  ricerca,  accorse.  Lo
sguardo e il volto rivelavano un certo turbamento, ma tutta la sua  persona  era
così di rado composta!
        Seduta sul suo letto, suor Santa Teresa taceva; io ero in  piedi.  Dissi
alla superiora:
        “Mia cara madre, vi chiedo perdono di essere venuta qui senza il  vostro
permesso.”
        “È vero,” mi rispose, “che sarebbe stato meglio chiedermelo.”
        “Ma questa cara sorella mi ha fatto compassione; ho visto che soffriva.”
        “E perché soffriva?”
        “Ve lo debbo proprio dire? E dopo tutto perché non ve lo dovrei dire?  È
per una delicatezza che fa molto onore alla sua anima e che manifesta in maniera
spiccata il suo attaccamento per voi. La bontà  che  mi  avete  testimoniato  ha
messo in allarme la sua tenerezza: ella teme che il  vostro  cuore  finisca  per
preferirmi a lei. Questo sentimento di gelosia, così onesto d’altro canto,  così
naturale e così lusinghiero per voi, mia cara madre, da quel che mi  è  sembrato
di capire era divenuto crudele per la mia sorella, ed io la rassicuravo.”
        Dopo avermi ascoltato, la superiora assunse un’aria severa e  imponente,
e disse a suor Santa Teresa:
        “Suor Teresa, io vi ho  amata  e  vi  amo  ancora;  non  ho  ragione  di
lamentarmi di voi e voi non avrete da lamentarvi di me, ma non  posso  tollerare
queste pretese di esclusività. Liberatevene, se temete di spegnere quel  che  mi
rimane d’affetto per voi, e se vi ricordate la sorte di suor Agata...”
        Poi, rivolgendosi a me, soggiunse:
        “Sto parlando di quella bruna alta che nel coro sta di fronte a me.”
        (Io ero così schiva, ero da così poco tempo in quel convento,  ero  così
nuova, che non sapevo ancora tutti i nomi delle mie compagne.)
        La superiora proseguì:
        “La amavo, quando suor Teresa  entrò  in  convento  ed  io  cominciai  a
prediligerla. Suor Agata ebbe gli stessi turbamenti, commise le  stesse  pazzie.
Io l’avvertii, e lei non si corresse. Allora fui costretta a ricorrere  a  mezzi
severi che sono durati troppo a lungo e che  sono  del  tutto  contrari  al  mio
carattere; tutte vi diranno infatti ch’io sono buona e  non  punisco  se  non  a
malincuore.”
        Poi, rivolgendosi a suor Santa Teresa, aggiunse:
        “Figliola mia, non voglio essere infastidita, ve l’ho già detto; voi  mi
conoscete, non mi fate agire facendo violenza alla mia natura...”
        Poi, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi disse:
        “Venite, suor Santa Susanna, accompagnatemi.”
        Uscimmo. Suor Santa Teresa fece il gesto di seguirci, ma  la  superiora,
volgendo negligentemente lo sguardo sopra la  mia  spalla,  le  disse  con  tono
autoritario:
        “Tornate nella vostra cella e non uscitene senza il mio permesso.”
        Suor Santa Teresa ubbidì, richiuse la porta con  violenza  e  si  lasciò
sfuggire alcune frasi che  fecero  fremere  la  superiora  senza  ch’io  capissi
perché, giacché non avevano alcun senso. Vidi la sua collera e le dissi:
        “Cara madre, se avete qualche bontà per me,  perdonate  la  mia  sorella
Teresa; ha perso la testa, non sa quello che dice; non sa quello che fa.”
        “Volete ch’io la perdoni? La perdonerò; ma voi, che mi darete?”
        “Ah, cara madre, sarei così fortunata, io,  da  avere  qualcosa  che  vi
piacesse e che vi placasse?”
        La superiora abbassò gli occhi, arrossì, e sospirò; era proprio come  un
innamorato. Poi, abbandonandosi languidamente su  di  me  come  se  si  sentisse
mancare, mi disse:
        “Avvicinate la vostra fronte, ch’io la baci...”
        Mi curvai ed ella mi baciò la fronte. A  partire  da  quel  giorno,  non
appena una monaca aveva commesso qualche colpa, io intercedevo, ed ero sicura di
ottenere per lei la sua  grazia  in  cambio  di  qualche  favore  innocente;  si
trattava sempre di un bacio sulla fronte, o sul collo, o sugli  occhi,  o  sulle
guance, o sulla bocca, o sulle mani, o sul petto, o sulle braccia, ma più spesso
sulla bocca. Ella trovava che avevo un alito puro, i denti bianchi e  le  labbra
fresche e vermiglie.
        A dire il vero sarei davvero bella, se meritassi la minima  parte  degli
elogi che mi faceva: a sentir lei la mia fronte era  bianca,  liscia  e  di  una
forma incantevole; i miei occhi erano  brillanti;  le  mie  guance  vermiglie  e
dolci; le mie mani piccole e paffutelle; il mio petto era sodo come la pietra  e
di una forma perfetta; quanto alle mie braccia, non ve n’erano di meglio tornite
e di più rotonde; nessuna delle suore, poi, aveva un collo fatto meglio del mio,
né di una bellezza più squisita e più rara; e come  potrei  ricordare  tutte  le
altre cose che mi diceva! C’era, nelle lodi che mi faceva, qualcosa di  vero;  a
molte facevo la tara, ma non a tutte. Qualche volta, guardandomi dalla testa  ai
piedi con un’aria di compiacimento che non avevo mai visto a nessun’altra donna,
mi diceva:
        “È la più grande fortuna del mondo che Dio l’abbia chiamata in convento;
con quel viso lì, nel mondo avrebbe fatto dannare tutti gli  uomini  che  avesse
incontrato, e si sarebbe dannata con loro. Dio fa bene tutto quello che fa.”
        Intanto ci avvicinavamo alla sua cella; io mi accingevo a lasciarla,  ma
lei mi prese per mano e mi disse:
        “È troppo tardi per cominciare la vostra storia  di  Santa  Maria  e  di
Longchamp, ma entrate lo stesso, mi darete una lezioncina di clavicembalo.”
        La seguii. Ebbe presto fatto, vivace com’era, ad aprire il clavicembalo,
a preparare uno spartito, ad avvicinare una sedia. Mi sedetti. Pensò che potessi
aver freddo; prese da una sedia un cuscino che posò davanti a me, si  chinò,  mi
prese entrambi i piedi che posò sopra il cuscino; poi si mise dietro la sedia  e
si appoggiò allo schienale. Dapprima accennai  a  qualche  accordo;  poi  suonai
qualche pezzo di Couperin, di Rameau, di Scarlatti; lei intanto aveva  sollevato
un lembo della bavetta che mi copriva il collo, la sua mano si era posata  sulla
mia spalla nuda e la  punta  delle  dita  sul  mio  petto.  Sospirava,  sembrava
oppressa, respirava affannosamente; la mano che teneva sulla mia spalla,  in  un
primo momento la premeva con forza, poi non la premeva più per niente,  come  se
fosse stata senza forza e senza vita, e allora la sua testa ricadeva sulla  mia.
Quella pazza era, a onor del vero, di una sensibilità  incredibile  e  aveva  un
gusto spiccato per la musica; non ho mai conosciuto nessuno  su  cui  la  musica
producesse effetti tanto singolari.
         Ci  divertivamo  così,  in  maniera  semplice  quanto  dolce,  allorché
all’improvviso la porta si spalancò con violenza; ne ebbi paura e così  pure  la
superiora. Era quella stravagante  di  suor  Santa  Teresa,  con  gli  abiti  in
disordine e gli occhi torbidi. Ci scrutava l’una e l’altra con l’attenzione  più
bizzarra; le tremavano le labbra, non poteva parlare. Infine riuscì a tornare in
sé e si gettò ai piedi della superiora; io unii la  mia  preghiera  alla  sua  e
ottenni ancora una volta il suo perdono. La superiora le assicurò nel  modo  più
categorico che sarebbe stata l’ultima volta, almeno per colpe di quel genere,  e
suor Teresa ed io uscimmo insieme.
        Tornando alle nostre celle le dissi:
        “State attenta, cara sorella, voi indisporrete la nostra madre.  Io  non
vi abbandonerò, ma voi finirete col togliermi ogni credito presso di  lei  e  io
sarò disperata di non poter più niente né per voi, né per nessun’altra. Ma quali
idee avete in testa?”
        Nessuna risposta.
        “Che cosa temete da parte mia?”
        Nessuna risposta.
        “La nostra madre non può forse amarci in egual modo tutte e due?”
        “No, no,” rispose  lei  con  violenza,  “è  impossibile;  presto  io  le
ripugnerò e ne morrò di dolore. Ah, ma perché siete venuta qui!  Non  vi  sarete
felice a lungo, ne sono sicura. E io, io sarò infelice per sempre.”
        “È una gran disgrazia, lo so,” le risposi, “aver perduto la  benevolenza
della propria superiora, ma  io  ne  conosco  una  più  grande,  ed  è  d’averla
meritata; non avete nulla da rimproveravi?”
        “Ah, così piacesse a Dio!”
        “Se in cuor vostro vi accusate di qualche colpa, dovete ripararla; e  il
mezzo più sicuro è di sopportare pazientemente il castigo.”
        “Non saprei, non saprei proprio, e in ogni caso, spetta a lei punirmi?”
        “A lei, suor Teresa, a lei! Si parla forse così di una superiora? Non  è
una cosa buona, questa; voi state trascendendo. Sono sicura  che  questa  vostra
colpa e più grave di tutte quelle che vi rimproverate.”
        “Ah, così piacesse a Dio,” ripeté, “piacesse a Dio!”
        Ci separammo, lei per andare nella sua cella a desolarsi, io per  andare
nella mia a riflettere sulle stranezze delle teste femminili.
        Questo è dunque l’effetto della clausura. L’uomo è nato  per  vivere  in
società. Separatelo, isolatelo, le sue idee si dissoceranno,  il  suo  carattere
cambierà radicalmente, mille affetti ridicoli gli nasceranno nel cuore, pensieri
stravaganti gli germoglieranno nella mente come rovi  in  una  terra  selvatica.
Mettete un uomo in una foresta, diventerà feroce; in un chiostro, dove l’idea di
necessità si associa a quella di schiavitù, è  ancor  peggio;  si  esce  da  una
foresta, non si esce più da un chiostro; si è liberi nella foresta, si è schiavi
in un chiostro. Forse occorre una forza d’animo ancor più grande  per  resistere
alla solitudine che alla miseria; la miseria avvilisce, la clausura  deprava.  È
forse meglio vivere nell’abiezione che nella  follia.  Non  sarei  in  grado  di
decidere; ma bisogna evitare l’una e l’altra.
        Vedevo crescere di giorno in giorno la tenerezza che la superiora  aveva
concepito per me. Ero di continuo nella sua cella, oppure lei era nella mia; per
la minima indisposizione mi ordinava l’infermeria, mi dispensava dalle  funzioni
religiose, mi mandava a letto presto o mi proibiva l’orazione del  mattino.  Nel
coro, al refettorio, a ricreazione, trovava  il  modo  di  testimoniare  la  sua
amicizia. Se nel coro ci s’imbatteva in un versetto che esprimeva un  sentimento
affettuoso e tenero, lo cantava dedicandolo  a  me,  oppure  mi  guardava  se  a
cantarlo era un’altra. Al refettorio, mi mandava sempre  ad  assaggiare  i  cibi
squisiti che le venivano serviti. Durante la ricreazione, mi allacciava la  vita
e mi diceva le cose più dolci e amabili. Non riceveva regalo che  non  dividesse
con me: cioccolata, zucchero, caffè, liquori, tabacco,  biancheria,  fazzoletti,
qualsiasi cosa. Aveva spogliato la sua cella di stampe, utensili,  mobili  e  di
un’infinità di  cose  piacevoli  e  comode  per  adornare  la  mia;  non  potevo
allontanarmi un momento senza trovarla, al mio ritorno,  arricchita  di  qualche
regalo. Andavo a  ringraziarla  nella  sua  cella  ed  ella  provava  una  gioia
indescrivibile; mi abbracciava, mi accarezzava, mi prendeva sulle ginocchia,  mi
metteva al corrente delle cose più segrete del convento, e si  riprometteva,  se
io l’avessi amata, una vita  mille  volte  più  felice  di  quella  che  avrebbe
trascorso nel mondo.  Dopo  di  che  si  interrompeva,  mi  guardava  con  occhi
inteneriti e mi diceva:
        “Mi amate, suor Susanna?”
        “E come potrei non amarvi? Dovrei avere l’animo davvero ingrato.”
        “Questo è vero.”
        “Avete tanta bontà per me...”
        “Dite, piuttosto, attrazione per voi.”
        Pronunciando queste parole, abbassava gli occhi,  la  mano  con  cui  mi
teneva abbracciata mi stringeva più  forte,  quella  che  mi  aveva  posato  sul
ginocchio, accentuava la sua pressione, mi attirava su di sé,  il  mio  viso  si
trovava sopra il suo, lei sospirava, si rovesciava sullo schienale della  sedia,
tremava, si sarebbe detto che  avesse  da  confidarmi  qualcosa  e  non  osasse;
versava lacrime, e poi mi diceva:
        “Ah, suor Susanna, voi non mi amate!”
        “Io non vi amo, cara madre?”
        “No.”
        “Ditemi allora che cosa devo fare per provarvelo.”
        “Dovreste indovinare da sola.”
        “Cerco, ma non indovino niente.”
        Intanto si era tolta la bavetta e aveva  posato  la  mia  mano  sul  suo
petto. Ella taceva, e anch’io tacevo; sembrava che  assaporasse  il  più  grande
piacere. Mi esortava a baciarle la fronte, le guance, gli occhi, la bocca, ed io
obbedivo: non credo che in questo ci  fosse  niente  di  male.  Intanto  il  suo
piacere aumentava e giacché io non chiedevo di  meglio  che  accrescere  la  sua
felicità in un modo così innocente, le baciavo ancora la fronte, le guance,  gli
occhi e la bocca.
        La mano che aveva posato sul mio ginocchio andava su e giù  per  i  miei
abiti, dalla punta dei piedi fino alla cintola, ora premendo in un punto, ora in
un altro; balbettando mi esortava con voce alterata e bassa,  a  raddoppiare  le
mie carezze. Io le raddoppiavo. Giunse infine un momento, non so se di piacere o
di dolore, in cui divenne pallida come una morta;  gli  occhi  le  si  chiusero,
tutto il suo corpo si irrigidì con violenza, le sue labbra  umide  come  di  una
schiuma leggera, prima si strinsero, poi la bocca le si dischiuse e mi parve che
morisse esalando un profondo sospiro. Mi  alzai  bruscamente,  credetti  che  si
sentisse male, volevo uscire, chiamare aiuto. Aprì debolmente gli  occhi,  e  mi
disse con voce spenta:
        “Innocente, non è niente. Che volete fare? Fermatevi...”
        La guardai sgranando gli occhi stupefatti, incerta se restare o  uscire.
Aprì di nuovo gli occhi; non poteva più parlare per niente;  mi  fece  cenno  di
avvicinarmi e di tornare a sedermi sulle sue ginocchia. Non so che  cosa  stesse
succedendo dentro di me; temevo, tremavo, il cuore mi  palpitava  forte,  facevo
fatica a respirare, mi sentivo  turbata,  oppressa,  agitata,  avevo  paura,  mi
sembrava che le forze mi abbandonassero e che stessi per svenire; ciò nonostante
non potrei dire che provassi dolore. Mi avvicinai a lei; mi fece di nuovo  cenno
con la mano di sedermi sulle sue ginocchia; mi sedetti. Lei era come  morta,  ed
io come se stessi per morire. Entrambe rimanemmo  alquanto  a  lungo  in  quello
strano stato; se fosse sopravvenuta qualche monaca, in verità si  sarebbe  assai
spaventata; sembrava che ci fossimo sentite male o che ci fossimo  addormentate.
Nel frattempo mi parve che quella buona superiora, poiché è  impossibile  essere
così sensibili e non essere buone, tornasse in  sé;  era  sempre  riversa  sulla
sedia con gli occhi sempre chiusi; ma il suo  viso  si  era  rianimato  e  aveva
ripreso i più bei colori; mi prendeva una mano, la baciava, e io le dicevo:
        “Ah, mia cara madre, mi avete fatto davvero paura...”
        Sorrise dolcemente senza aprire gli occhi.
        “Ma non avete sofferto?”
        “No.”
        “Ho creduto di sì.”
        “Che innocente! Ah, che cara innocente! Come mi piace!”
        Nel dire così, si sollevò, si rimise a sedere, mi prese tra le braccia e
mi baciò sulle guance con molta foga, poi mi disse:
        “Quanti anni avete?”
        “Non ho ancora diciannove anni.”
        “È inconcepibile!”
        “Cara madre, non c’è niente di più vero.”
        “Voglio conoscere la vostra vita; me la racconterete?”
        “Sì, cara madre.”
        “Tutta?”
        “Tutta.”
        “Ma potrebbe entrare qualcuno; andiamoci a mettere al  clavicembalo;  mi
farete lezione.”
        Andammo al clavicembalo, ma non so come accadde, le mani  mi  tremavano,
lo spartito non mi lasciava intravedere che un ammasso confuso di note; non  fui
capace di suonare. Glielo dissi, e lei si mise a ridere. Prese il mio posto,  ma
fu anche peggio; poteva appena sollevare le braccia.
        “Figliola mia,” mi disse, “vedo che tu non sei in  condizioni  di  darmi
lezioni, né io di imparare; sono un po’ stanca; bisogna che  mi  riposi.  Addio.
Domani, senza più indugiare, voglio sapere tutto quello che è accaduto in quella
vostra cara piccola anima. Addio.”
        Le altre volte, quando uscivo,  mi  accompagnava  fino  alla  porta,  mi
seguiva con gli occhi lungo tutto il corridoio fino  alla  mia;  mi  buttava  un
bacio con la mano e rientrava nella sua cella solo quando  ero  rientrata  nella
mia. Quella volta, riuscì appena ad alzarsi; tutto quello che poté  fare  fu  di
raggiungere la poltrona che era accanto al suo letto;  si  sedette,  reclinò  la
testa sul guanciale, mi buttò il bacio con le  mani,  mentre  gli  occhi  le  si
chiudevano, e io me ne andai.
        La mia cella era quasi di fronte alla cella di  suor  Santa  Teresa.  La
porta era aperta. Suor Santa Teresa mi aspettava.
        Mi fermò e mi disse:
        “Ah, suor Santa Susanna, venite dalla cella della nostra madre?”
        “Sì,” le risposi.
        “Vi siete rimasta a lungo.”
        “Tutto il tempo che lei ha voluto.”
        “Non è quello che mi avevate promesso. Osereste dirmi che cosa ci  avete
fatto?”
         Benché  la  mia  coscienza  non  avesse  nulla  da  rimproverarmi,   vi
confesserò, signor marchese, che quella domanda mi turbò.  Lei  se  ne  accorse,
insisté, ed io risposi:
        “Forse cara sorella, voi non mi  credereste;  ma  forse  crederete  alla
nostra cara madre, e io la pregherò di mettervi al corrente.”
        “Mia cara suor Santa Susanna,” mi disse vivamente,  “guardatevene  bene.
Voi non volete la mia infelicità:  non  me  lo  perdonerebbe  mai.  Voi  non  la
conoscete: è capace di passare dalla più grande sensibilità alla ferocia; non so
che cosa ne farebbe di me. Promettetemi di non dirle niente.”
        “Ci tenete proprio?”
        “Ve lo  chiedo  in  ginocchio.  Sono  disperata;  vedo  bene  che  dovrò
decidermi, e mi deciderò. Promettetemi di non dirle niente.”
        La feci rialzare, le detti la mia parola. Ella ci fece  assegnamento  ed
ebbe ragione. Poi ci chiudemmo, lei nella sua cella, io nella mia.
        Tornata che fui nella mia cella, mi resi conto di essere  nelle  nuvole.
Volli pregare, e non vi riuscii; cominciai un lavoro e lo lasciai per  un  altro
che lasciai a sua volta per un altro ancora. Le mani mi si fermavano da  sole  e
mi sentivo come stupidita. Mai avevo provato qualcosa di simile; i miei occhi si
chiusero da soli e feci un sonnellino, benché non dorma mai durante  il  giorno.
Quando mi fui svegliata, mi interrogai su quello che era accaduto tra  me  e  la
superiora; feci un esame di coscienza, poi,  esaminandomi  ancora,  credetti  di
intravedere... ma erano idee così  vaghe,  così  folli,  così  balorde,  che  le
respinsi lontano da me. Il risultato delle  mie  riflessioni  fu  che  forse  si
trattava di una malattia della quale ella soffriva; poi mi venne anche  un’altra
idea: che forse quella malattia  fosse  contagiosa,  che  suor  Teresa  l’avesse
contratta, e che l’avrei contratta anch’io.
        L’indomani, dopo l’uffizio del mattino, la nostra  superiora  mi  disse:
“Suor Santa Susanna, oggi  spero  proprio  di  sapere  tutto  quello  che  vi  è
successo; venite da me.”
        Andai. Mi fece sedere nella sua poltrona accanto al  letto  ed  ella  si
mise su una sedia un po’ più bassa. In tal modo la dominavo, un po’ perché  sono
più alta e un po’ perché ero seduta in posizione  più  elevata.  Con  un  gomito
stava appoggiata al letto, ed  era  così  vicina  a  me  che  le  mie  ginocchia
s’intrecciavano con le sue. Dopo un breve momento di silenzio, le dissi:
        “Benché  sia  molto  giovane,  ho  sofferto  non  poco.  Saranno  presto
vent’anni che sono al mondo, e vent’anni che soffro. Non so se riuscirò a  dirvi
tutto, e se voi avrete il coraggio di stare a sentire. Sofferenze  in  casa  dei
miei genitori, sofferenze nel convento di Santa Maria, sofferenze  nel  convento
di Longchamp, sofferenze dappertutto.  Cara  madre,  da  che  parte  volete  che
cominci?”
        “Dalle prime.”
        “Cara madre,” le dissi, “sarà molto lungo e molto triste, e  non  vorrei
addolorarvi per troppo tempo.”
        “Non temere, mi piace piangere: per un’anima tenera, versare  lacrime  è
una condizione deliziosa. Anche a te deve piacer piangere; tu asciugherai le mie
lacrime, io asciugherò le tue, e forse saremo felici in mezzo  al  racconto  dei
tuoi patimenti; chi lo sa fin dove può condurci l’intenerimento...”
        Nel pronunciare queste ultime parole, mi guardò dal basso  in  alto  con
occhi già umidi, mi prese le mani, mi si avvicinò ancor di più in modo  che  lei
mi toccava, ed io la toccavo.
        “Racconta, figliola mia,” mi disse, “io sto aspettando e mi sento  nella
disposizione d’animo più propizia ad intenerirmi; non credo di aver mai avuto in
vita mia un giorno più disposto alla comprensione e all’affetto...”
        Cominciai dunque a  raccontare  la  mia  storia  all’incirca  come  l’ho
scritta a voi. Non sono in grado di dirvi l’effetto che produsse su  di  lei,  i
sospiri che emise, le lacrime che versò, le manifestazioni di  sdegno  contro  i
miei crudeli genitori, contro le orribili monache di Santa Maria, contro  quelle
di Longchamp; mi dorrebbe assai se fossero state colpite dalla minima parte  del
male che augurava loro: io non vorrei aver strappato nemmeno  un  capello  dalla
testa del mio più crudele nemico. Ogni tanto m’interrompeva, si  alzava,  andava
su e giù per la cella, poi si sedeva di nuovo al suo posto; altre  volte  alzava
gli occhi e le mani al cielo, e poi si  nascondeva  con  la  testa  fra  le  mie
ginocchia. Quando le parlavo della mia scena nella segreta, di  quella  del  mio
esorcismo, della mia onorevole ammenda, si mise quasi a gridare.  Quando  giunsi
alla fine del mio racconto, tacqui, ed ella rimase per un  certo  tempo  con  il
corpo piegato sul letto, il viso nascosto nella coperta e le braccia tese  sopra
la testa; e io intanto le dicevo:
        “Cara madre, vi chiedo perdono per tutto il dolore che vi  ho  dato;  vi
avevo avvertito, siete stata voi a volerlo...”
        E lei non mi rispondeva che con queste parole:
         “Che  perfida  creatura!  Che  orribile  creatura!  Solo  nei  conventi
l’umanità può arrivare a questi estremi. Quando l’odio si aggiunge  al  malumore
abituale, non si sa più dove andranno a finire le  cose.  Per  fortuna  io  sono
dolce, io amo tutte le mie monache; tutte, chi  più  e  chi  meno,  hanno  preso
qualcosa del mio carattere, e si  amano  tutte  fra  loro.  Ma  come  ha  potuto
resistere una salute così delicata a tanti patimenti?  Come  hanno  fatto  tutte
queste esili membra a non spezzarsi? Come ha potuto  non  lasciarsi  distruggere
questo fragile organismo? E come mai lo splendore  di  questi  occhi  non  si  è
spento tra le lacrime? Ah, quale crudeltà! Stringere queste  braccia  con  delle
corde!...”
        E mi prendeva le braccia e le baciava.
        “Annegare nelle lacrime questi occhi!...” E li baciava.
        “Strappare gemiti e lamenti da questa bocca!...” E la baciava.
        “Condannare questo visino delizioso e  sereno  a  velarsi  continuamente
delle nuvole della tristezza! ...” E lo baciava.
        “Fare appassire le rose di queste guance! ...” E  le  carezzava  con  la
mano, e le baciava.
        “Disabbellire questa testa, strapparle i  capelli,  gravare  di  affanni
questa fronte!...” E mi baciava la testa, la fronte, i capelli.
        “Osare cingere di una corda questo collo, ferire queste spalle con delle
punte aguzze...” E scostava la bavetta e il velo, sbottonava  il  mio  abito  in
alto. I capelli mi ricadevano sparsi sul collo, sulle spalle coperte e sul petto
seminudo. Dal  tremito  che  la  coglieva,  dai  suoi  discorsi  confusi,  dallo
smarrimento dei suoi occhi e delle sue mani, dal ginocchio  che  premeva  tra  i
miei, dall’ardore con il quale mi stringeva e dalla violenza con la quale le sue
braccia mi allacciavano, mi accorsi allora che il suo male non avrebbe tardato a
riprenderla. Non so quel che stesse accadendo in me, ma mi sentivo colta da  uno
spavento, da un tremito, da un senso  di  mancamento  che  confermavano  il  mio
sospetto che quel suo male fosse contagioso.
        Le dissi:
        “Cara madre, guardate in che  disordine  mi  avete  messa;  se  qualcuno
venisse!”
        “Rimani, rimani,” mi disse con voce affannosa, “non verrà nessuno...”
        Io però facevo degli sforzi per alzarmi e strapparmi a lei, e intanto le
dicevo:
        “Cara madre, state  attenta,  ecco  il  vostro  male  che  vi  riprende.
Permettete che me ne vada...”
        Volevo andarmene; lo volevo,  questo  è  certo,  ma  non  potevo;  avevo
perduto ogni forza, le ginocchia mi si piegavano. Lei era seduta, io  in  piedi.
Lei mi attirava a sé, io avevo paura di caderle addosso  e  di  farle  male.  Mi
sedetti sull’orlo del letto, e le dissi:
        “Cara madre, non so che cos’ho, mi sento male.”
        “Anch’io,” mi disse, “ma riposati un momento, ora passa, non è niente.”
        Infatti la superiora ritrovò la calma: ed io pure. Eravamo tutte  e  due
abbattute. Io tenevo la testa reclina sul guanciale,  lei  stava  con  la  testa
posata su un mio ginocchio, la fronte su una mia mano.  Restammo  per  un  certo
tempo in quella posizione. Non so che  cosa  pensasse  lei;  quanto  a  me,  non
pensavo a niente; non potevo, ero in preda a una debolezza che mi prendeva tutta
quanta. Stavamo in silenzio. La superiora lo interruppe per prima; mi disse:
        “Susanna, mi è parso, da quel che mi avete detto della vostra superiora,
che vi fosse molto cara.”
        “Molto.”
        “Lei non vi amava più di me, ma era più amata da voi Non rispondete?”
        “Ero infelice, e lei addolciva le mie pene.”
        “Ma da che cosa nasce questa vostra ripugnanza per  la  vita  religiosa?
Voi non mi avete detto tutto, Susanna.”
        “Perdonatemi, signora.”
        “Come! Non è  possibile,  incantevole  come  siete,  giacché  lo  siete,
figliola mia, lo siete molto, non immaginate nemmeno  quanto  lo  siete,  non  e
possibile che nessuno ve l’abbia detto.”
        “Me l’hanno detto.”
        “E colui che ve lo diceva, non vi dispiaceva?”
        “No.”
        “Vi siete sentita attratta da lui?”
        “Per niente.”
        “Come! Il vostro cuore non ha mai sentito niente?”
        “Niente.”
        “Come! Non è stata una passione segreta,  o  non  approvata  dai  vostri
genitori, a far nascere in voi quest’avversione  per  il  convento?  Confidatevi
pure con me; sono indulgente io!”
        “Cara madre, non ho niente da confidarvi a questo proposito.”
        “Ancora una volta, da dove nasce allora la vostra ripugnanza per la vita
religiosa?”
        “Dalla vita religiosa stessa. Odio i doveri, le occupazioni, il  ritiro,
le costrizioni che impone; mi sembra di essere chiamata a qualcosa di diverso.”
        “Ma che cos’è che vi da quest’impressione?”
        “La noia che mi opprime. Io mi annoio.”
        “Anche qui?”
         “Sì,  cara  madre,  anche  qui,  nonostante  tutta  la  bontà  che   mi
dimostrate.”
        “Ma voi provate dentro di voi qualche impulso, qualche desiderio?”
        “Nessuno.”
        “Vi credo: la vostra indole sembra tranquilla.”
        “Abbastanza.”
        “Fredda, persino.”
        “Non lo so.”
        “Voi non conoscete il mondo?”
        “Lo conosco poco.”
        “Quale attrazione, allora, può avere per voi?”
        “Non mi è molto chiaro; eppure bisogna che ne abbia.”
        “Rimpiangete forse la libertà?”
        “È così. E forse molte altre cose.”
        “Quali sono, queste altre cose? Amica mia,  parlatemi  a  cuore  aperto;
vorreste essere sposata?”
        “Sarebbe sempre preferibile a quello che sono adesso, questo è certo.”
        “Perché una simile preferenza?”
        “Lo ignoro.”
        “Lo ignorate? Ma ditemi, che impressione fa su di voi la presenza di  un
uomo?”
        “Nessuna. Se è intelligente e parla bene, sto a sentirlo con piacere; se
ha un bell’aspetto, lo noto.”
        “E il vostro cuore non è turbato?”
        “Finora non ha provato nessuna emozione.”
        “Come! Quando hanno fissato i loro occhi accesi nei  vostri,  non  avete
sentito...”
        “Talvolta un certo imbarazzo che mi faceva abbassare i miei.”
        “Senza nessun turbamento?”
        “Nessuno.”
        “E i vostri sensi non vi dicevano niente?”
        “Non so che cosa sia il linguaggio dei sensi.”
        “Eppure, hanno un linguaggio.”
        “Può darsi.”
        “E voi non lo conoscete?”
        “Affatto.”
        “Come! voi... È un linguaggio molto dolce, vi piacerebbe conoscerlo?”
        “No, cara madre, a che cosa mi gioverebbe?”
        “A dissipare la vostra noia.”
        “Ad accrescerla, forse. E poi, che significato ha questo linguaggio  dei
sensi, se non ha un oggetto?”
        “Quando si parla, ci si rivolge sempre a  qualcuno.  Sicuramente  meglio
che intrattenersi da soli, benché anche  questo  non  sia  del  tutto  privo  di
piacere.”
        “Non capisco niente di quello che dite.”
        “Se tu volessi, cara figliola, potrei essere più chiara.”
        “No, cara madre, no. Io non so niente e  preferisco  non  sapere  niente
piuttosto che conoscere cose che forse mi  renderebbero  più  degna  che  essere
compianta di quanto già non lo sia.  Non  ho  nessun  desiderio,  e  non  voglio
averne, se non posso soddisfarli.”
        “Perché non potresti?”
        “Come potrei?”
        “Come me.”
        “Come voi! Ma non c’è nessuno in questo convento...”
        “Ci sono io, cara amica, ci siete voi...”
        “E con questo? che cosa sono io per voi? che cosa siete per me?”
        “Oh, com’è innocente!”
        “Oh, sì, è vero, cara madre, sono molto innocente, e  preferirei  morire
piuttosto che non esserlo più.”
        Ignoro che cosa potessero avere di  sgradevole  per  lei  queste  ultime
parole, ma  all’improvviso  le  fecero  cambiare  espressione;  si  fece  seria,
imbarazzata; la mano che aveva posato  sul  mio  ginocchio,  dapprima  smise  di
premere, poi si ritirò. Teneva gli occhi bassi. Le dissi:
        “Mia cara madre, che cosa è accaduto? Mi è forse sfuggita qualche parola
che potrebbe avervi offesa? Perdonatemi. Approfitto della libertà che  mi  avete
concessa, non  rifletto  su  quello  che  ho  da  dirvi,  e  inoltre,  anche  se
riflettessi, non parlerei diversamente. Forse parlerei anche peggio. Le cose  di
cui stiamo parlando, mi sono così estranee... Perdonatemi!”
        Nel così dire le gettai le braccia intorno al collo e le posai la  testa
sulla spalla. Lei fece altrettanto e mi strinse a sé con molto calore. Rimanemmo
così per qualche istante; poi, ritrovando la sua tenerezza e la sua serenità, mi
disse:
        “Susanna, dormite bene?”
        “Benissimo,” le risposi, “soprattutto  da  un  po’  di  tempo  a  questa
parte.”
        “E vi addormentate subito?”
        “Di solito, sì.”
        “Ma quando non vi addormentate subito, a che cosa pensate?”
        “Alla mia vita passata, a quella che mi resta ancora, oppure prego  Dio,
o piango, che altro ancora?”
        “E la mattina, quando vi svegliate presto?”
        “Mi alzo.”
        “Subito?”
        “Subito.”
        “Non vi piace stare a fantasticare?”
        “No.”
        “A riposarvi tra i guanciali?”
        “No.”
        “A godere del tepore del letto?”
        “No.”
        “Mai...”
        A questo punto tacque, e fece bene; quel che aveva da chiedermi non  era
una cosa molto bella, e forse io faccio anche più male a dirla, ma ho deciso  di
non nascondere niente.
        “Non avete mai avuto la tentazione di guardare  con  compiacimento  come
siete bella?”
        “No, cara madre. Non so se  io  sia  proprio  bella  come  dite  voi,  e
quand’anche lo fossi, si è belle per gli altri, non per se stesse.”
        “Non avete mai pensato ad accarezzare questo petto, queste cosce, questo
ventre, queste carni così sode, così dolci, così bianche?”
        “Quanto a questo, oh, no di  certo!  Sarebbe  peccato.  E  se  mi  fosse
capitata una cosa simile, non so come avrei fatto a dirlo in confessione...”
        Non so che cos’altro ci stavamo dicendo, quando  vennero  ad  avvertirla
che qualcuno la stava aspettando in parlatorio. Mi parve che quella  visita  non
le fosse gradita e che avrebbe preferito continuare a parlare con me, benché non
fosse proprio il caso di rimpiangere quello che ci stavamo dicendo. In ogni modo
ci separammo.
        La comunità non era mai stata felice come  dal  giorno  in  cui  io  ero
entrata a farne parte. La superiora sembrava che non avesse più  i  suoi  sbalzi
d’umore; si diceva ch’io l’avessi equilibrata. Grazie a me ella  concesse  anche
diversi giorni di ricreazione, e quelle che sono chiamate delle feste;  in  quei
giorni si è servite un po’ meglio del solito, le funzioni sono più brevi e tutti
gli intervalli tra le funzioni sono dedicati allo svago. Ma  quel  tempo  felice
doveva passare, per le altre, e per me.

        La scena che vi ho descritto fu  seguita  da  innumerevoli  altre  dello
stesso genere sulle quali sorvolo. Ecco quale fu il seguito di quella di cui  vi
ho parlato.
        La superiora cominciava a dar segni di irrequietudine;  perdeva  la  sua
bella allegria, la salute, il riposo. La notte seguente, mentre tutte  dormivano
e il convento era immerso nel silenzio, ella si alzò. Dopo aver  girovagato  per
qualche tempo nei corridoi, venne alla mia cella. Io ho il sonno leggero ed ebbi
l’impressione di riconoscerla. Si fermò; appoggiò probabilmente la fronte contro
la porta e fece abbastanza rumore da svegliarmi caso mai avessi dormito.  Rimasi
silenziosa. Mi sembrò di  sentire  una  voce  che  si  lamentava,  qualcuno  che
sospirava; mi colse dapprima un leggero brivido,  poi  mi  decisi  a  dire  Ave.
Invece di rispondermi, si allontanò a passi leggeri. Tornò poco  tempo  dopo;  i
gemiti e i  sospiri  ricominciarono.  Dissi  ancora  Ave,  e  si  allontanò.  Mi
tranquillizzai, mi addormentai. Mentre dormivo, entrò e si  sedette  accanto  al
mio letto. Le tende erano socchiuse; ella teneva in  mano  una  candela  il  cui
bagliore mi rischiarava il viso, e colei che la portava mi guardava dormire: per
lo meno fu quello che arguii dal suo atteggiamento quando aprii gli  occhi.  Era
la superiora.
        Mi sollevai di scatto; ella vide il mio spavento e mi disse:
        “Non abbiate paura, Susanna, sono io...”
        Posai di nuovo la testa sul guanciale e le chiesi:
        “Cara madre, che cosa fate qui a quest’ora? Che cosa vi ha fatto  venire
qui? Perché non dormite?”
        “Non riesco a dormire,” mi rispose, “e ci vorrà molto prima  che  dorma.
Sogni tormentosi non mi danno requie. Appena ho gli occhi chiusi tutto  il  male
che avete patito si presenta alla mia immaginazione; vi  vedo  preda  di  quelle
donne disumane, vi vedo con i capelli sparsi sul  viso;  vi  vedo  con  i  piedi
insanguinati, la torcia in mano, la corda intorno al collo; credo che stiano per
uccidervi; rabbrividisco, tremo, un sudore gelido mi si diffonde  per  tutto  i1
corpo; voglio accorrere in  vostro  aiuto;  grido,  mi  sveglio,  e  inutilmente
aspetto che torni il sonno. Ecco quello che mi è  accaduto  stanotte.  Ho  avuto
paura che il cielo mi annunciasse che era accaduta una disgrazia alla mia amica;
mi sono alzata, mi sono avvicinata alla vostra porta, ho teso l’orecchio,  mi  è
sembrato che dormiste. Poi avete parlato, e allora me ne sono andata.  Sono  poi
ritornata, voi avete parlato di nuovo, e ancora una volta  me  ne  sono  andata.
Sono tornata una terza volta, e quando ho creduto che dormiste, sono entrata.  È
già un po’ di tempo che sono accanto a voi e che temo  di  svegliarvi.  Dapprima
sono stata incerta se scostare le vostre tende; volevo andarmene per  timore  di
turbare il vostro riposo, ma non ho potuto resistere al desiderio di  vedere  se
la mia cara Susanna stava bene. Vi ho guardata; come siete bella,  anche  quando
dormite!”
        “Mia cara madre, come siete buona!”
        “Ho preso freddo, ma ora so che non  ho  nulla  da  temere  per  la  mia
figliola, e credo che dormirò. Datemi la vostra mano.”
        Le detti la mano.
        “Com’è tranquillo il polso! com’è regolare! Non vi è  niente  che  possa
eccitarlo.”
        “Ho un sonno abbastanza tranquillo.”
        “Come siete fortunata!”
        “Cara madre, continuerete a prendere freddo,”
        “Avete ragione; addio mia bella amica, addio; ora me ne vado.”
        Ma non se ne andava e continuava a guardarmi: dagli occhi le  sgorgavano
due lacrime.
        “Che cosa avete, cara madre?” le dissi. “Voi piangete; come mi  dispiace
avervi raccontato le mie sofferenze!...”
        All’improvviso chiuse la porta, spense la candela, e si precipitò su  di
me, mi teneva stretta, con il viso incollato al mio. Le sue lacrime mi bagnavano
le guance, sospirava, e mi diceva con voce spezzata e lamentosa:
        “Cara amica, abbiate pietà di me.”
        “Che cosa avete, cara madre?” le dissi. “Vi sentite male? Che cosa debbo
fare?”
        “Tremo,” mi disse, “mi sento rabbrividire; un freddo  mortale  mi  corre
per le ossa.”
        “Volete che mi alzi e che vi ceda il mio posto?”
        “No,” mi disse, “non è necessario che vi alziate; scostate solo un  poco
la coperta, perché mi possa avvicinare a voi, per riscaldarmi, e guarire.”
        “Cara madre,” le dissi, “sapete che è proibito. Che cosa si direbbe,  se
si venisse a saperlo? Ho visto punire delle monache per cose molto  meno  gravi.
Una volta, nel convento di Santa Maria, una monaca andò di notte nella cella  di
un’altra che era sua buona amica; non so dirvi tutto il male che  ne  pensarono.
Il direttore spirituale mi ha chiesto più volte se nessuna mi aveva mai proposto
di venire a dormire accanto a me e mi ha severamente raccomandato di  rifiutare.
Gli ho anche detto delle vostre carezze; io le trovo molto innocenti, ma  lui  è
di parere diverso. Non so come ho potuto dimenticare i suoi consigli; eppure  mi
ero ripromessa di parlarvene.”
        “Cara amica,” mi disse, “tutto dorme intorno a  noi,  nessuno  ne  saprà
niente. Sono io che premio e che  punisco;  il  direttore  spirituale  può  dire
quello che vuole, io non vedo nessun male nell’accogliere accanto a sé  un’amica
presa dall’ansia, che si è svegliata e durante la  notte,  nonostante  i  rigori
della stagione, è venuta ad assicurarsi che la sua  diletta  non  correva  alcun
rischio. Susanna, in casa dei vostri genitori, non avete mai condiviso lo stesso
letto con una delle vostre sorelle?”
        “No, mai.”
        “Ma se se ne fosse presentata l’occasione,  non  l’avreste  fatto  senza
scrupolo? Se la vostra sorella, inquieta e intirizzita dal freddo, fosse  venuta
a chiedervi un po’ di posto accanto a voi, l’avreste rifiutata?”
        “Credo di no.”
        “Io non sono forse la vostra cara madre?”
        “Sì, lo siete, ma è proibito.”
        “Cara amica, sono io che lo proibisco alle altre, ma che lo  permetto  e
lo chiedo a voi. Lasciate ch’io mi riscaldi un momento, poi me ne andrò.  Datemi
la vostra mano...”
        Gliela detti.
        “Ecco,” mi disse, “toccate,  guardate:  tremo,  rabbrividisco,  sono  un
pezzo di marmo.”
        Era vero.
        “Oh, mia cara madre,” le dissi, “vi  ammalerete.  Ma  aspettate!  io  mi
spingo verso il bordo del letto, e voi potrete mettervi nel posto più caldo.”
        Mi spostai da un lato, alzai la coperta, e lei si mise al mio posto. Oh,
come stava male! Le sue membra erano tutte un tremito, voleva  parlarmi,  voleva
avvicinarsi a me; non riusciva ad articolare parola, non riusciva a muoversi. Mi
diceva sottovoce:
        “Susanna, amica mia, avvicinatevi un poco...”
        Allungò le braccia; io le voltavo la schiena; mi strinse dolcemente,  mi
trasse a sé; passò il braccio destro intorno al mio corpo, l’altro sopra,  e  mi
disse:
        “Sono un pezzo di ghiaccio; ho tanto freddo che  ho  paura  a  toccarvi,
paura di farvi male.”
        “Non abbiate timore, cara madre.”
        Subito mi posò una mano sul petto e l’altra intorno alla  vita;  i  suoi
piedi stavano sotto i miei e io li premevo per riscaldarli.  La  cara  madre  mi
diceva: “Ah, cara amica, sentite come i miei piedi  si  sono  riscaldati  subito
perché non vi è niente che li separi dai vostri.”
         “In  tal  caso,”  le  dissi,  “che  cosa  impedisce  che  vi  scaldiate
dappertutto nello stesso modo?”
        “Niente, se volete.”
        Mi ero girata; lei aveva aperto la camicia ed io stavo per aprire la mia
allorché  all’improvviso  furono  bussati  due  colpi   violenti   alla   porta.
Spaventata, mi butto immediatamente fuori dal letto  da  una  parte,  mentre  la
superiora fa  altrettanto  dall’altra  parte;  tendiamo  l’orecchio  e  sentiamo
qualcuno che torna, in punta di piedi, nella cella vicina.
        “Ah,” esclamai,  “è  suor  Santa  Teresa;  vi  avrà  vista  passare  nel
corridoio ed  entrare  da  me;  ci  avrà  ascoltato;  avrà  sorpreso  la  nostra
conversazione; che cosa dirà?...”
        Ero più morta che viva.
        “Sì, è lei,” confermò la superiora con tono irritato, “è lei, non  vi  è
dubbio, ma spero che si ricorderà per un pezzo della sua temerarietà.”
        “Ah, cara madre,” le dissi, “non le fate del male!”
        “Susanna,” mi rispose, “addio, buona notte.  Tornate  a  letto,  dormite
bene. Vi dispenso dall’orazione. Vado da quella sventata. Datemi la mano...”
        Gliela tesi da una parte all’altra del letto e lei  rimboccò  la  manica
che mi copriva il braccio; lo baciò sospirando per  tutta  la  lunghezza,  dalla
punta delle dita fino alla spalla, poi uscì assicurando  che  la  temeraria  che
aveva osato disturbarla se ne sarebbe ricordata.  Subito  mi  spinsi  dall’altra
parte del letto verso la porta, e tesi l’orecchio. La superiora  entrò  da  suor
Teresa. Mi prese la tentazione di alzarmi e di andare a mettermi tra suor Teresa
e la superiora caso mai la scena si fosse fatta violenta. Ma ero così turbata  e
così a disagio che preferii restare a letto, dove non riuscii a prendere  sonno.
Pensai che sarei diventata la favola del convento, che quella avventura, che  di
per  sé  era  del  tutto  innocente,  sarebbe  stata  riferita  nella  luce  più
sfavorevole; che qui sarebbe stato peggio che a Longchamp, dove fui accusata  di
una cosa che ignoro; che la  nostra  colpa  sarebbe  giunta  alle  orecchie  dei
superiori, che la nostra madre sarebbe stata  deposta  e  che  entrambe  saremmo
state severamente punite. Intanto stavo con  l’orecchio  teso  e  aspettavo  con
impazienza che la nostra madre uscisse dalla cella di suor Teresa. Fu, a  quanto
pare, una faccenda difficile da sistemarsi, perché vi trascorse quasi  tutta  la
notte. Come la compiangevo! Era in camicia, tutta nuda, furente  di  collera,  e
intirizzita dal freddo.
        La mattina, avevo voglia di  approfittare  del  permesso  che  mi  aveva
accordato la superiora e di rimanere a letto, ma ebbi come  l’idea  che  sarebbe
stato meglio non farne niente. Mi vestii in fretta e mi  trovai  per  prima  nel
coro dove non si videro né la superiora, né suor Santa Teresa, la qual  cosa  mi
fece molto piacere. In primo luogo perché mi sarebbe stato difficile  affrontare
senza imbarazzo la presenza di suor Teresa; in secondo luogo, se  le  era  stato
permesso di non presentarsi all’uffizio, c’era da presumere che avesse  ottenuto
il perdono a condizioni che dovevano tranquillizzarmi.
        Avevo indovinato: era appena terminato l’uffizio  che  la  superiora  mi
mandò a chiamare. Mi recai da lei. Era ancora a letto e aveva un’aria abbattuta.
Mi disse:
        “Ho sofferto; non ho dormito; suor Santa Teresa è pazza; se si  comporta
ancora così, la farò rinchiudere.”
        “Ah, cara madre,” le dissi, “non la fate rinchiudere mai.”
        “Dipenderà dal modo in cui si comporta. Mi ha promesso di migliorare,  e
ci conto. Ma voi, cara Susanna, come state?”
        “Bene, cara madre.”
        “Avete almeno riposato un po’?”
        “Pochissimo.”
        “Mi hanno detto che siete andata nel coro; perché non  siete  rimasta  a
letto?”
        “Non ci sono stata bene; e poi ho pensato che fosse meglio...”
        “No, non ci sarebbe  stato  inconveniente  di  sorta...  Ora,  però,  ho
bisogno di dormire un po’; vi consiglio di  fare  altrettanto  a  meno  che  non
preferiate accettare un posto accanto a me.”
        “Vi sono infinitamente obbligata, cara madre, ma sono abituata a dormire
da sola e non potrei dormire con un’altra.”
        “Allora andate. Io non scenderò a pranzo in refettorio; mi farò  servire
qui. Forse non mi alzerò per il resto della giornata.  Voi  verrete  con  alcune
altre sorelle che ho fatto avvertire.”
        “Ci sarà anche suor Santa Teresa?” le chiesi.
        “No,” mi rispose.
        “Non mi dispiace.”
        “E perché?”
        “Non lo so, forse ho paura di incontrarla.”
        “Stai tranquilla, figliola mia; ti garantisco che ella ha più  paura  di
te di quanta tu non debba averne di lei.”
        La lasciai, andai a riposarmi. Nel pomeriggio, mi recai dalla  superiora
dalla quale trovai un gruppo alquanto numeroso delle monache più giovani  e  più
carine del convento; le altre avevano fatto la loro visita e se ne erano andate.
Voi che vi intendete di pittura, vi assicuro, signor marchese, che  era  davvero
un quadro delizioso. Immaginatevi un laboratorio di dieci o dodici  persone,  di
cui la più giovane poteva avere quindici anni e la più vecchia  non  arrivava  a
ventitré; una superiora di circa quarant’anni,  bianca,  fresca,  rotonda,  semi
sollevata sul letto, con un doppio mento  portato  in  giro  con  buona  grazia,
braccia tonde come se fossero state tornite, dita affusolate  e  punteggiate  di
fossette, due occhi neri, grandi, vivaci e teneri, quasi mai del  tutto  aperti,
occhi socchiusi come se colei che li possedeva facesse fatica ad aprirli, labbra
vermiglie come rose, denti bianchi come  latte,  le  più  belle  guance  che  si
possano immaginare, la bella testa  sprofondata  in  un  morbido  guanciale,  le
braccia allungate mollemente lungo i fianchi con  i  gomiti  appoggiati  su  due
piccoli cuscini. Io ero seduta sull’orlo del letto e non facevo niente, un’altra
stava in una poltrona con un piccolo telaio da ricamo  sulle  ginocchia;  altre,
verso le finestre, facevano del merletto; ve n’erano sedute  per  terra  su  dei
cuscini tolti dalle seggiole, che cucivano,  ricamavano,  tessevano  o  filavano
all’arcolaio. Alcune erano bionde, altre brune; nessuna  assomigliava  all’altra
benché tutte fossero belle. I loro caratteri erano vari come le loro fisionomie;
ve n’erano di serene, di gaie, di malinconiche o tristi. Tutte lavoravano, salvo
io, come già vi  ho  detto.  Non  era  difficile  riconoscere  le  amiche  dalle
indifferenti e  dalle  nemiche;  le  amiche  si  erano  messe  o  l’una  accanto
all’altra,  o  di  fronte,  e  pur  intente  al  lavoro,   chiacchieravano,   si
consigliavano, si guardavano furtivamente, si toccavano le dita col pretesto  di
scambiarsi uno spillo, un ago, delle forbici. La superiora  le  seguiva  con  lo
sguardo; all’una rimproverava l’eccessiva applicazione, all’altra la pigrizia; a
questa l’indifferenza, a quella la  tristezza.  Si  faceva  portare  il  lavoro,
lodava o biasimava; a una monaca rimetteva a posto l’acconciatura:
        “Questo velo scende troppo in avanti... Questa  benda  copre  troppo  il
viso, non si vedono abbastanza le  guance...  Guarda  come  stanno  male  queste
pieghe...”
        A ciascuna  distribuiva  leggeri  rimproveri  e  lievi  carezze.  Mentre
ciascuna era occupata in tal modo, sentii battere piano alla porta. Mi mossi per
aprire. La superiora mi disse:
        “Suor Santa Susanna, tornerete qui?”
        “Sì, cara madre.”
        “Non mancate, perché ho qualcosa di importante da comunicarvi.”
        “Torno subito.”
        Era quella povera suor  Santa  Teresa.  Per  qualche  istante  rimanemmo
entrambe senza parlare; poi le chiesi: “Cara sorella, cercate di me?”
        “Sì.”
        “Che cosa posso fare per voi?”
        “Ascoltatemi. Sono incorsa nella  disgrazia  della  nostra  cara  madre;
credevo che mi avesse perdonata e avevo  qualche  buona  ragione  per  crederlo;
invece voi siete tutte riunite da lei, mentre io non ci sono, ed ho l’ordine  di
rimanere nella mia cella.”
        “Vorreste entrare?”
        “Sì.”
        “Desiderate ch’io ne solleciti il permesso?”
        “Sì.”
        “Aspettate, cara amica, ci vado subito.”
        “Davvero le parlerete in mio favore?”
        “Certamente. Perché non ve lo dovrei promettere?  E  perché  non  dovrei
farlo dopo avervelo promesso?”
        “Ah,” esclamò  guardandomi  teneramente,  “le  perdono,  le  perdono  la
simpatia che ha per voi. Voi possedete tutte le seduzioni, l’anima più  bella  e
il corpo più bello.”
        Ero felicissima di poterle fare  quel  piccolo  favore.  Rientrai  nella
stanza. In mia assenza un’altra aveva preso il mio  posto  sull’orlo  del  letto
della superiora e stava china su di lei con il  gomito  appoggiato  fra  le  sue
cosce, facendole vedere il lavoro che stava eseguendo. Con gli occhi  semichiusi
la superiora diceva di sì o di no quasi senza guardarla, mentre io ero in  piedi
accanto a lei senza che se ne accorgesse. Tuttavia  non  le  ci  volle  molto  a
riprendersi dal suo leggero svagamento. La giovane mi restituì il mio posto.  Mi
sedetti di nuovo; poi, chinandomi dolcemente verso la superiora che  si  era  un
po’ sollevata sui guanciali, rimasi in silenzio, guardandola però come se avessi
da domandarle una grazia.
        “Allora,” mi chiese, “che cosa c’è? Parlate! Che cosa volete? È forse in
mio potere rifiutarvi qualcosa?”
        “Suor Santa Teresa...”
        “Capisco; sono molto scontenta di lei, ma suor Susanna intercede in  suo
favore, e io le concedo il perdono; andate a dirle che può entrare.”
        Accorsi fuori. La poveretta aspettava alla porta;  le  dissi  di  venire
avanti; tremando ubbidì con gli occhi bassi. Teneva in mano un  lungo  pezzo  di
mussola appuntato a un modello  che  le  sfuggì  di  mano  ai  primi  passi:  lo
raccattai e prendendola per un braccio la condussi dalla superiora. Si buttò  in
ginocchio, le afferrò una mano che baciò sospirando e piangendo. Poi  prese  una
mano anche a me, la congiunse a quella della superiora e le baciò  entrambe.  La
superiora le fece cenno di alzarsi e di scegliersi un posto. Ubbidì. Fu  servita
una merenda. La superiora si alzò; non  si  sedette  con  noi,  ma  si  aggirava
intorno  alla  tavola,  e  ora  posava  la  mano  sulla  testa  di  una  monaca,
rovesciandogliela delicatamente all’indietro  e  baciandola  sulla  fronte;  ora
scopriva il collo di un’altra e vi posava sopra  la  mano;  passava  poi  a  una
terza, e lasciava scorrere su di lei  la  sua  mano  carezzevole  oppure  gliela
posava sulla  bocca;  spilluzzicava  le  cose  che  erano  state  servite  e  le
distribuiva a questa o a quella. Dopo che ebbe girato per un po’,  si  fermò  di
fronte a me guardandomi con occhi molto affettuosi  e  molto  teneri  mentre  le
altre abbassavano i loro, come se avessero temuto di obbligarla a reprimersi o a
distrarsi, specialmente suor Santa Teresa. Terminata  la  merenda,  mi  misi  al
clavicembalo ed accompagnai due monache che cantarono senza alcun metodo, ma con
gusto e  con  una  bella  voce  intonata;  cantai  anch’io  accompagnandomi.  La
superiora era  seduta  ai  piedi  del  clavicembalo  e  sembrava  assaporare  un
grandissimo piacere nel sentirmi e nel vedermi; le altre  ascoltavano  in  piedi
senza far niente, oppure si erano rimesse al  lavoro.  Fu  un  pomeriggio  assai
piacevole, dopo di che tutte si ritirarono.
        Stavo uscendo con le altre, quando  la  superiora  mi  fermò:  “Che  ore
sono?” mi chiese.
        “Fra poco saranno le sei.”
        “Alcune discrete stanno per giungere. Ho riflettuto  su  quello  che  mi
avete detto a proposito della vostra uscita da Longchamp; ho comunicato loro  le
mie idee che sono state approvate, e adesso abbiamo una  proposta  da  farvi.  È
impossibile che non vada in porto,  e  se  va  bene,  significherà  una  piccola
fortuna per il convento e qualche vantaggio per voi.”
        Alle sei, entrarono le discrete. Nei conventi la  discrezione  è  sempre
alquanto vecchia, persino decrepita. Mi alzai, loro si sedettero e la  superiora
mi disse: “Suor Santa Susanna, non mi avete detto che dovevate  alla  bontà  del
signor Manouri la dote che avete portata in convento?”
        “Sì, cara madre.”
        “Perciò non mi sono sbagliata: le suore di  Longchamp  sono  rimaste  in
possesso della dote che avete portato entrando da loro?”
        “Sì, cara madre.”
        “E non vi hanno restituito niente?”
        “No, cara madre.”
        “Non vi hanno costituito una pensione?”
        “No, cara madre.”
        “Non è giusto. Questo è quanto ho comunicato  alle  nostre  discrete  ed
esse pensano, come me, che siete in diritto di far ricorso affinché tale dote vi
sia restituita a vantaggio  del  nostro  convento,  oppure  che  ne  godiate  la
rendita. Quel che avete ricevuto grazie all’interessamento  del  signor  Manouri
per voi, non ha niente a che vedere con  quello  che  vi  debbono  le  suore  di
Longchamp; egli non vi ha fornito la vostra  dote  per  saldare  un  debito  con
loro.”
        “Non credo; ma  per  assicurarsene,  la  cosa  migliore  è  di  scrivere
all’avvocato.”
        “Non vi è alcun dubbio; ma nel caso in cui la sua risposta fosse  quella
che ci auguriamo, ecco quali sono le nostre proposte. Intenteremo un processo  a
vostro nome contro il convento di Longchamp; il nostro ne sosterrà le spese  che
non saranno eccessive giacché vi sono tutti i motivi per credere che  il  signor
Manouri non rifiuterà di incaricarsi di questo affare. Se vinciamo, il  convento
dividerà a metà con voi il capitale, o la rendita. Che  cosa  ne  pensate,  cara
sorella? Ma voi non rispondete. A che cosa state pensando?”
        “Sto pensando che quelle suore di Longchamp sono state molto crudeli con
me, ma che sarebbe per  me  una  grandissima  afflizione  se  immaginassero  che
intendo vendicarmi.”
        “Non si tratta di vendicarvi; si tratta di chiedere che  vi  venga  reso
ciò che vi spetta.”
        “Dare ancora una volta spettacolo di me!...”
        “Questo è l’inconveniente minore; voi non sarete quasi mai  nominata.  E
poi la nostra comunità è povera, mentre quella di Longchamp è ricca. Voi  sarete
la nostra benefattrice, almeno fintanto che vivrete. Sebbene non abbiamo bisogno
di questo motivo per interessarci a voi; noi tutte vi vogliamo bene...”
        E tutte le discrete in coro:
        “Chi non le vorrebbe bene? È perfetta.”
        “Io potrei scomparire  da  un  momento  all’altro;  potrebbe  darsi  che
un’altra superiora non provasse per voi gli stessi sentimenti che provo io.  Oh,
no! non li proverebbe di certo. Potreste avere qualche piccola malattia, qualche
piccola necessità... In tal caso è molto confortante possedere un po’ di  denaro
di cui si possa disporre per soddisfare se stessi o per obbligare gli altri.”
        “Care madri,” dissi loro, “le vostre considerazioni  non  devono  essere
trascurate, giacché avete la bontà di farle; ve ne sono altre che mi stanno  più
a cuore, ma non vi è ripugnanza ch’io non sia disposta a  vincere  per  voi.  La
sola grazia che ho da chiedervi, cara madre, è di non  avviare  nessuna  pratica
senza prima averne parlato in mia presenza con il signor Manouri.”
        “Non vi è niente di più opportuno. Volete scrivergli voi stessa?”
        “Come volete voi, cara madre.”
        “Scrivetegli; e per non stare a  ripensarci  due  volte,  poiché  questo
genere di affari non mi piace per niente e  mi  annoia  da  morire,  scrivetegli
subito.”
        Mi dettero penna, carta e inchiostro e senza por tempo in  mezzo  pregai
il signor Manouri di degnarsi di venire ad Arpajon non appena le sue occupazioni
glielo avessero consentito, dato che avevo ancora bisogno del suo  aiuto  e  del
suo consiglio per un affare di una certa importanza ecc. ecc.
        Il consiglio riunito lesse  quella  lettera,  la  approvò  e  quindi  fu
spedita.
        Il signor Manouri venne qualche giorno dopo. La superiora gli spiegò  di
che cosa si trattasse ed egli non esitò un attimo a condividerne  il  parere;  i
miei scrupoli furono  definiti  ridicolaggini;  fu  deciso  che  le  monache  di
Longchamp sarebbero state citate subito l’indomani,  come  infatti  avvenne.  Ed
ecco che, mio malgrado, il mio nome ricomparve nei  memoriali,  negli  allegati,
nelle udienze, con dovizia di particolari, supposizioni, menzogne, e di tutte le
infamie suscettibili di rendere una persona invisa  ai  giudici  e  odiosa  agli
occhi del pubblico.
        Ma ditemi, signor marchese, è proprio permesso agli avvocati  calunniare
come aggrada loro? Non vi è modo di invocare giustizia contro di loro? Se avessi
potuto prevedere tutte le amarezze  che  quella  causa  avrebbe  comportato,  vi
assicuro che non avrei mai permesso che venisse intrapresa. Si giunse  al  punto
di spedire a diverse monache del nostro convento gli atti pubblicati  contro  di
me. Ad ogni istante, esse venivano a  chiedermi  i  particolari  di  avvenimenti
orribili in cui non c’era parvenza di verità. Più mi dimostravo ignara,  più  mi
credevano colpevole. Dal momento che non spiegavo niente, non confessavo niente,
negavo tutto, credevano che tutto fosse vero: sorridevano,  mi  dicevano  parole
sibilline,  ma  assai  offensive;   davanti   alla   mia   innocenza,   facevano
spallucciate. Piangevo, ero desolata.

        Un dolore non arriva mai da solo. Giunse il tempo della confessione.  Mi
ero già accusata delle prime carezze ricevute dalla  superiora  e  il  direttore
spirituale mi aveva esplicitamente proibito di prestarmici ancora. Ma come si fa
a rifiutarsi a cose che procurano tanto piacere a un’altra  persona  da  cui  si
dipende totalmente, e nelle quali non si vede alcun male?
        Poiché questo direttore spirituale  avrebbe  avuto  un  gran  ruolo  nel
seguito delle mie memorie, credo  che  sia  il  momento  opportuno  per  farvelo
conoscere.
        È un francescano e si chiama padre Lemoine; non ha più di quarantacinque
anni. La sua fisionomia è tra le più gradevoli che  si  possano  vedere:  dolce,
serena, aperta, sorridente, piacevole quando non sta lì a riflettere. Ma  quando
riflette, corruga la fronte, aggrotta le sopracciglia, abbassa gli  occhi  e  il
suo comportamento si fa austero. Non conosco due uomini più  diversi  del  padre
Lemoine all’altare e del padre Lemoine in parlatorio, solo o in  compagnia.  Del
resto tutti coloro che sono in religione  si  comportano  nello  stesso  modo  e
anch’io mi sono sorpresa diverse  volte  in  procinto  di  recarmi  alla  grata,
fermarmi di botto, aggiustarmi il velo, atteggiare il viso, gli occhi, la bocca,
le mani, le braccia, il portamento, assumere per la circostanza  un  contegno  e
una modestia che duravano più o meno a seconda  delle  persone  con  cui  dovevo
parlare.
        Il padre Lemoine è alto, ben  fatto,  allegro,  assai  gradevole  quando
dimentica di controllarsi; parla meravigliosamente bene;  nel  suo  convento  ha
fama  di  gran  teologo,  e  nel  mondo  quella  di  gran  predicatore;  la  sua
conversazione incanta; è un uomo assai dotto in materie che nulla  hanno  a  che
vedere con il suo stato: ha una voce delle più  belle,  conosce  la  musica,  la
storia e le lingue; è dottore della Sorbona. Benché giovane ha già rivestito  le
cariche principali del suo ordine; non è un uomo  intrigante,  né  ambizioso.  È
amato dai suoi  confratelli.  Aveva  sollecitato  la  carica  di  superiore  del
convento di Etampes come un posto tranquillo dove avrebbe potuto dedicarsi senza
esserne  distratto  a  qualche  studio  che  aveva  cominciato.  Gli  era  stata
accordata. È cosa di grande importanza per un convento di monache la  scelta  di
un confessore: è bene essere dirette da un uomo importante e di qualità. Si fece
di tutto per avere il  padre  Lemoine,  e  lo  si  ebbe,  per  un  caso  davvero
straordinario.
        Gli mandavano la carrozza del convento la vigilia delle  feste  solenni,
egli veniva. Bisognava vedere che  subbuglio  provocava  in  tutta  la  comunità
l’attesa del suo arrivo; come si era allegre; come ci si chiudeva in cella, come
ciascuna si preparava alla confessione e a tenerlo  impegnato  il  più  a  lungo
possibile.
        Era la vigilia della Pentecoste. Aspettavamo il padre  Lemoine.  Io  ero
agitata. La superiora se ne accorse e me ne parlò. Non  le  nascosi  la  ragione
della mia preoccupazione. Mi parve più allarmata di me, benché facesse di  tutto
per tenermelo celato; definì il padre Lemoine un uomo ridicolo,  si  fece  gioco
dei miei scrupoli, mi chiese se il padre Lemoine ne  sapesse  più  della  nostra
coscienza sull’innocenza dei suoi e dei miei sentimenti, e se la  mia  coscienza
mi rimproverava qualcosa. Le risposi di no.
        “Ebbene,” mi  disse,  “io  sono  la  vostra  superiora,  voi  mi  dovete
obbedienza e quindi vi ordino di non parlargli di  queste  sciocchezze.  Inutile
che andiate a confessarvi, se non avete che delle inezie da raccontargli.”
        Intanto era arrivato il padre Lemoine e  io  mi  stavo  preparando  alla
confessione mentre le più  frettolose  si  erano  già  impadronite  di  lui.  Si
avvicinava il mio turno, allorché la superiora venne verso di me, mi  trasse  in
disparte, e mi disse: “Suor Santa Susanna, ho pensato  a  quello  che  mi  avete
detto.  Tornatevene  nella  vostra  cella,  non  voglio  che  oggi   andiate   a
confessarvi.”
        “E perché,” le risposi, “cara madre? Domani è festa solenne, e giorno di
comunione generale; che cosa penserebbero  se  io  fossi  la  sola  che  non  si
avvicina alla sacra mensa?”
        “Poco importa. Dicano pure tutto quello che vogliono, ma voi non andrete
a confessarvi.”
        “Cara madre,” la pregai, “se è vero che  mi  amate,  di  grazia  non  mi
infliggete questa mortificazione.”
        “No, no, è impossibile; con quell’uomo mi combinereste qualche guaio, ed
io non ne voglio.”
        “No, cara madre, non vi procuerò nessun guaio!”
        “Allora, promettetemi... Ma è inutile; domattina verrete in camera  mia,
vi confesserete a me; non  avete  commesso  nessuna  colpa  per  cui  non  possa
riconciliarvi con Dio e assolvervi. Così potrete comunicarvi insieme alle altre.
Andate.”
        Mi ritirai, e me ne stavo nella mia cella,  triste,  inquieta,  nervosa,
non sapendo quale partito prendere, se andare dal padre  Lemoine  nonostante  il
divieto della mia superiora, se limitarmi alla sua assoluzione il  giorno  dopo,
se partecipare alla comunione con il resto del convento, o tenermi  lontana  dai
sacramenti senza curarmi delle chiacchiere. In quel mentre la  superiora  entrò.
Si era confessata, e il padre Lemoine le aveva  chiesto  perché  non  mi  avesse
visto, e se fossi malata. Ignoro cosa le avesse risposto, ma la  conclusione  fu
che mi aspettava al confessionale.
         “Andate,”  mi  disse,  “giacché  è  necessario,  ma  promettetemi   che
tacerete.”
        Io esitavo. Ella insisteva.
        “Piccola sciocca,” mi diceva, “che male volete che ci sia a  tacere  ciò
che non è male fare?”
        “E che male c’è a dirlo?” replicai.
         “Nessuno,  ma  vi  può  essere  qualche  inconveniente.  Chi  sa  quale
importanza quell’uomo vi può attribuire. Promettetemi perciò...”
        Esitai ancora, ma alla fine mi impegnai a non  dire  niente  se  non  mi
avesse fatto domande, e andai.
        Mi confessai, non feci parola di quell’argomento,  ma  il  direttore  mi
interrogò, ed io non dissimulai nulla.
        Mi fece mille domande strane di cui continuo a non  capire  niente  oggi
che le ricordo, ma sulla superiora si espresse in termini che mi fecero fremere.
La definì indegna, libertina, cattiva monaca, donna perniciosa, anima  corrotta,
e mi ingiunse, sotto pena di peccato mortale, di non trovarmi mai  da  sola  con
lei e di non tollerare nessuna delle sue carezze.
        “Ma padre,” gli dissi, “è la mia superiora, ella può entrare  nella  mia
cella, chiamarmi da lei quando le piace.”
        “Lo so, lo so, e ne sono desolato, cara figliola,” mi disse, “sia lodato
Iddio che vi ha preservata fino ad oggi!  Non  ardisco  spiegarmi  con  voi  più
chiaramente. Nel timore di diventare a mia volta complice della  vostra  indegna
superiora, e di avvizzire con l’alito avvelenato, che mio malgrado mi  uscirebbe
dalle labbra, un fiore delicato che si può conservare  fresco  e  senza  macchia
fino alla vostra età solo per una protezione speciale della divina  provvidenza,
vi ordino di fuggire la vostra superiora, di  respingerne  le  carezze,  di  non
entrare mai da sola nella sua cella, di  chiudere  a  chiave  la  vostra  porta,
specialmente di notte, di lasciare il letto se entra nella vostra  cella  vostro
malgrado, di andare nel corridoio, di chiamare gente  se  occorre,  di  scendere
nuda fino ai piedi dell’altare, di riempire il convento delle vostre grida, e di
fare tutto quello che l’amore di Dio, il timore  del  peccato,  la  santità  del
vostro stato e l’interesse della vostra salvezza vi ispirerebbero, se Satana  in
persona si presentasse a voi e vi perseguitasse. Sì,  figliola  mia,  Satana!  È
sotto questo aspetto che sono costretto a mostrarvi la vostra superiora; ella  è
sprofondata nell’abisso del peccato e cerca di trascinarci  anche  voi;  voi  vi
sareste già con lei, se la vostra stessa  innocenza  non  l’avesse  riempita  di
terrore e non l’avesse fermata.”
        Alzando gli occhi al cielo, esclamò:
        “Mio Dio! continuate a proteggere questa figliola... Dite con me  Satana
vade retro, apage Satana. Se  quella  sciagurata  vi  interroga,  ditele  tutto,
ripetetele il mio discorso; ditele che sarebbe meglio che non fosse mai nata,  o
che precipitasse da sola all’inferno per morte violenta.”
        “Ma padre mio,” gli risposi, “l’avete sentita voi stesso poco fa.”
        Non replicò, ma emettendo  un  profondo  sospiro,  appoggiò  le  braccia
contro una parete del confessionale, e vi posò  sopra  la  testa  come  un  uomo
penetrato di dolore. Rimase per un certo  tempo  in  quella  posizione.  Io  non
sapevo che cosa pensare; mi tremavano le ginocchia, ero turbata e  sconvolta  in
maniera incredibile. Ero quale un viandante che camminasse  nelle  tenebre,  tra
precipizi invisibili, colpito da ogni lato da voci urlanti: “È finita  per  te!”
Guardandomi poi con un’aria tranquilla, ma intenerita, mi disse:
        “Godete buona salute?”
        “Sì, padre.”
        “Non sarebbe troppo duro per voi passare una notte senza dormire?”
        “No, padre.”
        “In tal caso,” mi disse, “stanotte non andrete a letto; subito dopo cena
andrete in chiesa, vi prosternerete ai piedi dell’altare e vi passerete la notte
in preghiera. Voi non sapete che pericolo  avete  corso;  ringrazierete  Dio  di
avervi preservata, e domani vi accosterete alla sacra mensa con tutte  le  altre
monache.  Per  penitenza,  vi  terrete  lontana  dalla   vostra   superiora,   e
respingerete le sue carezze avvelenate. Andate.  Per  parte  mia  unirò  le  mie
preghiere alle vostre. Quante preoccupazioni mi cagionerete! Mi rendo  conto  di
tutte le conseguenze del consiglio che vi do, ma sono costretto  a  darvelo:  lo
debbo a voi, come lo debbo a me stesso. Dio è  colui  che  comanda,  e  noi  non
abbiamo che una legge.”
        Non mi ricordo di quello che mi disse, signore,  che  in  maniera  molto
approssimativa. Oggi che metto a confronto il suo discorso  così  come  ve  l’ho
riferito, con l’impressione terribile che produsse su di me, trovo che non vi  è
nessun rapporto. Ciò deriva dal  fatto  che  il  mio  racconto  è  frammentario,
sconnesso, che vi mancano molte cose che non ricordo più perché non vi collegavo
nessuna idea distinta e non vedevo, come  tuttora  non  vedo,  quale  importanza
avessero certe cose contro le quali recriminava con  la  massima  violenza.  Per
esempio, che cosa trovava di così  strano  nella  scena  del  clavicembalo?  Non
esistono forse persone su cui la musica produce un’impressione vivissima?  Anche
a me hanno detto che certe arie, certe modulazioni,  mutavano  completamente  la
mia fisionomia; in quei momenti io ero del tutto fuori di  me,  non  sapevo  che
cosa mi stesse succedendo. Non per questo credo che fossi meno innocente. Perché
non poteva accadere la stessa cosa alla mia superiora, che nonostante  tutte  le
sue follie e i suoi sbalzi di umore, era una delle donne più  sensibili  che  ci
fossero al mondo?  Non  poteva  sentire  una  storia  un  po’  commovente  senza
sciogliersi in lacrime. Quando le raccontai la mia storia, la misi in uno  stato
pietoso. Perché le faceva una colpa anche della sua commiserazione? E  la  scena
della notte, della quale aspettava la fine con un terrore mortale?... Di  sicuro
quell’uomo è troppo severo.
        In ogni caso misi in atto punto per punto quello che mi aveva  ordinato,
e di cui aveva certamente previsto le conseguenze immediate. Appena  uscita  dal
confessionale, andai a prosternarmi ai  piedi  dell’altare.  La  mia  mente  era
sconvolta dal terrore; rimasi là fino  al  momento  della  cena.  La  superiora,
preoccupandosi per ciò che poteva essermi successo, mi aveva fatta chiamare;  le
era stato risposto che ero in preghiera. Più volte si era presentata alla  porta
del coro, ma io avevo finto di non scorgerla. L’ora della cena suonò, e mi recai
in refettorio. Cenai in fretta, e una volta terminata la cena, tornai subito  in
chiesa. Non comparvi alla ricreazione della sera;  all’ora  di  ritirarsi  e  di
andare a coricarsi, non risalii. La  superiora  non  ignorava  che  cosa  stessi
facendo. La notte era assai  inoltrata  e  tutto  il  convento  era  silenzioso,
allorché scese da me. Il ritratto  con  il  quale  il  direttore  spirituale  me
l’aveva dipinta, mi si ripresentò all’immaginazione; il tremito  mi  colse,  non
osai guardarla. Pensai che l’avrei vista con  un  viso  orrendo,  tutto  avvolto
nelle fiamme, e dicevo dentro di me: Satana vade retro, apage Satana.  Mio  Dio,
salvatemi, allontanate da me questo demonio!
        La superiora si inginocchiò, e dopo aver pregato per un certo tempo,  mi
disse:
        “Cosa fate qui, suor Santa Susanna?”
        “Lo vedete, signora.”
        “Sapete che ore sono?”
        “Sì, signora.”
        “Perché non siete rientrata nella vostra cella quando è suonata l’ora?”
        “Perché mi preparavo a celebrare domani la grande festa.”
        “Avevate dunque l’intenzione di passare qui la notte?”
        “Sì, signora.”
        “Chi ve ne ha dato il permesso?”
        “Me l’ha ordinato il direttore spirituale.”
        “Il direttore spirituale non può ordinare niente contro  la  regola  del
convento, e io vi ordino di andare a coricarvi.”
        “Questa è la penitenza che mi ha imposto.”
        “La sostituirete con altre opere.”
        “La scelta non spetta a me.”
        “Suvvia, figliola mia,”  mi  disse,  “venite.  Il  fresco  della  chiesa
durante la notte vi nuocerà; pregherete nella vostra cella.”
         Dopo  di  che  volle  prendermi  per  la  mano,  ma  io  mi  allontanai
bruscamente.
        “Voi mi fuggite!” mi disse.
        “Sì, signora, vi fuggo.”
         Rassicurata  dalla  santità  del  luogo,  dalla  presenza  del  divino,
dall’innocenza del mio cuore, osai alzare gli occhi su di  lei;  ma  non  appena
l’ebbi guardata, emisi un gran grido e cominciai a correre per il coro come  una
forsennata, gridando: “Vattene, Satana!...”
        La superiora non mi inseguiva. Rimaneva al suo posto tendendo le braccia
verso di me, mi diceva con la voce più commovente e soave:
        “Che cosa avete? Che cosa vi suscita tanto spavento? Fermatevi. Non sono
Satana. Sono la vostra superiora e la vostra amica.”
        Mi fermai, voltai di nuovo la testa verso di lei e vidi  che  ero  stata
spaventata da un’apparenza  bizzarra  creata  dalla  mia  immaginazione.  Questo
accadeva perché rispetto alla lampada  della  chiesa,  lei  si  trovava  in  una
posizione tale che soltanto il viso e l’estremità delle mani venivano ad  essere
illuminate, mentre il resto rimaneva in ombra, cosa che le conferiva un  aspetto
singolare. Riavutami un poco, mi buttai a sedere in uno stallo. Ella si avvicinò
e stava per sedersi nello stallo vicino, allorché io mi alzai e andai a mettermi
nello stallo sottostante. Andammo così  entrambe  di  stallo  in  stallo  finché
arrivammo all’ultimo. A questo punto mi  fermai  e  la  scongiurai  di  lasciare
almeno uno spazio vuoto fra me e lei.
        “Va bene!” mi disse.
        Ci sedemmo entrambe, lasciando fra  noi  uno  stallo  vuoto.  Allora  la
superiora prese la parola e mi disse:
        “Potrei sapere, Susanna, per quale ragione la mia  presenza  vi  suscita
tanto spavento?”
        “Cara madre,” le dissi, “perdonatemi. Non sono io, è il  padre  Lemoine.
Mi ha dipinto la tenerezza che avete per me, le carezze  che  mi  fate  e  nelle
quali vi confesso che io non vedo alcun male, sotto le tinte più spaventose.  Mi
ha ordinato di fuggirvi, di non entrare più  da  sola  nella  vostra  cella,  di
uscire dalla mia quando entrate voi. Vi ha presentata  ai  miei  occhi  come  il
demonio, e Dio sa cos’altro non ha detto su di voi...”
        “Gli avete dunque parlato?”
        “No, cara madre, ma non ho potuto fare a meno di rispondergli.”
        “Allora, sono davvero orribile ai vostri occhi?”
        “No, cara madre, non posso impedirmi di  amarvi,  di  sentire  tutto  il
valore delle vostre premure, di pregarvi di usarmele ancora, ma io  obbedirò  al
mio direttore spirituale.”
        “Così, non verrete più a trovarmi?”
        “No, cara madre.”
        “Non mi riceverete più nella vostra cella?”
        “No, cara madre.”
        “Respingerete le mie carezze?”
        “Mi costerà molto, perché sono nata per le carezze  e  mi  piace  essere
carezzata; ma dovrò farlo, l’ho promesso al direttore spirituale e l’ho  giurato
ai piedi dell’altare. Se potessi farvi intendere il modo in cui si spiega! È  un
uomo pio, un uomo illuminato; che interesse può avere a  mostrarmi  il  pericolo
dove non esiste; ad allontanare il cuore di  una  monaca  dal  cuore  della  sua
superiora? Ma può essere che riconosca in azioni del tutto  innocenti  da  parte
nostra, Un germe di corruzione segreta che ritiene completamente  sviluppato  in
voi e che teme voi sviluppiate in me. Non  vi  nasconderò  che  ripensando  alle
impressioni che a volte ho provato... Per  quale  motivo,  cara  madre,  uscendo
dalla vostra cella e tornando nella mia, mi  sentivo  agitata,  svagata?  Perché
quella specie di tedio che non avevo mai provato? Perché,  io  che  non  ho  mai
dormito di giorno, mi sentivo scivolare nel sonno? Credevo che soffriste di  una
malattia contagiosa il cui effetto cominciava  ad  agire  su  di  me.  Il  padre
Lemoine la vede assai diversamente.”
        “E come la vede?”
        “Vede tutte le nefandezze del peccato, la  vostra  perdita  ormai  senza
speranza, la mia imminente, o che so io...”
        Suvvia,” mi disse, “il vostro padre  Lemoine  è  un  visionario,  non  è
questo il primo rabbuffo che mi riserva. Basta che una tenera amicizia mi  leghi
a qualcuna perché subito si affanni a montarle la testa; poco  c’è  mancato  che
rendesse pazza quella povera suor Santa Teresa. Ora  comincia  proprio  a  darmi
fastidio e mi libererò di quell’uomo; inoltre abita a dieci leghe da qui e farlo
venire è sempre una complicazione. Non lo si può avere quando si  vuole.  Ma  di
questo parleremo con più calma. Non volete dunque risalire?”
        “No, cara madre; vi chiedo, di grazia, che mi permettiate di passare qui
la notte. Se venissi meno a questo  dovere,  domani  non  oserei  accostarmi  ai
sacramenti con il resto della comunità. E voi, cara madre, vi comunicherete?”
        “Certamente.”
        “Ma allora, il padre Lemoine non vi ha detto niente?”
        “No.”
        “Come può essere?”
        “Non ha avuto l’occasione di parlarmene.  Ci  si  va  a  confessare  per
accusarsi dei propri peccati e io non trovo che sia un peccato amare teneramente
una cara fanciulla come suor Santa Susanna. Se mai vi è  peccato,  è  quello  di
concentrare su di lei sola un sentimento che dovrebbe essere suddiviso tra tutte
quelle che compongono la comunità, ma  questo  non  dipende  da  me;  non  posso
impedirmi di riconoscere il merito là dove si trova  e  di  accordargli  la  mia
preferenza. Non chiedo perdono a Dio e non capisco come il vostro padre  Lemoine
veda il sigillo della mia dannazione in una parzialità  così  naturale  e  dalla
quale è così difficile difendersi. Io cerco di fare la felicità di tutte, ma  ve
n’è una che stimo e che amo più delle altre, perché più amabile e più stimabile.
Ecco qual è la mia colpa verso  di  voi;  la  trovate  così  grave,  suor  Santa
Susanna?”
        “No, cara madre.”
        “Suvvia, cara figliola, recitiamo, voi ed io, ancora una preghierina,  e
poi ritiriamoci.”
        La supplicai di nuovo che mi permettesse di passare la notte in  chiesa;
acconsentì, a condizione che non accadesse mai più, poi si ritirò.
        Ripensai a ciò  che  mi  aveva  detto.  Chiesi  a  Dio  di  illuminarmi.
Riflettei e, tutto considerato, conclusi che  per  quanto  due  persone  fossero
dello stesso sesso, vi potesse essere un qualcosa di indecente nel modo  in  cui
si testimoniavano la loro amicizia, che il padre Lemoine, uomo  austero,  avesse
forse esagerato le cose, ma che il consiglio di  evitare  l’estrema  familiarità
della mia superiora opponendole molto riserbo, fosse un consiglio  da  seguirsi.
Mi ripromisi di farlo.
        La mattina, allorché le monache vennero nel coro, mi  trovarono  al  mio
posto. Si accostarono tutte alla sacra mensa con la superiora in testa,  il  che
finì di persuadermi della sua innocenza, senza  peraltro  indurmi  a  rinunciare
alla decisione che avevo preso. E poi  ero  ben  lontana  dal  sentire  per  lei
l’attrazione che lei provava per me. Non potevo fare a meno di paragonarla  alla
mia prima superiora; che differenza! Non si ritrovava in lei né la stessa pietà,
né la stessa gravità, né la stessa dignità, né lo stesso fervore, né  lo  stesso
spirito, né la stessa inclinazione all’ordine.

        Nello spazio di pochi giorni accaddero due grandi avvenimenti. Il primo,
fu che vinsi il processo contro le monache di Longchamp; esse furono  condannate
a  pagare  al  convento  di  Sant’Eutropio  in  cui  mi  trovavo  una   pensione
proporzionata alla  mia  dote;  il  secondo,  fu  il  cambiamento  di  direttore
spirituale. Fu la superiora in persona che mi mise al corrente  di  quest’ultimo
cambiamento.
        Io, intanto, non andavo più da lei se  non  accompagnata,  ed  ella  non
veniva più da sola nella mia cella. Lei seguitava a cercarmi, ma io la  evitavo;
se ne accorgeva e me lo rimproverava.  Non  so  che  cosa  stesse  accadendo  in
quell’anima, ma doveva essere qualcosa di straordinario. Si alzava di notte e si
aggirava per i corridoi; soprattutto nel mio; la sentivo  passare  e  ripassare,
fermarsi  davanti  alla  mia   porta,   lamentarsi,   sospirare.   Tremavo,   mi
rincantucciavo nel letto. Di giorno, se ero alla passeggiata,  nella  stanza  da
lavoro o in quella della ricreazione, passava ore intere ad osservarmi, in  modo
che non potessi scorgerla. Spiava ogni mio movimento: se scendevo, la trovavo in
fondo alle scale; quando risalivo, la trovavo in cima. Un giorno  mi  fermò;  si
mise a guardarmi senza dire una parola; un  profluvio  di  lacrime  le  scorreva
dagli occhi. Poi, all’improvviso, gettandosi a terra e stringendomi un ginocchio
fra le mani, mi disse:
        “Sorella crudele, chiedimi la vita e te la darò, ma non mi evitare così,
non posso vivere senza di te...”
        Il suo stato mi fece pietà; gli occhi le si erano spenti; aveva  perduto
il suo bell’aspetto florido e i suoi colori; era la mia superiora, era  ai  miei
piedi, con la testa appoggiata sul mio ginocchio che teneva abbracciato. Le tesi
le mani e lei le prese con slancio. Le baciava, poi mi guardava, poi  tornava  a
baciarle  e  a  guardarmi.  La  sollevai.  Vacillava,  camminava  a  fatica;  la
riaccompagnai nella sua cella. Quando la porta fu aperta, mi prese per la mano e
mi tirò dolcemente per farmi entrare, ma senza parlarmi e senza guardarmi.
        “No, cara madre,” le dissi, “no, me lo sono promesso; è meglio per voi e
per me. Occupo troppo posto nella vostra anima e questo posto  lo  dovete  tutto
quanto a Dio.”
        “Spetta a voi rimproverarmelo?”
        Cercai, mentre le parlavo, di liberare la mia mano dalla sua.
        “Non volete proprio entrare?” mi chiese.
        “No, cara madre, no.”
        “Non volete, suor Santa Susanna? Voi non sapete che cosa può  derivarne,
non sapete... Mi farete morire!”
        Queste ultime parole mi ispirarono un sentimento del  tutto  diverso  da
quello che era nei suoi propositi;  ritirai  vivamente  la  mano  e  fuggii.  La
superiora si voltò, mi guardò per un po’ mentre me ne  andavo,  poi,  rientrando
nella sua cella la cui porta rimase aperta, proruppe in  lamenti  altissimi.  La
sentii, mi penetrarono nell’anima. Per un momento fui incerta se  continuare  ad
allontanarmi, ma non fu senza soffrire dello  stato  in  cui  la  lasciavo:  per
natura sono portata alla compassione. Mi rinchiusi nella mia cella; mi sentii  a
disagio. Non sapevo come occuparmi; camminai per un po’ in  lungo  e  in  largo,
distrutta e turbata; uscii, rientrai; alla fine andai a bussare  alla  porta  di
suor Santa Teresa che era vicina alla mia. La trovai in conversazione intima con
un’altra giovane monaca sua amica. Le dissi:
        “Cara sorella, mi dispiace interrompervi, ma vi prego di  ascoltarmi  un
istante perché avrei qualcosa da dirvi.”
        Mi seguì nella mia cella, e io le dissi:
        “Non so che cos’abbia la nostra  madre  superiora,  ma  è  desolata;  se
andaste a trovarla, forse la consolereste.”
        Non mi rispose; lasciò l’amica nella sua cella, chiuse la porta, e corse
dalla nostra superiora.
        Il male di quella donna andò tuttavia peggiorando di giorno  in  giorno;
si fece malinconica e seria; la gioia che aveva sempre regnato nel convento  dal
giorno del mio  arrivo,  scomparve  di  colpo;  tutto  rientrò  nell’ordine  più
austero. Gli uffizi si svolsero con la debita dignità; gli estranei furono quasi
del tutto esclusi dal parlatorio; fu  proibito  alle  monache  di  farsi  visite
reciproche  nelle  celle;  gli  esercizi  ripresero  osservando   l’orario   più
scrupoloso; non vi furono più riunioni dalla superiora, più  merende;  le  colpe
più leggere furono severamente punite; talora ci si rivolgeva ancora  a  me  per
intercedere presso la superiora, ma io mi rifiutavo ostinatamente di  farlo.  La
causa di una simile rivoluzione non fu ignorata da nessuno. Le  anziane  non  ne
erano affatto dispiaciute; le giovani se ne  dispiacevano  e  mi  guardavano  di
traverso. Quanto a me, tranquilla circa la mia condotta, non davo peso  al  loro
malumore e ai loro rimproveri.
        La superiora, che non potevo consolare,  né  impedirmi  di  compiangere,
passò successivamente dalla malinconia alla  devozione,  e  dalla  devozione  al
delirio. Non starò a seguirla nelle diverse fasi di questi stati d’animo, perché
dovrei scendere a particolari senza fine; vi dirò soltanto che nella prima  fase
ora mi cercava, ora mi evitava; a volte ci trattava, me e le altre, con  la  sua
solita dolcezza; a volte passava improvvisamente al  rigore  più  esagerato;  ci
chiamava le ci rimandava via; accordava la ricreazione  e  un  momento  dopo  ne
revocava l’ordine; ci faceva convocare nel coro e quando tutto  il  convento  si
era messo in moto per obbedirle, un secondo tocco di campana ci  rinviava  tutte
nelle nostre celle. È difficile immaginare come fosse perturbata la nostra vita;
la giornata trascorreva a  uscire  e  a  entrare  nelle  celle,  a  prendere  il
breviario e a riporlo; ad abbassare il velo e a rialzarlo.  La  notte  conosceva
gli stessi ritmi spezzati del giorno.
        Alcune monache si rivolsero a me, e cercarono di farmi capire che con un
po’ più di compiacenza e di riguardi per la superiora, tutto  sarebbe  rientrato
nell’ordine  (avrebbero  dovuto  dire  nel  disordine)  solito;  io   rispondevo
tristemente:
        “Vi compiango, ma ditemi chiaramente che cosa debbo fare.”
        Alcune se ne andavano a testa bassa senza rispondere;  altre  mi  davano
dei consigli che mi era impossibile conciliare con quelli del  nostro  direttore
spirituale. Intendo dire di quello che era stato revocato, perché, quanto al suo
successore, non lo avevamo ancora visto.
        La superiora non usciva più di notte. Trascorreva settimane intere senza
farsi vedere né all’uffizio, né in coro, né in refettorio, né alla  ricreazione.
Stava rinchiusa in camera sua; girava per  i  corridoi  o  scendeva  in  chiesa;
andava a bussare alla porta delle sue monache e diceva con voce lamentosa:
        “Suor tal dei tali, pregate per me;  suor  tal  dei  tali,  pregate  per
me...”
        Si sparse la voce che si disponesse a una confessione generale.
        Un giorno che scesi per prima in chiesa, vidi un foglio fissato al  velo
della grata. Mi avvicinai e lessi:
        “Care sorelle, siete invitate a pregare per una monaca che si  è  sviata
dai propri doveri e che vuole tornare a Dio...”
        Fui tentata di strappare quel foglio, ma poi lo lasciai. Qualche  giorno
dopo ce n’era un altro che diceva:
        “Care sorelle, siete invitate a implorare la misericordia di Dio su  una
monaca che ha riconosciuto il proprio traviamento. Esso è grande...”
        Un altro giorno fu la volta di un invito che diceva:
        “Care sorelle, siete  pregate  di  chiedere  a  Dio  di  allontanare  la
disperazione da una monaca  che  ha  perduto  ogni  fiducia  nella  misericordia
divina...”
        Tutti questi inviti in cui venivano descritte le  crudeli  vicissitudini
di quell’anima in pena mi rattristavano profondamente. Una volta  mi  capitò  di
rimanere lì impalata davanti a quegli scritti. Dentro di me mi ero  chiesta  che
cosa fossero quei traviamenti che si rimproverava, da dove venissero le  angosce
di quella donna, quali colpe potesse  avere  da  rimproverarsi;  ripensavo  alle
esclamazioni del direttore spirituale, ricordavo le sue espressioni, ne  cercavo
il senso che non  trovavo  e  rimanevo  come  assorta.  Alcune  monache  che  mi
guardavano, parlottavano fra di loro, e se non mi sono ingannata, mi  guardavano
come se stessi per essere minacciata dagli stessi terrori.
        La povera superiora non si faceva vedere che  con  il  velo  calato  sul
viso; non si occupava più della  direzione  del  convento;  non  parlava  più  a
nessuno; si intratteneva spesso con il nuovo direttore  spirituale  che  ci  era
stato assegnato. Era un giovane benedettino. Non so se fosse stato lui a imporle
tutte le mortificazioni che lei praticava: digiunava tre giorni alla  settimana;
si flagellava; ascoltava l’uffizio stando negli stalli inferiori. Per andare  in
chiesa dovevamo passare davanti alla sua porta; qui, la  trovavamo  prosternata,
con il viso a terra, e si rialzava solo quando non c’era più nessuno; di  notte,
scendeva in chiesa in camicia e a piedi nudi; se per caso suor Santa Teresa e io
la incontravamo, lei si voltava e incollava il  viso  al  muro.  Un  giorno  che
uscivo dalla mia cella, la trovai prosternata, con le braccia stese  e  il  viso
contro terra. Mi disse:
        “Venite avanti, camminate, calpestatemi, non merito altro trattamento.”
        Per tutti i mesi che durò quella malattia, il resto della comunità  ebbe
tutto il tempo di patirne e di prendermi in avversione. Non starò a  tornare  su
tutti gli affanni di una  monaca  odiata  nel  proprio  convento:  ormai  dovete
saperne abbastanza. A poco a poco sentii rinascere il disgusto  del  mio  stato.
Quel disgusto e quelle mie  pene  le  andai  a  riversar  nel  cuore  del  nuovo
direttore spirituale. Si chiama don Morel: è un uomo di carattere ardente; aveva
all’incirca quarant’anni. Mi sembrò che ascoltasse con attenzione  e  interesse.
Volle conoscere le vicissitudini della mia vita; mi fece entrare nei particolari
più minuziosi sulla mia famiglia, sulle mie inclinazioni, sul mio carattere, sui
conventi nei quali ero stata, su quello che c’era stato tra me e  la  superiora.
Non gli nascosi niente. Non mi sembrò  che  annettesse  al  comportamento  della
superiora nei miei riguardi la stessa importanza del padre Lemoine; fu molto  se
sull’argomento pronunciò qualche parola: considerò quella faccenda come  finita.
Quello che lo interessava maggiormente erano le  mie  disposizioni  segrete  nei
confronti della vita religiosa. Via via che mi aprivo con lui, la sua confidenza
faceva gli stessi progressi. Io mi confessavo a lui, e lui si confessava  a  me.
Ciò che mi raccontava delle sue sofferenze coincideva perfettamente con le  mie;
era entrato in religione suo malgrado, sopportava il suo stato con  un  disgusto
simile al mio.
        “Che fare, cara sorella?” mi diceva, “vi è una sola risorsa: rendere  la
nostra condizione meno penosa possibile.” Poi dava a me gli stessi consigli  che
seguiva lui: consigli saggi.
        “In questo modo,” soggiungeva, “non si  evitano  le  sofferenze,  ci  si
risolve soltanto a sopportarle. Le persone religiose  non  sono  felici  che  in
quanto si fanno un merito delle loro croci davanti a Dio;  in  tal  caso  se  ne
rallegrano, vanno in  cerca  delle  mortificazioni:  più  queste  sono  amare  e
frequenti, più se ne compiacciono. Hanno scambiato la loro felicità presente con
una felicità futura; si assicurano questa felicità con il sacrificio  volontario
di quella. Quando hanno sofferto molto, dicono: “Amplius, Domine, ancora di più,
Signore”, ed è una preghiera che Dio non manca mai di esaudire.  Ma  se  i  loro
patimenti sono fatti per  voi  e  per  me,  come  per  loro,  noi  non  possiamo
permetterci la stessa ricompensa; noi non abbiamo la sola cosa che  conferirebbe
ad essi un valore, la rassegnazione. E questo è  triste.  Ahimé,  come  farò  ad
ispirarvi la virtù che vi manca e che io non  ho!  Eppure,  senza  di  essa,  ci
esponiamo al rischio di essere perduti nell’altra vita dopo essere  stati  molto
infelici in questa. In mezzo alle penitenze noi ci danniamo quasi con la  stessa
certezza della gente che vive tra i piaceri del mondo.  Noi  ci  priviamo,  loro
godono, e dopo questa vita ci attendono gli stessi  supplizi.  Com’è  penosa  la
condizione di chi è costretto alla vita religiosa, uomo o donna che  sia,  senza
vocazione! Tuttavia è la nostra condizione, e non possiamo cambiarla.  Ci  hanno
caricato di pesanti catene che siamo condannati a  scuotere  senza  posa,  senza
nessuna speranza di spezzarle; cercheremo, cara sorella, di trascinarle. Andate.
Tornerò a trovarvi.”
        Tornò pochi giorni dopo. Lo vidi  in  parlatorio;  lo  osservai  più  da
vicino. Terminò di confidarmi la sua vita, io la mia: un’infinità di circostanze
che costituivano tra me e lui altrettanti punti di contatto  e  di  somiglianza;
aveva subito le stesse persecuzioni domestiche e religiose. Non mi rendevo conto
che la descrizione del suo disgusto era poco adatta  a  dissipare  il  mio;  ciò
nonostante un  tale  effetto  si  stava  verificando  in  me,  e  credo  che  la
descrizione dei miei disgusti non agisse su di lui in maniera diversa.  Fu  così
che aggiungendosi alla somiglianza dei caratteri quella  delle  nostre  vicende,
più ci vedevamo, più ci piacevamo l’uno all’altro; la storia dei  suoi  momenti,
era la storia dei miei; la storia dei suoi sentimenti, era la storia  dei  miei;
la storia della sua anima, era la storia della mia.
        Dopo che c’eravamo intrattenuti a lungo su di noi, parlavamo anche degli
altri, e soprattutto della superiora. La sua qualità di direttore spirituale  lo
rendeva molto riservato; sennonché, dai  suoi  discorsi,  intuii  che  lo  stato
d’animo attuale di quella donna non sarebbe durato, che ella lottava  contro  se
stessa, ma invano, e che sarebbe accaduta una di queste  due  cose:  o  fra  non
molto sarebbe tornata alle sue tendenze precedenti, oppure le  avrebbe  dato  di
volta il cervello. Ero molto curiosa di  saperne  di  più.  Avrebbe  ben  potuto
illuminarmi su tutti gli interrogativi  che  mi  ero  posta  senza  potervi  mai
rispondere, ma non osavo fargli domande; mi azzardai soltanto  a  chiedergli  se
conosceva il padre Lemoine.
        “Sì,” mi disse, “lo conosco; è un uomo di merito, e ne ha molto.”
        “Abbiamo cessato di vederlo fra noi da un momento all’altro.”
        “È vero.”
        “Non potreste dirmi come è accaduto?”
        “Mi dispiacerebbe se si venisse a sapere.”
        “Potete contare sulla mia discrezione.”
        “Credo che abbiano scritto contro di lui all’arcivescovado.”
        “E che cosa possono mai aver detto?”
        “Che abitava troppo lontano dal convento, che non  lo  si  poteva  avere
quando lo si voleva, che era di  morale  troppo  austera,  che  vi  erano  buone
ragioni per sospettarlo di sentimenti innovatori, che seminava la discordia  nel
convento e che allontanava gli animi delle monache dalla loro superiora.”
        “Da chi lo avete saputo?”
        “Me l’ha detto lui stesso.”
        “Allora, lo vedete?”
        “Sì, lo vedo. Qualche volta mi ha parlato di voi.”
        “Che cosa vi ha detto?”
        “Che eravate molto da compiangere, che non riusciva a capire come aveste
resistito a  tutte  le  pene  che  avete  sofferto,  che  sebbene  avesse  avuto
l’occasione di parlare con voi soltanto una volta o  due,  non  credeva  che  vi
sareste mai potuta adattare alla vita religiosa, che aveva in mente...”
        A questo punto si fermò di botto, ed io aggiunsi:
        “Che cosa avete in mente?”
        Don Morel mi rispose:
        “Si  tratta  di  una  confidenza  troppo  particolare  perché  io  possa
continuare.”
        Non insistei ulteriormente e mi limitai a soggiungere:
        “È vero che è stato il padre Lemoine a ispirarmi ripugnanza per  la  mia
superiora.”
        “Ha fatto bene.”
        “Perché?”
        “Sorella,”  mi  disse  assumendo  un’aria  grave,  “attenetevi  ai  suoi
consigli e cercate di ignorarne la ragione finché vivrete.”
        “Mi sembra però che se conoscessi il pericolo, potrei stare più  attenta
ad evitarlo.”
        “Potrebbe anche essere il contrario.”
        “Dovete proprio avere una cattiva opinione di me.”
        “Dei vostri costumi e della vostra innocenza, ho  l’opinione  che  debbo
averne, ma credete a me: vi sono  delle  cognizioni  funeste  che  non  potreste
acquisire senza rimetterci. È stata  proprio  la  vostra  innocenza  a  incutere
rispetto alla vostra  superiora;  se  foste  stata  più  scaltrita,  vi  avrebbe
rispettato di meno.”
        “Non vi capisco.”
        “Tanto meglio.”
        “Ma che cosa ci può essere di pericoloso per una donna, nelle carezze di
un’altra donna?”
        Nessuna risposta da parte di Don Morel.
        “Non sono forse la stessa di quando entrai qua dentro?”
        Nessuna risposta da parte di Don Morel.
        “Non avrei continuato ad essere la stessa? Dov’è  il  male  nell’amarsi,
nel dirselo, nel testimoniarselo? È una cosa tanto dolce!”
        “È vero,” ammise Don Morel alzando su di me gli occhi che  aveva  sempre
tenuto bassi mentre io parlavo.
        “E  questa  è  dunque  una  cosa  tanto  diffusa  nei  conventi?  Povera
superiora! In che stato è ridotta!”
        “È davvero penoso, e temo che peggiorerà. Non era  fatta  per  lo  stato
religioso, ed  ecco  quello  che  capita  prima  o  poi.  Quando  ci  si  oppone
all’inclinazione generale della natura, questa viene traviata dalla  costrizione
verso affetti sregolati, tanto più violenti in quanto non  hanno  fondamento;  è
una specie di pazzia.”
        “È pazza?”
        “Si, lo è, e sempre più lo diventerà.”
        “E voi credete che questa  sia  la  sorte  di  tutti  coloro  che  hanno
accettato uno stato al quale non erano chiamati?”
        “No, non tutti. Ve ne sono che muoiono prima, ve ne sono  altri  il  cui
carattere docile alla lunga finisce per adattarsi, e altri ancora  sorretti  per
un certo tempo da qualche vaga speranza.”
        “E quali speranze ci sono per una monaca?”
        “Quali? In primo luogo quella di far rescindere i voti.”
        “E quando si è perduta questa speranza?”
        “Rimane quella di trovare un giorno le porte aperte; o la  speranza  che
gli uomini rinuncino alla stravaganza di far  rinchiudere  in  sepolcri  giovani
creature piene di vita, e che i conventi  siano  aboliti;  la  speranza  che  il
convento prenda fuoco, che crollino i muri della clausura, che qualcuno venga in
aiuto. Tutte queste supposizioni si accavallano  nella  mente;  passeggiando  in
giardino si guarda, senza pensarci, se i muri sono molto alti;  se  si  è  nella
cella, si afferrano le sbarre della grata e si scuotono  piano,  distrattamente;
se la finestra dà sulla  strada,  si  guarda  in  basso;  se  si  sente  passare
qualcuno, il cuore comincia a battere, si sogna  sordamente  un  liberatore;  se
scoppia un tumulto e il clamore penetra fin nel convento, si spera; si conta  su
una malattia che ci farà avvicinare a un uomo, o che ci  farà  partire  per  una
cura delle acque.”
        “È vero, è vero!” esclamai, “voi mi leggete in fondo al cuore;  mi  sono
fatta, mi farò continuamente delle illusioni.”
        “E quando, riflettendovi, si arriva  a  perderle,  giacché  quei  vapori
salutari che salgono dal cuore alla ragione, ogni tanto si dissipano, allora  si
vede tutta la profondità della propria miseria; si piange, si geme, si grida, si
sente l’approssimarsi della morte. Allora c’è chi corre a buttarsi  ai  ginocchi
della superiora per cercare da lei qualche consolazione; c’è  chi  si  prosterna
nella cella o ai piedi dell’altare e chiama in aiuto il cielo; ve ne sono alcune
che si stracciano gli abiti e si strappano i capelli;  altre  cercano  un  pozzo
profondo, finestre molto alte, un cappio, e capita che lo trovino;  altre,  dopo
essersi tormentate a lungo, piombano in una specie  di  abbrutimento  e  restano
come inebetite; altre, la cui costituzione è debole e delicata si  consumano  di
languore; in altre ancora l’organismo si sconvolge, l’immaginazione si  perturba
e finiscono col diventare furiose. Le più felici sono quelle in cui le illusioni
consolanti rinascono e le cullano quasi fino alla tomba; la loro vita  trascorre
nell’alternativa dell’errore e della disperazione.”
        “E le più infelici,”  aggiunsi  io  emettendo  apertamente  un  profondo
sospiro “quelle che passano successivamente attraverso tutti questi stadi... Ah,
padre mio, come mi dispiace avervi ascoltato!”
        “E perché?”
        “Io non mi conoscevo; ora mi conosco. Le mie illusioni  dureranno  meno.
Nei momenti...”
        Stavo per continuare allorché entrò un’altra monaca, poi un’altra, e poi
una terza, e poi quattro, cinque, sei, non so più quante.  La  conversazione  si
fece generale. Alcune guardavano il direttore spirituale; altre  lo  ascoltavano
in silenzio e con gli occhi bassi; diverse lo interrogavano tutte insieme, tutte
si estasiavano sulla saggezza delle sue risposte. Intanto io mi ero ritirata  in
un angolo dove mi lasciai andare ad una fantasticheria profonda. Nel  bel  mezzo
di tutte quelle conversazioni in cui ciascuna  cercava  di  farsi  valere  e  di
attirare la preferenza del sant’uomo con  il  suo  aspetto  migliore,  si  sentì
arrivare qualcuno a passi lenti, fermarsi a tratti,  ed  emettere  dei  sospiri.
Ascoltammo. Una monaca disse a bassa voce:
        “È lei, è la nostra superiora.”
        Poi ci fu silenzio e tutte quante  si  sedettero  in  cerchio.  Era  lei
infatti. Entrò: il velo  le  ricadeva  fino  alla  cintura;  teneva  le  braccia
incrociate sul petto e la testa reclina. Fui la prima ch’ella scorse; subito dal
velo trasse una mano con la quale si coprì gli occhi, e  volgendosi  un  po’  di
lato, con l’altra mano ci fece segno a tutte di uscire. Uscimmo in  silenzio,  e
lei rimase sola con Don Morel.
        Prevedo, signor marchese, che vi farete una cattiva opinione di  me,  ma
poiché non mi sono vergognata affatto di ciò  che  ho  compiuto,  perché  dovrei
arrossire nel  confessarlo?  E  poi,  come  sopprimere  in  questo  racconto  un
avvenimento che non ha mai cessato di avere delle  conseguenze?  Diciamo  allora
che ho una mentalità piuttosto strana;  quando  le  cose  possono  suscitare  la
vostra stima o accrescere la vostra commiserazione, io  posso  scrivere  bene  o
male, ma con una rapidità e  una  facilità  incredibili;  l’anima  mia  è  gaia,
l’espressione mi viene senza fatica, le lacrime mi  scorrono  con  dolcezza,  mi
sembra che voi siate presente, che vi veda, e che voi mi ascoltiate.  Se  invece
sono costretta a mostrarmi ai vostri occhi sotto una luce sfavorevole, penso con
difficoltà, l’espressione mi sfugge, la penna non corre,  perfino  il  carattere
della mia scrittura ne risente, e se continuo, e  solo  in  quanto  segretamente
spero che voi non leggerete quei passi. Eccone uno:
        Allorché tutte le nostre sorelle se ne  furono  andate...  “Ebbene,  che
faceste?”
        Non lo indovinate?  No,  siete  un  uomo  troppo  onesto  per  questo...
Ridiscesi in punta di piedi e andai a mettermi piano piano dietro la  porta  del
parlatorio per ascoltare quello che si diceva  là  dentro.  Molto  male,  direte
voi... Oh, quanto a questo, feci molto male, lo dico anch’io a me stessa;  e  il
mio turbamento, le precauzioni che presi perché non mi vedessero, il  numero  di
volte che mi fermai, la voce della mia coscienza che ad ogni passo  mi  intimava
di tornare indietro, non mi permettevano  di  avere  dubbi.  Ciò  nonostante  la
curiosità fu più forte, e andai... Ma  se  fu  male  essere  stata  a  spiare  i
discorsi di due persone che si credevano sole, non è neanche peggio riferirveli?
Questa è ancora una di quelle cose che  scrivo  perché  mi  illudo  che  non  le
leggerete; so bene che non è vero, ma debbo convincermene.
        La prima parola che udii  dopo  un  silenzio  alquanto  lungo,  mi  fece
fremere: “Padre, sono dannata...”
        Ripresi coraggio. Ascoltavo, e il velo che fino a quel momento mi  aveva
tenuto nascosto il pericolo che avevo corso, si  stava  lacerando,  allorché  mi
chiamarono. Dovevo andare, andai. Ma, ahimè! avevo ascoltato anche  troppo.  Che
donna, signor marchese, che donna abominevole...

        A questo punto le memorie di suor Susanna si  interrompono.  Quelle  che
seguono non  sono  più  che  brevi  annotazioni  di  ciò  che  probabilmente  si
riprometteva di raccontare successivamente. Pare che la superiora sia  impazzita
e che i frammenti che riporterò debbano essere riferiti a quella sua  sciagurata
condizione.

        Dopo la confessione, godemmo di qualche giorno  di  serenità.  La  gioia
ricompare nella comunità e mi vengono rivolti rallegramenti che io respingo  con
indignazione.
        La superiora non mi sfuggiva più, mi guardava, ma la  mia  presenza  non
aveva più l’aria di turbarla.
        Io mi sforzavo di nasconderle l’orrore che mi ispirava  da  quando,  per
una fortunata e fatale curiosità, avevo imparato a conoscerla meglio.
        Ben presto si fa silenziosa; non dice più che  sì  o  no;  passeggia  da
sola.
        Rifiuta il cibo. Il sangue le si accende,  la  febbre  l’assale  e  alla
febbre succede il delirio.
        Sola, nel suo letto, mi vede, mi parla, mi  invita  ad  avvicinarsi,  mi
rivolge le espressioni più tenere.
        Se sente camminare intorno alla sua camera, esclama:
        “È lei che passa, riconosco il suo passo,  lo  riconosco.  Chiamatela...
No, no, lasciatela andare.”
        La cosa strana è che non le capitava mai di sbagliarsi e  di  scambiarmi
con un’altra.
        Rideva fragorosamente e un momento dopo si  scioglieva  in  lacrime.  Le
nostre suore la circondavano in silenzio e alcune piangevano con lei.
        D’un tratto diceva:
        “Non sono stata in chiesa, non ho pregato Dio. Voglio alzarmi da  questo
letto; voglio vestirmi, vestitemi.”
        Se si opponevano, soggiungeva:
        “Datemi almeno il mio breviario.”
        Glielo davano; lei  lo  apriva,  ne  sfogliava  le  pagine  col  dito  e
continuava a voltarle anche quando non  ve  n’erano  più.  I  suoi  occhi  erano
smarriti.
        Una notte, scese da sola  in  chiesa;  alcune  suore  la  seguirono.  Si
prosternò sui gradini dell’altare, si mise a gemere, a sospirare, a  pregare  ad
alta voce. Uscì; tornò dentro; disse:
        “Andate a cercarla; è un’anima così pura, così innocente! Se  unisse  le
sue preghiere alle mie...”
        Poi, rivolgendosi a tutta la comunità e voltandosi verso gli stalli  che
erano vuoti, esclamava:
        “Uscite, uscite tutte! che rimanga sola  con  me.  Non  siete  degne  di
avvicinarvi a lei; se le vostre voci si confondessero  con  la  sua,  il  vostro
incenso profano corromperebbe dinanzi a Dio la dolcezza del suo.  Allontanatevi,
allontanatevi...”
        Poi mi esortava a chiedere al cielo assistenza e perdono. Vedeva Dio; le
sembrava che il cielo fosse solcato di lampi, che si squarciasse, e le  tuonasse
sulla testa, ne scendevano angeli corrucciati, gli  sguardi  della  Divinità  la
facevano tremare; correva per ogni dove,  si  rincantucciava  negli  angoli  bui
della chiesa, chiedeva perdono, si metteva con la faccia a terra, e si  assopiva
in questa posizione, dove l’aveva sorpresa la freschezza umida del luogo. Allora
la trasportavano come morta nella cella.
        L’indomani ella non sapeva nulla  della  scena  terribile  della  notte.
Diceva:
        “Dove sono le nostre sorelle? Non vedo più nessuno; sono rimasta sola in
questo convento; mi hanno abbandonata tutte quante,  anche  suor  Santa  Teresa.
Hanno fatto bene. Dal momento che suor Santa Susanna non c’è più, posso  uscire.
Non l’incontrerò più. Ah, se la incontrassi! Ma lei non c’è  più,  vero?  Non  è
forse vero che lei non c’è più?... Fortunato il convento  che  la  ospita!  Dirà
tutto alla nuova superiora: che penserà di me?...  Suor  Santa  Teresa  è  forse
morta? Ho sentito suonare a morto tutta la notte. Povera figliola! È perduta per
sempre! e sono stata io, sono stata io... Un giorno le sarò messa  a  confronto;
che cosa le dirò? Che cosa le risponderò?... Sventura a lei! Sventura a me !”
        Un’altra volta diceva:
        “Sono tornate le nostre sorelle? Dite  loro  che  sono  molto  malata...
Sollevate il mio guanciale... Slacciatemi... Sento qualcosa che mi opprime... Mi
brucia  la  testa,  toglietemi  la  cuffia...  Mi  voglio  lavare...   Portatemi
dell’acqua. Versate, versate ancora... Sono bianche, ma la sozzura dell’anima  è
rimasta... Vorrei essere morta; vorrei non essere  nata...  almeno  non  l’avrei
vista.”
        Una mattina fu trovata a piedi nudi, in camicia, scarmigliata,  urlante,
con la schiuma alla bocca, mentre correva intorno alla sua cella,  con  le  mani
sulle orecchie, gli occhi chiusi e il corpo schiacciato contro il muro.
        “Allontanatevi da questa voragine! Le sentite queste grida? È l’inferno!
Salgono da quest’abisso profondo delle fiamme ch’io  vedo;  dalle  fiamme  sento
venire voci confuse che mi chiamano... Mio Dio, abbiate  pietà  di  me!  Presto,
andate, suonate,  riunite  la  comunità;  dite  che  preghino  per  me,  anch’io
pregherò... Ma spunta appena il giorno, le nostre sorelle dormono. Non ho chiuso
occhio per tutta la notte, vorrei dormire, e non ci riesco...”
        Una delle nostre sorelle le diceva:
        “Signora, c’è qualcosa che vi tormenta; confidatemela, forse  ne  avrete
qualche sollievo.”
        “Suor Agata, ascoltate, avvicinatevi... di più... ancora di  più...  non
ci devono sentire; ora vi rivelerò tutto,  tutto,  ma  serbatemi  il  segreto...
L’avete vista?”
        “Chi, signora?”
        “Non è vero che nessuna ha la stessa dolcezza? Che andatura! Che decoro!
E quanta nobiltà! Quanta modestia!... Andate da  lei,  ditele...  No,  non  dite
niente, non andate, non la  potreste  avvicinare...  Gli  angeli  del  cielo  la
custodiscono, vegliano su di lei; io li ho visti,  li  vedreste  anche  voi,  ne
sareste spaventata  come  me.  Restate...  Se  andaste,  che  cosa  le  direste?
Inventate qualcosa di cui non debba arrossire...”
        “Ma signora, se consultaste il nostro direttore...”
        “Sì, ma sì... No, no, tanto lo so quello che mi dirà; l’ho sentito mille
volte... Di che cosa gli parlerei? Se potessi perdere la memoria!... Se  potessi
rientrare  nel  nulla,  o  rinascere!  Non  chiamate  il  direttore  spirituale.
Preferirei che mi venisse letta la  passione  di  nostro  Signore  Gesù  Cristo.
Leggete...  Cominciò  a  respirare...  Basta  una  goccia  di  quel  sangue  per
purificarmi... Guardate, sgorga ribollendo dal suo costato...  Inclinate  quella
sacra piaga sulla mia testa... Il suo sangue scorre su di me e non vi  rimane...
Sono perduta!... Allontanate questo crocifisso... Riportatemelo...”
        Le veniva riportato; se lo stringeva fra le braccia, lo baciava da  ogni
parte, e poi aggiungeva:
        “Sono i suoi occhi, è la sua  bocca;  quando  la  rivedrò?  Suor  Agata,
ditele che l’amo, descrivetele il mio stato, ditele ch’io muoio.”
        Fu salassata, le fecero  fare  dei  bagni,  ma  i  rimedi  sembrava  che
accrescessero il suo male. Non oso descrivervi tutte le azioni indecenti da  lei
compiute, ripetervi tutti i discorsi disonesti che le sfuggivano nel delirio. Ad
ogni istante si portava la mano alla fronte come per  scacciarne  idee  confuse,
immagini, chissà quali immagini! Riaffondava la testa nel letto, si  copriva  il
viso con il lenzuolo.
        “È il tentatore,” diceva, “è lui. Che forma strana ha assunto!  Prendete
dell’acqua benedetta, gettate dell’acqua benedetta su di me... Basta, basta, non
c’è più!”
        Non si tardò  a  segregarla,  ma  dalla  sua  prigione  per  quanto  ben
sorvegliata, un giorno riuscì a fuggire. Si era stracciata le vesti, si aggirava
tutta nuda per i corridoi,  dalle  braccia  le  pendevano  i  capi  della  corda
spezzata. Gridava:
        “Sono la vostra superiora, tutte ne avete fatto giuramento,  obbeditemi!
Mi avete imprigionata; sciagurate, ecco qual è la ricompensa per la  mia  bontà!
Mi offendete  perché  sono  troppo  buona;  non  lo  sarò  più...  Al  fuoco!...
All’assassino!... Al ladro!...  Aiuto!...  A  me,  suor  Teresa...  A  me,  suor
Susanna!”
        Intanto l’avevano riafferrata e la riportavano nella sua prigione; e lei
diceva:
        “Avete ragione, avete ragione; ahimè! sono diventata pazza, lo sento.”
        Talvolta sembrava  ossessionata  dallo  spettacolo  dei  vari  supplizi.
Vedeva donne con la corda al collo o le mani legate dietro la schiena; ne vedeva
altre con le torce in mano; si univa a quelle che facevano onorevole ammenda; si
credeva condotta a morte; diceva al boia:
        “Ho meritato la mia sorte, l’ho meritata... Se almeno  questo  supplizio
fosse l’ultimo; ma un’eternità! Un’eternità di fiamme!...”
        Non dico niente che non sia vero; e tutto quello che dovrei ancora  dire
di vero non mi torna in mente, o arrossirei se ne insozzassi queste pagine.

        Dopo aver vissuto  per  diversi  mesi  in  quello  stato  miserando,  la
superiora morì. Che morte, signor marchese! Io l’ho vista la terribile  immagine
della disperazione e del peccato  all’ora  suprema.  Si  credeva  attorniata  da
spiriti infernali che aspettavano la sua anima per  impadronirsene;  diceva  con
voce soffocata:
        “Eccoli!  Eccoli!...”  e  opponendo  loro  a  destra  e  a  sinistra  un
crocifisso che teneva in mano, urlava, gridava:
        “Mio Dio!... Mio Dio!...”
        Suor Teresa la seguì poco tempo dopo, e noi  avemmo  un’altra  superiora
anziana, lunatica e superstiziosa.
            Mi accusano di aver stregato la superiora che l’ha  preceduta;  ella
lo crede, e le mie pene si rinnovano.
        Anche il nuovo direttore spirituale è perseguitato dai suoi superiori; e
mi persuade a fuggire dal convento.

        La mia fuga è progettata. Esco in giardino tra le undici  e  mezzanotte.
Mi lanciano delle corde, io me  le  lego  intorno  alla  persona.  Le  corde  si
spezzano, e io cado; ho le gambe tutte scorticate e una violenta contusione alle
reni. Un secondo, un terzo tentativo mi consentono di issarmi sulla sommità  del
muro; scendo. Quale è mai la mia sorpresa! Invece di una  sedia  di  posta  dove
speravo di essere accolta, trovo una sgangherata carrozza pubblica. Eccomi sulla
via di Parigi con un giovane benedettino. Non tardai  ad  accorgermi,  dal  tono
indecente che prendeva e dalle libertà che si permetteva, che non osservava  con
me nessuna delle condizioni che avevo convenuto. Allora rimpiansi la mia cella e
sentii tutto l’orrore della mia situazione.

        È a questo punto che descrivo la scena della carrozza.  Che  scena!  Che
uomo! Grido; il vetturino viene in mio aiuto. Rissa violenta tra il vetturino  e
il monaco.
        Arrivo a Parigi. La carrozza si ferma in una vicolo, davanti a una porta
stretta che si apre su un viale buio e sporco.  La  padrona  di  casa  mi  viene
incontro  e  mi  sistema  all’ultimo  piano  in  cui  trovo  appena   i   mobili
indispensabili. Ricevo alcune visite della donna che occupa il primo piano.
        “Siete giovane, vi  dovete  annoiare,  signorina.  Scendete  da  me,  vi
troverete in buona compagnia, uomini e donne; non tutte  le  donne  sono  carine
come voi, ma quasi altrettanto giovani.
        “Si parla, si gioca a carte; si balla; ci divertiamo in cento  modi.  Se
fate girare la testa di tutti i nostri cavalieri, vi giuro che le nostre signore
non ne saranno gelose, né dispiaciute. Venite, signorina...”
        Colei che mi parlava così era una donna di una certa età, dallo  sguardo
tenero, la voce dolce e la parola insinuante.
        Trascorro una quindicina di giorni in quella casa, esposta  a  tutte  le
profferte del mio perfido rapitore e a tutte le scene  tumultuose  di  una  casa
equivoca, pronta, ad ogni istante, a cogliere l’occasione di scappare.

        Finalmente, un giorno, l’occasione si presentò. Era notte inoltrata.
        Se fossi stata vicina al convento, vi sarei tornata subito. Corro  senza
sapere dove vado. Alcuni uomini mi fermano; sono presa dal panico, cado  svenuta
sulla soglia della bottega di un candeliere. Mi soccorrono.  Quando  riprendo  i
sensi, mi trovo distesa su un  giaciglio,  circondata  da  diverse  persone.  Mi
chiedono chi sono; non so  che  cosa  risposi.  Mi  fanno  riaccompagnare  dalla
domestica di casa; la prendo sottobraccio, camminiamo insieme.
        Avevamo già percorso un bel pezzo di strada, quando  quella  ragazza  mi
chiese:
        “Signorina, sapete di preciso dove stiamo andando?”
        “No, figliola mia; all’ospizio, penso.”
        “All’ospizio? Vi hanno forse cacciata di casa?”
        “Ahimè, sì.”
        “Che cosa avete mai fatto per essere cacciata a quest’ora?... Ma  eccoci
alla porta di Santa Caterina; vediamo un po’ se riusciamo  a  farci  aprire;  in
ogni modo, non abbiate paura; non resterete per la strada, dormirete con me.”
        Torno dal candeliere. Spavento della domestica nel vedere le  mie  gambe
scorticate per la caduta fatta scappando dal convento. Trascorro  la  notte  con
lei. La sera del giorno successivo, torno  a  Santa  Caterina.  Vi  rimango  tre
giorni, trascorsi i quali mi viene annunciato che, o  debbo  andare  all’ospizio
generale, o accettare il primo lavoro che mi capiterà.

        Pericolo corso a Santa Caterina da parte di uomini e di donne; da quello
che poi ho saputo è lì che vanno a rifornirsi i libertini e  le  ruffiane  della
città. La prospettiva della miseria non rese più persuasive  le  seduzioni  alle
quali fui esposta. Vendo i miei panni vecchi e ne scelgo di più adatti alla  mia
condizione.

        Entro al servizio di una lavandaia, presso la quale mi trovo tuttora. Mi
danno la biancheria, e io la  stiro.  La  mia  giornata  è  faticosa;  sono  mal
nutrita, male alloggiata, ho un letto scomodo, ma in compenso sono trattata  con
umanità. Il marito è vetturino di piazza; la moglie è di maniere un po’ brusche,
ma in fondo è una buona donna. Sarei abbastanza contenta  della  mia  sorte,  se
potessi sperare di goderne tranquillamente.

        Sono venuta a sapere che la  polizia  aveva  preso  il  mio  rapitore  e
l’aveva consegnato nelle mani dei suoi superiori. Pover’uomo! È da  compiangersi
più di me. Il suo tentativo di aggressione ha fatto scalpore, e non  sapete  con
quale crudeltà i religiosi puniscono gli  scandali;  una  segreta  sarà  la  sua
dimora per il resto dei suoi giorni; è la sorte che aspetta anche  me  se  vengo
ripresa, ma lui ci vivrà più a lungo di me.
        Il dolore della mia caduta si fa sentire. Ho le gambe gonfie e non posso
fare un passo. Lavoro  seduta,  perché  farei  fatica  a  stare  in  piedi.  Ciò
nonostante temo il momento della mia guarigione: che pretesto  avrò  allora  per
non uscire? E a quali pericoli mi esporrei, facendomi vedere? Ma per fortuna  ho
ancora tempo davanti a me.
        La mia famiglia, che non può avere alcun dubbio  sulla  mia  presenza  a
Parigi, fa sicuramente tutte le perquisizioni immaginabili. Avevo deciso di  far
venire il signor Manouri nella mia  soffitta,  di  chiedere  e  seguire  i  suoi
consigli, ma non era più di questo mondo.
        Vivo in un continuo allarme. Al minimo rumore che sento in casa, per  le
scale, nella strada, mi prende il terrore, tremo come una foglia, i ginocchi  si
rifiutano di reggermi e il lavoro mi cade dalle mani.
        Trascorro quasi tutte le notti  senza  chiudere  occhio;  se  dormo,  mi
sveglio di continuo; parlo, chiamo, grido. Non riesco a immaginare  come  quelli
che mi circondano non mi abbiano ancora scoperta.
        Sembra che la mia evasione sia di dominio pubblico. Me l’aspettavo.  Una
delle mie compagne me ne parlava ieri aggiungendovi circostanze  odiose  e  quel
genere di riflessioni che suscitano desolazione.  Per  fortuna  stava  stendendo
sulle corde la biancheria bagnata  e  non  ha  potuto  rendersi  conto  del  mio
turbamento. La padrona, invece, avendo notato che piangevo, mi ha detto:
        “Che cosa avete, Maria?”
        “Niente,” le ho risposto.
        “Ma come?” ha soggiunto, “sareste tanto sciocca da impietosirvi  su  una
cattiva monaca scostumata,  senza  religione,  che  aveva  un  amorazzo  con  un
frataccio col quale scappa dal convento? Dovreste proprio avere  compassione  da
buttar via. Non aveva che da bere, mangiare, pregare Dio, e dormire; stava  bene
dov’era; perché non c’è rimasta? Se fosse stata soltanto tre o quattro volte  al
fiume col tempo che fa, si sarebbe riconciliata col suo stato.”
        Al che ho risposto che si conoscono bene soltanto  i  propri  patimenti.
Avrei fatto bene a starmene zitta, perché lei non  avrebbe  concluso:  “Andiamo,
andiamo... è una svergognata che Dio punirà!”
        A queste parole ho chinato la testa sul tavolo, e così sono rimasta fino
a che la mia padrona non mi ha detto:
        “Ora vi siete messa a sognare, Maria? Mentre dormite, il lavoro  non  va
avanti.”

        Non ho mai avuto la vocazione per il  chiostro,  e  si  vede  abbastanza
chiaramente dal mio comportamento.  Ciò  non  toglie  che  in  convento  mi  sia
abituata a certe pratiche che  ripeto  macchinalmente.  Suona  una  campana?  Mi
faccio il segno della croce, oppure mi inginocchio.  Bussano  alla  porta?  Dico
Ave. Mi chiedono qualcosa? La mia risposta finisce sempre con un sì o con un no,
cara madre o sorella. Se sopraggiunge un estraneo, le braccia mi  si  incrociano
sul petto e invece di fare la riverenza, mi inchino. Le mie compagne si  mettono
a ridere e credono che mi diverta ad imitare la monaca;  ma  è  impossibile  che
continuino nell’errore; le mie storditaggini mi scopriranno, e io sarò perduta.

        Signore, sbrigatevi a venire in mio aiuto.  Voi  certamente  mi  direte:
“Ditemi che cosa posso fare per voi.” Ecco qui: non ho grandi ambizioni.  Mi  ci
vorrebbe un  posto  di  cameriera  o  di  guardarobiera,  o  anche  di  semplice
domestica, purché viva ignorata in campagna, in fondo a una provincia,  in  casa
di gente dabbene, che non ricevesse molto. Non importa il  salario;  mi  bastano
sicurezza, riposo, pane e acqua. Potete esser certo che saranno soddisfatti  del
mio servizio; in casa di mio  padre  ho  imparato  a  lavorare,  in  convento  a
obbedire. Sono giovane, ho  un  carattere  mite.  Quando  le  gambe  mi  saranno
guarite, avrò più forza di quanta ne occorra per fare il mio lavoro. So  cucire,
filare, ricamare, lavare. Quando non ero ancora in convento, accomodavo da  sola
i miei merletti, e farò presto a rimettermici; non sono maldestra  in  nulla,  e
saprò abbassarmi a qualunque lavoro. Ho una buona voce, conosco la musica  e  so
suonare discretamente il clavicembalo, quanto basta per divertire qualche  madre
che se ne dilettasse; e potrei anche dare  lezioni  ai  suoi  figli.  Quantunque
avrei timore di essere tradita da questi segni di  un’educazione  ricercata.  Se
dovessi imparare a pettinare, ho un certo gusto, prenderci un maestro, e non  mi
ci vorrebbe molto ad acquisire questa  piccola  arte.  Signore,  una  condizione
sopportabile, se possibile, o una condizione qualsiasi, è tutto  quello  che  mi
occorre, e non desidero niente di più. Voi potete rispondere dei  miei  costumi;
nonostante le apparenze, sono una fanciulla  dabbene;  sono  anche  devota.  Ah,
signore! tutti i miei mali sarebbero ormai finiti, e  non  avrei  più  nulla  da
temere dagli uomini, se Dio non mi avesse fermata. Quel pozzo  profondo,  là  in
fondo al giardino del convento, quante volte l’ho visitato! Se non  mi  ci  sono
buttata dentro, è perché mi lasciavano tutta la libertà di farlo.  Ignoro  quale
sia il destino che mi è riservato,  ma  se  un  giorno  dovessi  tornare  in  un
convento, qualunque fosse, non rispondo di niente: ci  sono  pozzi  dappertutto.
Signore, abbiate pietà di me, e non preparate a voi stesso lunghi rimorsi.

        P.S. Sono esausta dalla stanchezza, circondata dal  terrore.  Non  dormo
più. Queste memorie che scrivevo precipitosamente, le ho appena rilette a  mente
fresca, e mi sono accorta che senza averne avuto la minima intenzione,  ad  ogni
riga mi sono mostrata, infelice come realmente ero, ma molto  più  gradevole  di
quanto non sia. Sarà forse perché noi riteniamo gli uomini meno  sensibili  alla
descrizione delle nostre sofferenze che all’immagine delle nostre attrattive,  e
ci ripromettiamo maggior felicità nel sedurli che nel  commuoverli?  Li  conosco
troppo poco e non mi sono mai studiata abbastanza per saperlo. E se nondimeno il
marchese, al quale si attribuisce il tatto più delicato, giungesse a persuadersi
che non alla sua beneficenza, bensì alle sue debolezze io mi rivolgo,  che  cosa
penserebbe di me? Questa riflessione è per me motivo di inquietudine. In  verità
avrebbe torto, se imputasse a me personalmente un istinto che è proprio di tutto
il mio sesso. Sono una donna, forse un tantino civetta, come posso  saperlo?  Ma
con tutta naturalezza e senza artificio alcuno.

* * *
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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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