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Carlo PISACANE - La Rivoluzione

Pisacane
LA RIVOLUZIONE



CAPITOLO PRIMO

I. Ragionamento sul progresso. 
II. Riscontro con la storia. 
III. Tendenza  della società moderna. 
IV. Religione.


I. La parola progresso suona nella bocca degli uomini d'ogni condizione,  d'ogni
partito, ma è da pochissimi, anzi quasi  da  nessuno  compresa.  I  sorprendenti
trovati della scienza che, applicati all'industria, al commercio, al  vivere  in
generale, trasformano in mille guise i  prodotti,  sono  fatti  innegabili:  noi
vediamo, ove erano gruppi di capanne,  sorgere  superbe  città;  campi  aspri  e
selvaggi squarciati dall'aratro, e resi fecondi; selve, monti,  mari,  superati;
rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l'arte;  le
tenebre cacciate da fulgidissima luce; il navigar contro i venti; il  percorrere
con portentosa celerità sterminate distanze; finanche  il  fulmine  reso  rapido
messaggiero dell'uomo; l'immensità dei cieli, le viscere della terra  esplorate;
gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali, tutti studiati,  classificati,
misurati... Se questo è il progresso, niuno può negarlo o non  comprenderlo.  Ma
cotesto  accrescimento  continuo  del  prodotto  e  dell'umano  sapere,   spande
egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell'uomo il sentimento  del  proprio
diritto,  della  dignità?  Garantisce   la   libertà,   garentisce   il   popolo
dall'usurpazione di  pochi,  rende  forse  impossibile,  sotto  ogni  forma,  la
schiavitú, ed assicura l'indipendenza dell'uomo dall'uomo, o almeno ne libra  su
giusta lance le correlazioni? Ognuno che vuol manifestare francamente la propria
opinione, ognuno che studia la storia, che osserva il presente, risponderà:  no,
l'apogeo della civiltà romana, il secolo d'Augusto fu il perigeo della  libertà;
i rozzi italiani dell'XI secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del
civilissimo secolo di Lorenzo De' Medici; i Francesi dello splendido  secolo  di
Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani.  Ove  riscontrasi,  adunque,  il
continuato miglioramento dell'umane condizioni? Quale  sarebbe  il  tipo  ideale
d'una società perfetta? Quella in cui  ognuno  fosse  nel  pieno  godimento  de'
proprî diritti,  che  potesse  raggiungere  il  massimo  sviluppo  di  cui  sono
suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di  esse  senza  la
necessità, o d'umiliarsi innanzi al suo simile o di sopraffarlo: quella società,
insomma, in cui la libertà non turbasse l'eguaglianza; quella  in  cui  in  ogni
uomo il sentimento fosse d'accordo  con  la  ragione,  e  che  niuno  fosse  mai
costretto di operare contro i dettati di questa,  o  soffocare  gli  impulsi  di
quello. In tal caso l'uomo manifesterebbe la vita in tutta la  sua  pienezza,  e
però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi piú lontano da  questo  ideale,  il
mercante e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, e lo  stesso
italiano del XI secolo? La  risposta  non  è  dubbia,  e  facendo  paragone  del
presente col passato, saremmo indotti a  credere  che  i  miracoli  del  vantato
progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano. Libera la mente
da idee preconcette o da sistemi, faremo ricerca di questa legge del progresso e
del modo come essa opera. Tutti i filosofi del mondo, da Platone  ad  Hegel,  si
accordano nel riconoscere l'esistenza di una legge che chiamano idea,  sostanza,
logica ecc., che regoli le condizioni e le relazioni degli uomini. Stabilito  un
tal principio,  svolgono  i  loro  ragionamenti,  ma  le  conseguenze  non  sono
d'accordo come  il  principio  d'onde  prendono  le  mosse,  imperò  quel  primo
concetto, tutto astratto, è creato dal pensiero indipendentemente da' fatti:  ma
una tale astrazione non dura che un istante, la realtà riprende il suo  imperio,
e la ragione non può che serpeggiare attraverso i fatti, e quindi le conclusioni
a cui ognuno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei  popoli  fra  i
quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano  l'uomo  alla  grandezza  dello
Stato, perché tali erano le greche costituzioni. Locke  riconosce  la  sovranità
della  nazione  sul  monarca,  perché  scriveva   all'epoca   de'   rivolgimenti
dell'Inghilterra, e per esso la nazione è quale era l'inglese,  col  parlamento,
coi grandi, coi pubblici  funzionarî.  I  filosofi  francesi,  per  contro,  che
scrivevano sotto l'impulso del bisogno di abbattere ogni privilegio, riconoscono
il diritto, la sovranità del popolo nel puro senso democratico.  Kant,  comecché
razionalista, ma era un Inglese [sic] che scriveva nel '97; quindi  afferma  che
il popolo francese non aveva il diritto di giudicare e  condannare  il  suo  re.
Dopo la rivoluzione del '93 le condizioni del popolo son cangiate,  e  con  esse
cangiano le idee surte dai nuovi mali: è la miseria crescente che  chiama  a  sé
l'animo dei pensatori, quindi essi non sacrificano piú l'individuo  allo  Stato,
ma al diritto d'ognuno vogliono che s'adatti la costituzione di questo, e mirano
all'umana prosperità, di quindi  l'idea  del  convitto  umano,  del  socialismo,
travisato nell'applicazione alla ricerca dei godimenti  materiali.  Nella  guisa
stessa, per la stessa ragione, nel XVI secolo la vita politica essendo  muta  in
Italia, la filosofia è costretta a rimanersi nell'astrazione, e si manifesta nel
razionalismo di Bruno, che Vico e  Campanella  avvicinano  alla  realtà,  perché
cominciasi a sentire il bisogno d'un'esistenza politica, e quando questo bisogno
manifestasi nell'azione, la realtà  è  raggiunta  da  Mario  Pagano,  svolta  da
Filangieri, da  Romagnosi,  in  tutti  i  rami  della  vita  d'un  popolo.  Oggi
finalmente nella dotta e  pacifica  Germania,  in  cui  l'azione  ha  pochissimo
imperio sul pensiero, rivive con forme anche piú  astratte  il  razionalismo  di
Bruno; e mentre cercasi finanche negare la realtà,  procedesi  cosí  servilmente
sotto l'imperio di essa, che deducesi dai ragionamenti come il costituzionalismo
sia l'ideale dello Stato perfetto. Dunque, dal principio del mondo, il  pensiero
umano non ha potuto mai procedere nelle sue ricerche indipendente dalla  realtà,
a pena discende all'applicazione delle idee, esse si adattano ai  fatti,  e  non
mai i fatti procedono da esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto  sia
assurdo il concetto che le rivoluzioni, i  mutamenti  negli  ordini  sociali  si
facciano prima nel pensiero e poi nella  realtà;  essi  sono  conseguenza  delle
condizioni e relazioni degli uomini; e  cominciano  a  manifestarsi  con  l'idea
quando  già  sono  latenti  nella  società;   dalla   manifestazione   procedesi
all'attuazione, e spesso questa avviene senza di quella; nella guisa stessa  che
nell'uomo si manifesta un bisogno, poi un'idea, poi l'azione, e spesso  l'azione
segue immediatamente il bisogno senza manifestarsi  o  maturarsi  nel  pensiero.
Quindi la filosofia è quella che esanima, compara, ragiona sulle condizioni, sui
rapporti sociali, onde discernere ciò che si nasconde sotto  l'apparente  calma,
trae in luce, presenta in concetti chiari e distinti quello  che  vagamente,  ed
universalmente è sentito. La società ammira le astrazioni del pensiero,  come  i
giuochi dei saltatori di corda, ma  non  apprende  nulla  da  quelle  che  possa
migliorare le sue condizioni; come niuno impara meglio a camminare osservando le
sorprendenti prove d'equilibrio di questi, le une  e  gli  altri  non  sono  che
passatempi. La filosofia veramente razionale, ovvero la scienza  che  merita  il
nome di filosofia, è quella cominciata  in  Italia  con  Bernardino  Telesio,  e
seguita da tutti i sommi Italiani sino al Romagnosi, che gli diede il piú  vasto
sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le nostre  ricerche.
Io mi scorgo parte dell'universo, penso, ma penso ciò che è, il  reale;  non  si
produce nella mia immaginazione nulla che non esista, o che non risulti  da  ciò
che esiste. Ho un'idea chiara e  distinta,  senza  conoscerne  l'essenza,  della
materia, del moto, delle sue proprietà; lo spirito è una negazione, ciò che  non
è materia, un'incomprensibilità; una cosa che non potendo essere  avvertita  dai
sensi, non può essere neppure immaginata:  spirito  è  una  parola  che  non  ha
significato. Nel mondo  osservo  un  incessante  avvicendarsi  di  produzione  e
distruzione, due cose  opposte;  ma  se  meglio  rifletto,  ogni  contraddizione
sparisce, produzione e distruzione non sono che l'effetto di una medesima causa,
la causa, la legge della vita;  produzione  come  distruzione  vuol  dire  moto,
ovvero vita. L'uomo lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorî;  eroe
e codardo, benefattore e crudele, avaro e  generoso...  ma  ogni  contraddizione
sparisce quando riconosco queste diverse azioni effetto di una sola  e  medesima
causa, di una sola e medesima legge, la ricerca dell'utile che, secondo l'indole
degl'individui ed i rapporti che costituiscono la società in cui vive, cangia  i
modi ed il nome; chi lo cerca  nella  gloria,  chi  nell'ignominia;  alcuni  nel
sacrifizio, altri nei beni materiali... È questo un fatto che niuno  piú  revoca
in forse; esso è riconosciuto da  tutta  la  scuola  del  sensismo  francese  ed
inglese; da' nostri grandi Italiani, Pagano, Filangieri, Beccaria, Romagnosi,  e
sottinteso da Vico, da Campanella, da Telesio; da tutti gli economisti  moderni,
da tutti i socialisti; dai razionalisti della  Germania:  Di  buon  grado,  dice
Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma, ahi lasso!, lo  fo  per  inclinazione;
onde spesso mi contrista il pensiero di non esser virtuoso. Fichte dice: ama  te
stesso sopra ogni cosa, ed il tuo prossimo per amor di te stesso. Negano  questa
verità i poveri devoti di un Dio personale; e gli ecclettici, ovvero quelli  che
cercano conciliare i principî della scienza e lo stato presente della società, e
cosí si fanno gli apologisti del sacrificio quelli che ne rifuggono con orrore!!
A Giordano Bruno sarebbe stato  piú  doloroso  rinnegare  la  sua  dottrina  che
sentirsi ardere le carni; si gettò nel rogo per fuggire il dolore di  rinunziare
alle proprie idee. I due ultimi versi del suo sonetto il dicono chiaramente...

Fendi secur le nubi e muor contento, Se il ciel sí illustre morte ti destina!

Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la piú assurda è  quella  di
supporre l'esistenza d'un Dio, e  l'uomo  creato  a  sua  immagine;  ovvero  non
essendoci dato immaginare questo Dio l'uomo l'ha creato ad immagine  propria,  e
ne ha fatto il creatore del mondo, e cosí una particella diventata creatrice del
tutto. Ma quale utile può  ottenersi  dalla  ricerca  del  creatore  del  mondo?
Nessuno. Il mondo esiste e ciò è un fatto; in esso  dapertutto  io  trovo  moto,
dapertutto la medesima causa della vita che appare in mille guise: è latente nei
minerali, vegeta nelle piante,  guizza  nei  pesci,  rugge  nel  leone,  ragiona
nell'uomo; la diversità de' modi co' quali manifesta  la  sua  potenza,  dipende
dalla piú o meno perfezione del corpo da  essa  animato.  Corpo  ed  anima  sono
entrambi immortali, non havvi nell'universo mondo un granello di sabbia  che  si
distrugga: il corpo ridotto polvere rientra in seno alla gran madre;  l'anima  o
il fluido animatore sorte dalla sua prigione che  davagli  forma,  abbandona  il
corpo che si distrugge e piú non si presta al moto, e  confondesi  con  la  gran
massa di esso che vaga negli spazî; la morte non  è  che  la  distruzione  delle
forme  d'un'individualità.  Da  questo  moto  incessante  risultano  i  rapporti
dell'uomo col mondo esteriore, degli uomini tra loro, la società, e però non  fa
d'uopo ricercare la causa del moto, perché a nulla gioverebbe tale  ricerca,  ma
la legge del moto. Tutti i filosofi del mondo  convengono  nell'immutabilità  di
questa legge, quelli soli che riconoscono l'esistenza di un Dio  la  negano.  Il
concetto d'un Dio onnipotente è figlio dello scetticismo in cui cadde  il  mondo
romano nella sua decadenza. La virtú, il giusto, il diritto  sono  incompatibili
con l'esistenza di questo Dio che può tutto cangiare secondo il  suo  capriccio,
che piegasi alle discordi preghiere dei mortali; nulla  vi  resta  d'immutabile,
tutto cangia secondo la sua volontà. L'unità dell'universo sparisce, non  è  una
sola la causa del moto, e quindi una sola la  legge  di  esso,  ma  tante  cause
diverse per quanti sono gli enti; l'anima dell'uomo  è  diversa  da  quella  del
bruto, questa da quella del vegetabile, anzi  ogni  uomo  ha  un'anima  diversa.
Ammessa tale ipotesi, la virtú non ha significato, la ricerca di una legge unica
del moto è impossibile, impossibile il progresso; per un solo atto della volontà
di questo Dio noi potremmo indietreggiare di  secoli.  L'unica  regola,  l'unica
legge è la rivelazione che ci vien fatta da alcuni uomini in nome di questo Dio,
questi uomini sono gli arbitri dell'umanità. La storia non ha piú nesso, ma sono
tanti fatti, manifestazione della libera, e però mutabile volontà di questo Dio.
Ma quest'ipotesi scoraggiante e incomprensibile,  questo  Dio  assurdo,  imagine
della  dissoluzione  sociale,  sparisce,  appena  dalla  corruzione  comincia  a
manifestarsi novella vita. Stabilito che una sola debba  essere  l'ignota  causa
del moto, ci faremo a rintracciarne  la  legge;  non  già  astraendo  il  nostro
pensiero, e ricavando le conseguenze secondo  i  dettati  della  dialettica,  ma
seguendo da vicino i fatti, studiandoli accuratamente, e conoscere cosí la legge
con cui essi gli uni dagli altri procedono;  non  già  cercando  quale  dovrebbe
essere questa legge, ma quale  è;  non  l'ideale,  ma  il  reale.  Nell'universo
scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli astri, il succedersi
delle stagioni, il prodursi delle piante, tutto  è  l'effetto  di  una  medesima
forza attiva, la quale sospinge gli uomini al  moto,  e  crea  le  loro  diverse
condizioni e relazioni, le diverse costituzioni della società; e però essendo la
storia un effetto di questa forza,  essa  deve  procedere  secondo  una  regola,
secondo una legge immutabile e necessaria. La noia che esagera il  fastidio  del
presente, la speranza che  abbellisce  oltre  misura  l'avvenire,  ed  in  altri
termini la necessità di soddisfare ai proprî bisogni, sospingono l'uomo al moto;
dolore e piacere suoi angeli tutelari lo costringono a fermare la sua attenzione
sugli oggetti  circostanti.  Ed  in  tal  guisa  da  ogni  sensazione,  da  ogni
esperienza vien creata un'idea; se nulla v'è nell'esperienza,  nulla  v'è  nella
mente, ovvero come dissero i peripatetici, nihil est in  intellectu  quod  prius
non fuerit in sensu. Le  continuate  sensazioni  dirozzano  le  fibre,  che  per
soverchia rigidezza, come quelle del selvaggio, mancano d'irritabilità, e  danno
tuono a quelle de' fanciulli per flaccidezza tarde. Appena la fibra acquista  un
certo grado d'irritabilità, l'uomo immagina, né ha piú  bisogno  della  presenza
dell'oggetto per descriverlo e vederlo in sua mente. Segue in ultimo la ragione,
facoltà di discernere, la quale classifica, compara, cerca la correlazione delle
acquistate idee, e rischiara il tomulto degl'istinti. Quindi tre età  nell'uomo:
de' sensi, dell'immaginazione, della ragione; nella prima le  fibre  son  molli,
nella  seconda  cominciano  a  tendersi;  nella  terza  hanno  il  giusto  grado
d'irritabilità; con la vecchiezza diventano flaccide, l'uomo peggiora, e diventa
di nuovo fanciullo. Le facoltà dell'uomo sono inferiori ai bisogni, di quinci la
perpetua operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea  l'uomo  subisce
una modificazione, e con questa sorge un nuovo bisogno, e  cosí  la  vita  è  un
avvicendarsi continuo di bisogni, di idee, di nuovi bisogni... L'uomo, se non  è
costretto da forze esteriori ad  operare  diversamente,  segue  per  sua  natura
questa  serie  di  movimenti,  e  trasforma  tutti  gli   oggetti   circostanti.
L'indefinita modificabilità del  mondo  esteriore,  che  reagendo  sull'uomo  lo
modifica indefinitamente, costituisce un'indefinita modificabilità  di  rapporti
fra uomo ed uomo, fra esso e gli oggetti che  lo  circondano.  Questi  rapporti,
ovvero l'azione degli uomini gli uni verso gli altri,  e  sul  mondo  esteriore,
costituiscono le  umane  società,  che  per  tal  ragione  sono  indefinitamente
modificabili. Dunque il  continuo  mutarsi  di  questi  rapporti,  ovvero  delle
costituzioni sociali è una legge assolutamente  necessaria,  legge  che  risulta
dalla natura umana, quindi fa d'uopo o migliorare o peggiorare continuamente,  o
pure oscillare fra certi limiti. Inoltre, le fibre vengono modificate secondo il
numero delle sensazioni, queste crescono a  misura  della  trasformazione  degli
oggetti esterni, dunque, in una società in cui la  natura  è  selvaggia,  e  non
ancora ha subito gli effetti dell'umana operosità, le sensazioni debbono  essere
pochissime, le fibre degli uomini rozze. A misura che  le  sensazioni  crescono,
per la trasformazione che il mondo esterno subisce per mano dell'uomo, le  fibre
gradatamente si dirozzano; quindi le  tre  età  che  si  riscontrano  nell'uomo,
esistono  egualmente  nelle  società:  de'  sensi,  il  puro  stato   selvaggio;
dell'immaginazione, l'epoca delle favole e degli eroi;  della  ragione,  l'epoca
delle forti passioni, delle grandi virtú, perché la  fibra  ha  raggiunto  tutto
quel grado d'irritabilità di cui è capace. Dunque per la natura umana, il  moto,
il cangiamento delle condizioni e relazioni degli uomini è immancabile; e per la
stessa natura nelle società debbono,  sempre  migliorando,  succedersi  tre  età
diverse, dunque progresso. Ma le modificazioni ed i rapporti, effetti dell'umana
operosità,  essendo  indefiniti,  indefinite  sono  eziandio  il  numero   delle
sensazioni che ne risultano;  e  siccome  le  soverchie  e  continue  sensazioni
logorano ed ammolliscono le fibre, e gli uomini s'avviliscono, ne risulta che le
società debbono eziandio soggiacere  allo  stato  di  vecchiezza,  e  morire  di
sfacelo:  il   progresso   indefinito   è   impossibile.   Ora   ci   faremo   a
particolareggiare le  nostre  ricerche.  Generalmente,  ogni  modificazione  che
l'uomo opera sugli oggetti circostanti è  un  prodotto,  le  modificazioni  sono
indefinite: dunque, i prodotti debbono indefinitamente crescere. Discorremmo nel
primo Saggio come si formarono le prime famiglie, e quindi i vichi, i paghi,  le
città, quindi l'uomo tende all'associazione, o perché il debole donasi al  forte
per esser protetto; o perché questi lo fa suo schiavo; o perché varî  deboli  si
collegano contro il forte, insomma questa tendenza continua risulta dall'istinto
della propria conservazione, dalla ricerca della prosperità, dalla  brama  della
vendetta, non già  dall'amore  reciproco  degli  uomini.  Come  gli  uomini,  le
famiglie, i vichi, i paghi per vantaggiare se stessi si uniscono  e  formano  le
città, del pari vediamo le varie  città  formare  le  nazioni,  e  queste  sotto
l'imperio dei stessi moventi formare gl'imperi,  quindi  possiamo  inferire  che
l'umanità ha una tendenza verso l'unità mondiale. Né questa è la  sola  ragione,
ma havvene un'altra non meno importante. La Natura, quasi per confermare  questa
legge, ad ogni regione ha dato prodotti  diversi,  mentre  il  desiderio  ed  il
bisogno di giovarsene è lo stesso in tutti  gli  uomini  della  terra,  i  quali
ricorrono alla forza,  alla  frode,  al  commercio,  per  fornirsi  di  ciò  che
difettano. Quindi è indubitato che un giorno, se il globo non sarà  un  solo  ed
unico Stato, certamente la prosperità,  la  civiltà  sarà  uniformemente  sparsa
sulla sua superficie. E come ne' vichi, ne' paghi, nelle città,  nelle  nazioni,
dai varî costumi e gerghi nacque una pubblica opinione  ed  una  lingua  comune,
nella guisa stessa, un giorno  vi  sarà  un'opinione  ed  una  lingua  mondiale.
Proseguiamo lo studio della natura  umana.  L'istinto  avverte  l'esistenza  de'
fatti senza svolgerne le conseguenze; la ragione le  svolge,  le  studia,  e  le
compara. Gli impulsi che riceviamo dall'istinto  sono  l'effetto  dell'immediato
piacere che può procurarci un'azione, ma se a questa prima sensazione  piacevole
ne succedono, come conseguenza, altre dolorosissime, noi nol sappiamo, solamente
la ragione può avvertircene, la quale opera quando una sensazione dolorosa fissa
su di un oggetto  la  nostra  attenzione.  Dunque  l'uomo  deve  necessariamente
errare; la sua ragione non evita  l'errore,  ma  lo  corregge  quando  i  tristi
effetti delle sue  conseguenze  lo  costringono  a  ragionare.  L'errore  non  è
conforme alle leggi di Natura, altrimenti non  sarebbe  errore;  i  suoi  tristi
effetti sono la voce di queste leggi che ci  richiamò  sotto  il  loro  assoluto
imperio; dunque l'istinto ci allontana dalle leggi  di  Natura,  la  ragione  ci
rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le leggi di  Natura  è  il  bene,  è
l'azione che  risulta  dall'ultime  conseguenze  de'  loro  effetti;  l'istinto,
invece, non mira che al bene immediato,  la  ragione  c'insegna  di  sacrificare
questo all'avvenire. L'istinto restringe il nostro  sguardo  in  angusta  valle,
mentre per discernere le leggi di Natura è d'uopo ascendere una  sublime  vetta,
ed in un fissar d'occhio tutto  antivedere  nell'avvenire.  Fra  i  suggerimenti
dell'istinto e le leggi di Natura, havvi il medesimo rapporto che passa fra  una
lettera dell'alfabeto e la scienza. Dopo l'esposto, la  legge  del  moto,  della
vita, è evidente: il moto è una serie non  interrotta  di  azioni,  queste  sono
effetti  erronei  dell'istinto,  che  piú  tardi  la  ragione  corregge,  quello
deviando, questa avvicinandosi alle leggi di Natura; inoltre le condizioni e  le
relazioni degli uomini, la costituzione sociale insomma, è l'effetto dell'azione
degli uomini, gli uni verso gli altri; dunque le costituzioni delle società sono
effetto dell'errore dell'istinto, che la ragione corregge  avvicinandole  sempre
alle leggi magistrali della Natura. Svolgeremo piú  diffusamente  cotesta  idea.
Seguendo l'istinto, l'uomo che trovasi  sotto  una  sensazione  dolorosa,  cerca
tutto ciò che allevia il dolore, che distrugge la causa del male, né riflette se
il  rimedio  dall'istinto  suggerito,  svolgendo  in  seguito  le  sue   occulte
proprietà, possa cagionare un male maggiore del presente; ricalcitra con esso, e
ciò basta. Con questa legge, che risulta dall'indole sua, l'uomo costituisce  la
società e muta la costituzione di  essa.  Intanto  ad  ogni  nuova  costituzione
accettata dagl'istintivi desiderî del popolo, esiste sempre un utile  immediato,
causa di coteste aspirazioni, e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale
utile, la società prospera. L'ulcera che dovrà roderla è nascosta, è a  pena  un
germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la ragione, non ancora costretta
dal dolore a studiare i mali, segue ciecamente l'istinto, ed essendo costretta a
serpeggiare nei suoi angusti giri, e comparando e  studiando  i  rapporti  delle
cose, in quelle condizioni che l'errore dominante la sociale costituzione le  ha
stabilite, risultanto  i  pregiudizî  e  le  opinioni  che  un  giorno  dovranno
tiranneggiare questa società,  e  pur  nondimeno  in  quest'epoca,  la  ragione,
siccome segue l'istinto, è  d'accordo  col  sentimento,  gli  uomini  sentono  e
ragionano, non già giustamente, ma liberamente, la società è giovane, i  costumi
son puri: il diritto, il giusto, le azioni virtuose son quelle conforme al patto
sociale. Ma le serie de' rapporti sociali che si svolgono partendo da  una  base
erronea diventano sempre piú contrarî alle leggi di Natura, quindi cominciano  a
manifestarsi gl'inconvenienti, poi i  mali,  i  quali  rapidamente  crescono  ed
ingigantiscono; ecco il periodo delle rivoluzioni, o  delle  dissoluzioni  delle
società. In tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali che
tormentano il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze opposte ai  pregiudizî
ed alle opinioni dominanti, contraddittorie con le opere,  coi  costumi,  quindi
una lotta de' motivi esterni con l'interno convincimento. La virtú,  essendo  la
vittoria di questo su di quelli, ovvero quel sentimento  superiore  alla  stessa
fama che appellasi coscienza, per cui  disse  il  Campanella  Onor  non  ha  chi
d'altri il va cercando, non è piú quella che  opera  secondo  il  patto,  ma  in
contraddizione col patto. Il diritto, il giusto, non piú quello riconosciuto dal
patto, ma quello che risulta  dai  nuovi  rapporti  delle  cose  scoverti  dalla
ragione. Se il patto, per cagione dei dolori che tormentano le moltitudini,  non
è riformato o cangiato, la società è condannata a  perire.  Allora  scorgesi  la
virtú difettiva, quindi i motivi esterni prevalendo, la ragione  è  costretta  a
tacere. Ognuno, impotente a  combattere  i  proprî  mali,  s'isola,  non  è  piú
commosso dai mali altrui, e la ragione stessa impone per  propria  conservazione
silenzio al sentimento, l'uomo è depravato, è perfido  ed  infelice.  In  questi
diversi stati e condizioni la società per mezzo dei scrittori manifesta  le  sue
idee. Nell'epoca di  prosperità  l'erudizione  ordinariamente  sovrabbonda,  gli
scrittori sono puri, le loro opere, le loro dottrine sono  d'accordo  col  patto
sociale. Cominciano i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso manifestasi
con rimpiangere il passato, con maledire i depravati costumi. La Divina Commedia
fu il canto solenne con cui l'Italia manifestò  i  proprî  dolori,  e  rimpianse
l'antica purezza de' costumi. I mali crescono, la depravazione generale  produce
la sfiducia, lo scetticismo; allora vediamo sorgere sovente gli  apologisti  del
sentimento, i nemici del calcolo e della ragione,  scrittori  generosi,  ma  non
profondi, i quali credono cagione dell'isolamento, dell'egoismo, non già i  mali
da cui l'uomo  è  tormentato,  ma  la  facoltà  che  li  fa  discernere;  eglino
vorrebbero porvi rimedio suscitando in altri quei generosi sentimenti dai  quali
si sentono animati. Melchiorre Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal  genere,
la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che tutti  sentono.
Contemporanei di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzî di  speranza
e di vita, uomini di squisita fibra, che sottopongono a severo esame i mali  che
opprimono la società, mostrano a nudo le sue piaghe, ne  ricercano  la  cagione,
propongono i rimedî, e compongono la filosofia dell'epoca. Se i dolori non  sono
abbastanza sentiti, o l'indole nazionale è tarda ed incapace di forti  passioni,
costoro rimangono nell'astratto, e se discendono ad applicare le loro  dottrine,
si allontanano  ben  poco  dallo  stato  esistente,  adattano  ad  esso  i  loro
ragionamenti. Se i mali son gravi, le passioni  violente,  il  ragionamento  dei
riformatori distrugge quanto esiste; i scrittori  alemanni  ed  i  francesi  del
presente secolo hanno questi  due  distinti  caratteri.  I  riformatori  debbono
vincere l'aspra lotta del proprio convincimento, contro tutti i motivi  esterni,
i pregiudizî,  la  pubblica  opinione,  spesso  la  persecuzione,  l'esilio,  il
carnefice, il rogo. Sono gli eroi dell'epoca. D'altra parte, in  molti,  l'utile
privato trovasi strettamente legato alle leggi,  alle  opinioni,  ai  pregiudizî
combattuti, e  questi  se  ne  fanno  i  difensori;  ecco  i  conservatori,  gli
apologisti del presente, in cui essi trovano il bene, o almeno il  germe  d'ogni
futuro bene. In questi cotali,  scrittori  depravati,  i  motivi  esterni  hanno
sempre il trionfo sull'interno convincimento, la virtú è  difettiva;  son  turba
vile e spregevole in perpetuo, se lo sprezzo potesse  aspirare  ad  immortalità.
L'opportunità  è  la  legge  suprema,  il  principio  che  li  regola.  Lodatori
infaticabili formano il corteggio della tirannide, finché questa, divenuta forte
da non aver piú bisogno delle loro lodi, impone silenzio all'importuno  garrito.
La lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre, perfeziona le
dottrine di quelli che, originate da' mali  della  società,  acquistano  maggior
lume secondo che maggiori sono gli ostacoli che trovano al  loro  sviluppo;  per
tal ragione, i conservatori,  parte  cancrenosa  della  società,  loro  malgrado
contribuiscono al perfezionamento delle nuove idee. Cosí il pensiero  nasce  dai
fatti, fra il volgo, da' dolori; procede a traverso di essi, ma segue  poi  fuor
del volgo i suoi voli, le sue astrazioni, mentre questo, senza ragionare,  senza
mai addottrinarsi, dai soli fatti vien balzato da un'idea in un'altra.  Intanto,
le moltitudini, sotto la pressura de' crescenti mali, cominciano  a  manifestare
un'irrequietezza, un  odio  al  presente,  un  desiderio  di  migliorare,  vago,
confuso, non espresso in verun concetto. Ma questo  desiderio,  questo  concetto
non tarda a formolarsi nella mente di pochi in un'idea  che  diventa  legame  di
sette, scopo di congiure, fede di martiri, e cosí essa manifestasi in una  serie
di fatti, di sensazioni, che la rendono comune, spontanea, concreta,  immediata,
sentimento insomma; allora la rivoluzione delle idee è compita, quel concetto di
pochi getta un seme  nell'universale  coscienza,  che  frutterà,  fecondato  dai
fatti. Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei  filosofi,  ma  essa  è
quel  primo  suggerimento  dell'istinto,  movente,  e  punto  di  partenza   dei
ragionamenti di quelli, e però nasconde nuovi errori, nuovi mali, dai  pensatori
manifestati, comparati, contrappesati, ma sempre inutilmente pel volgo, che  non
cercherà il rimedio di mali non ancora esperimentati; e  come  quelli  procedono
seguendo i voli del loro pensiero sino alle ultime conseguenze; le  moltitudini,
lentamente, operano, ed attraverso fatti, delusioni, errori, procedono verso  la
meta da quelli rapidamente raggiunta. Sbattuto dalla tempesta sento  il  bisogno
di un ricovero. Penso di piantare  degli  alberi,  e  già  li  veggo  nella  mia
immaginazione in grandi rami diffusi. Li esamino minutamente, e mi convinco  che
non sarò da essi abbastanza garentito, anzi mi attirerò i fulmini addosso.  Come
fare adunque? Quando saranno grandi, penserò meco stesso, li abbatterò; dei loro
fusti costrurrò un ricovero piú utile degli alberi. Esamino questo nuovo trovato
del pensiero, e, non scorgendolo abbastanza  perfetto,  procedo,  perfeziono  il
ricovero, e  giungo,  sempre  migliorando,  ad  un  edifizio,  e  conchiudo  che
l'edilizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma, a  quanti  travagli,  a
quante fatiche, a quante delusioni non dovrò sottostare se voglio trarre in atto
il mio pensiero, e piantare gli alberi, attendere che  crescano,  abbatterli  ed
adattarli  all'ideato  edificio?  I  riformatori  son  quelli   che   ragionando
stabiliscono la necessità dell'edifizio;  il  popolo  comincia  per  attuare  il
pensiero con piantare l'albero, e non l'abbatte, se prima non  ha  esperimentato
che esso non è sicuro, all'ombra delle sue foglie, come aveva  sperato;  e  cosí
procede, perfezionando il proprio ricovero, sempre dopo aver esperimentati  que'
mali che la ragione avea già preveduti. Nel pensiero di Campanella,  di  Pagano,
di Filangieri, di Romagnosi, noi scorgiamo, o espressa,  o  sottintesa,  o  come
conseguenza di  que'  principî,  la  rivoluzione  sociale,  quindi  il  pensiero
italiano raggiunse ben presto le sue ultime  conseguenze.  Ma  come  procede  il
popolo verso questa meta? Ora, oppresso da esorbitanti gravezze, sollevasi nella
gigantesca Napoli, terribile come la Natura  in  corruccio,  e  condotto  da  un
pescatore sbaratta il mal governo che  l'opprime;  ora  si  raccoglie  in  Lucca
intorno ad un nero e stracciato vessillo, e minaccia i  ricchi;  ora  assale  al
segnale di Balilla, e caccia lo straniero dalle mura di Genova; ora favorisce il
Francese per odio contro il Tedesco; poi favorisce questo  per  odio  contro  di
quello; finalmente,  dopo  tanti  esperimenti  e  tante  delusioni,  comincia  a
riconoscere la necessità di conquistarsi una  patria,  e  l'idea  d'indipendenza
italiana la personifica in un papa, poi in un re, ed ora attende i  nuovi  fatti
che verranno a  trarlo  dall'incertezza  in  cui  gli  ultimi  disastri  l'hanno
gettato. In  tal  guisa,  a  traverso  d'esperimenti,  raggiungerà  la  meta  e,
distruggendo l'edificio incantato dei pregiudizî e delle opinioni,  adatterà  la
sua costituzione alle leggi magistrali della  Natura  che  già  da  lungo  tempo
servon di norma ai nostri pensatori. Quindi è assurdo che il progresso dell'idea
faccia progredire i fatti, è assurdo pretendere di giudicare dall'idee  espresse
dai scrittori il progresso di cui un popolo in una  rivoluzione  è  capace;  per
giudicare bisogna studiare la sua storia, e dallo studio delle peripezie a cui è
soggiaciuto, potrà conoscersi ciò che esiste nella coscienza  nazionale,  ovvero
quell'universal sentimento che si manifesta nel moto, lo regge, ne  prescrive  i
limiti: se un tal sentimento non sarà un'idea chiara  e  distinta,  ma  prenderà
norma dai mali esistenti che a pena cercherà di lenire  senza  distruggerli,  il
moto sarà sviato, represso, infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza,  che
un ammaestramento universale, che allargherà, per l'avvenire, i limiti  di  quel
concetto esperimentato troppo angusto. In tal guisa si succedono le rivoluzioni,
errori fatali dell'istinto nazionale, che la ragione corregge ed indirizza verso
le leggi di Natura. Fin qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato,
che le Nazioni percorrendo una  sanguinosa  via  procedono  sempre  innanzi,  ma
bisogna considerare altri elementi, altre cagioni che operano sull'indole  umana
e sulla coscienza dei popoli.  Se  l'eccesso  delle  sensazioni,  se  le  troppe
delusioni logorano le fibre e gettano la sfiducia nell'animo;  se  le  soverchie
ricchezze di alcuni, e la miseria spaventevole dei molti,  troncano  ogni  nerbo
alle moltitudini, e  succede  una  solitudine  di  pensieri  e  d'interessi  che
distrugge  affatto  la  coscienza  nazionale:   allora   le   rivoluzioni   sono
impossibili. Allora manca quel sentimento universale d'onde i pensatori traggono
le prime idee; mancano ai popoli le speranze; ai cospiratori i concetti; mancano
le passioni che sospingono quelli a scrivere, questi  ad  agitarsi  ed  operare.
Cessa il moto, e con esso la vita, il difetto di  ardenti  passioni  non  è  che
preludio di morte. Una Nazione giunta in tale stato è condannata  a  perire  per
vecchiezza, essa sarà preda  dei  piú  forti  vicini.  Dal  nostro  ragionamento
possiamo conchiudere che ogni Nazione tende con  le  sue  rivoluzioni  verso  le
leggi di Natura, ma nel suo aspro cammino può incontrare ostacoli  tali  che  ne
logorano le forze e la distruggono. Quindi il corso e ricorso delle Nazioni  non
è legge fatale ed inevitabile, ma nemmeno contraria all'indole dell'uomo e delle
società. Né perché per lo passato ebbe luogo, dovrà necessariamente ripetersi al
presente, può non avvenire, o almeno seguire un'orbita piú eccentrica di  quelle
già percorse. Intanto le ricchezze sociali, dimostrammo  che  sono  in  continuo
aumento; le scienze che scrutano i secreti della Natura e si giovano  delle  sue
forze, volgendole all'accrescimento dell'industria, in continuo progresso; ed  i
popoli del mondo tendono sempre verso l'unità; quindi le diverse Nazioni corrono
tutte verso questa meta  comune,  uniforme  prosperità  mondiale,  ma  nel  loro
cammino ognuna sottogiace alle proprie peripezie, alcune migliorano  nelle  loro
istituzioni, altre decadono, certe si dissolvono, altre ingrandiscono; sono come
tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma non vi  giungono  senza  che
ognuna non corresse fortuna a sua volta.


II. Fin qui non abbiamo  fatto  altro  che  seguire  la  dialettica  e  rimanere
nell'astrazione, ora l'accurato esame de' fatti, ovvero  della  storia  d'Italia
che  nel  primo  saggio  abbiamo  adombrata,  servirà  di  riscontro  al  nostro
ragionamento. Distrutto l'impero etrusco dal diluvio d'Ogige e  dalla  crisi  di
fuoco  di  cui  parlammo,  fra  i  monti  dell'Italia  e   della   Grecia,   per
quell'incontestabile legge di Natura per cui l'uomo tende all'associazione  come
il grave al suo centro, cominciarono a raccogliersi in varî  gruppi  i  dispersi
selvaggi. Le leggi da cui vennero retti questi primi gruppi,  il  dispotismo  di
uno su molti, ci dimostra chiaramente  il  primo  suggerimento  dell'istinto.  I
deboli, onde esser garentiti dalla prepotenza de' forti, cercarono la protezione
di altro forte al quale si diedero  volontariamente  schiavi.  Forse  fuvvi  chi
suggerí la lega di tutti i deboli contro i pochi forti,  forse  fuvvi  chi  fece
riflettere che si sfuggiva  un  male  e  se  ne  creavano  degli  altri  con  la
volontaria schiavitú. Ma queste ragioni, queste dottrine dell'epoca, questi voli
del pensiero, riuscivano infruttuosi; l'istinto diceva ad ognuno: donati  ad  un
forte e questi ti proteggerà, e cosí ognuno,  a  schivare  la  probabilità  d'un
servaggio, rendevasi volontariamente servo. Cosí si formarono i vichi e i paghi:
i deboli si sentivano lieti del ritrovato di  aver  chiesto  la  protezione  del
forte, contenti lavoravano, ed il forte, loro protettore, godeva del frutto  dei
loro lavori; la ragione era  d'accordo  col  sentimento,  queste  prime  società
prosperarono. La guerra fra i vichi e paghi  fece  che  varî  di  questi  borghi
collegandosi formarono la città. I varî capi, re scettrati e sommi sacerdoti  [e
il séguito] dei loro dipendenti, si raccolsero in  congresso  nella  città  onde
accordarsi riguardo il modo come condurre la  guerra,  solo  pubblico  interesse
allora esistente. Intanto dal contatto  dei  vichi  e  paghi  risultò  un  culto
comune, una pubblica  opinione,  ed  un  paragone  fra  il  modo  di  esercitate
l'imperio  de'  diversi  capi;  quindi  ne'  piú  oppressi  surse  desiderio  di
migliorare; ecco i primi sintomi di  una  rivoluzione.  Certamente  soffrí  pene
acerbissime quel primo schiavo che si lagnò della propria  condizione  facendone
paragone coi piú fortunati. Questi  fu  un  riformatore,  un  virtuoso,  le  sue
ragioni furono soffocate con la violenza, e la virtú ignota a quella società  si
mostrò per la prima volta. Virtuosi furono quei primi plebei  che,  sfidando  il
corruccio dei loro padroni, proposero sottoporre  alla  concione  dei  forti  le
private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l'approvò, facendo  prevalere
il suo convincimento, motivo interno, alla seduzione, ai vantaggi che traeva dal
domestico  imperio,  motivo  esterno.  Fu  questa  una  prima  rivoluzione,   un
progresso, divennero piú equi i rapporti fra i padroni ed i clienti,  ma  crebbe
oltre ogni misura la potestà della concione, sovrano e giudice nel tempo stesso.
Il suggerimento dell'istinto, di surrogare all'arbitrio de' varî capi il  volere
del congresso che essi medesimi componevano, si avvicinò assai piú alle leggi di
Natura che la volontaria  schiavitú,  ma  diede  corso  a  nuova  tirannide.  Al
crescere delle città, le  popolazioni  e  le  ricchezze,  al  moltiplicarsi  dei
rapporti fra gli individui,  la  potestà  dell'oligarchia  dei  forti  cresceva,
pesava sempre piú sulla plebe, le cui fibre, d'altra parte,  venivano  dirozzate
dal crescente numero delle sensazioni. Cominciarono a  sentirsi  i  dolori,  che
trassero a sé  l'animo  dei  piú  astuti,  e  la  ragione  dichiarò  ben  presto
un'ingiustizia che i soli nobili fussero sovrani. Ecco la  lotta  della  ragione
coi pregiudizî e le opinioni di quelle  società.  Da  questa  lotta  cominciò  a
sorgere naturalmente l'idea della colleganza della plebe contro i  nobili,  idea
dalla quale l'istinto aveva deviato, prima col  volontario  servaggio,  poi  col
concedere ogni potestà alla concione de' forti, ed a cui la ragione rimenava  la
società. Questa prima colleganza ha in sé tutto l'avvenire della  democrazia,  e
comincia la lotta del popolo contro le caste ed  i  privilegî,  ed  entra  nella
sfera delle rivoluzioni dei popoli civili. Quale sarebbe stato  il  suggerimento
della  ragione,  per  risolvere  questa  prima  contesa  fra  nobili  e  plebei?
Manomettere i nobili,  e  farsi  la  plebe  arbitra  della  cosa  pubblica.  Ma,
conseguita  la  vittoria,  come  reggersi  da  sé?  faceva  d'uopo  rifletterci,
pensarci,  ed  il  volgo  non  riflette  né  pensa.  L'istinto  suggerí  di  non
distruggere i nobili, ma limitare la loro potestà, sottoporla a delle regole,  e
queste regole furono le consuetudini, rudimenti dei codici di  tutti  i  popoli;
prima vittoria della plebe sui nobili; prima idea del  giusto  e  dell'ingiusto.
Dunque sulle consuetudini primitive si basarono i codici, e queste  consuetudini
erano  risultate  dal   volontario   servaggio,   dagli   erronei   suggerimenti
dell'istinto, quindi il lungo lavoro, le tante esperienze ancora in corso,  onde
giungere da  principî  cosí  ingiusti  al  semplicissimo  codice  della  Natura,
l'uguaglianza. Nuovi danni, e coi danni i dolori, sospinsero la  plebe  a  nuova
conquista. Si moltiplicarono i rapporti, le faccende,  gli  utili;  la  macchina
sociale si complicò, la difficoltà di reggerla  crebbe.  Alle  qualità  naturali
dell'uomo, forza ed astuzia in guerra, s'intese  bisogno  d'una  qualità  nuova,
saggezza in pace; se questa qualità era difettiva nei  nobili,  la  società  non
tardava a sentirne i dolori; ed ecco che il sostituire ad essi altri  governanti
piú degni, idea un tempo suggerita dalla ragione, ora per lo svolgersi dei fatti
era suggerimento dell'istinto, effetto dei mali da cui la società  era  gravata,
dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi la storia dei tanti tomulti,  dei
martirî, delle rivoluzioni con cui la plebe cercava conquistarsi il  diritto  di
conferire ai suoi  eletti  i  maestrati  della  repubblica.  Dunque:  volontario
servaggio, quindi il volere della concione de' forti sostituito all'arbitrio de'
singoli capi; quindi la potestà di questa concione sottoposta alle consuetudini,
ad una regola; finalmente gli eletti, o i migliori, sostituiti ai  nobili;  ecco
il progresso  delle  interne  istituzioni  seguito  dai  varî  popoli  italiani,
progresso che lo troviamo conforme a quelle leggi di Natura, di cui abbiamo  nel
precedente paragrafo ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, ci
faremo a ragionare sulle  scambievoli  relazioni  che  si  stabilirono,  durante
questo tempo, fra i varî popoli d'Italia e l'effetto che esse  produssero  sulle
interne condizioni di  ciascuno  di  essi.  Quando  i  selvaggi  cominciarono  a
raccogliersi  in  vichi  e  paghi,  si  trovarono  in  contatto  in  Italia  coi
civilissimi Etruschi superstiti del distrutto impero; quindi  il  desiderio,  in
quelli,  di  procacciarsi  le  ricchezze  che  questi   possedevano;   l'avidità
dell'indole  umana  faceva  tendere  quei  nascenti  popoli  a  raggiungere   la
prosperità dei loro vicini. Di quinci le guerre continue, le scorrerie che  quei
semiselvaggi fecero contro i civili Etruschi, dai quali furono sempre  respinti;
inoltre le comunicazioni  dirotte  fra'  monti,  epperò  sommamente  disagevoli,
fecero sí che lo scambio dei prodotti, dell'idee, dei trovati dell'industria, fu
lentissimo fra gli Etruschi ed i popoli montani, e quindi lentissimo fra  questi
lo svolgersi della loro prosperità. Non cosí sulle coste: ivi il mare li abilitò
a facilmente comunicare coi civili orientali, lo scambio divenne facilissimo, ed
arti ed industria rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero  in  immenso,  ed
ove erano agresti tribú si videro sorgere le magno-greche repubbliche. Ma,  come
testè dicemmo, il codice di questi popoli, comeché civilissimi, era basato sulle
consuetudini delle primitive società, in cui una parte erano servi destinati  al
lavoro, un'altra padroni i quali lautamente vivevano delle  fatiche  di  quelli;
inoltre l'indispensabile gerarchia militare, in cui i privilegî  di  ogni  grado
venivano stabiliti dai medesimi capi, introdusse l'ineguale riparto del bottino;
quindi tali consuetudini, quantunque la condizione dei servi migliorasse, fu  la
base, furono i principî su cui venne stabilita la legge di proprietà;  e  quindi
il diritto, non già quello giustissimo  di  usare  ed  abusare  del  frutto  del
proprio lavoro, ma l'altro, sommamente ingiusto, che alcuni potessero  possedere
piú del bisognevole, mentre altri mancassero del  necessario.  Un  tal  diritto,
fondato su di un principio affatto oligarchico, venne scosso, temperato ad  ogni
rivolgimento a  cui  quelle  società  sottostiedero,  ma,  rimasto  fermo  nella
sostanza, conservò la  sua  tendenza  all'oligarchia,  e  le  immense  ricchezze
ammassate da quei popoli civilissimi furono proprietà di pochi,  e  piú  non  si
videro che opulenti e mendichi; mentre fra gli abitanti dei  monti,  l'industria
in difetto avendo impedito lo sterminato crescere delle ricchezze, serbossi  una
quasi uguaglianza. Esaminiamo queste due società: i Magno-Greci e gli  Etruschi,
dalla soverchia opulenza di pochi e dalla miseria di molti depravati,  imperò  i
sensi di quei popoli erano dall'abuso o dall'inerzia attutiti; e  le  fibre  per
soprabbondanti sensazioni rese flaccide, e se tese, per debolezza soverchiamente
irritabili;  e  quindi   gli   umori,   dall'incostante   tensione,   o   troppo
impetuosamente sospinti, o troppo languidamente premuti, di quinci i  loro  vizî
corrispondenti a questo stato dei loro sensi: sempre balenanti  ed  incapaci  di
durevoli proponimenti; gli affetti o troppo  concitati  ed  al  minimo  ostacolo
repressi, o soverchiamente rimessi: la costanza, la calma impossibili; spesso li
vediamo arroganti col nemico lontano, e se vicino codardi; i Tarantini  derisero
i legati romani, all'avvicinarsi poi dell'esercito, tremarono  e  si  diedero  a
Pirro. Inoltre la miseria degli uni e l'opulenza degli altri  faceva  abilità  a
questi di comprare il voto di quelli, ed ai ricchi non già ai  migliori,  veniva
conferita la suprema podestà e le cariche della repubblica, epperò  piú  innanzi
ancora crescettero i  mali.  L'oligarchia  dei  ricchi  immersi  nella  mollezza
cercarono  sempre  di  divezzare  il  popolo  dalle  armi,  e  per  loro  difesa
assoldavano Campani, Bruzî, Galli, ivi accorsi per amor di guadagno, terrore  di
quell'imbelle plebe, ed  eziandio  de'  tiranni  che  li  pagavano.  Se  poi  ci
trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i monti. non troveremo  né
soverchia opulenza che attutisce i sensi, né miseria che  logora  le  fibre,  le
quali dotate di giusta irritabilità, premono e sospingono a regolare e  costante
corso gli umori:  di  quinci  fermezza  ne'  propositi,  calma  nel  deliberare,
costanza nelle opere; non insultavano, ma combattevano il nemico; il  valore  in
onore, e piú del valore la saggezza e la disciplina dei guerrieri; eravi  lusso,
ma ne' militari ornamenti. Inoltre l'agricoltura essendo la gradita  occupazione
di quei guerrieri, e le terre quasi ugualmente divise, l'utile privato trovavasi
d'accordo con l'utile pubblico; i voti non venduti, e  la  suprema  potestà,  le
cariche tutte della repubblica venivano  conferite  ai  migliori.  Ecco  dunque,
nell'epoca medesima,  nella  stessa  Italia,  due  società,  l'una,  pel  rapido
svolgersi della civiltà e l'accrescersi delle ricchezze, corrotta  e  decadente;
l'altra, ove erasi  conservata  una  giusta  uguaglianza,  giovane  e  fiorente.
Proseguiamo le nostre considerazioni: in una società depravata i  scrittori  non
possono essere che dotti e correttori di costumi, tali furono  i  Pitagorici,  i
quali non furono,  come  alcuni  opinano,  riformatori,  ma  propugnatori  delle
antiche virtú; erano gli apologisti del governo  dei  migliori,  che  aveva  già
esistito, che esisteva presso i popoli montani, e  che  fra  i  Magno-Greci  era
degenerato, perché non contrappesate le fortune nel governo de' piú ricchi.  "Il
migliore de' governi, - diceva Clinia, - non deve essere affidato  ad  un  solo,
perché un solo ha delle debolezze; non a tutti,  perché  fra  tutti  il  maggior
numero è di stolti; ma a pochi, perché pochi sempre sono gli  ottimi".  "Se  una
città libera, - diceva Aristotile, - non avesse che un solo uomo  virtuoso,  chi
potrebbe negare che in tale città la dominazione d'un solo sarebbe  necessaria?"
E Clinia, Archita, Platone, facendosi, come è naturale all'uomo, centro di  ogni
cosa, credettero scoverte del loro ingegno quelle massime, quei principî che  in
quella società decadente erano un pallido riflesso, un  debole  eco  di  antichi
costumi; e dando il nome di virtú, non già all'azione che oppone nuovi  principî
a vecchi pregiudizî, ma ai principî stessi, si credettero i  soli  virtuosi,  né
dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali  inspirati  da
Dio; e cosí l'amor proprio trovò in essi  ragioni  come  accordare  impostura  e
virtú. Quindi diventarono setta, società secreta; ma le loro dottrine non  erano
conformi alle istituzioni sociali, né cercavano riformar queste, ma rendere  gli
uomini con le istituzioni stesse  migliori,  opera  vana  e  stolta;  epperò  li
vediamo ora onorati e vezzeggiati, ora aspreggiati dai  governi,  ed  in  ultimo
distrutti da Dionisio, quando da Sicilia  passò  a  devastare  la  Magna-Grecia.
Intanto, quei principî, quelle massime dei Pitagorici erano praticate dai popoli
montani. Fra i Sanniti, forte  federazione  di  tre  milioni  d'uomini  raccolti
intorno ad eccelsi monti, fra i Lucani,  fra  i  Sabini...  sembrava  strano  ed
inutile ragionare lungamente per dimostrare la giustizia di quelle massime:  fra
essi tali idee erano sentimento, e simiglianti costumi erano quelli dei nascenti
Romani. Dunque i fatti sono in perfetto  accordo  col  nostro  ragionamento;  le
istituzioni di ciascun popolo progrediscono  esattamente  secondo  quelle  leggi
fatali  che  sono  effetto  dell'indole  umana:  e  se   nelle   società   havvi
sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e decadono. Nei primi secoli  di  Roma,
si riscontrano in Italia tre diverse gradazioni, tre diverse età della vita  dei
popoli: al settentrione i Galli, sono in uno stato di completa barbarie,  i  piú
forti fra di loro son duci in guerra ed arbitri degli altrui  destini  in  pace;
fra gli Appennini, giovani  e  fiorenti  società,  governate  dagli  eletti  del
popolo; sulle coste, popoli peggiorati e  decadenti.  I  primi,  secondo  queste
leggi, avrebbero dovuto raggiungere lo stato dei secondi; questi  o  passare  ad
una ignota ma migliore condizione o decadere;  gli  ultimi  erano  condannati  a
perire. E cosí avvenne, i loro destini si compirono, e si  compirono  nel  tempo
medesimo che, per le stesse  leggi  regolatrici  dell'universo,  cotesti  popoli
soggiacevano  a  nuove  trasformazioni.  Da   isolati   selvaggi   per   propria
conservazione e per avidità etano giunti a costituirsi in forti  federazioni  ed
opulente repubbliche; la civiltà, la prosperità, non era  in  Italia  ugualmente
sparsa, ne difettavano i Galli, ne sovrabbondavano i  Magno-Greci.  Guerrieri  i
Galli e gli abitanti dei monti, e le comunicazioni difficili, quindi impossibile
che avessero atteso dal  lavoro  pacifico  e  lento  del  commercio  quest'opera
unificatrice. L'autonomia  di  quei  Stati  troppo  recisamente  costituita  per
sacrificarla all'unità, e sorgente di odî vicendevoli;  niun  nemico  comune  ed
universalmente  temuto  che  l'avesse  indotti  per  propria   conservazione   a
confederarsi, quindi essi erano dal fato condannati a sottostare  ad  una  forza
prepotente che ne avesse formata una sola Nazione. Intanto, ad ognuna di  quelle
Nazioni sarebbe stato difficile compiere tale impresa, e perché avevano incontro
avversarî di pari forza, e perché eravi in Italia stabilito un diritto  pubblico
che garentiva la loro  indipendenza.  I  Romani,  in  forza  di  questo  diritto
pubblico, perché nascenti, ne vennero esclusi  e  sprezzati;  essi  per  propria
conservazione dovettero  vincer  tutti;  prima  dovettero  esser  guerrieri  per
procacciarsi il bisognevole, poi lo furono per difendersi da tante  aggressioni,
finché vinti i piú forti avversarî, i Sanniti, divennero quella forza prepotente
che  unificò  l'Italia.  Unificata  l'Italia,  essa  trovossi  in  quello  stato
fiorente, in quella purezza di costumi in cui  erano  i  Romani,  i  Sanniti,  i
Sabini e... che formavano  la  parte  preponderante;  il  patriziato  romano,  i
migliori d'Italia fu la sovrana concione che governò tutta la penisola.  In  tal
guisa, Galli, Sanniti, Magno-Greci corsero verso la stessa meta che raggiunsero:
ma, nel compiersi  cotesta  legge,  le  istituzioni,  i  costumi  delle  società
fiorenti prevalsero, i Galli ancora  barberi  furono  inciviliti  per  forza;  i
Magno-Greci e gli Etruschi perirono per  vecchiezza  nella  lotta.  Roma  fu  il
centro ove concorsero le varie istituzioni e i costumi di tanti popoli italiani,
Roma fu il centro d'onde queste istituzioni  si  sparsero  ugualmente  su  tutta
l'Italia. Gl'Italiani, retti  dal  saggio  e  guerriero  patriziato  romano,  si
trovarono  in  contatto  della  vecchia  civiltà  d'Oriente  e  della   barbarie
d'Occidente, conquistarono gli uni e gli altri e sparsero la civiltà  de'  primi
egualmente sul loro vasto impero. Ma le tante ricchezze acquistate colla  guerra
cominciarono a far sorgere l'opulenza e la miseria; il governo passò nelle  mani
dei piú ricchi; gli ordini  sociali  avevano  compito  il  loro  corso,  i  mali
crescevano, quindi o dovevano con una rivoluzione  rigenerarsi  o  peggiorare  e
dissolversi come era avvenuto ai Magno-Greci. Le fibre non  erano  inflaccidite,
le passioni ancora esistevano, quella società presentò sintomi di rigenerazione,
i Gracchi, i Saturnini, i Drusi furono i riformatori dell'epoca, essi miravano a
limitare i diritti di proprietà: ma i  loro  ragionamenti,  i  loro  sforzi  non
furono compresi dal popolo italiano, questo seguiva i suggerimenti  del  proprio
istinto e credeva cagione dei mali il potere usurpato dai Romani, tutti  vollero
esser Romani, lo furono. Ma i mali in  luogo  di  diminuire  crebbero,  le  loro
forze, le loro fibre si logorarono nella lotta  e  quella  società,  con  rapido
corso, incominciò a decadere. Noi vediamo la stessa cagione, opulenza e miseria,
produrre i medesimi effetti, i medesimi vizî, dai versi di Lucano  espressi  con
impareggiabile maestà ed evidenza.

In poter vasto il campicel si estese Ed estraneo arator fe' lunghi i solchi Dove
brevi  li  fea  l'irto  Camillo,  E  affondavan  le  marre   i   Curi   antichi.
..........................................
...........................................
...........................................
........................................... Alla ragione Fu misura la  forza,  e
parto     iniquo     Della     forza,     le      leggi,      i      plebisciti:
............................................
............................................  Allor  fur  compri  i   fasci,   e
mercatante       De'       suoi       favori       il       popolo       divenne
...........................................
........................................... Allor l'usura,  lupa  che  fa  d'oro
Ricolta ad ogni luna; allor la fede Violata, e la guerra utile ai nudi.

Tutti i maestrati della repubblica si ridussero nelle mani dei pochi  ricchi,  e
con essi il governo, il tesoro, la guerra. le provincie e i trofei,  le  glorie:
le guerriere prede, fra capitani si dividevano, erano i soldati plebe  misera  e
vendereccia,  e  se  le  possessioni  de'  padri  o  figli  di  qualche  soldato
confinavano con qualche potente, ne rimanevano spogliati. Cosí spalancossi fra i
patrizî e la plebe, quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine  di
codardi e mendichi, la stessa voragine da cui furono inghiottiti i  Magno-Greci;
e ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli antichi popoli,  l'oligarchia
de' ricchi fu a sua volta oppressa dal militare dispotismo. La  storia  d'Italia
diventa ora la cronaca sanguinosa de' suoi tiranni, e Roma nella  decadenza  non
cessò di essere grande: gli eroici e puri costumi che Tito Livio pennelleggia, e
la corruzione ed i misfatti  scolpiti  da  Tacito  rappresentano  degnamente  il
sorgere ed il tramonto di un gran popolo.  Lo  stato  di  Sibari,  di  Cuma,  di
Cotrone, di Siracusa... è riprodotto su vastissime dimensioni. Sino a Nerone  la
cronaca  è  italiana,  poi  perde  questo  carattere  di  nazionalità,   diventa
universale. Alle frontiere si creano gl'imperatori che si disputano il trono, il
Senato, estraneo alle lotte, applaudisce al vincitore. Questo impero  cadente  e
ricco, trovasi a contatto di Goti, Longobardi, Franchi,  barberi  affatto.  Essi
agognano d'impossessarsi di tante ricchezze, ma dubitano pel  terrore  che  loro
inspira il nome romano. Intanto, per effetto della corruzione, le  feraci  terre
si spopolano e si cangiano in deserti, gli uomini,  avviliti  dalla  miseria  ed
oppressi dalla  tirannide,  cercano  rifugio  fra  le  caverne  e  le  selve.  I
superstiti  a  questo  cataclismo  politico  non  differiscono  gran  fatto  dai
superstiti alle grandi crisi della Natura, essi fuggono spaventati  la  violenza
dei potenti, come questi lo scroscio della folgore ed il muggito della tempesta.
Finalmente, i barberi scacciano la paura,  e  si  rimescolano  con  le  reliquie
dell'Impero; i destini si compiono, i Romani  periscono  per  vecchiezza,  e  la
civiltà che arrestavasi al Reno ed al Danubio spandesi sino all'Oder. Siamo  ora
alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto l'impero di quelle  medesime
leggi di cui discorremmo. All'imbelle patriziato romano si surrogò la robusta  e
guerriera aristocrazia de' barberi,  quest'aristocrazia  componeva  la  concione
sovrana da cui veniva eletto il re loro duce in guerra.  I  patrizî  romani  con
l'usura e la frode  vicendevolmente  si  distruggevano;  i  nobili  barberi,  lo
facevano con la forza, ed i piccioli proprietarî erano da questi baroni talmente
oppressi che rinunziando ad un'effimera libertà si dichiaravano  volontariamente
vassalli del potente vicino onde esserne protetti, nella guisa stessa che  nella
primitiva barbarie quelli che manco potevano si donavano schiavi ai  piú  forti.
La società nuova che erasi sostituita all'antica, con  nomi  e  costumi  diversi
conservò la medesima tendenza  ad  un'oligarchia  di  proprietarî  che  andavasi
sempre restringendo ed allargava quella fatale  voragine  che  separavala  dalla
plebe. Intanto, in questa barbarie ricorsa  era  rimasto  superstite  il  Comune
romano; esso fu punto di rannodamento alla maggior parte degli oppressi;  questi
Comuni sottostiedero all'assoluto imperio  dei  baroni,  ma  essi  furono  tanti
centri di vita: il misero popolo dopo sei secoli cominciò  a  sentire  i  proprî
mali, venne scosso dalla lotta impegnata  fra  l'aristocrazia  e  teocrazia,  la
rivoluzione cominciò. E questa rivoluzione, che logorò le  forze  de'  Romani  e
fece inabissare tutto l'Impero  in  quella  voragine  spalancata  fra  ricchi  e
poveri, trionfò durante la barbarie ricorsa, imperocché le sue mire  furono  piú
recise; allora gl'Italiani volevano  conservare  l'Impero,  chiedevano  solo  di
esser Romani, vano rimedio ai loro mali; ora che in diritto ed  in  fatto  altro
non esisteva che l'arbitrio dei  baroni,  il  suggerimento  dell'istinto  fu  di
distrugger questi, non eravi  nulla  da  conservare;  i  ricchi  baroni  vennero
assaliti, le loro terre conquise, diroccate le loro  castella,  ed  essi  furono
costretti a chiedere rifugio ai trionfanti Comuni: l'Italia risorgeva. I  Comuni
italiani, per loro interne istituzioni, sono al  medesimo  punto  in  cui  erano
giunti i Sanniti, i Magno-Greci, e quindi l'intera Italia  sotto  i  Romani,  il
governo de' migliori, gli eletti del popolo. Quelli pel crescere delle ricchezze
peggiorarono e perirono, questi corsero con piú rapidità  le  vicende  medesime.
Nelle antiche città italiane formate dalla riunione di rozzi selvaggi, ed in cui
l'agricoltura era in onore, i migliori erano considerati i piú laboriosi, i meno
ignoranti; per contro nelle città italiane surte  dalla  barbarie  ricorsa,  dal
lezzo della romana depravazione, co' sforzi dell'industria e  del  commercio,  i
simulatori ed i scaltri erano quelli nelle cui mani veniva affidata  la  suprema
potestà;  nelle  primitive  popolazioni,   agricole   tutte,   l'utile   privato
accordavasi con l'utile pubblico,  in  queste  in  cui  tutto  era  industria  e
commercio quello era in opposizione con questo, e vinto il nemico che  li  aveva
costretti ad unirsi e concorrere al medesimo scopo, l'amor di  patria  cessò  di
fatto, e fuvvi solitudine di pensieri e d'interessi. Le ricchezze degli  antichi
popoli italiani, che abitavano i monti, non poterono crescere che  lentamente  e
per mezzo delle conquiste; i Comuni risorti invece, non avendo rivali nel  resto
d'Europa, allora barbera, le ricchezze,  come  presso  i  Magno-Greci,  crebbero
rapidamente; al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe  compra,
le città si dividono in opulenti e  mendichi;  al  XV  secolo  è  riprodotto  il
medesimo fatto osservato presso i Magno-Greci  ed  i  Romani,  alla  cima  della
società un'opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre  restringevasi,
alla base plebe vilissima; dall'oligarchia si viene al dispotismo  militare  dei
tirannelli, i sintomi delle rivoluzioni si manifestano, i tomulti si  succedono,
ma tutti mancano  di  un  concetto  dirigente.  In  quelle  società  parteggiate
dall'oro, l'istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad un'altra,
le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra ricchi e  poveri  inghiottí
libertà indipendenza arti industria commercio, tutto insomma.  Mentre  l'Italia,
per le mal distribuite ricchezze, perdeva ogni nerbo ed imputridiva nei vizî, la
sua opulenza, la sua civiltà, soverchiamente superiore a  quella  delle  Nazioni
che l'accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge per cui  la  prosperità
tende continuamente a spandersi su  tutti  i  popoli,  produsse  l'irruzione  in
Italia di quelle Nazioni. L'Italia de' Romani era stata mirata dai barberi  come
lo schiavo il padrone; ora i semi-barbari  d'oltremonti  la  guatatono  come  il
discepolo il maestro, come il mendico guarda l'opulento; la preda era  facile  e
ricca, all'ammirazione prevalse il desiderio di rapina, i nostri tardi discepoli
gettandosi sul nostro corpo infralito  da  vecchiezza  lo  sbranarono.  L'Italia
venne disseccata dalla vitalità che assorbivano i conquistatori,  noi  ricevemmo
da essi una dose di barberismo, vanità ed ozio. In tale  epoca  la  degradazione
compresse in noi ogni elatere dell'animo, lo splendido medioevo  moriva,  e  per
indolenza si amò da noi la stessa tirannide, si  abborrí  la  libertà  per  amor
dell'inerzia: ubbedienza a chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fu la
formola che raccolse in sé ogni precetto politico, fondata sull'avversione della
lotta e nel costante  desiderio  del  riposo.  Dall'Italia  gittiamo  un  rapido
sguardo al resto d'Europa che sorge anch'essa dalla barbarie ricorsa. Dapertutto
vediamo la concione dei baroni sovrana, il popolo servo, il  re  magistrato.  Il
risorgimento dei  Comuni  riformò  in  Italia  questa  società,  ma  presso  gli
oltremontani l'elemento barbero prevaleva  al  romano,  le  città  mancavano  di
quella vita che si svolse in Italia, e tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi
su vastissimi imperi, e però le cose procedettero diversamente. Nelle città,  il
re eletto dai forti, poco differisce da essi, né può  per  l'immediato  contatto
esercitare un  grande  ascendente  e  quando  il  popolo  sente  il  bisogno  di
distruggere l'oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce  l'istinto  è
quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo, quindi la democrazia trionfa;
per contro in un vasto impero in cui il re, solo in  una  capitale,  si  estolle
agli occhi del volgo al disopra dei feudatarî,  i  popoli  per  francarsi  dalla
prepotenza di questi divennero collegati del  re,  e  poi  si  trasformarono  da
vassalli in sudditi della corona, e la regia potestà trionfò, e con  essa  venne
stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che  l'opinione  universale,
che la rivoluzione tendeva, come era naturale, al governo de' migliori, imperò i
re per non concedere al popolo quel diritto di elezione che avevano i baroni, si
fecero dichiarare i  migliori  da  Dio,  onde  cosí  la  loro  potestà  piú  non
dipendesse dalla volontà dei  governati.  Possiamo  finalmente  conchiudere  che
quelle leggi fatali che reggono i destini delle Nazioni, si verificano ne' fatti
con l'esattezza medesima che risultano dalla logica, e l'esperienza e la ragione
si trovano in perfetto accordo. Ragionando della natura umana e del suo modo  di
agire sul mondo esteriore, dimostrammo, nel paragrafo precedente, come essa  con
un'incessante trasformazione accresce sempre le ricchezze sociali; le quali  poi
per leggi della stessa Natura, tendono a spandersi egualmente su tutto il globo,
e mentre la prima di queste  leggi  è  per  se  medesima  evidente,  l'altra  la
troviamo esattamente confermata dalla storia. La  civiltà  tende  all'equilibrio
fra due nazioni vicine, come il fluido elettrico  fra  due  nubi;  quella  degli
Etruschi e Magno-Greci era molto superiore a quella dei popoli montani d'Italia,
quindi noi vediamo quelli conquistati da  questi,  e  l'opulenza  e  l'industria
spandersi egualmente su tutta la penisola; nella guisa stessa le  conquiste  de'
Romani in Oriente stabilirono l'equilibrio fra le  due  civiltà,  l'una  scarsa,
l'altra sovrabbondante; ed i  Romani  conquistando  i  barberi  d'occidente,  la
sparsero uniformemente sul vasto impero da essi fondato; finalmente  l'irruzione
dei barberi del settentrione fu conseguenza di questa mancanza d'equilibrio  tra
la civiltà corruttrice de' Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini,  e  con
questa irruzione i limiti dell'Europa civile non furono il Reno ed  il  Danubio,
ma l'Oder, d'onde poi col mezzo stesso delle guerre e del commercio  penetrò  in
Russia; e mentre con moto incessante tali destini si compivano in un periodo  di
forse quaranta secoli vedemmo in Italia tre società progredire e poi,  pei  loro
vizî, dissolversi  i  Magno-Greci,  i  Romani,  i  Comuni  italiani.  Dunque  il
progresso continuo è un sogno, i fatti sono troppo eloquenti per se medesimi, né
possono distruggersi da studiati sofismi. Nell'Europa  moderna  la  costituzione
politica dei varî Stati, ha raggiunto quel punto medesimo in  cui  si  trovavano
que' popoli decaduti, il governo de' migliori; cotesto principio, sotto  diverse
forme e con diversi  nomi,  regge  tutte  le  Nazioni:  i  principî,  o  lo  son
dichiarati da Dio, o eletti, e tali li dichiara il popolo. Questo limite fatale,
nessun popolo, antico come moderno, è stato capace di oltrepassarlo,  quantunque
moltissimi tentativi si fussero fatti per conseguire un tale scopo e  migliorare
istituzioni donde nascevano grandissimi mali. Le eloquenti orazioni  de'  romani
tribuni contro il potere dei consoli, i  tanti  rivolgimenti  delle  repubbliche
italiane del medioevo, e particolarmente di quella di Firenze, i tanti ritrovati
dei moderni ad altro non mirano che  a  garentirsi  contro  quella  potestà  dal
popolo stesso conceduta; ma è forza confessare che lo scopo non si è  raggiunto.
Appena affidasi il maestrato supremo ad un uomo o a varî  uomini,  le  forze  di
tutta la nazione si volgono a profitto di questi pochi e de' loro seguaci, e  la
schiavitú delle moltitudini, in varie gradazioni, è permanente. È  questo  forse
il limite fatale dalla Natura stabilito? Declinano i moderni come i Magno-Greci,
i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo dimostrato che  la  possibilità  di  andare
oltre è attributo della natura umana: come essa ha successivamente  corretto  le
diverse costituzioni ed è giunta allo stato presente, non havvi nessuna  ragione
per credere che sotto  il  pungente  stimolo  del  dolore  non  possa  stabilire
ordinamenti migliori. Ma se è possibile migliorare, è possibile eziandio  che  i
moderni si dissolvano, come gli antichi, prima di raggiungere il loro scopo.  Ci
faremo a svolgere tale argomento interrogando le tendenze della moderna società,
ma prima di tutto fa d'uopo  porre  in  vista,  e  richiamare  l'attenzione  del
lettore su di una grande verità, che risulta da quanto testè abbiam detto. Quale
fu la cagione per cui, presso  i  Magno-Greci,  all'antica  purezza  di  costumi
successero i vizî che li corruppero? Quale  fu  la  cagione  per  cui  tutte  le
cariche della repubblica, un tempo concesse dal popolo  ai  piú  degni,  caddero
nelle mani di pochi ricchi, i quali ad altro non pensarono  che  ad  avvilire  e
tiranneggiare il  popolo,  e  godersi  la  potestà  usurpata  e  le  esorbitanti
ricchezze? Quale fu la cagione per cui presso i Romani avvenne  precisamente  lo
stesso? E quale fu la cagione che rinnovò il fatto medesimo nei Comuni italiani?
La cagione fu  sempre  la  medesima:  la  cattiva  distribuzione  delle  immense
ricchezze che divisero la Nazione in opulenti e mendichi, di quinci tutti i mali
accennati, e quella voragine spalancata  in  cui  questi  Imperi  sprofondarono.
Quale fu la cagione per cui  presso  i  Magno-Greci,  i  Romani,  i  Comuni,  le
ricchezze nell'accrescersi si sono sempre piú ammassate fra un ristretto  numero
di  cittadini,  e  la  miseria  della  plebe  è  cresciuta  in  ragion   diretta
dell'aumento del  prodotto  sociale?  La  cagione  è  evidente,  il  diritto  di
proprietà, il diritto che dà facoltà a  pochi  di  arricchirsi  a  discapito  di
molti; un tale diritto è l'asse intorno a cui  queste  Nazioni,  queste  società
hanno compito il loro ciclo. Sofisti!... apologisti  della  proprietà,  osereste
negare quaranta secoli d'istoria? Sareste voi capaci di dimostrare che non fu la
miseria della plebe e l'opulenza di pochi la sorgente di tutti  i  vizî  che  le
distrussero; che la tendenza del prodotto sociale di accumolarsi in poche  mani,
e quindi cagionare  la  miseria  delle  moltitudini,  non  sia  una  conseguenza
inevitabile del diritto di proprietà?


III. Le rapide e numerose comunicazioni, che si aprono ogni giorno e  traversano
in ogni senso l'Europa,  hanno  fatto  abilità  ai  prodotti  dell'industria  di
spandersi, quasi uniformemente dapertutto; hanno reso le idee,  le  scoverte  di
comune ragione; hanno talmente intrecciato gl'interessi de' varî popoli, che  la
guerra  fra  due  Stati  europei  vien  considerata  dalla  numerosa  turba   di
commercianti ed industri quasi come  guerra  civile.  Intanto,  le  due  diverse
civiltà di Asia e d'Europa debbono in un  avvenire  non  lontano  compenetrarsi,
unificarsi, questa è una legge che abbiamo dimostrato  inevitabile  e  l'abbiamo
vista confermata dalla storia. Ma come avverrà questo fatto? sarà  l'Europa  che
si rovescerà sull'Asia o questa su quella? né l'uno  né  l'altro:  l'Europa  non
abbandona, né le converrebbe farlo, il suo commercio  e  la  sua  industria  per
correre alla conquista dell'Asia, ne' questa ha tali  moventi  che  la  facciano
sortire dalla sua indolenza per rovesciarsi sull'Europa; e  se  il  facesse,  il
periglio comune unificherebbe i dotti e numerosi eserciti europei, al  cui  urto
gli Asiatici verrebbero dispersi.  Se  rivolgiamo  lo  sguardo  all'America,  la
vediamo messa fra i due continenti, fra le due civiltà, e parrebbe  predestinata
a dar compimento a questa legge fatale, nella guisa stessa che l'Italia il  fece
fra  l'Oriente  e  l'occidente.  Ma  gli  Americani  son  dediti  al  commercio,
all'industria, e non già alla guerra, i loro  prodotti  trovano  sempre  mercati
abbastanza vasti, e l'estensione e feracità del suolo di cui dispone, fan sí che
essa non ha bisogno di cercare ventura per  accrescere  la  sua  prosperità.  La
Russia, per la sua apparenza guerriera e per le  velleità  dei  suoi  autocrati,
c'indurrebbe a credere che un giorno fosse destinata a compiere con la  spada  i
decreti del fato; ma non vi è popolo meno del russo adattato alla  guerra,  esso
non è abbastanza civile per sentire i stimoli della gloria  militare;  né  tanto
barbaro d'abbandonare le proprie contrade e  correre  alla  conquista  di  nuove
regioni; la volontà dell'autocrate basterà per esaltarlo in difesa  del  proprio
paese, ma non già per trasformare in conquistatori un popolo di servi. La Russia
contribuisce a compiere queste leggi fatali non già con la guerra, ma col  lento
lavoro del commercio. La civiltà europea già accavalca gli  Ural  e  penetra  in
Asia.  Finalmente,  se  ci  faremo  a  considerare  attentamente  le  condizioni
dell'Inghilterra, ben lungi dal vedere in essa la Roma o la  Cartagine  moderna,
noi  crediamo  che  essa  rappresenti  ciò  che  era   Venezia   nel   medioevo.
L'Inghilterra  vive  d'industria,  i  suoi  prodotti  sono  immensi,  e   sempre
crescenti, quindi essa ha bisogno  di  mercati  vastissimi,  essa  deve,  se  le
circostanze lo richiedano, aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti, quindi
a  noi  pare  che  l'Inghilterra  sia  destinata  a  capitanare  l'esercito   di
trafficanti che unificherà la  civiltà  europea  e  l'asiatica,  se  impreveduti
avvenimenti non cangiano  la  condizione  dei  popoli.  Dunque,  esclameranno  i
parteggianti del continuo progresso, noi avanziamo verso l'unità  mondiale,  che
verrà quasi pacificamente attuata; noi ci avviciniamo  ad  un  libero  e  facile
commercio fra tutti i popoli della terra: i varî prodotti di tante  nazioni,  la
loro industria, le attitudini speciali di ciascun popolo, di ciascun  individuo,
saranno volti a benefizio di tutta l'umanità, questo è quello  che  desideriamo.
Ma se la storia e la logica ci conducono  a  queste  incoraggianti  conclusioni,
cerchiamo le sorti piú vicine a cui accenna la vita politica  ed  economica  dei
popoli moderni. Sino allo scorcio del XV secolo l'Italia fu  l'astro  intorno  a
cui tutti i popoli europei hanno compito il loro giro, il centro  verso  di  cui
tutti hanno gravitato. La sua luce offuscata, questa signora delle genti spenta,
questo centro venuto meno, l'Europa abbandonata  a  se  stessa,  per  quasi  tre
secoli ha seguito un corso incerto e balenante; la  Francia,  finalmente,  si  è
surrogata all'Italia per regolare il  corso  dei  destini  europei,  ma  il  suo
ascendente non è evidente, incontrastabile come fu quello dell'Italia, spesso  è
contrappesato, quasi sempre resta in ombra, e si discerne a pena, qualche  volta
sparisce affatto. Nondimeno in Francia possiamo fare studio sulle tendenze delle
moderne Nazioni. Sappiamo dalla storia, come in essa i Comuni non  poterono  mai
completamente francarsi, la regia potestà distrusse e si surrogò al  feudalismo.
Ma il popolo non essendo libero come in  Italia,  l'industria  ed  il  commercio
lentamente progredirono; il protezionismo, conseguenza  della  monarchia,  tutto
interdisse. Finalmente sotto Sully  ed  Enrico  IV  fiorí  l'agricoltura,  sotto
Colbert e Luigi XIV l'industria, a cui Turgot con l'abolizione delle  corvate  e
de' mestieri diede grandissimo impulso. Oggi  i  Francesi,  e  quasi  tutti  gli
oltremontani, han raggiunto quel grado di prosperità  a  cui  erano  giunti  gli
Italiani allo scorcio del XIV secolo, e se presso gl'Italiani,  in  quell'epoca,
ogni cosa accennava decadenza, quali sono le tendenze  de'  moderni?  "Come!...-
esclama Mercier de la Rivière, - ed è un parteggiano del despotismo, l'agiatezza
è sconosciuta a color che la producono? Ah!!... diffidate di questo  contrasto".
Ma spingiamoci innanzi alla ricerca dell'ignoto avvenire. È  innegabile  che  la
presente società può considerarsi divisa in due classi: da una parte capitalisti
e proprietarî, dall'altra operai e fittaiuoli. Queste due  classi  sono  in  una
evidente e continua opposizione, quella prospera al deperire di questa. "Invano,
- dice Filangieri, - i moralisti han cercato di stabilire un  trattato  di  pace
fra queste due condizioni: quelli  cercheranno  sempre  di  comprar  l'opera  di
questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno sempre di vendergliela al
maggior  prezzo  che  possono.  In  questo  negoziato  quale  delle  due   parti
soccumberà? Questo è evidente: la piú numerosa". Questo vero non può negarsi che
per ignoranza o per difetto  di  buona  fede:  il  capitalista  mira  sempre  ad
accrescere il prodotto netto,  quindi  al  ribasso  della  mercede,  alla  ruina
dell'operaio, il proprietario a trarre quanto piú sia possibile  dal  fittaiuolo
onde alimentare i suoi ozî, poco curandosi de' bisogni di quello.  La  proprietà
fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII secolo, che  scemarono  di
molto il suo ascendente sui destini della società, oggi è il capitale  l'arbitro
dell'umanità,  per  esso  corrono  prosperi  i  tempi.  L'umano  ingegno  datosi
all'industria, non tardarono ad inventarsi macchine, strumenti, trovati  che  ne
facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l'operaio; le
macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto  netto,  e  nel
tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e  quelle  e  questa  riducendo
l'opera dell'uomo ad un atto puramente materiale e costante, non  è  rimasta  al
misero operaio nessuna attitudine di cui  possa  avvalersi.  Un  tal  fatto  gli
economisti nol negano, ma come rimediarci?, eglino dicono. Sostituiremo i viaggi
sul dorso d'uomini alle strade ferrate, la vanga  all'aratro,  il  copista  alla
stampa? Non si arriva, soggiungono, senza perdite  sulla  breccia?  Né  possiamo
tener conto di coloro che il carro del progresso schiaccia nel  suo  cammino.  E
l'economista, atteggiandosi qual benefattore dell'umanità, con una gravità sotto
cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice: noi miriamo al bene pubblico non già  al
privato. Meno quest'ultimo  asserto,  le  loro  risposte  sono  giuste,  sarebbe
stoltezza pretendere di  arrestare  i  voli  dell'umano  ingegno,  a  noi  basta
registrare un vero, un fatto, un risultato ch'eglino medesimi non possono negare
ed è che: la miseria dell'operaio cresce al crescere  della  ricchezza  sociale,
del prodotto netto dell'industria. Inoltre, maggiore è il capitale, ed in parità
di lavoro, maggiore è il prodotto, questo è un  assioma  in  economia;  però  un
vistoso capitale producendo sempre piú a buon mercato che un picciolo  capitale,
ne risulta che questi dovrà indubitamente soccumbere nella  concorrenza;  d'onde
risulta un altro fatto, che gli economisti  non  possono  disconoscere,  ma  non
vogliono confessare, cioè: nella continua lotta che si fanno i varî prodotti,  e
i varî capitali, la ricchezza sociale si accresce, ed il numero di coloro che la
posseggono   diminuisce.   L'Inghilterra   produce   per    quanto    basta    a
duecentocinquanta milioni d'uomini, ma solamente nove milioni sono i  possessori
di queste immense ricchezze. Perché avviene ciò? per legge  di  Natura:  ricerca
continua di prosperità; bisogni  crescenti  al  crescer  de'  prodotti,  facoltà
inferiori ai bisogni, ecco l'umana  natura,  d'onde  l'operosità,  il  progresso
dell'industria indefinito, la felicità asintoto degli umani sforzi  impossibile;
ed in questo continuo ed istintivo  moto  l'uomo  cercando  di  volgere  in  suo
profitto quanto capita sotto i suoi sensi, in una  società  in  cui  i  guadagni
privati non sono cospiranti, non procedono per linee parallele, ma  contrarî  ed
in   concorrenza,   e    cercando    vicendevolmente    distruggersi,    bisogna
inevitabilmente, fatalmente tendere ad un'oligarchia di ricchi  e  raggiungerla.
Dunque i principî su cui sono stabilite le leggi economiche, le leggi immutabili
di Natura, i fatti infine, ci dimostrano ad evidenza che le moderne  società  si
avvicinano  rapidamente  a  quelle  condizioni  medesime  a   cui   giunsero   i
Magno-Greci, i Romani, i Comuni, cioè esse tendono a ridursi in un'opulentissima
oligarchia, ed una moltitudine di mendichi. Fin  qui  per  ciascuna  Nazione  in
particolare. Ora ci  faremo  ad  esaminare  i  destini  dell'intera  Europa.  La
giustizia, l'utile del libero cambio, astrattamente, è incontrastabile;  esso  è
una conseguenza delle leggi naturali da cui vien regolato il  mondo.  Ma  queste
leggi naturali vengono esse osservate nel  resto  degli  ordini  sociali,  nella
distribuzione  delle  ricchezze?  È  questo  il  punto  della  quistione,  dagli
economisti studiosamente evitato. La varietà de' prodotti delle diverse regioni,
la diversità delle attitudini di ciascuna Nazione e di ciascun uomo, sono  fatti
da' quali risulta l'utile, la necessità  del  libero  cambio.  Che  ogni  popolo
fruisca de' prodotti degli altri popoli e  faccia  loro  fruire  dei  suoi;  che
ognuno possa giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti  di  quella  di
ognuno, è il problema umanitario, il problema che  il  libero  commercio,  e  la
faciltà e rapidità delle comunicazioni  risolvono.  Il  libero  cambio  produrrà
l'altro grandissimo vantaggio che una Nazione, destinata dalla Natura ad  essere
agricola, non abbandonerà certamente l'agricoltura per l'industria, e viceversa,
ed ogni popolo troverà il suo  vantaggio  rimanendo  in  quelle  condizioni  che
Natura gli ha fatto. Ma per ottenere cotesti risultamenti richiederebbesi che  i
prodotti  sociali,  le  ricchezze  insomma,  scorressero  e   si   diffondessero
egualmente in tutte le classi della società, e non già,  come  avviene,  che  si
andassero restringendo in pochissime mani; questo fatto, che abbiamo dimostrato,
fa crollare l'edifizio incantato  de'  liberi  cambisti:  è  questo  lo  scoglio
ch'eglino vorrebbero nascondere, curandosi  poco,  ottenuto  l'intento,  che  la
società vi rompesse. Discendiamo ai fatti: un paese abbonda di cereali,  ed  ivi
la  plebe  vive  a  buon  mercato.  Si  pone  in  atto  il  libero  cambio,   ed
immediatamente gl'incettatoti faranno acquisto di tutto il grano e  l'invieranno
in quei mercati ove maggiore è il prezzo. Quale sarà la conseguenza? Il caro del
pane. Ma, vi rispondono i liberi cambisti, se il prezzo del pane sarà  maggiore,
vi sarà in compenso una grandissima diminuzione  nel  prezzo  de'  panni,  delle
stoffe, de' tappeti; ed inoltre non contate  l'oro  che  entra  nella  scarsella
degli incettatori? Tutto questo è veto, ma il popolo minuto, misero come è,  non
ha bisogno per covrirsi de' panni  forastieri,  né  gode  della  diminuzione  di
prezzo di questi generi; l'oro che entra nella  scarsella  degl'incettatori  non
arreca nessun vantaggio  alle  moltitudini,  ma  è  volto  ad  affamarle  l'anno
seguente. Né qui finiscono  i  mali.  La  proprietà  fondiaria  è  un  monopolio
permanente, ed in una Nazione, destinata dalla Natura ad  essere  esclusivamente
agricola, non tutti possono dedicarsi all'agricoltura, i  posti  sono  occupati,
quindi  per  necessità  alcuni  capitali  e  moltissime  persone   si   dedicano
all'industria, che per l'indole nazionale, per le condizioni del paese mai potrà
ingrandirsi e perfezionarsi in modo tale da sostenere la concorrenza  di  quelle
fabbriche immense, di que' prodotti de' popoli esclusivamente industri,  e  però
il libero commercio le distrugge immediatamente e priva di lavoro quelli  operai
che già ha tormentati col caro del pane. I capitali poi  sortono  immediatamente
dallo Stato  e  passano  allo  straniero.  Senza  poter  rispondere  alle  prime
obbiezioni,  i  liberi  cambisti  credono  di   rispondere   vittoriosamente   a
quest'ultima, e dicono: Allorché il denaro passerà da A in B è segno  che  A  ne
abbonda, appena ne mancherà, il danaro vi tornerà, per la ragione  medesima  che
da A è passato in B. Sí, vi tornerà, risponde Proudhon, ma  vi  ritornerà  nelle
mani dei  capitalisti  stranieri,  i  quali  acquisteranno  terre,  stabiliranno
fabbriche, ed A diverrà una nazione che  vive  dei  salarî  che  percepisce  dai
stranieri. L'ascendente  dell'Inghilterra  in  Portogallo  è  dovuta  al  libero
commercio; il vasto impero delle Indie, per questa ragione è divenuto  proprietà
di pochi mercanti. In una parola, se le condizioni e le  relazioni  sociali  non
mutano, il libero commercio facilita la concorrenza, e questa  il  monopolio  di
sua natura oligarchico; quindi facilita la tendenza delle  ricchezze  sociali  a
ridursi in poche mani, ed il crescere incessante del numero dei mendichi e delle
loro miserie. Coteste verità, che studiosamente si disconoscono, fanno esclamare
a Proudhon: "Il libero commercio, ovvero il libero monopolio è la Santa Alleanza
de' grandi feudatarî del capitale e dell'industria; è la mostruosa  potenza  che
deve compiere su ciascun punto del globo l'opera cominciata dalla divisione  del
lavoro,  dalle  macchine,  dalla  concorrenza,  dal  monopolio,  dalla  polizia:
schiacciare le industrie minori e sottomettere definitivamente il  proletariato.
È la centralizzazione su tutta la faccia della  terra,  è  il  reggimento  della
spoliazione e della miseria, è la proprietà in tutta la sua forza  e  gloria.  È
per conseguire l'adempimento di questo sistema, che tanti milioni di  lavoratori
sono affamati, tante innocenti creature gettate dalla mammella nel niente, tante
fanciulle e donne prostituite, tante riputazioni macchiate. E  sapessero  almeno
gli economisti un'uscita da questo laberinto, una fine di queste torture. Ma no,
sempre, mai,  come  l'orologio  dei  dannati  è  il  ritornello  dell'apocalisse
economica. Oh, se i dannati potessero ardere l'inferno!!..." Né qui si arrestano
i mali, né qui cessa il  potere  che  hanno  le  leggi  economiche  sui  destini
sociali, esse informano, danno norma, indirizzano verso la  stessa  meta  a  cui
esse tendono, qualunque politica istituzione, eziandio quelle che sembrano volte
a migliorare le condizioni delle moltitudini. Il  governo  vive  delle  gravezze
pagate da' cittadini, e queste, meno pochissime  su  taluni  oggetti  di  lusso,
tutte gravitano sui poverelli, sul minuto popolo, che pagane la piú gran  parte,
che piú delle altre classi sociali ne risente il peso; mentre i ricchi, e coloro
che assorbono i maggiori stipendî, sono in proporzione i  meno  gravati.  Questi
governi dovrebbero almeno proteggere i miseri. Mai no: è il ricco che ne ottiene
protezione, è il povero che popola le prigioni, che vive sotto la  sferza  e  la
prepotenza de' birri. Nel governo assoluto il povero può alcune  volte  ottenere
da un monarca un provvedimento arbitrario ma repressivo  contro  il  ricco;  nel
governo  rappresentativo,  coverto  con  la  maschera  della  legalità,  ciò   è
impossibile: elettori quelli che posseggono, eleggibili quelli che posseggono, i
nullatenenti son fuori la legge, sono in una condizione peggiore de' schiavi; il
governo è nelle mani de' capitalisti o de' proprietarî, l'industria progredisce,
la miseria cresce, e la società corre verso l'oligarchia dell'oro.  Passiamo  al
suffragio  universale,  amara  derisione  del  popolo  minuto.   L'operaio,   il
contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario, vengono  da  questi
minacciati della fame.  I  capitalisti  fanno  monopolio  del  voto  come  d'una
derrata; il povero nel governo rappresentativo è abbandonato  affatto  in  balia
del ricco, i suoi mali giungono al colmo. Il capitale dispoticamente governa, di
quinci la codarda politica, co' deboli superbi e co' forti umili; la  noncuranza
per l'avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima  de'  presenti  uomini  di
Stato; nelle loro mani il telegrafo  elettrico  ed  il  vapore,  grandi  trovati
dell'umano ingegno, son volti  a  perpetuare  l'usurpazione  e  la  miseria.  Il
Sismondi scriveva alla Giovane Italia: "Affiderete voi la causa del proletariato
agli uomini che ne dividono le privazioni? essi non  hanno  forza;  l'affiderete
quindi a' ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero".  Ecco  il  problema
fatale che tutte reassume le future sorti dell'umanità. Né questo  è  tutto:  le
ricchezze  de'  pochi  e  la  crescente  miseria  delle  moltitudini   producono
l'ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di salariare parte  del  popolo  per
opprimere i rimanenti. Quindi le numerose soldatesche ed il militare dispotismo.
La  quistione  politica  è  nulla  in  faccia  all'importanza  della   quistione
economica. Finché vi sono uomini che per miseria si vendono, il governo sarà  in
balia di coloro che piú posseggono, la  libertà  è  un  vano  nome.  Invenzioni,
scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti, altro non  fanno  che  sospingere  la
società in  quell'abisso  verso  cui  le  leggi  economiche  inesorabilmente  la
traggono. In quali Stati è maggiore la miseria e piú sensibile l'oligarchia  dei
ricchi? In quelli ove le moderne libertà e l'industria maggiormente  fioriscono,
piú che altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in Francia...  Gli  Europei,
dalla burrasca economica che li travaglia, sono cacciati a torme verso il  nuovo
mondo; e dall'Inghilterra emigrano il maggior numero, perché, secondo i moderni,
la piú civile. Son fatti questi e non congetture che vengono  in  appoggio  alla
ragione, quindi  il  vantato  progresso  altro  non  è  che  decadenza.  Ma  ove
giungeremo? sarà un giorno l'affamata umanità governata da una gretta oligarchia
di banchieri? È questa la domanda a cui risponderemo col ragionamento che segue.
Svolgiamo la storia, essa ci indicherà quali furono le sorti di que'  popoli  le
cui ricchezze s'accumularono nelle mani di  pochi  patrizî.  I  Magno-Greci  son
lontani da noi, e comeché la loro  storia  ci  venga  tramandata  attraverso  la
nebbia de' secoli, pure vedemmo che appena pochi divennero  i  possessori  delle
ricchezze sociali cominciò, in quelle repubbliche, il parteggiarsi del popolo, i
tumulti, d'onde risultò il  militare  dispotismo,  quindi  gli  Aristodemi,  gli
Anassili, i Dionisî, i Faleridi... Presso i Romani gli avvenimenti si  disegnano
con recisi contorni: appena la società vien divisa in pochi ricchi e numerosa ed
ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa suscitati, i tomulti: Tiberio  e
Gaio Gracco, Saturnino Apulieno, Livio Druso, lo stesso Catilina, sono  generosi
che tentano francare il popolo da schiavitú, alleviare le sue miserie; la guerra
sociale, la servile, la spartacida, la mariana, la sertoriana,  la  catilinaria,
furono i conati di un popolo infelice contro l'usurpazione  de'  ricchi;  ma  la
cagione de' mali  non  cadeva  sotto  i  sensi,  non  poteva  perciò  suggerirsi
dall'istinto il rimedio, quindi il  concetto  che  avesse  unificata  e  diretta
l'universal volontà mancò; il popolo fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti
patrizî  gioirono  delle  loro  usurpazioni;  ad  essi  successe  il  dispotismo
militare... quindi  Mario,  Silla,  Cesare,  poi  l'impero,  i  pretoriani,  che
spogliarono ed oppressero ricchi e poveri. E gli stessi avvenimenti  li  vediamo
esattamente riprodotti nelle repubbliche del medioevo: l'oligarchia  de'  ricchi
cade sotto il dispotismo dei venturieri. E presso i moderni quali sono  i  fatti
che osserviamo? chiunque senza spirito di parte  si  farà  ad  esaminarli  potrà
riconoscere che essi sono del medesimo carattere di  quelli  avvenuti  presso  i
Magno-Greci, i Romani, il medioevo: i tumulti, le congiure, le guerre civili  si
succedono, il dispotismo militare, fra noi, a cagione degli eserciti permanenti,
piú pronto, già s'estolle su tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi,
vuota borse... Banchieri! monopolisti!  cercate  gioire  del  presente,  giacché
l'avvenire non vi  appartiene;  il  popolo  non  può  ottenere  il  trionfo  che
sbarbicando ed abbattendo tutto l'edifizio sociale, ed in tal caso voi  perirete
sotto le ruine; se poi il popolo è vinto, il dispotismo militare  v'aspetta,  la
vostra morte sarà piú lenta, vedrete poco a poco  vuotare  le  vostre  borse,  e
morrete  consunti:  altra  alternativa  non  v'è,  questo  decreto  del  fato  è
incancellabile. Ecco, o dottrinarî!, il progresso  sognato  dalla  vostra  beata
schiera. È maravigliosa l'astrazione in cui questi cotali, lontani dalla miseria
e  dall'opulenza  vivono;  eglino  credono  in  buona  fede   che   dalle   loro
elucubrazioni fiorirà la libertà.  Una  catastrofe  politica  li  sorprende,  un
soldato prescrive i limiti alle loro dissertazioni,  come  un  pedagogo  limita,
minacciandoli colla sferza, le ricreazioni  de'  fanciulli;  essi  senza  perder
coraggio velano le loro idee, le lasciano indovinare, e procedono,  sognando  di
far guerra al dispotismo. L'idea, il concetto dominano, è vero, il  destino  de'
popoli: ma esse son conseguenza de' fatti, e non si traducono in fatti che dalle
rivoluzioni compite per forza d'armi;  ed  il  popolo  non  trascorre  mai  alla
violenza perché animato da un concetto, ma perché  stimolato  da'  dolori.  Cosa
sono le idee senza le rivoluzioni, senza la guerra che le faccia  trionfare?  un
nulla, sono le varie forme che i vapori prendono nell'aria  e  che  uno  zeffiro
disperde. Ma non bisogna  arrestarsi  alla  superficie  della  società,  su  cui
purtroppo chiaramente è scolpito un tale destino, fa d'uopo esplorare  il  fondo
per pronunciare la sentenza. Discorremmo come i pregiudizî  e  le  opinioni,  in
origine cari, manifestando col tempo i loro  attributi,  cagionano,  perché  non
concordi con le leggi di Natura, mali gravissimi, ed il rispetto, anzi il  culto
che il popolo aveva per essi cangiasi in disprezzo e derisione. Coloro che primi
scrollano questi pregiudizî sono i riformatori, affrontano questi l'ira sociale,
sovente l'esecrazione di quelle moltitudini che  eglino  vogliono  difendere,  e
tanti dolori immediati tanti motivi esterni vengono in  essi  contrappesati  dal
convincimento di essere i propugnatori del  vero.  Incontro  a  questi,  dicemmo
eziandio, sorgono gli apologisti del presente, dediti sempre a sacrificare  ogni
loro convincimento ai vantaggi che gli vengono offerti dal mondo esteriore; sono
questi i propugnatori degl'interessi che prevalgono e,  difensori  delle  classi
che predominano, nascondono sempre il male sotto le apparenze del bene, sono gli
ottimisti. Queste due schiere nemiche possono dirsi i genî del bene e  del  male
dell'umanità; quelli rappresentano il moto, la  vita;  questi  l'immobilità,  la
morte; sono due pleiadi che  precedono  sempre  le  grandi  crisi  sociali;  una
tramonta a misura che l'altra sorge sull'orizzonte. Queste due  schiere  nemiche
vengono, fra  i  moderni,  chiaramente  rappresentate  dai  socialisti  e  dagli
economisti, e noi ci faremo ad esporre per sommi capi la lotta che  tuttora  fra
loro si combatte. Tutti  i  riformatori,  osservando  la  cattiva  e  l'ingiusta
distribuzione delle ricchezze in una  società  che  pretende  di  esser  libera,
cercano  un  mezzo  acciocché  essa  venga  egualmente  ripartita.  Le  idee  di
Campanella nella Città del sole, di Cabet nell'Icaria, le  teorie  di  Owen,  di
Louis Blanc, tutte si propongono  lo  scopo  di  creare  una  forza  estrinseca,
artificiale, la quale presieda alla divisione delle  ricchezze.  Carlo  Fourier,
superiore  a  tutti,  rinviene  questa  forza  nella  natura  stessa  dell'uomo:
sciogliete  il  freno  alle  passioni,  concedete  ad  esse  piena  libertà:   e
l'equilibrio, egli dice, si stabilirà  da  sé.  Nondimeno  nell'applicazione  di
questo trovato egli prescrive alcune regole; grande nel rinvenire  questa  forza
di cui si va in cerca, erra nel  modo  come  adoperarla.  Gli  economisti  hanno
francamente appiccata la battaglia ed abilmente ferito nel debole della corazza.
I vostri sistemi, dicono essi, non sono che il ristabilimento del dispotismo con
tanta pena abbattuto. Incontro ad  essi,  il  passato  protezionismo  può  dirsi
libertà: voi prescrivete il vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche
l'ora del coito. La società sotto  un  tal  reggimento  perirebbe  di  languore,
l'uomo non lavora che per sé;  se  distruggete  la  personalità  distruggete  il
prodotto. Pretendete forse con le vostre utopie cangiare le immutabili leggi  di
Natura? Libertà a tutti e per tutti è la formola  degli  economisti,  e  quindi,
osservate  superficialmente  le  cose,  eglino,  in  questa  lotta,  sembrano  i
propugnatori della libertà  e  del  progresso.  La  libertà  ridona  la  dignità
all'operaio, vi dicono essi, noi non possiamo né vogliamo lasciar  da  parte  la
sua volontà, altrimenti sarebbe ridurlo alla  condizione  del  bruto  che  opera
sotto l'incubo della sferza. Continuano, né tralasciano di servirsi  giustamente
ed abilmente del sarcasmo: I vostri sistemi, dicono ai  riformatori,  sono  cosí
complicati che solo il vostro grande ingegno che  li  ha  concepiti  può  averne
un'idea chiara e distinta;  e  però  per  attuarli  fa  d'uopo  che  la  società
abbandoni nelle vostre mani tutte le ricchezze, tutti i  suoi  diritti,  che  vi
conceda illimitatissima potestà, acciocché voi possiate rigenerare l'umanità. Le
vostre filantropiche pretese, è forza confessarlo, non sono picciole. Fin qui la
vittoria degli economisti è completa. Ma quando si trasporta  la  quistione  sul
suo vero terreno, cambiano le veci; quando i riformatori a lor volta gli dicono:
Voi parlate di libertà e dignità dell'operaio? Quale libertà voi  gli  concedere
se non quella sola di morir di fame? Quale sferza è piú umiliante e piú  potente
della fame, solo ed unico legame che aggioga il  proletario  al  carro  sociale?
Quando i riformatori numerano e mostrano la profondità delle piaghe  sociali  e,
la   statistica   alla   mano,   terribile   scienza,    contano    in    Parigi
trecentosessantamila persone immerse nella miseria; ed in tutta la Francia sette
milioni e mezzo d'uomini che vivono con soli  cinque  soldi  al  giorno;  e  nel
Belgio un milione e mezzo che vivono di pubblica beneficenza; quando  spalancano
innanzi ad essi  quei  tetri  volumi  delle  ricerche  fatte  in  Londra,  delle
condizioni dei poveri; quindi scorgesi che quasi tutti i malfattori  son  miseri
ed ignoranti; quando si osserva, finanche un  morbo  distruttore  rispettare  il
ricco ed unirsi con gli altri innumerevoli  mali  sotto  il  nero  e  stracciato
vessillo della miseria; quando infine, in forza delle stesse  leggi  economiche,
gli dimostrano ad evidenza che questi mali debbono immancabilmente crescere  con
spaventevole celerità, allora gli economisti rimangono atterriti. I loro sofismi
sono impotenti, il sarcasmo cangiasi in ira e prorompono alle onte, li  chiamano
anarchisti, parteggiatori; ma i fatti, sanguinosi e minaccianti, non cessano  di
protestare. Fra gli economisti, il solo onesto, Malthus,  coraggiosamente  si  è
svincolato dalle fatali strette. Non sono le leggi economiche, egli dice, non  è
l'ingiusta distribuzione delle  ricchezze,  non  le  condizioni  ed  i  rapporti
sociali, la cagione di questi mali, ma essi risultano da due leggi immutabili di
Natura,  che  regolano  la  propagazione  della  specie  e  l'accrescimento  del
prodotto, e fanno sí che l'una procede in una  progressione  geometrica,  mentre
quello cresce in una progressione aritmetica, e quindi conchiude: "Un  uomo  che
nasce in un mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha come nutrirlo, e la
società non ha bisogno del suo  lavoro,  quest'uomo,  dico,  non  ha  il  minimo
diritto a reclamare una porzione  qualunque  di  nutrimento,  egli  è  realmente
soverchio sulla terra. Al grande convito della Natura non v'è posto per lui,  la
natura gli comanda d'andarsene, né tarderà a porre essa medesima quest'ordine in
esecuzione". Non è necessario dimostrare, per ribattere l'argomento di  Malthus,
che in Natura non esiste cotesta legge fatale e terribile, ma basterà rispondere
che se essa esistesse, non dovrebbe avere effetto,  se  non  quando  ognuno  non
occupasse nel convito della vita che  un  posto  solo;  ma  se  quella  ingiusta
distribuzione di ricchezze di cui si ragiona fa sí  che  un  solo  occupa  molti
posti, che nove milioni, per esempio, come avviene in Inghilterra,  divorano  la
mensa che Natura ha imbandito per duecentocinquanta milioni,  allora  chi  potrà
impedire ai tanti esclusi di avvalersi di  quella  superiorità  di  forze  dalla
Natura stessa concessegli e, calpestando quei  pochi,  farsi  da  loro  medesimi
giustizia? Giunta la quistione a tal punto, entra in lizza Proudhon,  la  chiave
della volta, secondo Garnier, dell'edifizio sociale è polverizzata: la proprietà
è un furto, è la netta, evidente, incontrastabile conseguenza a cui perviene con
la sua inesorabile logica. Gli economisti hanno consumate inutilmente  tutte  le
loro forze per difendersi,  ma  l'impresa  era  troppo  ardua,  massime  per  la
proprietà fondiaria. Sarebbe soverchio venir  ripetendo  in  queste  pagine  gli
argomenti di Proudhon, il certo è che: un  uomo  ozioso,  semplice  consumatore,
inutile alla società, che impone patti a suo capriccio  a  coloro  a'  quali  la
società deve tutto, è l'immediata,  la  legittima  conseguenza  del  diritto  di
proprietà. L'ultimo fra i volgari, se i pregiudizî non  l'accecano,  se  la  sua
ragione può per un solo istante francarsi dall'imperio de' fatti, è nel caso  di
comprendere questa verità. Come mai può  dirsi  giusta  una  legge  dalla  quale
risulta il diritto di non far  nulla  e  scialacquare  il  frutto  degli  altrui
sudori? Gli  economisti  hanno  alzata  l'ultima  barricata  dietro  di  cui  si
credevano invulnerabili: la terra, soggiunge Bastiat, non ha valore, (quasi  che
la mancanza di valore in un oggetto  da  tutti  desiderato  potesse  adonestarne
l'usurpazione), la proprietà, egli dice, è un lavoro accumulato. Ma ad  onta  di
questa ardita asserzione sono stati disfatti, ed hanno visto distrutte  eziandio
le ragioni con cui difendevano il capitale: l'uomo creato con facoltà  inferiori
ai suoi bisogni non può bastare a se medesimo,  e  solo  associandosi  coi  suoi
simili sorte dallo stato selvaggio;  isolato  è  inferiore  a  quasi  tutti  gli
animali, associato  diventa  sovrano.  Solo  non  può  neppure  procacciarsi  il
necessario; in  società,  ottiene  subito  dal  lavoro  collettivo  un  prodotto
sovrabbondante, quindi comincia il risparmio, il capitale; e siccome il  lavoro,
come afferma lo stesso  Pellegrino  Rossi,  non  essendo  trasmissibile,  non  è
neppure  usufruttabile,  ne  risulta  che  il  risparmio,  ovvero  il  capitale,
conseguenza  di  un  lavoro  collettivo,  non  può  essere  che  una   proprietà
collettiva. Il capitalista che paga otto di salario ad ogni operaio che  produce
dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba  eziandio  la  loro  potenza
collettiva, quella potenza per  cui  l'azione  simultanea  di  cento  persone  è
superiore all'azione successiva di tutti gli uomini della terra; potenza per cui
accrescesi oltre misura il prodotto; potenza generatrice del capitale. Per  qual
ragione adunque, gli operai, padroni legittimi del  prodotto  del  loro  lavoro,
padroni legittimi del capitale che la loro  potenza  collettiva  ha  accumolato,
sottostanno alle esorbitanti e tiranniche esigenze d'un capitalista? La fame  ve
li costringe; se nella presente  società  cessasse  la  miseria,  capitalisti  e
proprietarî piú non troverebbero né operai, né fittaiuoli che volessero lavorare
per loro conto, cesserebbe  ogni  produzione;  la  miseria  gli  fa  abilità  ad
usufruttare gli altrui lavori, la miseria è il punto d'appoggio su cui  librasi,
è la base su cui poggia, chiave della volta che sostiene l'edifizio  sociale,  è
il solo movente che produce quella vantata armonia sociale,  per  cui  pochi  si
giovano del frutto dei lavori di molti.  Gli  economisti,  vedendosi  debellati,
hanno eseguita un'abile evoluzione, sono ritornati  sull'antico  terreno,  hanno
trascinato nuovamente i loro avversarî ad esaminare  i  sistemi  che  pretendono
surrogare alle condizioni e relazioni presenti; han detto a loro: "voi non  fate
che  distruggere,  edificate,  ed  esperimentiamo  se  i  vostri  concetti  sono
attuabili". I riformatori in quest'ultima contesa  mancarono  di  carattere,  si
mostrarono deboli: eglino, credendo sincere le proposte de' loro  avversarî,  si
fecero a chiedere ai proprietarî i mezzi come esperimentare  una  società  senza
proprietà, la facoltà d'abolirla,  ammirabile  innocenza!!...  eglino  avrebbero
voluto riedificare senza distruggere,  vestire  il  povero  senza  spogliare  il
ricco, vana speranza! Lo stesso  Proudhon  pretende  riformare  la  società  con
alcune  istituzioni  che  tutti  potrebbero  accettare.  I  loro  avversarî  gli
risposero con un sorriso di scherno, ed ascosero il loro veleno per servirsene a
miglior tempo. Noi troncheremo il nodo della  quistione,  non  essendovi  alcuna
necessità di scioglierlo. Riscontrasi forse registrato  ne'  fasti  dell'umanità
che le rivoluzioni si compiono con una  discussione  o  con  un'esperienza?  che
gl'interessi opposti, da cui viene l'urto, si salvano entrambi? D'onde,  se  non
dal torrente degli affetti che sgorgano dalle rivoluzioni e travolgono nel  loro
rapido corso ogni ostacolo, sorte inaspettato il nuovo  ordine  sociale?  A  noi
basta d'aver provato, né ciò possono negarlo gli  economisti,  che  i  mali,  le
cagioni di pungenti dolori, esistono non  solo,  ma  crescono  continuamente,  e
questo fatto, scritto a caratteri indelebili negli eterni  volumi  del  destino,
racchiude in sé la rivoluzione, come i corpi il calorico. "Quando il popolo  non
avrà piú nulla da mangiare, mangerà il ricco". In  questi  termini,  con  queste
parole, Rousseau ha preveduto e definito la rivoluzione, e cosí avverrà. Inoltre
le nazionalità compresse, le ingorde tirannidi,  l'agitarsi  delle  sette,  sono
altre cagioni, effetti e causa della rivoluzione,  le  quali  ne  avvicinano  il
momento, e vestono delle loro apparenze  alcuni  rivolgimenti,  il  cui  movente
principale, la miseria, il  bisogno  di  migliorare,  rimane  nascosto.  Dunque,
risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione preveduta, desiderata,
è la strage, la spoliazione? Sí, tale sarà, ma le sue vittime saranno in  numero
assai minore di quello che voi ne spegnete coi lunghi tormenti della miseria.  E
fossero piú, noi ripeteremo le vostre frasi: "non si giunge senza perdite  sulla
breccia - non possiamo  tener  conto  di  coloro  che  il  carro  del  progresso
schiaccia nel suo cammino". Conchiudiamo: la rivoluzione è inevitabile, essa  si
avvicina  con  caratteri  chiari  e  distinti  e  procede   indipendente   dalle
discussioni dei dotti. Noi ci faremo ad esaminarne piú minutamente le  tendenze.
"La Provvidenza, - esclama Alessio Battiloro  in  Palermo  nel  1647,  -  fa  le
campagne ubertose per tutti, né noi dobbiamo morire di fame perché alcuni  ladri
s'impinguano". È questa la formola della rivoluzione, che esiste latente da  due
secoli, dal momento che al popolo del medioevo successe il popolo moderno. Tutti
i rivolgimenti che hanno avuto  luogo  da  quell'epoca,  che  avranno  luogo  in
avvenire, tutti, comeché in apparenza vestiti di altri caratteri, sono l'effetto
del medesimo movente, i bisogni materiali del popolo. Questi  varî  rivolgimenti
sono stati vinti e sviati, imperocché l'istinto appigliandosi alle apparenze  ha
trascurata la realtà, sollecito della riforma politica non ha curato la sociale,
ma il movente principale sino ad ora occulto, sconosciuto,  non  compreso  dalla
moltitudine, già comincia ad emergere dal fondo della  coscienza  sociale.  Chi,
oggi, è cosí semplice da supporre che un popolo corra alle  armi  per  surrogare
qualche scaltro ad un re,  per  inalberare  uno  straccio  dipinto  in  un  modo
piuttosto che in un altro, per ottenere con le stesse miserie un  pomposo  nome?
Chi negherà che il popolo armasi perché spera in cuor suo, senza dirsi il  come,
migliorare le  sue  materiali  condizioni?  Chi  negherà  che  libertà,  patria,
diritti... sono vani nomi, sono amare derisioni per coloro dannati in  perpetuo,
dalle leggi sociali, alla miseria  ed  all'ignoranza,  inerenti  al  diritto  di
proprietà come l'ombra ai corpi? Perché amerà  la  libertà  della  persona,  del
pensiero, della stampa, colui che non ha mezzi come esistere, che per  ignoranza
non pensa e non legge? Sorrideva Metternich quando  i  sovrani  si  spaventavano
della quistione politica; il suo arguto ingegno scorgeva  che  la  vittoria  era
certa pel dispotismo finché la quistione non diventasse sociale. Ed oggi chi non
vede che la quistione sociale comincia a prevalere  alla  politica?  Gli  stessi
uomini tenacemente ristretti fra le antiche idee sono loro malgrado obbligati  a
concederle qualche pensiero, qualche frase. Non era  la  quistione  sociale  che
scriveva nel '33 sulle bandiere dei ribelli  a  Lione,  Vivere  travagliando,  o
morire combattendo? Non era la quistione sociale  quella  a  cui  Cavaignac  nel
giugno del '48 rispondeva a colpi di cannone? E le associazioni che  si  creano,
appena ne hanno facoltà, quasi istintivamente, non  accennano  forse  a  cotesto
avvenire?  E  l'indifferenza  con  cui  il  popolo  francese  mirò  violata   la
costituzione dello Stato, arrestati i suoi rappresentanti, diroccato il  palazzo
dell'assemblea,  non  dice  chiaramente  che  egli  sperava  con  la  repubblica
migliorare le proprie condizioni, e,  rimasto  deluso,  non  trovò  una  ragione
sufficiente per difenderla contro l'Impero? Sono scorsi quasi due  anni  che  ho
scritto queste pagine, ed al cominciar del 1856  con  mia  soddisfazione,  posso
aggiungere nuovi fatti  in  conferma  del  mio  asserto.  Ora  che  le  dottrine
socialiste piú non si manifestano, ora che i dottrinanti d'ogni colore predicano
l'assurda concordia de' partiti contro il comune nemico, il socialismo si  eleva
alla pratica, è l'aspirazione di una società secreta, la Marianna.  Le  concioni
popolari in Londra già prendono questo carattere, aspreggiano  i  ricchi,  Nella
Spagna, ove non erasi mai scritto  di  socialismo,  esso  mostrasi  nei  tomulti
popoleschi; e la sollevazione di  Lione,  quella  di  giugno,  la  Marianna,  le
concioni d'Inghilterra, i tomulti di Barcellona... sono quella  serie  di  fatti
che tendono a trasformare l'idea  in  sentimento,  che  renderanno  suggerimento
dell'istinto ciò che a pena un tempo antivedeva la ragione. Quando un tal  fatto
avverrà, in men che balena crollerà il moderno edifizio sociale,  e  su  le  sue
ruine si vedrà  sorgere  l'era  della  libera  associazione.  A  cotesti  fatti,
sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori: noi speriamo, dicono essi, che
tutti i rivolgimenti vengano, come per lo passato, soffocati nel sangue; noi non
daremo campo alla rivoluzione di ergere il capo, noi  cercheremo  di  comprimere
ogni elatere dell'animo e vinceremo.  Ed  io  rispondo,  forse  lo  potrete,  ma
nell'aspra lotta le forze della società  si  logorano,  e  voi  di  vittoria  in
vittoria vi troverete inevitabilmente sotto il giogo del militare dispotismo,  e
quindi  della  decadenza  e  dissoluzione.  L'avvenire  è  già   inesorabilmente
stabilito, o libera associazione, o militare dispotismo.  Quale  di  queste  due
condizioni sociali avrà il trionfo è dubbio: noi faremo fine a questo  paragrafo
paragonando le forze contrarie che debbono venire in  lotta,  e  cosí  [potremo]
manifestare un'opinione se non esatta,  almeno  probabile,  rispetto  al  nostro
avvenire. Se il popolo scuote la schiena  rovescia  facilmente  nobili,  ricchi,
preti  che  l'opprimono,  questa  imbelle  schiera  d'oppressori   non   possono
paragonarsi alla gagliarda aristocrazia feudale, essi verrebbero fugati dal solo
fragore della plebe in corruccio; la sola forza che li protegge, la  sola  forza
che si oppone alla rivoluzione, sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro
natura? Possiamo paragonarli ai  satelliti  armati  di  cui  si  circondavano  i
tiranni della Magna Grecia, a' pretoriani de' romani imperatori,  a'  venturieri
del medioevo? No: pei moderni ufficiali la milizia è un mestiere, ma  non  lo  è
pe' gregarî, per questi è un peso a  cui  con  riluttanza  si  sottomettono.  La
disciplina adopera ogni mezzo  onde,  quasi  direi,  affatturarli,  e  farne  un
sostegno della tirannide, di cui i soldati sono le  vittime  piú  che  le  altre
tormentate, ma non perciò cessano di esser popolo, dal cui seno  sono  svelti  a
forza, e sempre agognano di farvi ritorno. Perché dunque credere che il fascino,
l'incanto che li aggioga al dispotismo, non possa cadere, né  possa  sorgere  in
essi la speranza di un migliore avvenire, da conquistarsi non già al  prezzo  di
una  battaglia,  ma  solamente  rifiutandosi  di  combattere  contro  i   proprî
concittadini  ed  amici?  Chi  piú  del  semplice  soldato  deve  desiderare  un
miglioramento delle condizioni della plebe?  Egli  non  è  che  plebe.  Inoltre,
quell'amor proprio di corpo in cui risiede tutta la forza de'  moderni  eserciti
è, eziandio, efficacissimo conduttore  d'ogni  nuova  idea;  un  solo,  in  que'
difficili momenti, in  cui  gli  spiriti  esaltati  ondeggiano  nell'incertezza,
momenti nelle guerre civili  comunissimi,  basterebbe  per  trascinare  col  suo
esempio un reggimento intero, ed un reggimento  un  esercito.  Aggiungi  che  la
polvere da sparo ha reso facilissimo l'armeggiare; ha  diroccato  le  torri  dei
feudatarî; ha sfondata la loro corazza; ha uguagliato il  povero  al  ricco,  il
forte al debole; ha reso impossibile alle soldatesche sostenersi in  una  città,
in cui i cittadini padroni degli  edifizî  son  decisi  a  combattere;  e  dando
finalmente il vantaggio al numero sul  valore,  pare  che  abbia  favorevolmente
decisa la causa dell'umanità. Concludiamo: la moderna società  trovasi  in  quel
punto  fatale  d'onde  le  antiche  hanno  rapidamente  declinato.  Ma,  facendo
considerazioni sulle condizioni de' moderni, osserviamo  una  grande  differenza
con gli  antichi.  Il  popolo  è  misero  come  l'antico,  ma  non  come  quello
parteggiato da' ricchi, e legato alle loro persone; il prestigio di cui godevano
gli oppressori piú non esiste; le quistioni  sulle  riforme  vaste,  nette,  non
vaghe ed oscure come le antiche, esse dall'astrazione di pochi cominciano già  a
diventare idee pratiche, sentimento  di  molti:  facili  gli  armeggiamenti,  la
trasformazione del cittadino in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i
soli eserciti permanenti, popolo anch'essi, e però può sperarsi che  la  società
non declini, ma  ascenda  all'era  della  libera  associazione,  scorrendo  cosí
un'orbita piú vasta di quella percorsa dai popoli che ci hanno preceduto.


IV. Discorremmo come i varî rivolgimenti trasformano la società,  ed  illuminati
da' fatti, dalle moderne condizioni e relazioni degli uomini,  abbiamo  sospinto
lo sguardo nell'avvenire. La religione  fra  coteste  vicende  molto  opera,  ma
pochissimo  le  modifica,  quindi  preferimmo   per   semplicità   separatamente
discorrerne. La religione è un effetto  dell'ignoranza  e  del  terrore;  l'uomo
deifica ogni forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste forze  dandogli
le proprie forme, le proprie passioni: quindi mutano i costumi e  gli  attributi
de' dei al cangiare de' costumi de' popoli. I primi numi furono i  reggitori  di
quelle forze, che la Natura manifesta nel suo tremendo corruccio, e cotesti numi
cosí possenti la sconvolgevano, al credere de' stupidi ed attoniti mortali,  per
muover guerra all'uomo. Di quinci la credenza di  averli  offesi,  il  desio  di
placarli, e siccome la sola vendetta accheta l'uomo sdegnato,  per  placare  gli
dei gli offrirono la vita dell'offensore, ed il culto manifestossi con gli umani
sacrifizî. Isolati gli uomini, ognuno ebbe i propri dei, quindi gli dei  penati,
i lari. Riuniti in città, surse  il  pubblico  culto,  come  surse  la  pubblica
opinione, il pubblico costume. I popoli si mansuefecero, si  assottigliarono  le
menti, e la religione cangiò; l'agricolo e placido Etiopo adorò le costellazioni
che annunziavano le stagioni, avverse o propizîe ai suoi campi, ed  il  dilagare
dei fiumi fecondatori; le nomò con simboli conformi  alle  sue  idee,  ed  adorò
questi simboli, queste sue creature. Il guerriero e politico Italiano, adorò  la
fede, la pace, la guerra... Infine, con l'ingentilirsi de' costumi, i  sacrifizî
umani cessarono. Nell'assottigliarsi della ragione surse la  greca  e  l'italica
filosofia, la quale era  in  opposizione,  come  ogni  filosofia,  coi  principî
religiosi. Gli dei de' Greci e de' Romani non  erano  gli  arbitri  del  destino
degli uomini, ma di aiuto efficacissimo se propizî  alle  loro  imprese,  nemici
terribili se irati; al disopra di essi  eravi  l'immutabile  destino,  alle  cui
leggi sottostavano dei e mortali. La filosofia, naturalmente, concentrò tutti  i
suoi studî su questa forza, questa legge suprema, e  riconoscendo  la  frivolità
degli altri simboli, l'assurdità della numerosa turba di dei, li dichiarò  tutti
falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza superiore, che fu l'unico  Dio,
le cui leggi essendo eminentemente  giuste,  e  però  immutabili,  distruggevano
qualunque culto, qualunque relazione tra Dio e gli  uomini,  e  cosí,  come  era
naturale, la filosofia stabiliva l'ateismo. Il riconoscere  una  legge  suprema,
giusta e fatale, regolatrice de' destini  degli  uomini,  era  idea  che  poteva
allignare solamente fra un popolo puro e conscio della propria  dignità,  ma  la
buona semenza fu sparsa su cattivo terreno,  il  degradato  popolo  del  cadente
Impero. Popolo avvilito, popolo schiavo, che le miserie  avevano  ridotto  quasi
nello stato medesimo del selvaggio  atterrito  dalla  sconvolta  Natura,  venne,
naturalmente, dal proprio scetticismo condotto  a  rimettere  le  proprie  sorti
nelle mani di questo unico  Dio,  e  ne  fece  il  vendicatore  degli  oppressi,
l'arbitro degli umani destini; e siccome i popoli si creano i  dii  ad  immagine
loro, cosí gli attributi di esso furono la sua propria abbiettezza, l'umiltà, la
pazienza, l'indifferenza per le cose terrene. Il culto come adorarlo, i misteri,
i riti li trasse dagli Orientali, quanto i  Romani  di  quell'epoca  schiavi  ed
indolenti. Intanto la solitudine degli animi e degli interessi, l'egoismo umano,
volto solo all'utile privato,  questo  in  diretta  contraddizione  con  l'utile
pubblico, produsse, naturalmente, la reazione negli animi dei scrittori, i quali
come sogliono i correttori di costumi, senza comprendere  che  que'  vizî  erano
l'effetto dello sfacelo in  cui  andava  la  società,  dell'istituzioni  che  la
reggevano,   credettero   porvi   rimedio   predicando   contro   di   essi,   e
contrappesandoli con massime di fratellanza ed abnegazione,  e  cosí  da  questa
morale  predicata  ma  impraticabile,  e  dalla  teologia  orientale  nacque  il
cristianesmo, le di cui regole, le di cui massime mostrano benissimo che sursero
fra un popolo eccessivamente degradato ed in  balia  di  uno  sfrenato  egoismo.
Quindi, giustamente, Hegel dichiara la modestia cristiana nel  sapere  il  grado
supremo dell'immoralità. Immorali e contraddittorie alla Natura  umana  dovevano
essere tali massime, perché surte fra un popolo in cui ogni  elatere  dell'animo
era spento, e predicate in  contraddizione  della  realtà,  dei  fatti  ch'erano
effetti delle immutabili leggi di Natura.  Gli  uomini  deificati  formarono  ad
imitazione del paganesimo la  turba  de'  dii  minori  che,  come  gli  antichi,
presiedettero a tutte le operazioni della vita, a tutti i fenomeni della Natura.
Alcune madonne, alcuni santi con speciali attributi, gli amuleti,  le  reliquie,
specie di feticcio, si surrogarono ai dei penati, ai lari, e  cosí  con  diversi
principî e nomi, ma quasi con le stesse  forme,  alla  religione  di  un  popolo
giovane e fiorente si sostituí quella che convenivasi ad un popolo  degradato  e
corrotto. Gli dei antichi erano degli eroi,  perché  eroico  il  popolo  che  li
adorava quelli de'  cristiani  dei  martiri,  perché  schiavi  ed  oppressi  gli
adoratori. Avvezzi gli antichi a vedere il trionfo ed a rispettare il giusto, lo
riguardavano come legge immutabile a cui sottostavano dei e uomini; i  cristiani
per contro, che la miseria aveva sospinti allo scetticismo, ne  perdettero  ogni
idea, e deificarono l'arbitrio, abbandonando i  destini  dell'umanità  in  balia
d'un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e cosí al padrone  che  si
creavano nel cielo, davano gli attributi medesimi che  avevano  i  loro  padroni
sulla terra. La morale degli antichi, risultata dall'azione, era pratica e  però
d'accordo con l'umana natura; quella dei cristiani impraticabile, perché volta a
frenare le sue leggi. La nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando
fra i potenti, ma divenuta padrona della forza,  mostrossi  oltre  ogni  credere
feroce e codarda.  Inorridiscono  i  moderni,  in  pensando  a'  terribili  riti
druidici ed agli  umani  sacrifizî  degli  antichi,  non  conoscono,  tanto  da'
pregiudizî è oscurato il loro intelletto, quanto piú atroci e codardi  sono  gli
assassinî del  cristianesimo,  commessi  nei  tetri  recessi  dell'inquisizione.
Coronata di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso, alla  splendida
luce del sole, fra devota e festosa moltitudine,  involavasi  la  vittima  degli
antichi, la cui vita, in men che balena, veniva spenta dal colpo che vibrava  il
destro sacerdote. Carica di catene, estenuata dalla  fame,  sotto  le  oscure  e
solitarie volte de' sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati  al
rapido uccidere, ma raffinati  nel  lento  incrudelire,  frusto  a  frusto,  fra
tormenti atrocissimi, consumavasi la vittima dei cristiani. Ne' sacrifizî  degli
antichi l'aria risuonava dei canti dell'inneggiante  e  devoto  popolo,  ed  era
profumata dalle nuvole di fumo che  s'innalzavano  dai  bruciati  incensi;  fra'
cristiani, invece, veniva  percossa  da'  stridi  acutissimi  della  vittima  ed
appestata dal lezzo insopportabile  di  carni  lacerate  ed  arse.  E  quindi  i
principî, i misteri, gli  attributi  degli  dei,  i  riti,  i  sacrifizî,  tutto
insomma, rivela nel paganesmo un popolo generoso, e nel cristianesmo  un  popolo
codardo e feroce. Fin qui della religione. Ora diremo de' sacerdoti ogni eroe fu
sommo sacerdote nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i vichi,  i
paghi, le città, la concione de' forti, spesso, non potendo occuparsi delle cose
divine concernenti il pubblico culto, delegò altri a compiere  tali  ufficî,  ma
costoro, con tali facoltà, acquistarono ben presto un  grande  ascendente  sulla
credula moltitudine, e l'aristocrazia si vide  osteggiata,  contrappesata  dalla
teocrazia, di quinci la lotta fra  queste  due  caste,  che  si  disputavano  la
sovranità. Uno dei fatti piú antichi che ci rammenta questa  lotta  accanita,  è
l'esterminio che Nob fece d'Achimelech con altri ottantacinque sacerdoti.  E  le
mille  volte,  presso  i  Celti,  incalzati  dal  fulmineo  brando   de'   prodi
aristocratici, i tremanti sacerdoti dovettero riparare nelle caverne. In  Italia
l'aristocrazia prevalse, presso i Magno-Greci, come  presso  i  Romani,  i  numi
ubbidivano alla suprema potestà dello Stato. Le medesime vicende si  riscontrano
nel  cristianesmo:  surto  in  uno  Stato  già  costituito,  fu   al   principio
indipendente dal governo. Come fra i vichi ed i paghi della  primitiva  barbarie
il capo era sommo sacerdote, cosí ogni villaggio, ogni città de' primi cristiani
elesse un cittadino a tale  ufficio,  il  vescovo.  In  tal  guisa  cominciò  la
teocrazia, la quale, crescendo il suo potete, si rinserrò  in  una  casta  e  si
attribuí que' diritti che ad essi venivano dal  popolo,  ed  erano  inerenti  al
popolo. La lotta con l'aristocrazia non tardò a dichiararsi, quindi i guelfi e i
ghibellini. La spada vinse, il prete fra' moderni, ove  il  reggimento  è  nelle
mani di uomini né codardi né devoti, se non di diritto, di fatto  è  soggetto  a
chi impera: il pergamo, i miracoli, le preghiere  sono  ai  comandi  del  trono.
Cerchiamo ora di scorgere quale sia  l'avvenire  a  cui  accenna  la  religione.
Discorremmo come essa ha seguito i destini de' popoli  ed  è  conforme  ai  loro
costumi. In quella de' selvaggi vi è impresso il terrore di  cui  è  figlia;  il
loro ingentilirsi ne rammorbidisce gradatamente i troppo  duri  contorni,  e  la
religione di una società fiorente è quale si conviene ad un popolo di eroi, ed è
sempre in perfetto accordo con l'utile pubblico, come  quella  nata  fra  uomini
dediti al bene ed alla grandezza della patria. Nella  decadenza  delle  società,
poi, si riscontrano in essa le contraddizioni e la viltà d'un popolo  degradato,
e, cercando rapire l'uomo alle cure di un mondo in cui soffre con la promessa di
un futuro ed immaginario godimento, deve  sempre  trovarsi  in  opposizione  con
l'utile pubblico. Dunque, affinché una nuova religione potesse sorgere,  sarebbe
indispensabile che un cataclismo confondesse la  nostra  mente,  ne  cancellasse
ogni tradizione e riproducesse in noi la meraviglia stessa,  lo  stesso  terrore
che i selvaggi sentirono al brontolate del tuono. O pure è indispensabile che la
corruzione e la miseria,  comprimendo  affatto  l'elatere  di  nostra  vita,  ci
prostri talmente che, disperando delle proprie forze, ci costringa  ad  invocare
potenze immaginarie; non v'è che l'uomo atterrito  o  degradato  che  ripone  le
proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si riprodurrebbero le  primitive
religioni, con nomi diversi, perché spente sono quelle tradizioni. Nel  secondo,
esistendo ancora una religione surta in  simili  condizioni,  non  potrebbe  che
riprodursi, rifiorire  la  medesima.  Quindi  se  la  società  moderna  declina,
risorgerà il  cristianesmo  e  raggiungerà  nuovo  splendore  con  rifiorire  il
cattolicismo, stato di sua perfezione; e viceversa, se questa religione perde il
suo prestigio è indizio che la società s'avvicina al suo  risorgimento.  Apriamo
l'animo alla speranza, esso  non  dovrebbe  esser  lontano.  Ma  quale  sarà  la
religione della società rigenerata? È questa l'ultima domanda a cui ci faremo  a
rispondere. La religione  è  fondata  su  di  un'idea  di  potestà  suprema,  di
dipendenza, senza della quale non  potrebbe  esistere.  Senza  preghiere,  senza
credenze,  senza  culto,  senza  autorità  non  v'è   religione.   Dunque   sono
indispensabili i sacerdoti, che parlano in nome  degli  dei,  che  predicano  la
virtú che gli dei richieggono. È egli mai possibile  che  ciò  avvenga?  In  una
società la quale tende verso la libera associazione e  l'uguaglianza,  ove  ogni
gerarchia sarà abolita, potrà mai allignare fra essa l'idea di dipendenza da una
somma sapienza? chi oserà dirsi delegato da  Dio  a  predicare  la  virtú?  chi,
eziandio, nelle presenti condizioni, può farlo senza esser  deriso?  Il  popolo,
dice Mazzini, sarà il solo interprete di Dio; ma in simile  caso  Dio  che  cosa
diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo né potranno  esser  differenti,
imperocché per esprimerli sarebbe d'uopo d'interpreti che  non  fossero  popolo,
quindi Dio diventa un vano nome, e non altro. Se poi, come soggiunge  lo  stesso
Mazzini, Dio è la legge, allora fa d'uopo dichiarare di quale legge parlasi;  se
di una legge naturale, allora  essa  deve  assolutamente  esistere  nel  popolo,
quindi Dio sparisce, Dio è il popolo. Se poi questa legge è differente da quella
di Natura, sarà indispensabile un rivelatore, ma chi l'oserà? Ognuno, al  giorno
d'oggi, potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi!  io  vi  darò  le  migliori  leggi
possibili, ma niuno avrà tanto ardire, o sarà cosí stolto d'aggiungervi: esse mi
sono state rivelate da Dio! La religione non  è,  come  asseriscono  alcuni,  il
desiderio, il bisogno di venire alla conoscenza dell'assoluto; la religione è un
sentimento di debolezza che rendeci creatori ed adoratori di potenze  sovrumane,
e quando la ragione dimostra  che  queste  forze  non  esistono,  o  almeno  non
impongono doveri, né accordano premî, né infliggono  castighi,  né  havvi  mezzo
come placarle e renderle a noi propizie, la religione  piú  non  esiste.  Dicono
alcuni: il simbolo della nuova religione sarà l'Umanità, la Ragione, la Libertà.
Ma coteste idee non essendo né mistiche, né sovrumane, non  hanno  in  sé  alcun
sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in inutile giro  di  parole,
domandiamo a costoro, se nella nuova società a cui eglino medesimi accennano, vi
potrà essere un'idea mistica che ne modifichi la costituzione ed i costumi degli
uomini. La risposta non può essere che negativa, quindi  la  società  rigenerata
dovrà  essere  indubitatamente  irreligiosa.   Chiamare   religione   e   deismo
l'aspirazione alla conoscenza dell'infinito, è un'improprietà di  linguaggio,  è
oscurare le nuove idee  con  voci  antiche  destinate  ad  esprimere  tutt'altro
sentimento. Non ammettere che queste aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio
assurdo,  negargli  ogni  ingerenza  nella  vita  dell'uomo,  altro  non  è  che
irreligione ed ateismo. In tutte le religioni sino ad ora esistite  la  fede  ha
creduto alla certezza e verità obbiettiva  della  parte  sovrumana.  La  ragione
altro non aveva  fatto  che  distruggere  un  simbolo  e  sostituirne  un  altro
accettato come verissimo. Ma oggi siamo trascorsi  piú  innanzi:  studiando  sul
passato e scorgendo una successione di simboli religiosi,  ognuno  a  sua  volta
dichiarato falso, si è dedotto che tutti erano egualmente bugiardi, che  tale  è
il presente, che tale sarebbe un nuovo  simbolo  che  ad  esso  si  sostituisse.
Dunque la nuova fede quale è? Il non aver fede in nessun simbolo perché  chimere
della nostra immaginazione: ovvero  la  nuova  fede  è  l'irreligione.  Tutti  i
riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono irreligiosi ed atei, ma tutti
non vogliono accettare questa conseguenza della loro dialettica e si dichiarano,
con enfasi, religiosi e deisti. Per contro, non tutti sono socialisti, ma tutti,
comeché professando dottrine opposte al socialismo, si compiacciono dirsi  tali,
e perché. La ragione è evidente: l'irreligione è già sentimento, quindi tutti la
professano, ma sono riluttanti a confessarlo; il  socialismo  riguardasi  ancora
dottrina, e tutti cercano farne pompa, senza comprenderlo o approvarlo. Un'altra
ragione per cui la religione si dichiara  indispensabile  è  che  la  storia  la
registra come un fatto universale e costante. Ma  questa  ragione  non  dovrebbe
avere alcun peso per coloro che credono al progresso indefinito, imperocché tale
credenza non può ammettere che una qualsiasi istituzione debba esistere  per  la
sola ragione che ha sempre esistito, anzi la dottrina del  progresso  indefinito
stabilisce il contrario. La religione ha  sempre  esistito  imperocché  tutti  i
popoli  della  terra  hanno  percorso  sino  ad  ora  la  medesima  orbita,  son
soggiaciuti alle medesime vicende. Gli Orientali, gli Etruschi, i Magno-Greci, i
Romani, i moderni, tutti partendo o dallo  stato  selvaggio,  o  dalla  barbarie
ricorsa, hanno raggiunto il medesimo grado di civiltà, e  sonosi  trovati  nelle
medesime condizioni. Al termine poi di questo ciclo sociale percorso da tutti  i
popoli del mondo, si è accennato ad una legge di fraternità ed eguaglianza quasi
sintesi dell'idea  sociale:  vi  accennarono  le  dottrine  di  Zoroastro  e  di
Confucio, vi accennò Platone,  vi  accennò  il  cristianesmo,  vi  aspirano  piú
recisamente i moderni. Quei popoli  decaddero  né  poterono  raggiungere  questo
nuovo stato; noi, raggiungendolo, varcheremo  un  punto  che  nessun  popolo  ha
varcato, quindi niuna delle istituzioni passate o presenti ci può esser norma da
indovinare le future. L'irreligione sarà nuova,  come  è  nuovo  il  socialismo.
Faremo fine a questo capitolo richiamando l'attenzione  del  lettore  su  di  un
fatto,  da  cui  moltissimi  son  stati  tratti   in   un   grossolano   errore.
Quell'aspirazione alla fratellanza, che abbiamo scorto in tutte le  società  che
cominciavano a dissolversi, la comunità  de'  beni  predicata  nel  vangelo,  ha
lasciato credere quasi a tutti che quelle antiche idee fussero i  rudimenti  del
moderno socialismo, ma quest'aspirazione ad un migliore avvenire, che sentiva un
popolo avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza delle
condizioni di quella società che doveva o progredire o decadere. Ma essa non  fu
che  una  semplice  aspirazione,  le  massime  che  prevalsero   furono   quelle
dell'umiltà, dell'indifferenza alle cose terrene de' cristiani, effetto di  loro
degradazione e causa che ne accelerò la  caduta;  una  tale  aspirazione  fu  il
crepuscolo  d'un  tramonto  tolto  quale  l'alba  di  nuovo  giorno.  L'avvenire
immaginato da' cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione del
mondo in un convento. Il fanatismo condusse que'  popoli  al  martirio,  ma  non
potette elevarli  alla  battaglia.  Per  contro,  fra  le  dottrine  de  moderni
socialisti, fra  le  massime  ricevute,  non  havvene  alcuna  che  dissolve  od
avvilisce: gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire,  ma  per
prestarsi vicendevole aiuto, lavorando, per acquistare maggior prosperità, e per
combattere; l'aspirazione del socialismo non è quella di ascendere in cielo,  ma
godere sulla terra. La differenza che passa fra esso ed il vangelo è  la  stessa
che si riscontra fra la rigogliosa vita d'un giovine corpo ed  il  rantolo  d'un
moribondo.

CAPITOLO SECONDO

V. Nazionalità. - VI. Libertà. - VII. Unità. - VIII. Federazione.



V. Senza obliare le verità economiche rammentate nelle precedenti pagine,  e  le
conseguenze da esse  dedotte,  restringeremo  le  nostre  considerazioni  fra  i
confini che le Alpi ed il mare segnano alla nostra patria; e prima di farcene  a
scrutare l'avvenire, verremmo svolgendo  que'  popolari  concetti  che  sembrano
reassumerlo, mentre essi non potranno ch'esserne la conseguenza e l'effetto.  In
Italia, il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra  i  voti  e  le
speranze universali; il politico predomina, e la ragione  è,  per  se  medesima,
evidente: un popolo a cui negasi una patria, crede un tal fatto cagione assoluta
de' mali suoi, e conquistandola spera alleviarli: nondimeno i fugaci esperimenti
del '48 e '49 han fatto scemare fra gl'Italiani, e per essi non  intendo  sette,
ma l'intera nazione, il prestigio che aveva il politico concetto.  Se  malamente
sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un cangiamento  di  forme,
di nomi, d'uomini, non  è  rimedio  efficace;  ed  un  tal  sentimento,  comeché
sconfortante al presente, è pegno indubitato di  migliore  avvenire,  avvegnaché
sarebbe impossibile abbracciare nuove idee, nuovi ordini, prima che il fatto non
avesse distrutto le passate illusioni e gli antichi pregiudizî. Inoltre, sono le
relazioni di Stato a Stato cosí intime, e cosí intrecciate in  Europa,  che  gli
esperimenti in politica fatti da una nazione, del pari che le  invenzioni  e  le
scoverte, sono di un utile  universale,  non  potendo  rimanere  inosservati  ed
infruttuosi per gli altri popoli; epperò l'Italia va  ammaestrandosi,  non  solo
con le proprie esperienze, ma ancora con quelle de' suoi vicini. I Stati europei
navigano di conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi  determinerà  la
linea sulla quale verranno ad arringarsi. La Francia, piú che ogni altra moderna
nazione, ha fatto numerose esperienze sulle varie forme del suo reggimento.  Gli
Italiani  han  visto,  tremendo  esempio,  crescere  i  suoi  mali  senza  verun
vantaggio: un tal fatto, e le nostre passate esperienze, sono cagioni abbastanza
gravi a determinarci allo  studio  accurato  delle  conseguenze  ove  potrebbero
condurci le nostre istintive aspirazioni. A chi  credono  che  la  buona  scelta
degli individui o  qualche  picciolo  cangiamento  facesse  fruttare  in  Italia
felicità quelle stesse istituzioni cadute in Francia nel dispotismo,  è  inutile
rispondere; io non scrivo per costoro, i quali, se non sono  ignorantissimi,  la
malafede  è  indubitata.  Nazionalità  è  una  parola,  che,   all'iniziarsi   i
rivolgimenti del '48, corse di bocca in bocca, ed è tuttora per  gl'Italiani  di
grandissima efficacia, ma sempre è stata malamente definita,  mai  profondamente
riflettuta. La nazionalità è l'essere di una nazione. Un  uomo  che  liberamente
opera, liberamente vive ed esprime i propri pensieri, possiede completamente  il
suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce lo sviluppo delle sue facoltà,
ne interdice la volontà, ne arresta i  moti,  l'essere  piú  non  esiste.  Nella
stessa guisa, per esservi nazionalità bisogna che non  frappongasi  ostacolo  di
sorta  alla  libera  manifestazione  della  volontà  collettiva,  e  che  veruno
interesse prevalga all'interesse universale, quindi non può  scompagnarsi  dalla
piena ed assoluta libertà, né  ammettere  classi  privilegiate,  o  dinastie,  o
individui la  cui  volontà,  attesi  gli  ordini  sociali,  debba  assolutamente
prevalere: è nazionalità quella che godesi sotto il giogo d'un assoluto sovrano?
Quale utile ebbero i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si combattono
in Europa, guerre di  rivalità  dinastiche  e  non  d'altro?  Gli  Austriaci,  i
Prussiani, i Piemontesi, i Spagnuoli quali ragioni avevano di correte alle  armi
e d'assalire i Francesi per vendicare la morte di Luigi  XVI?  Il  popolo  sotto
tali governi è un gregge vilissimo, tosato in pace co'  balzelli,  strumento  in
guerra di vendetta e d'odio personale fra i principi. La ricca vita nazionale si
reassume e si  angustia  in  quella  ignobilissima  d'un  despota,  o  d'un  suo
favorito, e diventa però mutabilissima, quindi la stessa Nazione la vediamo  ora
superba, ora umile, ora bigotta,  ora  religiosa,  ora  debole,  ora  forte;  il
continuato progresso impossibile, ogni ministro distrugge o  sceglie  altra  via
del predecessore, sempre suo rivale, e la nazione è condannata  ad  un  perpetuo
ondeggiare. Tutto ciò ch'è collettivo, epperò nazionale, abborrito,  interdetto.
La storia della nazione riducesi ad una cronaca menzognera  o  scandalosa  delle
virtú o de' vizî  dei  principi.  Ove  adunque  trovasi  la  nazionalità?  Quali
vantaggi otterrebbe l'Italia con l'unità monarchica assoluta? Nuovi mali, e  non
altro. Tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato
in cui è divisa l'Italia, non cesserebbero, ma, a queste,  altre  ne  verrebbero
aggiunte che dall'accentramento del potere e  dell'amministrazione  naturalmente
risultano. Come ora languono le provincie  d'ogni  Stato,  languirebbero  allora
egualmente le città che oggi son capitali, eccetto una. Il male e  l'ingiustizia
che  le  provincie  sieno  governate  da  uomini  spediti  da   lontane   corti,
crescerebbero in immenso con l'unità. Gli abitanti delle  varie  capitali,  oggi
usufruttano quasi tutte le cariche di ogni Stato, in allora ad  una  sola  città
restringerebbesi un  tal  vantaggio.  La  probabilità  di  rinvenire  fra  tanti
principi uno che sia meno cattivo,  la  loro  debolezza  che  rende  meno  ardua
l'impresa di rovesciarli, cesserebbe. Scapiterebbe l'industria, che ora in  ogni
Stato ha un centro di moto; scapiterebbe per la ragione medesima  il  commercio,
non contrappesandosi i danni dell'accentramento dalla  piú  libera  circolazione
interna. Ogni governo, eziandio dispotico, è costretto alcune  volte,  o  perché
l'epoca il comporta, o per indole del principe,  a  proteggere  le  scienze,  ed
avvalersi de' distinti ingegni; quindi, in ragion del numero de' governi  cresce
la probabilità che splendesse qualche face fra le fitte tenebre della tirannide;
né Beccaria, né Filangieri, né Pagano,  né  Romagnosi,  conterebbe  l'Italia  se
fosse stata una sola monarchia. Avvegnaché in un sol centro troppo lontano dagli
estremi sarebbesi favorito lo sviluppo  dell'ingegno,  e  difficilmente  un  sol
governo sarebbesi mostrato in  breve  tempo  piú  di  una  volta  propenso  alle
riforme, né avrebbero avuto luogo le varie vicende che le promossero. La forza è
il solo apparente vantaggio dell'unità; dico apparente, perocché  l'esercito  ed
il tesoro sono mezzi di cui  dispone  il  re,  non  già  la  nazione,  volti  ad
opprimerla e non già a difenderla: non  pegno  di  prosperità  ma  incentivo  a'
capricci di qualche despota avventuroso. Quale monarchia può reggere al paragone
del nostro splendido medioevo, co' suoi torreggianti edifizî, col suo Dante, col
suo Machiavelli, coi suoi guerrieri di ventura, e raggiungere in sí breve  tempo
quel grande sviluppo  dell'industria  e  del  commercio?  L'Italia  surse  dalla
barbarie, raggiunse l'apogeo della civiltà, decadde, ed allora le altre  nazioni
vennero ad attingere dalle sue ruine una scintilla di vita. Non prima dell'epoca
di Luigi XIV la Francia s'avvicinò a ciò ch'era stata l'Italia nel  XIV  secolo.
La storia di Francia sarà sempre la cronaca  d'una  corte  dissoluta;  e  quella
[d']Italia la storia di libere genti; l'una è l'immagine  de'  dispotici  imperi
asiatici, l'altra della libera Grecia. Perché tanta differenza? Perché  l'indole
svegliata degl'Italiani ed il loro spirito d'indipendenza non si prestò mai,  né
mai si presterà a seguire come stupido gregge  le  sorti  di  una  dinastia.  La
libertà, e non già la forza, potrà unificare l'Italia. Nelle  grandi  monarchie,
salvo la  capitale,  le  altre  provincie  languono  quasi  membra  inaridite  e
dogliose: esempio la Francia, ove la fazione che trionfa in Parigi dispone a suo
talento di trentaquattro milioni di Francesi. Minori assai sono i  nostri  mali,
divisi come siamo in tanti principati, che l'esser tutti sottoposti al  medesimo
tiranno. Passiamo ora a far paragonare fra la monarchia assoluta e lo  stato  di
conquista. Un paese governato dispoticamente subisce una  perenne  conquista.  I
principi non hanno patria, loro patria  è  il  mondo  che  si  parteggiano.  Ove
cercano le spose, ove gli amici? fra i connazionali forse? mai  no:  fra  questi
cercano sgherri e cortegiani; loro amici  sono  gli  altri  principi,  pronti  a
muovere le armi in loro difesa. Quale interesse possono avere  gli  Italiani  di
favorire una dinastia piuttosto che un'altra? il medesimo di un condannato a cui
fosse concesso di scegliere il carnefice.  Se  mai  siamo  destinati  ad  essere
tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del despota, i sostegni  del
dispotismo, siano stranieri. Ne verrà risparmiato il  dolore  di  veder  rivolti
[contro] noi stessi i nostri concittadini: ed essendo maggiore il  distacco  fra
il governo ed il popolo, piú sentito sarà l'odio,  piú  pronta  e  terribile  la
vendetta. Non è forse piú onorevole pe' Romani che il papa debba sostenersi  per
forza d'armi straniere che se lo fosse da armi nazionali? Non sarebbe stato, per
la Francia,  meno  vergognoso  il  sottostare  ad  una  conquista,  che  vedersi
oppressa, umiliata, venduta, da  Francesi  stessi?  Si  direbbe  disgraziata  la
Francia, ma non corrotta. La conquista può essere l'effetto  di  una  momentanea
prepotenza di forza, né dura  se  lo  spirito  nazionale  esiste.  La  tirannide
domestica, per contro, sorge dalle viscere stesse  della  Nazione,  e  vi  tiene
profondate e sparse le barbe. In una parola,  quando  i  tempi  son  maturi  per
libertà, che un despota scacci un altro despota o si sostituisca alla  conquista
straniera, il popolo, senza nulla guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti  i
mali della guerra. Col dispotismo non v'è nazionalità, qualunque lingua parli il
tiranno,  qualunque  sia  il  luogo  ove  ebbe   i   natali.   Della   monarchia
costituzionale, dirò brevemente, non perché dopo il detto sia necessario, ma  ad
evitare l'accusa d'averne taciuto ad arte. Tal forma di governo è assurda  altro
non è che un'ipocrita tirannide. Il principe, capo  delle  armate,  padrone  del
tesoro, distributore di tutte le cariche ed onori dello Stato,  negoziatore  con
le  Potenze  straniere,  sorgente  di  tutte  le  grazie,  solo  inviolabile  ed
irresponsabile di qualunque atto, mentre non havvene  alcuno  che  non  sia  sua
emanazione e sua volontà. Adunque, gli attributi,  la  forza,  i  privilegî  del
principe sono i medesimi che nella monarchia assoluta; quali  sono  incontro  ad
essi le guarentigie del popolo? Un patto,  ovvero  il  giuramento  del  principe
stesso, ed un congresso, che il governo, fonte di  tutti  i  favori,  facilmente
rendesi ligio. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa istituzione è un
accrescimento di forza al governo, e non già una difesa del popolo. I suoi  capi
sono a scelta del re, e sarà perciò facilissimo, se non  d'avvalersi  dell'opera
di questi armati, paralizzare  almeno  la  loro  azione,  perocché,  essi,  loro
malgrado, subiranno, quantunque leggermente, l'influenza dell'autorità de'  loro
capi, e moltissimi cittadini, che in  qualche  avvenimento  prenderebbero  parte
attivissima, se ne astengono, se guardie nazionali. Inoltre, l'inutile  servizio
ad essa imposto è, ai piú, di gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa
l'indole e  condizione  dell'individuo,  ai  vantaggi  che  esso  ottiene  dalle
franchigie accordate dal governo. Dalla sola volontà del re dipende  l'esistenza
di un tal governo, quindi è stabile per  quanto  può  esserlo  la  volontà  d'un
individuo, che un matrimonio, il credito di  un  favorito,  la  paura,  o  altro
impreveduto avvenimento, cangia. Si attengono i ministri alle forme,  perché  da
esse dipende il loro utile personale, la loro carica; ma se  credono  necessaria
una misura arbitraria, come ne' governi assoluti, e non altrimenti,  l'eseguono;
ne sparla il pubblico, ne scrivono i giornali, qualche deputato ne chiede  conto
a' ministri, e qui finiscono le opposizioni, a questo si riducono i diritti,  le
guarentigie del popolo. Credo inutile distendere piú oltre un tal  ragionamento,
non parendomi necessario addurre ragioni, quando  sonovi  i  fatti  che  parlano
chiaramente. La storia delle monarchie costituzionali  è  contemporanea,  ricca,
notissima: la Francia, dopo essersi dibattuta per  ventuno  anni  sotto  un  tal
governo (tale eziandio dovendo considerarsi l'ultima  sedicente  repubblica),  è
ritornata al puro dispotismo; nella Spagna  son  corsi,  infruttuosi,  fiumi  di
sangue; e moltissime costituzioni, nell'anno '48, le abbiam vedute soffocate  in
fasce  da'  principi  medesimi  che  le  avevano  concesse  e  giurate.  Non   è
l'Inghilterra eccezione a questa regola generale; le sue grandiose apparenze non
fanno che nascondere le cancrenose piaghe di quella società. Ora che scrivo,  il
governo inglese è una piramide, alla cui cima pochi sessagenarî si  ripartiscono
le cariche dello Stato; piú sotto un  congresso  parteggiato,  non  da  principî
politici, ma dal credito personale di  quelle  reliquie;  quindi  gli  elettori,
commercianti ed industriali, che mercanteggiano, eziandio, il  loro  voto;  alla
base infine una plebe ignorante e misera oltre misura. Se meno che altrove hanno
luogo nell'Inghilterra gli arbitrî del governo, ciò dipende dall'indole pacifica
di quel popolo, dalle tradizioni,  da  alcune  leggi  che  l'avvicinano  ad  una
repubblica  aristocratica  piú  che  ad  una  monarchia.  Inoltre  la  monarchia
costituzionale è corruttrice per eccellenza;  è  un  armistizio  segnato  fra  i
principi ed  i  monopolisti  in  danno  dell'onestà.  Il  dispotismo  non  cerca
l'appoggio della pubblica opinione; la nazione soffre e tace, ma  non  mentisce;
il governo costituzionale ha bisogno del plauso e dell'approvazione di pochi per
opprimere i molti, li compra; e l'approvazione e le lodi si  trasformano,  sotto
tal governo, in merci. Di quinci, l'ignobile e puerile schiera  de'  soddisfatti
ad ogni costo, che si atteggiano, parlano, scrivono  (lodando  sempre)  come  se
fossero  davvero  liberi  cittadini  e  la  loro  opinione  avesse  peso   nelle
determinazioni governative. Vantano  i  loro  dritti  e  la  loro  libertà,  che
riducesi al dritto ed alla libertà di applaudire al governo. Tra costoro, quelli
che non son venduti materialmente rassomigliano a quei fanciulli  i  quali,  con
elmo di carta, spada di legno, credono rappresentare  Scipione  o  Marcello.  Il
despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l'oro, quindi appena  il
reggimento d'uno  Stato  d'assoluto  cangiasi  in  costituzionale,  le  gravezze
crescono  in  modo   esorbitante.   Il   dispotismo   incatena   i   corpi,   il
costituzionalismo perverte il  morale;  quello  comprime  l'elatere  dell'animo,
questi lo  logora,  lo  distrugge,  ed  abitua  il  cittadino  ad  una  continua
transazione, a quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e da essa si  è
sparso sull'Europa intera.  Sotto  nome  di  libertà,  favorito  e  protetto  il
monopolio,  e  quindi  il  proletario  abbandonato   affatto   all'avidità   de'
monopolisti  ed  incettatori.  La  politica  esteriore,  codarda  ed   ipocrita,
dovendosi tutelare gl'interessi di una dinastia, facendo le viste di  propugnare
i  dritti  della  Nazione.  Conchiudo,  monopolisti,  dottrinarî,   giornalisti,
editori... vantaggiano  col  reggimento  costituzionale,  mentre  le  sorti  de'
proprietari e quelle del minuto popolo peggiorano.  Sovente  una  tal  forma  di
governo è d'impaccio ad un principe, od un ministro riformatore;  se  gli  stati
napoletani avessero avuto uno statuto al tempo in cui Tanucci ne resse le sorti,
probabilmente a questo ministro sarebbe riuscito impossibile  attuare  le  tante
riforme. Questo governo ermafrodito impaccia un  principe  che  voglia  far  del
bene, ma non frena le niquizie di un despota. Parmi di aver dimostrato che,  sia
l'Italia divisa in  varî  principati,  sia  riunita  sotto  una  sola  monarchia
dispotica o costituzionale, la nazionalità italiana  non  esisterà  per  questo;
l'Italia sarà feudo di varî principotti, o di un solo, e gl'Italiani  non  altro
che vassalli. Ma voglio supporre erronee le ragioni esposte, e concedere che  la
nazionalità esiste ogni qualvolta le dinastie, o  la  dinastia  regnante,  siano
indigene, e farmi a studiare sui mezzi e le probabilità di scacciare i stranieri
dal suolo italiano, e francare il  paese  da  ogni  loro  ascendente.  Autorità,
tradizioni e forza sono i  principî  su  cui  son  costituiti  tutti  i  governi
d'Europa, la sola differenza che passa fra loro dipende dalle diverse gradazioni
con cui la  libertà  individuale  accordasi  con  essi,  perciò  nella  sustanza
differenza  non  v'è.  Cotesti  principî  son  già   in   discredito;   libertà,
nazionalità, diritto sorgono ad  osteggiarli;  di  quinci  la  lega  dell'Europa
intera contro le nuove idee. I governi occidentali, piú del nord  temono  queste
idee, e quindi piú immediatamente interessati ad osteggiare  ogni  rivolgimento;
né questa triade rivoluzionaria può essere mutilata in modo alcuno; sconvolte le
passioni popolari, è impossibile arrestare il torrente ed  egli  è  assurdo  per
parte nostra il pretendere che si facessero a combattere, per giovare altrui,  i
principî su cui si basano. Può mai suscitare la rivoluzione chi la teme  piú  di
qualunque altro nemico? Potranno esservi momenti, come è  accaduto,  in  cui  le
potenze occidentali, per loro mire particolari, facessero le viste di proteggere
i rivolgimenti popolari contro la prepotenza del nord,  ma  appena  ottenuto  il
loro intento, s'unirebbero co' nostri  nemici  per  opprimerci,  spezzare,  dopo
essersene servito, un pernicioso strumento e punire come  delitto  di  maestà  i
fatti da loro promossi e le speranze che han fatto  sorgere.  Se  l'Austria  che
francamente ci osteggia merita l'odio nostro, Francia ed Inghilterra (e  parlasi
qui del governo, non già del popolo) meritano odio e  disprezzo  perché  nemiche
occulte. Alí Tébélen, diceva ai Greci: "Non contate  che  su  voi  soli:  Russi,
Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal momento che sapranno  che  volete
essere un popolo, non perdete mai di veduta questa importante verità". Ed egli è
cosa naturale  che  la  sola  ragione  d'impedire  che  un  altro  Stato,  dalla
condizione di vassallo, venisse a sedere accanto a loro ne'  congressi  europei,
sarebbe bastante  per  far  volgere  in  noi  tutte  le  loro  armi.  Dunque  il
risorgimento italiano altro non potrà essere che la vittoria delle  nostre  armi
sull'Europa de' re. In  qual  modo  compiere  una  tanta  impresa?  Quali  mezzi
posseggono i principi italiani per  combattere  l'Europa  intera  è  quello  che
verremo ora studiando. Il primitivo e naturale concetto è una lega dei  principi
italiani contro l'Austria, ma essi le debbono due volte il trono; sin dal 1815 è
l'Austria che timoneggia la loro politica, che protegge i deboli  dall'ambizione
de' forti, e tutti dalla rivoluzione. Quale utile avrebbero  essi  di  cacciarla
dall'Italia, privandosi  cosí  del  piú  saldo  sostegno  de'  loro  troni?  Del
Lombardo-Veneto dovrebbero creare uno Stato  indipendente  o  spartirselo,  cose
entrambe di somma difficoltà ed imbarazzo. Il supporre  che  tutti  cooperassero
all'ingrandimento d'un solo, è un assurdo inutile a  discuterlo,  che  il  senso
comune ed i fatti han dichiarato impossibile. Ma poniamo che i popoli con  mezzi
violenti e piú  stabili  che  nel  '48  costringessero  i  principi  a  scendere
nell'agone, quale speranza potrebbe porsi in una lega che porta con sé il  germe
della dissoluzione, il  mal  volere?  Concedasi  vinto  anche  questo  ostacolo,
restano sempre le discordie, il dubbiare, la poco energia  con  cui  operano  le
armi  collegate:  la  storia  registra  fatti  innumerevoli  che  ne  dimostrano
l'impotenza. L'Europa s'è collegata contro  Federico  II,  contro  l'Inghilterra
durante la guerra americana, contro la Francia durante la rivoluzione;  Federico
uscí  vittorioso  dalla  lotta,  l'Inghilterra  conservò   sempre   una   grande
superiorità sui nemici, fu la costanza degli americani e l'abilità di Washington
che la vinsero; i Francesi vinsero sempre, caddero per propria stanchezza e  non
già per virtú del nemico. Chi è solo ha il vantaggio incommensurabile dell'unità
di volontà e di comando. E furono leghe coteste in cui ogni collegato da sé solo
pareggiava, se non superava di forze, il comune avversario. Cosa sperare adunque
da quella di principi  italiani  di  cui  tutte  le  forze  messe  insieme  sono
inferiori alle austriache, e fra cui contasi il papa, cosmopolita, e  centro  di
dissoluzione e di discordie? Se l'Austria abbandonasse la sua abile  politica  e
minacciasse di voler conquistare d'un sol tratto l'Italia, sarebbe il solo  caso
di una lega sincera, ma durevole quanto il periglio. Le leghe fra i despoti  non
son mai cementate da mire comuni e durature,  l'indole  d'un  principe,  il  suo
capriccio, un matrimonio  cangia  la  politica  e  si  violano  i  patti.  Basta
promettere ad uno de' collegati vantaggi in preferenza degli altri per staccarlo
dalla lega, e forse da amico farlo nemico. La colleganza de' re contro i  popoli
è la sola possibile e permanente; essa esiste  di  fatto,  essendo  il  periglio
comune e durevole. Facciamoci ora a discorrere del  caso  in  cui  un  solo  de'
principi italiani voglia assumere l'impresa d'unificare  l'Italia,  numeriano  i
nemici; prima l'Austria, che tre o quattro disfatte  non  debellano,  mentre  le
perdita d'una battaglia prostra le forze  d'un  picciolo  Stato;  con  l'Austria
s'uniranno gli altri principi italiani facenti ogni sforzo per  salvare  i  loro
troni, ed il papa con essi, che oltre di chiamare l'Europa intera in sua difesa,
lancerebbe in campo la livida schiera de' clericali, con  le  armi  che  le  son
proprie, tradimento e raggiro. Armi efficacissime in quello sciame di cortigiani
di cui circondasi il trono, e che temono scapitare se il padrone vien  costretto
a spandere in circolo piú ampio i suoi favori. Non trattasi di un re che  caccia
i stranieri dai proprî Stati; ma di un picciolo Stato che  conquisti  e  debelli
Stati ad esso molto  superiori  di  forze.  A  contrappesare  tanti  nemici,  il
principe conquistatore si rivolgerà alle simpatie de' popoli italiani,  che,  in
un baleno, potrebbero rovesciare i troni, soffocare le  mene  de'  clericali,  e
schierarsi sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del popolo  in  ogni  Stato  non
basta ad ottenere l'unità di voleri e  di  sforzi  che  richiede  l'impresa.  Il
volontario  cangiamento  di  dinastia  è  per  se  medesimo  illogico,  chi  può
rispondere della virtú di una schiatta? In parità di potere la migliore dinastia
è sempre la regnante, e perché la piú affine, e perché il paese  non  sottogiace
all'invasione d'uomini nuovi ed ignoti. Allorché tali cangiamenti non  avvengono
per forza d'armi, sono tranelli di pochi imbrogliatori,  che  il  futuro  ed  il
presente bene della patria sacrificano a' vantaggi personali che  sperano  dalla
nuova corte. Arrogi, che nel  caso  di  cui  parliamo,  trattandosi  di  cessare
d'esser monarchia per diventar provincia di  monarchia,  maggiori  sarebbero  le
difficoltà. A tali unificazioni ripugnano i popoli, e piú che gli altri,  e  con
ragione, gl'Italiani.  Adunque  ogni  città,  ogni  Stato  imporrebbe  a  questo
principe  patti,  chiederebbe  tali  guarentigie  da  suscitare  in  esso  gravi
preoccupazioni; egli vedrebbe il trono de' suoi avi  abbandonato  in  balia  de'
mugghianti flutti de' popolari rivolgimenti, né potrebbero menare a fine  guerra
lunga e terribile.  Suppongasi  ora  cotesti  ostacoli  rimossi,  ed  il  popolo
italiano, con illimitata fiducia, abbandonarsi all'arbitrio di questo  principe,
e che niun partito, niun uomo sorga a propugnare idee  contrarie  o  a  spargere
diffidenza. In tale ipotesi, impossibile a  verificarsi,  esaminiamo  se  questo
principe potrà osteggiare e vincere l'intera Europa. Quanti ostacoli e di  sommo
rilievo non si opporrebbero al rapido  andamento  dell'impresa?  delle  tasse  e
della coscrizione, due  muscoli  della  guerra,  per  mancanza  d'ordinamento  e
d'unità, per diversità di leggi, d'usi, di tradizioni, sarebbe quasi impossibile
ad avvalersi. L'Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo stesso;  e  son
miracoli  questi  che  fanno  le  monarchie?  Sperasi   forse   nell'esaltazione
universale? essa, senza dubbio alcuno, è arma terribile contro il nemico, spiana
nell'interno ogni ostacolo, tien luogo di leggi e di  magistrati,  ma  potrà  un
principe avvalersene senza tema di rivolgerne in se medesimo la punta? I  liberi
e popolari oratori che suscitano le passioni; le promesse  e  le  speranze  d'un
migliore avvenire; schiusa la via a brillanti e rapide carriere; il magico  nome
di libertà che agita gli animi e li  sospinge  in  cerca  di  moto  e  d'azione;
l'amore che  tutti  sentono  per  la  cosa  pubblica,  perché  a  tutti  è  dato
liberamente parlarne,  farà  correre  a  torme  gli  uomini  alle  bandiere,  ed
entreranno nel pubblico tesoro le sustanze de' privati.  Ma  potrà  un  principe
avvalersi di questi mezzi? ordinerà invano ai suoi  agenti  di  far  suonare  le
parole di patria e libertà: il suono sarà fioco, il senso oscuro nella bocca  di
un cortegiano; unite con le lodi della magnanimità del principe  formeranno  una
strana e discorde mistura. Gli uomini che fra l'universale  esaltazione  corrono
alla pugna non possono che esser prodi: come sfuggire, se codardi, alla pubblica
esecrazione? La libertà, facendo d'ogni cittadino un  censore  del  governo,  ne
forma eziandio un sostegno. È  cosa  notissima  come  erano  onorati  presso  le
antiche repubbliche que' cittadini che si facevano  a  scoprire  e  rivelare  le
trame dannose allo Stato; e fra i moderni stessi, non appena  vien  adottato  il
reggimento a  popolo,  ogni  cittadino  non  dubita  farsi  il  persecutore  de'
contumaci, opera vilissima in  una  monarchia.  La  repubblica,  non  escludendo
nessuno dal sindacato, ed ogni cittadino  avendo  il  diritto  di  censurare  la
condotta  del  generale,  non  esiterà  a  denunziare  il  soldato  o  qualunque
ufficiale; e la stampa, la libera parola ne' circoli e nelle piazze, gli offrirà
il mezzo come farlo dignitosamente ed eziandio acquistarne fama. Per  contro  un
severo e pubblico censore trasformasi sotto il principato in un  vile  delatore:
il silenzio è imposto, o almeno la parola limitata; è inviolabile il principe, e
non è ragionevole, dicono i monarchici, trovare difetto d'ingegno, di carattere,
di patriottismo negli uomini che il principe chiama a reggere lo Stato.  Adunque
la censura non colpirebbe  efficacemente  che  il  povero  gregario  e  dovrebbe
esporsi a voce bassa nelle anticamere delle EE. LL.; quindi, comunque rivolta al
bene del paese, diverrebbe atto obbliquo e  degradante.  Inoltre  è  natura  dei
cuori generosi, il non sentir simpatia pei re o altro  potere  che  s'impone  al
paese, e sotto tali reggimenti i refrattarî trovano protezione e compatimento, e
non già riprovazione: questa è una delle tante cause per cui gli eserciti  regî,
ad onta di pene rigorissime, non son mai saldi come le schiere repubblicane.  Né
qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un popolo libero.
È istituzione fra questi il fare abilità al valore ed all'ingegno  di  palesarsi
ed  aspirare  a  balzi  ai  primi  onori,  di  quinci,  l'universale  operosità,
l'ambizione, madre d'eroi. Un generale d'esercito, avido  di  conservare  l'aura
popolare, stimato dalla sferza  d'una  stampa  libera  e  severa,  sollecito  di
soddisfare alla pubblica aspettazione ed impedire  che  un  rivale,  con  arditi
disegni, lo soppianti,  precipitasi  in  quelle  audacissime  imprese  che  sono
l'impeto di un popolo corrente verso la libertà. Nei regî eserciti è ben diverso
il modo di governarsi: il campo della scelta angustiato fra  un  cerchiolino  di
favoriti; il duce supremo contento del favore del re, scudo e difesa sicurissima
a qualunque errore; un ciondolo inviato dai penetrali  della  reggia,  segno  di
schiavitú piú che d'onore, tenuto in maggior conto che la pubblica opinione.  Da
queste  varie  cagioni  risulta  la   paralisi,   il   dubbiare   continuo,   il
temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine
imprese, disastri, o patti vergognosi. Ne' rivolgimenti popolari, egli  è  vero,
che accanto agli eroi si veggono codardi ed impostori, ed  il  disordine  spesso
accompagna le grandi imprese, ma non perciò vien turbato il rapido  corso  degli
avvenimenti.  Le  rivoluzioni  son  come  le  onde  d'un  rapido  torrente  che,
quantunque torbide della mota sollevata dal fondo, non  s'arrestano  perciò,  né
cessano di sgombrare con fremito gli ostacoli che  contrastano  al  loro  corso.
Appena un principe, o un potere qualunque sorge a reggere il movimento, e  dice:
farò io,. immediatamente ogni cittadino diviene  d'attore  spettatore,  l'impeto
della rivoluzione s'ammorza. Suppongasi che dall'ignobile  schiera  de'  moderni
cortegiani, da quella torba di generali cresciuti fra le pedantesche  discipline
de' quartieri, sorga, come dalla brillante nobiltà del medioevo, non  serva,  ma
partecipe de' splendori del trono, un Condé, un Turenna, un Montecuccoli... esso
non potrebbe menare a buon fine la guerra italiana, avvegnaché, dovendo, durante
la guerra, creare la nazione, gli farebbe d'uopo d'un potere piú che sovrano. La
sola libertà  può  risolvere  il  complicato  problema:  abrogando  ogni  legge,
dichiarando libero ed indipendente ogni Comune, ogni cittadino, si  spezzano  le
pastoie domestiche, le  differenze,  i  limiti  de'  vari  Stati  spariscono,  e
dall'uguaglianza l'unità risulta di fatto; e cosí non sarà l'effetto d'un  nuovo
patto imposto agl'Italiani, ma la naturale conseguenza dell'abolizione  di  ogni
patto. Reso libero ed indipendente, ogni Comune avrà il solo  obbligo,  che  gli
viene  imposto  dalla  necessità   di   conservare   l'acquistata   libertà   ed
indipendenza, di concorrere con tutti i  suoi  mezzi  a  francare  l'Italia  dai
nemici esterni. Una Convenzione italiana ripartirà sui diversi Comuni, ma  senza
ingerirsi della loro interna  amministrazione,  proporzionalmente,  le  gravezze
volte ad alimentar la guerra, e l'esercito, eleggendosi, come è suo  diritto,  i
capi, sarà l'esecutore de' voleri della nazione: sgomberare l'Italia dalle  Alpi
al mare da ogni elemento straniero e tirannico. Potrà mai un principe operare in
tal modo? Egli, non potendo accordare illimitata libertà,  o  dovrà  bandire  in
Italia nuove leggi, o pretendere che tutti si uniformassero durante la guerra  a
quelle  di  uno  Stato,  cose  entrambe  impossibili  ad  effettuarsi.  In  ogni
provincia, in ogni Stato giungeranno i regî  commissarî,  ed  il  malcontento  o
l'indifferenza li accompagneranno come l'ombra i corpi. L'Italia non subirà  mai
il giogo d'un potere che abbia il benché minimo  carattere  d'uno  de'  presenti
Stati  in  cui  essa  dividesi:  tutto  ciò  ch'è   esclusivamente   piemontese,
napoletano, romano... non è italiano. Un  principe,  durante  qualche  disastro,
essendo puerilità supporre una sequela non interrotta di vittorie, può  scendere
a patti per salvare il  trono  degli  avi;  e  però  all'Italia  fa  d'uopo  una
rappresentanza  nazionale,  per  cui  non  siavi  altro  utile  se  non   quello
dell'intera Italia, e che dirà: tutto o nulla. Se vi fosse una città  che  venga
dall'esercito considerata come capitale, sarà lo scoglio contro cui romperebbero
i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò a difendere Torino, i veneziani Venezia,  i
romani Roma... tutti furono vinti, perché angustiarono l'idea  italiana  fra  le
mura d'una capitale; durante la guerra l'Italia non dovrà averne  altra  che  il
punto strategico determinato dal corso delle operazioni  militari.  Un  principe
non può, con animo sgombero da  sospetti,  armare  l'intero  popolo  italiano  e
trasformarlo in un esercito, e per tema di non poterlo padroneggiare e perché la
natura del  suo  governo  nol  comporta;  il  principe  dovrà  guerreggiare  con
l'esercito, e la nostra è guerra da combattersi  dall'intera  nazione.  Solo  un
Alessandro, un Cesare, un Napoleone... potrebbe menare a compimento  una  simile
impresa, ma questi grandi, sempre o quasi sempre, sorgono dalle rivoluzioni;  ed
inoltre la monarchia italiana, fondata da un Alessandro, facendo cedere il  fato
alla prepotenza del suo genio, sfascerebbesi alla sua morte, come si sfasciarono
tutti gl'imperi fondati per conquista. I vantaggi che può offrire  la  monarchia
non son tali da far dimenticare  agli  Italiani  le  loro  splendide  tradizioni
municipali; le rivalità e l'odio fra i diversi popoli con tal reggimento non  si
spengono, ma crescono, e le detronizzate famiglie non mancherebbero usufruttarle
in loro favore; la libertà assoluta  e  l'uguaglianza  può  solo  cancellare  le
rimembranze del passato. I re, che da disgregate baronie formarono regni, sonovi
riusciti distruggendo  od  assorbendo  nella  corte  le  famiglie  baronali,  ed
unificando i popoli con abolire il vassallaggio; ma i tempi son mutati, ed assai
diverso è il caso in Italia: la piú larga promessa che farà un  principe  è  uno
statuto, cosa sia il sappiamo; promessa che non tarderebbero, e piú  largamente,
a fare i suoi rivali, ed in parità di  circostanze  ognuno  preferirà  di  esser
monarchia piuttosto che provincia di monarchia. In una parola, la  storia  e  la
ragione han dimostrato abbastanza che la forza non fonda Nazioni,  ma  conquista
schiavi.  Finalmente,  se  la  sola  guerra  di   popolo,   e   guerra   affatto
rivoluzionaria, può solo riscattare l'Italia dal suo servaggio,  non  v'è  luogo
piú a dubbi, se debbasi o pur no lasciar campo alla monarchia  di  mischiarvisi.
Una rappresentanza popolare, che sorgesse in uno degli Stati  in  cui  è  divisa
l'Italia, non potrebbe né dovrebbe porsi d'accordo, per  cacciar  lo  straniero,
con niuna delle monarchie italiane; troppo diverse sarebbero i mandati  dei  due
poteri, troppo diverse le mire, per sortirne un buon effetto. Il  principe,  piú
che all'indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio  trono,
che il  reggimento  repubblicano,  ricco  in  Italia  di  splendide  tradizioni,
minaccerebbe  di  ruina.  Un  potere  nazionale,  per  contro,  col  mandato  di
sgomberare l'Italia di quanto osta alla sua nazionalità e libertà,  dovrebbe  in
ogni modo impedire  che  il  principato  acquistasse  credito  e  potere.  L'uno
direbbe: meglio io re e l'Italia schiava, che questa libera ed io esule. L'altro
non dovrebbe riconoscere altri limiti che le Alpi e il  mare;  altro  patto  che
l'assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo ognuno la propria politica,
o per volere della nazione, s'accordassero,  quale  potrebbe  essere  il  patto?
interrogare il paese a guerra vinta, lo stesso del '48; né pare che  lo  spirito
di  conciliazione  potrebbesi  spingere  piú  oltre  di  quello  che  lo  fu  in
quell'epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No;  l'atto  della
fusione il ruppe; e cosí avverrebbe sempre, da' regî o da' repubblicani  (a  chi
prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da  supporsi  che  un  re,
eziandio nella certezza di essere eletto, rinuncierebbe al diritto  divino,  per
surrogargli quello del popolo? Dio  non  può  interrogarsi,  il  popolo  sempre;
concedere al popolo il diritto di fare un re, è, vogliasi o no,  concedergli  il
dritto di disfarlo. Ma concediamo tutto possibile, la colleganza, il  patto,  la
fede al patto; a chi verrebbe affidata la suprema  direzione  della  guerra?  Ai
generali regî, o ai  republicani?  Permetterebbero  questi  che  le  loro  forze
venissero logorate e distrutte dall'indubitata incapacità e dalla dubbia fede di
quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito a generali d'un partito avverso?
Egli è facile in simili momenti gridare  concordia,  arrestandosi  alle  fallaci
apparenze delle cose, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si
veggono sorgere  gli  ostacoli  che  generano  disordine,  codardia,  illusioni,
disfatta. Finalmente, le speranze di vedere ingranditi i  possedimenti  di  casa
Savoia con l'aiuto delle Potenze occidentali; non  essendo  se  non  calcoli  ed
utili parziali, o tutto al piú di una provincia d'Italia, non entrano nel quadro
di questo libro; nondimeno ne parleremo di volo. Un forte regno boreale, se  non
è vassallo della Francia, è dannoso per essa. La Francia, ogni  qualvolta  muove
guerra all'Austria, deve, per ragione strategica, dirigere i suoi  sforzi  nella
vallata del Po, mentre all'Austria, per contro, conviene tenersi in questa sulle
difese e schierare sul Danubio l'esercito maggiore;  quindi  alla  prima  rileva
sommamente che in Italia,  fra  esse  e  l'Austria,  non  s'intramettesse  altra
Potenza, capace, se non d'altro, di mantenere la propria neutralità. Il supporre
questo regno sempre ligio a Francia è puerile concetto che non merita  risposta.
Una volta costituito, esso avrebbe propria autonomia, proprî interessi, i  quali
attese le frontiere  e  la  natura  de'  prodotti,  l'avvicinerebbero  piú  alla
Germania che alla Francia. E questo regno  italiano  non  potrebbe  giammai  dar
norma (come asseriscono i suoi propugnatori) alla politica  degli  altri  Stati:
Napoli, Toscana, il papa, per non  subirne  la  preponderanza,  si  getterebbero
nelle braccia del Russo, dell'Austriaco, del Francese:  negarlo  è  disconoscere
l'istoria de' Longobardi, degli Angioini, dei Visconti, di Venezia. Mai i  Stati
italiani han voluto subire un protettorato italiano, perché natura de'  principi
come de' popoli è, allorché son costretti di avere un protettore,  di  scegliere
sempre il piú potente ed il piú lontano. Quindi questa  utopia,  che  sperano  o
fingono di sperare i cortegiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco, che i solo
Lombardo-Veneti. Fo fine a questo  ragionamento,  persuaso  di  aver  dimostrato
abbastanza che la nazionalità cercata ad una lega di principi, ad una monarchia,
è un fantasma, una illusione, non è nazionalità; né potrà mai  attuarsi,  perché
leghe principesche, o principi, non  possono  né  conquistarla  né  conservarla.
L'Italia, per vincere i suoi numerosi e potenti  nemici,  bisogna  che  combatta
svincolata dalle pastoie domestiche: la guerra  del  risorgimento  gli  Italiani
debbono guerreggiarla da uomini perfettamente liberi: richiedere all'esaltazione
le schiere, ed al bollor delle passioni popolati quei genî che mai  non  mancano
nelle rivoluzioni, come le folgori non mancano alla tempesta; il credere che  la
libertà debba seguire l'indipendenza è funestissimo errore, è quel desso che nel
'48 ci ricacciò nella schiavitú.


VI. Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di nazionalità,
godere di libertà. La piú parte di costoro son dotti, pei quali, a loro credere,
è patria il mondo; e cotesta vanità può, in parte, adonestare  il  loro  asserto
che, assurdo quanto quello di nazionalità senza libertà, male adeguerebbesi  con
la loro dottrina. L'esser  privi  di  nazionalità  vuol  dire  che  un  elemento
straniero debba, nella nostra patria, preponderare, ed in tal caso è  indubitato
che la libertà individuale  verrà  lesa.  L'Italia,  o  parte  di  essa,  dicono
costoro, potrà formar parte di un'altra nazione libera,  e  godere  di  una  tal
libertà. In primo luogo, come l'utile, le attitudini,  le  inclinazioni  non  si
riscontrano mai identiche fra due individui, del pari avviene delle nazioni.  Un
Italiano non sarà mai né Francese, né Tedesco senza  una  forza  estrinseca  che
violenti il suo naturale. È questa una verità sentita, un  assioma  che  non  ha
bisogno di dimostrazioni; una provincia italiana, o l'intera Italia, che facesse
parte di liberissimo Impero, non potrebbe perciò dirsi libera; gli Italiani  non
sarebbero che schiavi beati,  (per  quanto  possa  esservi  beatitudine  fra  le
catene), ma non altro che schiavi. Se poi  l'Italia,  o  parte  di  essa,  fosse
confederata con altra nazione, in tal caso sarebbe libera se unita da volontario
patto ed allora di fatto esisterebbe la nazionalità; ma se una ragione qualunque
imponesse questo patto, nazionalità e libertà sparirebbero entrambe. Tali furono
i Cisalpini, vergogna maggiore del bastone tedesco. Tra i Cisalpini ed i moderni
Lombardo-Veneti havvi la differenza medesima che fra un vile  cortigiano  ed  un
fiero e dignitoso cittadino condannato per delitto di  maestà.  Se  la  semplice
centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come essa può  mai  rimanere
intera sotto l'attrito che eserciterebbe su noi un  popolo  straniero?  eziandio
riducendo il tutto alla sola libertà di stampa, pure i scrittori che si  faranno
a propugnare  l'utile  della  propria  nazione,  giungeranno  ad  un  punto  che
intaccheranno il protettore, e la forza li farà tacere, se l'oro non giungerà  a
comprarli. Facciamoci ora a considerare la libertà, nel suo  vero  aspetto,  nel
suo vero significato: dritto di eleggersi i proprî maestrati, di esser giudicati
da' proprî conterranei; di esser legislatori di se medesimi; di  non  sottostare
ad alcuna determinazione, senza che venga ascoltato il proprio parere, o di  chi
eleggesi quale rappresentante... Possono tali condizioni verificarsi  senza  una
recisa nazionalità? Oltrecché, come un individuo per esistere  deve  sentire  il
proprio essere,  la  propria  sensibilità,  ed  avere  un  pensiero  tutto  suo,
attributi che non solo non possono venirgli comunicati, ma vengono  distrutti  o
mutilati dalla benché minima influenza altrui, del pari ogni influenza straniera
non potrà mai favorire, ma ritardare il nostro risorgimento. Sperano  altri  che
un popolo straniero ci conquisti per poi donarci  libertà,  ed  è  questa  delle
utopie la piú assurda e codarda ad un tempo stesso.  Il  forte  troverà  maggior
vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole; senza che, la
libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non
è libera una nazione convinta, ch'altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà;
la piena fiducia nelle proprie forze è una  condizione  indispensabile  (fiducia
che solo dai fatti può emergere), quindi la libertà deve non solo  conquistarsi,
ma   conquistarsi   senza   aiuti.   Se   gl'invasori   d'Italia,   ritirandosi,
l'abbandonassero  a  se  medesima,  non  per  questo  l'Italia  sarebbe  libera:
senz'alcuna fiducia, o almeno dubitando del suo valore, ad  ogni  incontro,  non
potrebbe che trattare umilmente con l'antico  padrone  temendo  che  questi  gli
rapisse il dono concesso, ed è  spettacolo  piú  della  schiavitú  umiliante  lo
scorgere una nazione che vantasi  di  essere  libera  subire  le  violenze  d'un
prepotente vicino. L'Italia  per  essere  libera  deve  essere  indipendente,  e
libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole: l'Italia
deve fare da sé; e tanto piú salda sarà la sua futura  libertà  per  quanto  piú
numerosi saranno i debellati  nemici,  e  piú  superbi  i  monumenti  di  gloria
meritati per conquistarla. Dicono i dottrinarî, i  quali  temono  che  i  marosi
della rivoluzione non  li  sommerga  insieme  alle  lor  dottrine:  che  bisogna
educarsi al vivere libero: ottenerlo per gradi e non per salti, ed accettare una
mezzana libertà come sgabello  all'intera,  come  pegno  di  migliore  avvenire.
Strano ed assurdo argomento. La brama di libertà  è  sentimento,  è  aspirazione
naturale dell'uomo, e non già dottrina, ed i ripetuti sforzi del dispotismo  non
bastano a distruggerla. L'uomo sottoggiace all'altrui dipendenza, non già perché
mancasse in lui il  desiderio  di  francarsene  ed  il  convincimento  di  usare
utilmente di sua libertà, ma perché teme maggiore tirannia, ed altri  mali,  che
la propria immaginazione, guasta dal desiderio della quiete, gli figura; ed è al
bisogno, al desiderio di conservare parte di sua libertà, ch'egli  sacrifica  la
rimanente. Allo schiavo è forza che sia educato secondo i voleri del padrone; ma
per vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi  della  propria  natura,  né
havvi necessità d'educazione. L'uomo appena sentesi soverchiamente  gravato  dal
peso della tirannide e scorge la probabilità di rovesciarla, senza piú, insorge;
ed  i  progressi  della  scienza,  lo  sviluppo  della  ragione,  cosa   valgono
all'insurrezione ed alla battaglia? quali dottrine sospinsero gli Svizzeri  alle
armi, o inspirarono la guerra  degli  Olandesi,  degli  Americani?  quali  dotti
contava la barbera Grecia allorché dava l'esempio del piú eroico coraggio e  del
piú sentito patriottismo? Ghermita la vittoria, il soccorso della scienza sembra
indispensabile;  essa  può,  svolgendo  i  tesori  dall'esperienza   accumolati,
additare i mezzi come confermare le conquiste. Ma questi vantaggi, il  fatto  li
dimostra  piú  effimeri  che  reali,  perciocché  non  accettano  le  nazioni  i
suggerimenti della scienza, ed il volgo di niun progresso è capace  se  non  v'è
balzato dall'imperiosa necessità, né havvi ragionamento oltre il fatto che valga
a convincerlo; i mali sofferti, il bene conquistato, sono i soli  argomenti  che
fruttano. La discussione, le opinioni, i sistemi emergono dai mali che soffre la
società, e la dottrina, in politica, segue e non precede i fatti. Essa  dimostra
di quanta levatura sia il pensiero della nazione, ma  non  già  la  piú  o  meno
probabilità d'un rivolgimento. Una nazione senza  dottrina  sarà  come  un  uomo
semplice e di soverchia buona fede, che facilmente  cade  nell'inganno,  ma  non
mancherà per questo di forza, di coraggio, d'eroismo, e  dell'ardente  desiderio
di migliorare la propria condizione. E  può  eziandio  avvenire  che  un  popolo
dottissimo, imputridito nei vizî, abbandoni, non curante, il proprio destino  al
primo venuto. Né le nazioni si addottrinano e sortono dalla  loro  semplicità  a
furia di libri e di giornali, ma progrediscono attraverso  una  serie  di  fatti
terribili e sanguinosi. L'opinione la piú assurda è il supporre  che  una  mezza
libertà possa bel bello, e  senza  veruna  scossa,  menarci  all'intera,  mentre
cotesto vantato progresso legale  mena  dritto  alla  corruzione.  Facciamoci  a
sviluppare in tale asserto.  Le  condizioni  indispensabili  ad  un  popolo  per
conquistate una libertà duratura sono: lo sforzo per  rovesciare  la  tirannide,
determinato dai mali presenti; e per evitarli in avvenire  la  piena  conoscenza
della causa di  questi  mali,  ricercati  dalla  scienza.  Esaminiamo  la  mezza
libertà, quanto favorisca coteste cagioni determinanti e dirigenti. I reggimenti
moderati, per loro natura, nascondono  e  leniscono  i  mali  che,  non  essendo
abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere in noi  medesimi  lo  sguardo,  ci
sospingono alla ricerca dei mali  di  popoli  piú  infelici,  che  dalla  nostra
imaginazione esagerati, ci sembrano molto piú  di  quello  che  realmente  sono,
facendoci perciò  benedire  le  dorate  catene.  Il  morale  non  compresso,  ma
logorato, illanguidito, perde la sua elasticità, ed a  servi  beati  l'insorgere
riesce impossibile. Accettasi senza dolore la direzione, i nervi del pensiero  e
dell'imaginazione son tronchi affatto; metodicamente vengono i sudditi  condotti
a non pensare diversamente da quello che vogliono i governanti; si avvezzano per
mancanza di dolore  a  non  rimontare  all'origine  delle  cose,  di  quinci  la
mollezza. Per converso, afflizioni, dolori, ostacoli, l'isolamento stesso a  cui
costringe la tirannide, ritorcono il pensiero in se medesimo,  che  per  propria
conservazione  tenta  ogni  oggetto,  rendono  l'uomo  alacre  consideratore,  e
suscitando  le  passioni  s'accelera  la  reazione  e  sospingono  alla  realtà,
all'azione. La congiura del Rutli, che divampava con la battaglia  di  Morgarten
ed inaugurava la libertà svizzera, non avrebbe avuto  luogo  senza  l'avversione
che Alberto I d'Austria ebbe per  le  franchigie,  e  l'efferrata  tirannide  di
Gessler suo proconsole. Né l'Olanda, senza il S.  Uffizio  ed  il  duca  d'Alba,
sarebbesi francata dal terribile giogo sotto  cui  gemeva.  E  se  l'Inghilterra
avesse rispettato l'indipendenza amministrativa  delle  sue  colonie,  l'America
farebbe parte del suo Impero.  Avendo  dimostrato  come  i  reggimenti  moderati
allontanano le cagioni dell'insorgere, ci faremo a studiare  sino  a  che  punto
essi favoriscono lo sviluppo delle idee. Pochi, oggigiorno, sono i cultori delle
scienze economiche e politiche, la noncuranza che, generalmente, si  ha  per  la
cosa pubblica, l'utile individuale affatto staccato dall'universale, sono  cause
di cotesto male. Quei che se n'occupano non già per  farsi  ripetitori,  ma  per
trarre nuove conseguenze, scovrire nuove verità  ed  elevarsi  all'applicazione,
riscontrano nella società in cui vivono, non  solo  le  cagioni  determinanti  a
farlo, come è naturale, ma eziandio le istituzioni, i costumi di  essa  società,
prescrivono i limiti alle loro ricerche, a guisa  che  la  scienza  si  distende
secondo  tali  limiti  e  secondo  l'intensità  e  la  purezza   delle   cagioni
determinanti.  Fra  le  nazioni  ove  havvi  qualche  franchigia,   le   cagioni
determinanti sono numerosissime, ma volgono tali studî, non già all'esplorazione
dei mali, ma alla ricerca  del  bene;  oltreché,  soddisfatti  un  gran  numero,
pochissimi attaccano radicalmente il governo, e la  libertà  del  dire  da  esso
concessa, facendo discreditare presso il pubblico gli attacchi e gli attaccanti,
limitano il campo della critica: infatti, presso queste nazioni, il  frutto  che
si ottiene dalle migliaia di volumi che si pubblicano, da  tante  accademie,  da
tanti dotti e dottrinarî, riducesi a qualche microscopica  riforma  politica,  o
ritrovato economico,  in  apparenza  utile.  Gli  onori,  gli  stipendî  di  cui
largheggiano questi governi  coi  dotti,  sono  incentivo  a  tali  lavori  che,
mascherati da qualche umile osservazione, sono le  piú  sfrontate  apologie  del
presente. La tirannide, per converso, tutto interdice;  il  mistero  o  la  fuga
possono solamente salvare da' suoi artigli colui  che  ardisce  alzar  la  voce;
rarissime perciò le cause determinanti a scovrire le piaghe della nazione, ma se
sorgono, purissime e fortemente sentite, altre non ponno essere che  i  mali  da
cui è oppressa la società, e la nobile ambizione dell'aura popolare  comprata  a
caro prezzo. La moderazione di niuna  difesa  a  chi  osa;  l'opinione  pubblica
pronta a favorire colui il quale con piú ardire muove i  suoi  attacchi,  quindi
libero, franco, appassionato il dire. Per lunghi  anni  si  tace  in  uno  stato
dispotico, ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi, appariscono quegli
opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi sarà poca erudizione e sfoggio  di
dottrina, ma questa a che giova se non scende ai  fatti?  Conchiudiamo,  che  la
mezza libertà, le concessioni, non sono stato  di  transizione  per  giungere  a
francarsi da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui giovasi la forza per garentire
le sue usurpazioni; è uno stato non di scuola, ma di paralisi. Né qui  finiscono
i mali dei moderati reggimenti. I rivolgimenti di un  popolo  vissuto  sotto  un
duro dispotismo sono piú terribili, piú recisi e piú atti a  gettar  radici  che
quelli di uno Stato a metà libero. Quale differenza fra la  repubblica  francese
del '91 e quella del '48, l'una surta sulle ruine  d'un  lungo  regno  assoluto,
l'altra basata sul fango d'un moderato reggimento? Quella terrore dell'Europa  e
sola pagina onorevole della storia di quel popolo; questa oggetto di  scherno  e
disprezzo universale, e macchia indelebile  all'onore  della  nazione.  Inoltre,
istituzioni, caste, privilegî,  culti,  tutto  è  odiato  sotto  il  peso  della
tirannide, perché tutte armi volte ad opprimere la moltitudine, epperò tutte nei
rivolgimenti distrutte, quindi sgombero il cammino da ogni ostacolo. Invece  nei
Stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la rivoluzione da mille  impacci  è
arrestata o sviata dal suo corso.  Dottrinarî,  che  a  voi  convenga  la  mezza
libertà, che l'industria ed il commercio fiorisca alla sua  ombra,  concedo;  ma
non asserite che essa giovi al minuto popolo, e  che  ci  meni  ad  un  migliore
avvenire. L'uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza  per  giungere  alla
conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i quali garentiscono la
conquistata libertà; ma per francarsi dalla tirannide che l'opprime,  procede  a
salti, lo schiavo non smaglia lentamente le catene, ma le spezza.  Conchiudiamo:
la libertà non ammette restrizioni di sorta alcuna, né fa d'uopo d'educazione  e
di tirocinio per gustarla,  essa  è  sentimento  innato  nell'umana  natura;  le
franchigie concesse dai despoti nei momenti che  non  si  veggono  sicuri  della
vittoria, non sono che un narcotico somministrato al  popolo  per  addormentarlo
fra le lentate catene ed annebbiarne l'intelletto, e quindi  senza  nazionalità,
la libertà non può esistere. Ma oltre la nazionalità, essa  per  non  dirsi  una
menzogna, una derisione, richiede un'altra condizione, per molto tempo ignorata,
ora ad arte disconosciuta, l'uguaglianza. Egli è falso che  l'uomo  associandosi
co' suoi simili debba sacrificare parte di sua libertà. Questa può definirsi  il
libero esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, che vien  limitato  dal
mondo esteriore, da' bisogni, da' mezzi di soddisfarli. La società, mediante  la
sua forza collettiva, trasforma in mille guise il mondo  esteriore,  giovandosi,
con infiniti modi, delle forze  naturali  e  dei  loro  prodotti,  quindi  offre
all'uomo un campo sempre piú vasto per l'esercizio delle sue facoltà, accresce i
suoi bisogni, facilita i mezzi come soddisfarli, e la vita  dell'uomo  associato
deve necessariamente essere piú ricca di sensazioni di quella dell'uomo isolato,
ovvero quello goderà di una libertà maggiore che questo.  Proudhon  scrive:  "La
libertà di ciascuno, riscontra nella libertà altrui, non un limite, ma un aiuto;
l'uomo il piú libero è quello  che  ha  maggior  numero  di  rapporti  coi  suoi
simili". Quindi, se per un  individuo  o  per  una  classe  d'individui  non  si
verifichi tale verità, è forza conchiudere che  i  loro  rapporti  con  l'intera
società non sono equi, ma v'è indubitatamente ingiustizia. Se  da  un  uomo  non
richiedesi lavoro, mentre si costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi
privilegio per quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo  della  società.
Il solo lavoro, che ogni uomo senza distinzione alcuna deve  per  proprio  utile
compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano  ed  i  suoi  bisogni
richieggono; con questa legge, e non altra, tutti  gl'individui  componenti  una
società dovrebbero contribuire all'accrescimento del comune  prodotto.  Inoltre,
cotesta società, dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri,  senza
veruna eccezione, tutti  quei  mezzi  che  essa  possiede,  onde  facilitare  lo
sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali, e fargli abilità a riconoscere  le
proprie attitudini e scegliere il modo come impiegare le proprie forze, solo  in
tal caso dall'assoluta libertà d'ognuno risulterebbe massimo prodotto e  massima
felicità.  Ma  quanto  siamo  lungi  da  un  simile  stato!...  Come  provvedesi
all'educazione  del  proletariato?   in   un   modo   negativo,   costringendolo
dall'infanzia a continuato lavoro, che aggiunge alla mancanza dei mezzi,  quella
del tempo e delle forze.  E  sotto  qual  pena,  cotesta  numerosa  classe  vien
condannata all'ignoranza? la piú terribile, la morte per fame fra  l'abbondanza.
E mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà che la Natura  ha  concesse
al proletario, e lo sospinge suo malgrado sulla via faticosa ed  aspra  percorsa
dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà  cavarsi  frutto,  perché
ricco, avrà tempo e  mezzi  esuberanti  per  la  sua  educazione,  che  verranno
inutilmente sprecati. L'uguaglianza politica è derisione,  allorché  i  rapporti
sociali dividono i cittadini in due classi  distintissime,  l'una  condannata  a
perpetuo lavoro per miseramente vivere, l'altra destinata a  godersi  il  frutto
dei sudori di  quelli.  L'uguaglianza  politica  non  è  che  un  ritrovato  per
sgravarsi dell'obbligo di nutrire  i  schiavi,  per  privare  il  fanciullo,  il
vecchio, il malato d'assistenza; è un ritrovato per concedere al ricco, oltre  i
suoi diritti politici, la facoltà d'avvalersi di  quelli  dei  suoi  dipendenti.
Sonosi  sciolte  le  catene  de'  schiavi  recidendogli  i  garretti.  Una  tale
ingiustizia, che sacrifica a pochi i moltissimi  è,  eziandio,  danno  manifesto
all'intera società, perché riesce impossibile a' null'abbienti ingegnarsi, ed ai
troppo  facoltosi  manca  ogni  stimolo  per  farlo;   e   crescendo   cosí   la
disuguaglianza, corresi, come altrove dicemmo, al deperimento, alla dissoluzione
sociale. In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al  lavoro,
la libertà non esiste, la virtú è impossibile, il  misfatto  è  inevitabile:  la
fame e l'ignoranza, sua conseguenza  imediata,  rendono  la  plebe  sostegno  di
quelle medesime instituzioni, di que' pregiudizî da cui emerge la loro  miseria;
rivolgono la spada del cittadino contro i  cittadini  medesimi  a  difesa  d'una
tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero,  aguzza  il  pugnale
dell'assassino, prostituisce la donna. La società intera  viene  abbandonata  al
governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà,  sarà  sempre
quella di cotesti pochi, i  quali  ammolliti  dalle  ricchezze,  che  temono  di
perdere, sacrificheranno sempre l'onore, la dignità, l'utile universale ai  loro
ozî beati, e l'ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero  la  libera
espressione della loro volontà, distrugge affatto la nazionalità, espressa dalla
volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di  classi.  Conchiudiamo:
la libertà senza l'uguaglianza non esiste, e questa  e  quella  sono  condizioni
indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene, come  il  sole  la
luce ed il calorico.


VII.  Gl'Italiani  siamo  unitarî,  tali  furono  gli  antichi,  ed   una   tale
aspirazione, fra moderni, comincia da Dante. L'idea che nel 1814 ha cominciato a
farsi popolare, che ha progredito sempre, che s'è mostrata  dominante  in  tutti
gl'istanti di vita vissuti dal popolo italiano, è l'unità; ma gli  ostacoli  per
attuarla son piú che moltissimi. Un governo unico, pe' piú  liberali  emanazione
diretta del popolo, responsabile, e  revocabile,  e  per  tutti  poi,  energico,
compatto, distributore di cariche, premiatore del merito, è il concetto volgare.
Ma se  non  vogliamo  disconoscere  l'umana  natura,  sarà  facile  scovrire  le
conseguenze di una tal forma di governo.  L'uomo  o  gli  uomini  componenti  il
governo, non  potranno  spogliarsi  delle  loro  passioni,  rinunziare  a'  loro
concetti, abdicare  infine  alla  loro  individualità:  questa  pretesa  sarebbe
assurda e ridicola, chi il crede possibile non legga questo libro, io non scrivo
per esso. Eglino, come tutti gli uomini, vedranno le  cose  sotto  quell'aspetto
che le loro passioni le presentano,  ed  adattando  i  provvedimenti  alle  loro
convinzioni, opereranno coscienziosamente e faranno quanto ad un uomo è dato  di
fare; quindi i loro desiderî, i loro concetti prevarranno su quelli  dell'intera
nazione, ed avverrà precisamente che, volendo il  bene  pubblico,  conseguiranno
uno scopo affatto contrario, imperciocché i desiderî, i concetti, le passioni di
pochi non potranno essere quelli di tutti, la parte non può uguagliare al tutto.
Inoltre tal governo dovrà esser forte, quindi diverrà  immancabilmente  tiranno,
imponendo con la forza ciò che egli con fini rettissimi vuole;  e  la  tirannide
sarà piú dura per quanto maggiore sarà la forza  dell'ingegno  e  della  volontà
degli uomini prescelti al reggimento; in altri termini, per quanto migliore sarà
stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento  delle  elezioni,  poi
abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro che l'aura  popolare  menerà
al potere; i candidati saranno vari, quindi il popolo si scinderà in partiti  ed
avverrà quello ch'è sempre avvenuto, il partito prevalente  sarà  tirannico  con
gli altri, e questi schiavi ed in permanente cospirazione contro di esso,  e  le
continue lotte intestine roderanno le viscere della nazione, e sarà  impossibile
la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che forma la felicità e la
grandezza dei popoli; come nel medioevo, l'opera d'un partito verrà distrutta da
quello che lo soppianta. Questo scoglio contro cui  rompe,  immancabilmente,  la
democrazia, lo scansarono gli antichi popoli italiani, poi i Romani, piú tardi i
Veneziani, con l'istituzione del patriziato;  questo  potere  dava  a  tutta  la
macchina sociale un continuato ed uniforme impulso,  che  solo  può  condurre  a
grandi risultamenti. Adunque, democrazia ed unità cosí  concepite  conducono  al
governo dei partiti, e nazionalità e libertà  sono  nomi  che  servono  loro  di
maschera, di pretesto onde lacerare la patria, né qui finiscono i mali. L'unità,
facendo influire tutto ad un centro gli umori vitali della nazione, ne consegue,
come dicemmo nelle pagine precedenti, che il resto dell'Italia  deperirà,  quasi
membra inaridite e dogliose.


VIII. La federazione è concetto di pochi, ma di uomini di  svegliato  ingegno  e
solleciti di libertà; credono costoro, dividendo l'Italia in varî Stati  che  un
patto comune unisca nella politica esteriore, garantirsi dal dispotismo; ma  una
tale opinione non ha fondamento. La tirannide del governo in un  picciolo  Stato
non è diversa da quella che opprime una grande nazione, anzi spesso è  peggiore,
è piú tremenda perché piú difficile sfuggire  dai  suoi  artigli;  e  se  eglino
credono, con una savia costituzione, evitarla in una picciola repubblica, perché
in tal caso  non  applicare  tale  costituzione  all'intera  Italia?  Lo  stesso
potremmo dire per la prosperità materiale del  paese:  se  i  privilegî  di  una
capitale son dannosi al resto della nazione, in ogni Stato avverrà lo stesso, il
male sarà minorato, è vero, ma non evitato; e  nel  caso  che  potranno  esservi
provvedimenti da evitarlo in  un  picciol  Stato,  questi  provvedimenti  stessi
saranno applicabili ad uno Stato piú vasto. Oltre ciò, se i varî Stati in cui si
dividerà l'Italia avranno simili interessi, perché  non  potranno  reggersi  coi
medesimi ordini? se interessi diversi, allora i stranieri  saranno  arbitri  fra
noi. Vedremo  riprodotto  il  miserabile  spettacolo  delle  repubblichette  del
medioevo, che, civilissime com'erano, chiamavano i semi-barberi  a  decidere  le
loro contese. I Stati soccomberanno in una lotta parlamentare, in  un  congresso
federale, se non forti abbastanza per farsi ragione con  le  armi,  invocheranno
l'aiuto straniero. È questo un fatto storico  innegabile,  è  un  fatto  che  lo
vediamo riprodotto nell'Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio  in  America,  se  il
vasto oceano non la separasse dall'Europa. Non appena troncasi una parte di  una
nazione, per costituirne uno Stato,  questo  immediatamente  prende  la  propria
autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono quelli dell'intera nazione,  e
ne sono tanto piú discordi quanto maggiore è la sua estensione, e piú sentita la
possibilità di esistere da sé. Non havvi una teoria piú assurda  e  volgare  nel
tempo stesso, di quella che nell'ingrandimento successivo dei Stati italiani,  e
nel  minorarsi  il  numero  di  essi,  scorge  la  tendenza  all'unità;  avviene
precisamente il contrario. Se l'Italia si dividesse in due soli  Stati,  l'unità
diverrebbe quasi impossibile, i  loro  sacrifizî  sarebbero  troppo  grandi  per
sottomettersi volontariamente  ad  un  tal  patto;  l'uno  dovrebbe  conquistare
l'altro che, dopo esaurite le proprie forze, chiederebbe l'aiuto  straniero;  un
grande  Stato  vuol  conservar  sempre  l'esistenza  propria;  quantunque   meno
splendida. Per contro, se l'Italia venisse suddivisa in tanti Stati  per  quanti
sono i suoi Comuni, ne risulterebbe  di  fatto  l'unità,  i  sacrifizî  che  gli
verrebbero imposti da un patto comune non potrebbero essere  che  lievi,  e  non
sperando di reggersi e  grandeggiare  ognuno  da  sé  in  faccia  ai  stranieri,
troverebbero  un  giusto  compenso  nel  patto  comune,  non   che   nell'unità.
Finalmente, se il concetto di una federazione di Stati  italiani  è  assurdo,  è
ruinoso nei particolari, lo è eziandio se vien riguardato sotto un  aspetto  piú
generale. La federazione altro non è che uno stato di transazione  per  giungere
all'unità; e quando i costumi, il clima, le razze, la lingua, la  religione,  la
geografia non costituiscono che una sola nazione, l'unità è un  fatto  superiore
ad ogni calcolo, che non  può  disconoscersi  senza  rinnegare  le  leggi  della
natura. La federazione, come dice il Mazzini, sarebbe in tal caso: "simulacro di
Patria e  non  patria,  un  gretto  calcolo  d'aristocrazia  o  di  partiti".  E
nobilitando  questa  idea,  non  avremmo  che  gretto  municipalismo.   Fra   il
contrastare la sovranità d'una capitale per non volerne alcuna,  e  contrastarla
per diventar capitale, corre la medesima differenza che fra  due  individui,  di
cui l'uno attacca il governo per sostituirvi libertà, e l'altro  l'attacchi  per
sostituirsi in sua vece; il primo è un eroe, il secondo è bassamente ambizioso.

CAPITOLO TERZO

IX. Diritto di proprietà. - X. Governo. - XI. Dichiarazione di principî. -  XII.
Recapitolazione.



IX. I legami indissolubili che esistono fra nazionalità e libertà, le condizioni
da cui quest'ultima non può scompagnarsi, gli inconvenienti che  si  riscontrano
nell'unità, come nella federazione, sono stati svolti nel  precedente  capitolo.
Opera, diranno molti, di sola  distruzione,  perocché  niuna  sostituzione,  s'è
fatta in loro vece. La  risposta  è  semplicissima:  voi,  che  dagli  individui
pretendete sapere con quali ordini la società  debba  ricostituirsi,  sconoscete
affatto  le  leggi  dell'eterna  repubblica  naturale,  sconoscete   i   diritti
dell'intera nazione, e pretendete sostituire il concetto d'un uomo alla  ragione
universale. Ogni nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve  sottostare  al
proprio fato, che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue tradizioni,  il
presente, l'indole del popolo, le sue correlazioni  co'  vicini,  costituiscono.
Ogni nazione prossima ad un rivolgimento, nasconde nel suo seno  il  suo  futuro
reggimento, le sue future sorti, esse  non  attendono  a  svilupparsi,  che  una
causa, la quale turbando l'equilibrio le precipiti  nel  moto.  L'avvenire  d'un
popolo, facendo accurato studio sulla sua ragione  storica,  sui  suoi  rapporti
sociali... può comprendersi nel suo insieme, come uno scienziato la scienza,  ma
non può manifestarsi che da una serie successiva di fatti, come la  scienza  non
può esporsi, da quello, che pigliando le mosse dalle semplici e facendo  seguire
le  une  alle  altre,  le  varie  proposizioni.  Tale  manifestazione   comincia
dall'apparire  de'  riformatori,  sagaci  interpreti  della  loro  età,  di  cui
esprimono  il  sentire.  La  missione  di  costoro  non  è  di  formulare  nuovi
ordinamenti, ma distruggere gli esistenti, esplorando sin nel profondo e ponendo
a nudo le piaghe della società!  I  riformatori  sono  la  manifestazione  della
ragion collettiva, dal dolore costretta all'esame de' mali sociali; sono piloti,
che non determinano la meta del viaggio già  stabilita,  ma  indicano  i  scogli
contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano,
registrano  le  sanguinose  esperienze  fatte  dal  popolo,   ne   traggono   le
conseguenze, le presentano ad esso dicendogli: rifletti,  non  fidarti,  se  non
vuoi soffrire i medesimi mali. Intanto i riformatori non  solo  distruggono,  ma
non tralasciano di proporre nuovi ordini, di creare sistemi; ma la  prima  parte
del loro lavoro è sempre incontrastabile, è la ragione universale che predomina;
nella seconda, sempre o quasi sempre,  errano,  è  l'individuo  che  parla;  non
raggiungono mai il vero, ma tanto piú vi si accostano, quanto piú  vicino  è  un
rivolgimento. Meno sentiti, meno gravi sono i mali, piú calmi  sono  gli  animi,
piú profonda, piú vasta è  la  dottrina  de'  riformatori,  ma  nell'applicarla,
eglino poco o nulla si distaccano dagl'instituti vigenti. Se, invece, gli  animi
sono concitati, se l'odio  al  presente  è  fortemente  sentito,  i  riformatori
saranno meno dotti,  ma  di  tempra  piú  gagliarda,  d'indole  piú  audace;  le
conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe, tali le richieggono  i  tempi;  e
l'applicazione  de'  principî,  scostandosi  dagl'instituti  in  vigore   perché
universalmente odiati, piú si avvicina al futuro che [i riformatori]  prevedono.
La schiera de' riformatori  surse  in  Italia  assai  precocemente:  l'accademia
telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi Bruno,  Vanini,  Campanella,
riconobbero i mali da cui veniva roso l'edifizio sociale, e dalla  cima  vollero
diroccarlo. Cominciarono dal riscattare il diritto della ragione  e  sostituirlo
all'autorità, era questa l'arma che dovevano guadagnarsi onde compiere  la  loro
missione; questa prima tenzone costò  loro  la  vita.  I  conservatori  surti  a
combatterli, eziandio d'ingegno  potente,  furono  i  gesuiti  rincalzati  dalla
schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e Vanini al rogo,  e  Campanella
soffrí la tortura e ventisette anni di  carcere,  e  se  oggi  ne  ammiriamo  il
profondo e  splendido  ingegno,  i  contemporanei  ne  ammirarono  il  sovrumano
coraggio.  Se  i  filosofi  francesi  del  XVIII  secolo  potettero   lietamente
abbandonarsi ai voli del loro ingegno ed oggi i socialisti disputano, senza tema
del carnefice e del rogo, devesi ciò ai riformatori italiani che comprarono  col
sangue il diritto di ragionare. Ai sullodati riformatori tenne dietro  il  Vico,
il Gravina... e tutta la nobile schiera dei  nostri  filosofi  che  termina  con
Romagnosi. Le leggi, come fugacemente dicemmo,  che  regolano  le  società,  non
furono piú ignote, e la filosofia civile, come un maestoso fiume, che  raccoglie
nel suo placido corso i spumeggianti torrenti,  riuní  le  sparse  membra  dello
scibile umano e formonne un tutto.  Intanto,  oltr'Alpe  s'inaugurò  il  governo
costituzionale, eclettismo politico, epperò sursero gli ecclettici in filosofia,
e la paralisi,  che  da  mezzo  secolo  ci  opprime,  dalla  Francia  si  sparse
sull'Europa intera. L'incerta  e  pallida  luce  dell'ecclettismo  riverberò  in
Italia, quindi venne interrotto il maestoso lavoro, che  seguitava  continuo  da
Telesio a Romagnosi. Le dottrine del  Gioberti,  del  Mamiani,  di  Rosmini,  di
Ventura... vennero in luce. In esse non  riscontrasi  nulla  del  gran  pensiero
italiano, [ma, invece, uno] strano connubio  de'  piú  contraddittori  principî:
ragione e fede, autorità e libertà, diritti dei popoli e diritti  dei  principi;
né costoro, che intrecciano la loro filosofia sull'orditura impostagli dai birri
e dai preti, meritano il nome di filosofi italiani. Durante i  rivolgimenti  del
'48, ligia l'Italia a tali dottrine, naufragò, prima di prendere il largo. Se ci
faremo a svolgere le pagine dei nostri  filosofi,  vi  troveremo  consacrate  le
leggi magistrali della Natura. Eglino tentarono applicarle,  ma  troppo  lontani
dal risorgimento, subirono l'ascendente dei tempi, epperò vollero  raddolcire  i
mali, rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non già sbarbicare quelli e
rompere queste; ma oggi, le passate esperienze, le  tendenze  della  società,  i
suoi mali cresciuti, ci danno facoltà a farlo. Quelle leggi  debbono  formare  i
cardini su cui dovrà equilibrarsi l'edificio sociale. Ricercare  le  istituzioni
contraddittorie con esse, annientarle, e sostituite in loro vece i principî  che
n'emergono, sarà lo scopo del ragionamento che segue. La prima  verità  che  non
può disconoscersi, senza negare l'evidenza,  senza  negare  quaranta  secoli  di
storia, è, che la ragione economica, nella società, domina la  politica;  quindi
senza  riformar  quella,  riesce  inutile  riformar  questa.  "Conservazione   e
tranquillità, - scrive Filangieri, - è il primo dato, e questo e  non  altro,  è
l'oggetto unico ed universale della scienza della legislazione.  Ma  l'uomo  non
può conservarsi senza i mezzi, la possibilità dunque di esistere, e di  esistere
con agio". A che servono, infatti, i diritti dalle leggi accordati se la miseria
rende impossibile il  profittarne?  Inoltre,  non  solo  il  difetto  de'  mezzi
materiali necessarî ad esistere annulla la vita politica della  piú  gran  parte
della Nazione, ma l'eccesso delle ricchezze che si  accumulano  fra  pochi,  non
produce danno minore: ingigantiscono le voglie, succede all'operosità l'ignavia,
ed in putredine di vizî si marcisce. La  società,  dall'ingiusto  riparto  delle
ricchezze, vien divisa in due parti, i pochi e  i  molti,  e  questi  da  quelli
dipendenti: proclamare i diritti della democrazia è una impostura, un'ipocrisia.
Chi in buona fede può negare che i capitalisti ed i proprietarî sono  i  soli  a
cui è dato godere de' diritti politici, che la società è governata dalla  gretta
aristocrazia dell'oro, inspiratrice della codarda e ruinosa politica moderna? Si
rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con stabilire piú eque relazioni fra il
proprietario ed il fittaiuolo,  fra  il  capitalista  e  l'operaio;  sparirà  la
miseria, dicono  altri,  con  lo  sviluppo  dell'industria,  con  l'aumento  del
prodotto sociale. Abbiamo discorso nei  precedenti  capitoli  dell'efficacia  di
tali mezzi;  è  cosa  chiara  come  la  sostituzione  d'un  nuovo  protezionismo
all'antico riuscirebbe inutile tirannide, inutile inceppamento all'industria;  e
dimostrammo come la miseria cresce al crescere del prodotto  sociale.  Finché  i
pochi, sono proprietarî dei mezzi, onde soddisfare agli incalzanti  bisogni  de'
molti, questi saranno servi di quelli,  qualunque  siano  le  leggi;  basta  [il
fatto] che esse riconoscono e proteggono il diritto di proprietà. L'assicurare a
tutti un'agiata esistenza, sarebbe, al certo, un mezzo efficace, ma ove  cercare
le ingenti somme? non potrebbesi che spogliare parte della società, per togliere
all'altra ogni stimolo al  lavoro,  la  società  perirebbe;  e  riconoscendo  il
diritto di proprietà, come potrà mutilarsi, come limitarlo? non potranno  essere
che leggi complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed all'ingiustizia.
Non resterebbe che l'uguale riparto delle ricchezze,  ma  spaventati  rispondono
gli economisti in Francia, nazione ricca,  avrebbesi  appena  78  centesimi  per
caduno. Un tale asserto è assurdo e ridicolo, lo spirito di  partito,  o  meglio
l'amor dell'oro li costringe a mentire con  inconcepibile  impudenza.  Se  fosse
esatto, la Francia altro non sarebbe che una nazione  di  mendichi.  Avvegnaché,
sarebbe tale il numero dl coloro che posseggono meno di sí tenue  somma,  che  a
pena raggiungerebbesi una tal cifra  facendo  un  eguale  riparto  di  tutte  le
ricchezze di coloro che posseggono piú di  78  centesimi.  Questo  calcolo  deve
essere assolutamente falso, ma noi vogliamo ammettere che rappresenti il riparto
del prodotto netto. In tal caso un operaio, con moglie e cinque  figli,  avrebbe
il suo salario, piú sette volte 78 centesimi; né questo è  tutto,  sarebbevi  un
aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario, tutti i pingui stipendî che
i capitalisti insaccano come compenso alla fatica che  durano  per  arricchirsi,
epperò saremmo al disotto del vero affermando che un tale  operaio  percepirebbe
un dieci lire al giorno, ovvero un vivere  agiato.  E  chi  negherà  essere  piú
giusto che tutti vivessero agiatamente, invece di far perire nella miseria  nove
decimi della nazione, acciocché pochissimi possedessero oltre il bisogno? Ma  la
ragione che rende impossibile la pratica di tale idea è piú  potente  di  questa
ridicola menzogna. Una tale ripartizione sarebbe operazione complicatissima,  né
mai potrebbesi evitare la frode; la società dovrebbe sottostare ad una  continua
forza  tirannica,  che  spigolasse  tutte  le  borse,  altrimenti  la  materiale
uguaglianza stabilita non durerebbe che un giorno solo. Sortono alcuni da questo
campo, che, per essi, lo trovano  troppo  gretto  e  materiale,  e  dicono:  noi
allevieremo, anzi distruggeremo i mali pel proletario con  l'educazione.  Strana
utopia di questa buona gente, condannata dalla  natura  a  vivere  d'astrazioni.
Come vi procaccerete le grandi somme necessarie  all'educazione  dei  proletarî,
alla loro esistenza durante tale educazione, ed al compenso che  bisogna  pagare
alla famiglia privata del guadagno che avrebbele fruttato il lavoro del  giovane
che voi gli rapite per educare? Con  le  gravezze  forse?  Ma  non  sapete  che,
rispettando il diritto di proprietà, esse ricadono precisamente sul  proletario,
nel modo stesso che la  base  sopporta  tutte  le  spinte  e  le  pressioni  del
soprastante edifizio? Voi  l'affamerete  per  educarlo.  Ma  vogliamo  ammettere
possibile la vostra utopia, cosa  guadagneranno  con  l'educazione?  condannati,
come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non avendo  che  qualche  ora  necessaria  a
rinfrancare le forze, l'educazione ricevuta li farebbe piú infelici. Se hanno da
vivere da bruti, è  meglio  lasciarli  bruti  quali  or  sono.  I  piú  positivi
propongono l'associazione ed esaltano la sua  innegabile  potenza,  ma  piú  che
l'associazione è potente il capitale.  Non  vale  proporre  come  regole  alcune
eccezioni; egli è una delle cardinali verità di economia pubblica, non solo  che
l'associazione del lavoro deve soccumbere in contro alla potenza  del  capitale,
ma eziandio che i piccioli capitali sono inesorabilmente  condannati  ad  essere
inghiottiti dai grandi. L'associazione del capitale e del lavoro non conviene al
capitalista, specialmente se fa uso di macchine. Alcuni il negano asserendo  che
l'associazione del  capitale  e  del  lavoro,  accrescendo  il  prodotto,  debba
riuscire eziandio vantaggiosa al capitalista, senza riflettere che  il  guadagno
individuale del capitalista, con tale associazione, scema  moltissimo.  Infatti,
eglino medesimi aggiungono: se questa associazione non è libera, ma  imposta  da
una legge, i capitali saranno trafugati. Contraddizione manifesta, imperocché se
reali fossero i vantaggi del capitalista, sarebbero ben  presto  conosciuti,  ed
ognuno, senza contrasto, contentissimo sottoporrebbesi a tal legge. Quindi,  per
fornire di capitali il lavoro, altro mezzo non v'è che imporre gravezze a coloro
che posseggono; ma qual ne  sarebbe  il  risultamento  il  dicemmo;  gli  operai
verrebbero affamati e non soccorsi. Concludiamo che l'offrire a tutti un  vivere
agiato, cardine su cui, giusta la sentenza del Filangieri, debbono poggiare  gli
ordini sociali, non solo non riscontrasi nella moderna società, ma non v'è alcun
mezzo come soddisfare a tale condizione. La  società  è  divisa  in  due  parti,
possessori e nullatenenti, che il diritto  di  proprietà  determina.  L'economia
pubblica, pigliando le mosse da questo diritto, sviluppa le sue  leggi,  che  si
basano su di esso. Queste leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra  queste
due classi, e conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti ne
risultano di  fatto  né  possono  modificarsi,  sotto  pena  di  un  deperimento
universale; unica legge possibile è la libertà:  conseguenza  di  essa,  miseria
sempre crescente. Se togliete al ricco parte del suo avere  onde  soccorrere  il
povero, egli, mentre con una mano sborsa il danaro che  gli  vien  chiesto,  con
l'altra lo rapisce di nuovo; ben  presto  incarisce  il  vivere,  e  la  miseria
s'accresce. Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero;  la
causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove vedemmo, alla
decadenza, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo scopo principale  che  si
propone la società, il benessere di tutti, o almeno  de'  piú,  è  il  mostruoso
diritto di proprietà. La logica dunque  impone  di  rimuovere  l'ostacolo,  poco
curandosi delle conseguenze; la società riprenderà da sé l'equilibrio, dal caos,
naturalmente, verrà il cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro  ragionamento,
per se medesimo abbastanza chiaro, con l'opinione di due illustri  nomi,  Cesare
Beccaria e Mario Pagano: "Il furto, - dice Beccaria, - non è per l'ordinario che
il delitto della miseria e della disperazione, il  delitto  di  quella  infelice
parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non  necessario
diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza". Molto piú a lungo ed esplicito
ne ragiona Mario Pagano: "Quello che viene occupato, posseduto ed  ingombro  dal
nostro corpo è pur nostro, perché ivi si estende la  nostra  fisica  potenza,  e
morale benanche.  Quell'aria  che  respiriamo,  e  ch'ebbe  eziandio,  sotto  la
tirannide de' greci imperatori, a riscattare con un  dazio  l'avvilito  mortale;
quella porzione di terra che premiamo col piede, la quale  è  solo  retaggio  di
gran moltitudine d'uomini; quello spazio cui riempie il nostro corpo,  il  quale
neppure ci si toglie con la vita stessa, è cosí nostro come le  proprie  membra.
Que' prodotti della terra che, per sostenimento  della  nostra  vita  occupa  la
nostra mano, per la medesima ragione sono nostri,  che  della  pianta  sono  non
solamente il tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle  vengono  conficcate
ma ben'anche quel nutrimento,  quell'umore,  quei  succhi,  che  bevono  le  sue
radici, e servono al conservamento suo. "Ma come poi si appropria un  uomo  solo
quelle ampie foreste, quegl'immensi campi che non misura il suo piede,  la  mano
sua non occupa, e neppur signoreggia lo sguardo? "La natura un patrimonio comune
ha conceduto agli uomini tutti, ha legato loro  un'ampia  eredità,  la  quale  è
questa terra, dal cui seno prodotti gli ha,  e  nel  seno  della  quale  gli  ha
piantati e radicati. Come alle piante per nutrirsi ha dato le  radici,  cosí  le
mani all'uomo per estendere la sua forza sul retaggio comune, e far proprio  ciò
che alla sua sussistenza faccia d'uopo.  Ma  queste  naturali  potenze,  dirette
dalla sua sensibilità e sviluppate dalla  sua  mano,  hanno  un  termine  ed  un
confine tra il quale, quando esse sono racchiuse,  divengono  morali  potenze  e
diritti originati dall'eterna immutabile legge dell'ordine. "E  quali  sono  mai
questi confini e quali gli stabiliti scopi? I limiti delle azioni sono, come  si
è detto, dalle reazioni degli altri essere circoscritti. Quando l'essere,  dalla
sua sfera uscendo, invade ed occupa lo spazio e  la  sfera  d'un  altro,  quello
reagisce e riurta, e nella propria situazione lo ripone. Quando  un  corpo  vuol
penetrare nell'altro, cioè passare in quella  parte  dello  spazio  occupato  da
quello, ritrova la resistenza che impenetrabilità diciamo, prova la reazione,  e
se mai persiste nello sforzo di compenetrarvi, vien finalmente  distrutto.  Cosí
se tu, mortale, distendi la mano e la tua forza di là del confine che  ti  segnò
natura, occupi dei prodotti della terra tanto che  ne  siano  offesi  gli  altri
esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu proverai il riurto loro; il
tuo delitto è l'invasione, il violamento dell'ordine;  la  tua  pena  è  la  tua
distruzione". Cosí i  fatti,  la  ragione,  l'autorità  d'accordo  protestano  e
dichiarano il diritto di proprietà la causa de' mali, alla cui piena indarno  la
società oppone argini e serragli. Egli è cosa mostruosa  scorgere  la  proprietà
del frutto dei proprî lavori, non solo non protetta dalle leggi,  ma  annullata,
manomessa,  in  vantaggio  dell'usurpazione  dichiarata   proprietà   sacra   ed
inviolabile. Si garentisce la proprietà, e piuttosto che  violarla  si  lasciano
migliaia d'infelici perire nella miseria; ma non proteggono le leggi  il  frutto
de' lavori d'un operaio, i sudori di un contadino, contro  l'usura  e  l'avidità
dei capitalisti e dei proprietarî. È dichiarato assassino colui che  uccide  per
rapire un pane necessario alla sua esistenza;  uomo  onesto  chi,  divorando  il
vitto sufficiente a dieci famiglie, lascia che queste perissero d'inedia. E  ciò
avviene in nome della giustizia, prova evidente che essa altro  non  è  che  una
parola il cui significato cangia al cangiar dei  rapporti  sociali:  quello  che
oggi dicesi giusto,  i  posteri  lo  vedranno  con  l'orrore  medesimo  che  noi
riguardiamo il diritto di vita e di  morte  che  accordavasi  al  padrone  sugli
schiavi. Il frutto del proprio lavoro garentito; tutt'altra proprietà  non  solo
abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto,  dovrà  essere  la  chiave  del
nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza
che la Natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi
usurpa.


X. "L'essere senziente, - scrive il Romagnosi, - nel sentire non può mai  uscire
da se medesimo. Egli non può sentire che con la  propria  sensibilità,  non  può
sentire che il proprio piacere o dolore; non può amare o odiare  altrui  che  in
sé, e per sé; agire cogli altri, ed a pro degli altri, o contro gli  altri,  che
per sé... Avviene che l'amor proprio d'ognuno trasportato in società è un centro
d'attrazione che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni e di servizî; e
per sé solo opera anche quando agisce a pro d'altrui, benché  di  ciò  egli  per
avventura non si avvegga". Ecco in poche parole messa  a  nudo  l'umana  natura,
trovata la cagione di ogni speranza, d'ogni pensiero, d'ogni atto: ricercare  il
piacere, fuggire il dolore; piaceri e dolori, che secondo l'indole dell'uomo  ed
i rapporti sociali, variano in mille guise, dall'epicureo che cerca il godimento
nell'ozio e nella crapola,  a  Bruno,  che  preferisce  il  rogo  al  dolore  di
rinnegare le proprie dottrine.  Ogni  atto  è  preceduto  dalla  volontà,  e  la
determinazione di essa è un effetto relativo  e  proporzionale  alla  specie  ed
all'energia de' moventi che si  riscontrano  nel  mondo  esteriore.  Una  grande
efficacia in questi motivi, esercitata su d'un individuo  d'un'indole  capace  a
sentirla, genera le forti  passioni,  che  richieggono  fortissima  dose  d'amor
proprio. Queste forti passioni formano gli eroi ed i scellerati, i  grandi  genî
nelle scienze e nelle arti, ed i grandi corruttori di entrambe. In  una  società
in cui la fama, il potere,  le  ricchezze...  non  possono  sperarsi  che  dalla
guerra, o dal bene operato a pro del pubblico, nascono gli Scevola, gli  Attilî,
i Curzî. "Chi piú di loro, - esclama Filangieri,  -  fu  agitato  da  una  forte
passione, chi piú di loro amò per conseguenza se stesso, chi piú di  loro  serví
la società e la patria?" Se poi un governo si farà il distributore di onori,  di
ricchezze e di ogni altro bene sociale, tutti gli sforzi degl'individui  saranno
rivolti, non già a guadagnarsi il  pubblico  plauso,  ma  le  grazie  di  questo
governo, quindi cortegiani, adulatori,  sicarî;  e  quanto  piú  l'indole  della
nazione sarà capace di forti passioni tanto piú impudenti e  tiranni  saranno  i
satelliti che si stringono intorno a questo centro usurpatore  degli  universali
diritti. Quel popolo, che durante il suo  splendore  sarà  stato  ricco  d'eroi,
nella sua decadenza i seidi saranno numerosissimi, e numerosissimi i martiri  se
comincia ad accennare al suo risorgimento. Per contro,  ove  tardo  è  il  corso
degli umori, e le passioni rimesse,  non  vi  saranno  né  eroi  né  scellerati;
all'apogeo come al perigeo tutto sarà pedestre e volgare. La virtú ed  il  vizio
adunque, nulla hanno d'assoluto; la loro sede non è nell'uomo ma nella  società;
i significati di queste parole al cangiare degli ordini sociali  cangiano  senza
mai durar d'essi. Infatti, facendo astrazione della società, le virtú ed i  vizî
spariscono, l'uomo isolato non ha che  due  qualità,  forza  ed  astuzia.  Marco
Bruto, vicino a morte, esclamò. O virtú, tu non sei che un nome, io  ti  seguiva
come fossi cosa; ma tu sottostavi alla  fortuna.  Ingannavasi  Bruto:  essa  non
sottostava alla fortuna, ma ai tempi. L'antica Roma riverberava nel suo cuore le
virtú già tramontate all'epoca di sua vita; esse  si  sentivano  dall'universale
come l'ultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle  virtú  de'  Bruti
erano successe le virtú de' Cesari a cui la società destinava il trionfo. Queste
leggi magistrali della Natura, svolte  da  Vico,  da  Beccaria,  da  Pagano,  da
Filangieri, da Romagnosi, e  dagli  altri  filosofi  italiani  non  imbastarditi
dall'ecclettismo d'oltremonte,  sono  l'ordito  su  cui  debbono  adattarsi  gli
ordinamenti sociali, sono i veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni; e
noi su tali principî baseremo il ragionamento che segue. Il fine che si  propone
la società nel costituirsi, altro non dovrebb'essere che assicurare il  pieno  e
libero sviluppo di queste leggi, facendole tutte concorrere al pubblico bene. Se
esse vengono violate o interdette nella benché minima parte, l'opera non solo  è
tirannica, ma stolta, perché invano combattesi contro le forze della Natura.  Da
questo vero, il principio  d'autorità  vien  completamente  distrutto:  chiunque
vuole insegnarmi la virtú, o  costringemi  a  seguirla,  è  un  impostore  o  un
tiranno; un impostore se a convalidare  le  sue  dottrine  chiama  in  aiuto  il
misticismo; un tiranno se ricorre alla  forza;  e  se  non  giovasi  o  non  può
giovarsi di alcuno di questi due mezzi, un povero stolto che predica al deserto.
Le dottrine de' pitagorici, quelle di Platone, il manuale d'Epitteto, la  morale
del Vangelo, non hanno per tanti secoli, non dico modificata ma  neanche  scossa
l'umana natura; gli uomini, usando diverse parole, hanno sempre operato nel modo
medesimo. Il Vangelo non solo ha predicato la  fratellanza  e  la  mansuetudine,
minacciando le pene dell'inferno, ma ha ricorso  alla  spada,  ai  tormenti,  al
rogo... e cosa ha ottenuto con tali mezzi? Ha costretto  la  natura  umana,  che
sempre  ha  ubbidito  alle  medesime  leggi,  di  covrirsi   con   la   maschera
dell'ipocrisia. Invano verrà inculcato l'amor di patria ove la patria  non  dona
che miserie e stenti; né vi sarà  bisogno  inculcarlo  quando  la  felicità  del
cittadino dipenderà dalla grandezza e prosperità di  essa.  A  che  predicherete
l'amore della gloria, il disprezzo delle ricchezze,  in  una  società  ove,  non
curata la fama, potentissimo è l'oro? E se i beni maggiori  saranno  conseguenza
della  fama  e  delle  virtú,  tale  dottrina  non  avrà  bisogno  di  apostoli.
Concludiamo che il pubblico costume, assolutamente indipendente dalle  dottrine,
dalla fede, dalle pene, scaturisce immediatamente dai rapporti  e  dagli  ordini
sociali; voler cangiare i costumi, senza cangiar questi, è impossibile,  quindi:
un governo regolatore de' costumi è la piú stupida ed assurda tirannide che  mai
uomo immaginasse. L'origine del governo è stato il dominio eroico de' forti  sui
deboli. Le  prime  leggi,  l'arbitrio  di  quelli,  in  seguito  trasformato  in
consuetudini. I famoli, resi potenti per numero,  impedirono  i  nuovi  arbitrî,
obbligarono i forti a  sottomettersi  alla  ragione  storica,  a  rispettare  le
consuetudini, le quali furono,  perciò,  il  rudimento  del  patto  comune,  del
codice. Questo patto, comunque modificato, non ha potuto, né potrà mai  liberare
su giusta lance i diritti di tutti, imperciocché trae origine dalla  violenza  e
l'usurpazione, e dovrà esservi sempre  qualche  parte  che  preponderi,  qualche
altra che minacci reazione. A mantenere nella società questo labile  equilibrio,
ebbesi uopo del governo, che può definirsi l'ostacolo allo sviluppo delle  leggi
naturali, il sostegno de' privilegî.  Ma  se  ogni  privilegio  cessasse,  se  i
diritti risultassero dai rapporti  reali  e  necessarî  delle  cose,  il  dovere
diverrebbe un bisogno; l'uomo non servirebbe piú all'uomo, ma,  come  scrive  il
Romagnosi, "solamente alla necessità della natura, ed  al  proprio  meglio".  In
altri termini il Filangieri esprime l'opinione medesima: "L'uomo non  può  esser
felice, - dice egli, - senza esser libero. L'uomo non può  essere  felice  senza
convivere coi suoi simili. L'uomo  non  può  convivere  co'  suoi  simili  senza
governo e senza leggi. Dunque per esser felice deve esser libero  e  dipendente.
Ma il dovere senza la volontà esclude la libertà; la  volontà  senza  il  dovere
esclude la dipendenza. Il nesso che unisce queste due opposte condizioni non può
essere che la volontà di far ciò che si deve". Quindi la società, costituita ne'
suoi reali e necessarî rapporti, esclude  ogni  idea  di  governo,  e  come  ben
equilibrato edifizio regge  da  sé,  senza  aver  bisogno  di  fasciature  o  di
rinfianchi.  Questi  principî  de'  nostri  padri  ora  cominciano  eziandio   a
discutersi in Francia; ivi esclama Proudhon: "chiunque mette la mano  su  di  me
per governarmi, è un usurpatore, un tiranno, io lo dichiaro mio  nemico...";  ed
altrove: "chi siete voi per sostituire la vostra saggezza  di  un  quarto  d'ora
alla ragione eterna ed universale?" Ciascuno nasce con  speciali  attitudini  ed
inclinazioni, ed una società ben costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i
mezzi come soddisfar queste ed utilizzar quelle,  e  cosí,  seguendo  l'uomo  la
propria volontà ed il proprio utile, seconderà la volontà collettiva  e  l'utile
pubblico. Derogare da questa legge è un costringere l'uomo ad un lavoro forzato,
è una tirannide. Quindi il governo, che lo abbiamo trovato assurdo e  tirannico,
tanto come correttor di costumi quanto come sostegno  del  patto  sociale,  come
educatore è inutile: l'educazione altro non deve essere che una legge  generale,
con la quale pongonsi  a  disposizione  d'ogni  cittadino,  onde  facilitare  lo
sviluppo delle sue facoltà fisiche e morali, tutti i mezzi  di  cui  dispone  la
società. Ma ancora piú innanzi vanno i mali, che, senza utile  veruno,  sgorgano
inevitabilmente dal governo. Se ad esso non verrà concesso né  altra  forza,  né
altri mezzi, onde esercitare il suo potere,  se  non  quelli  che  potrà  trarre
dall'universale appoggio, che i cittadini darebbero  ai  suoi  atti,  credendoli
giusti, ne risulterà un governo inutile e ridicolo: lo si vedrà  darsi  cura  di
educazione, di  costumi,  di  patto  sociale,  fatti  i  quali  risultano  e  si
sostengono in forza de' rapporti medesimi delle cose, che esso, privo di  forza,
non potrà menomamente modificare, epperò quanto  piú  operoso,  tanto  piú  sarà
ridicolo. Se poi gli concederete forza materiale, o lo  farete  distributore  di
cariche, di premî, di onori, allora cominciano i perigli per la società. Colui o
coloro nelle cui mani verrà affidato il maestrato supremo, come  nel  precedente
capitolo dicemmo, dovranno, perché  uomini,  soggiacere  all'impero  delle  loro
passioni e delle loro imperfezioni fisiche e morali, quindi  il  giudizio  e  le
determinazioni di questo governo dovranno, senza dubbio, trovarsi in  disaccordo
coi giudizî e le determinazioni del pubblico, che, essendo la media di  tutti  i
giudizî e  le  determinazioni  individuali,  resta  scevra  da  tali  influenze.
Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica  volontà
è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante del tutto.  Inoltre,  l'uomo
per sua natura sdegna i rivali e l'opposizione, e  gli  amici  del  governo  non
saranno certamente coloro, che manifestano i suoi errori, che contrastano la sua
opinione, ma bensí que' che lo piaggiano; gli  oppositori  saranno  occultamente
odiati, e, se lo si potrà  impunemente,  oppressi;  negarlo  è  un  disconoscere
l'umana natura, è negare la storia, negare i fatti che tuttodí  si  riproducono;
quindi questo governo sarà sempre un'ulcera che tende di  spandere  la  cancrena
sull'intera società. Se, cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel  fondo
della nostra coscienza, ad interrogare l'intimo nostro sentimento, vi  troveremo
la condanna  d'ogni  governo.  Quella  complicazione  di  ruote,  aggiunte  alla
macchina  sociale,  per  tutelarsi  contro  l'usurpazione  e  la  tirannide  de'
governanti, ha già fatto pessima pruova, senza impedire i mali, li  accresce,  e
rende il procedere lento ed incerto. La pubblica opinione è affatto cangiata  su
tale riguardo: ognuno, nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche pezzo
alla macchina, o come regolatore, o come moderatore,  mentre  ora,  per  contro,
tendesi alla semplificazione, il cui ultimo termine è  l'anarchia,  ove  l'umano
intelletto s'accheterà. I propugnatori de' governi forti fanno fine ad ogni loro
diceria, ad ogni loro ragionamento, con proporre le misure da cui eglino sperano
la pubblica felicità; ed il convincimento che riscontrasi in ogni individuo, che
i soli provvedimenti per reggere con successo la cosa pubblica  son  quelli  che
egli nasconde nel proprio cuore, è la condanna la piú  aperta  d'ogni  forma  di
governo. Da quanto  esponemmo  possiamo  desumere  che  le  numerose  esperienze
registrate dalla storia, che nelle leggi regolatrici della Natura trovano  piena
conferma, additano come terribili sorgenti  di  male,  come  ostacoli  all'umana
felicità, come scogli di  sicuro  naufragio,  il  diritto  di  proprietà  ed  il
governo. Ma come la società, diranno molti, priva di questi mali, potrà reggere?
Cosa  verrà  ad  essi  sostituito?  Non  sono  quistioni  che  deve   farsi   il
rivoluzionario, né che si fanno le moltitudini. Quello addita la causa dei mali,
gli ostacoli al bene pubblico,  queste  irrompono  come  marosi  mugnanti  e  li
rovesciano.  La  società,  come  le  acque  che  tendono  sempre  a  livellarsi,
riprenderà da sé l'equilibrio; egli è strano pretendere che un uomo dia conto di
quello che l'universale volontà potrà compiere. Nondimeno,  dalle  leggi  stesse
naturali ed eterne, che ci hanno condotti a queste conclusioni, emergono  alcuni
principî inconcussi, che violati in  tutto  o  in  parte  dalle  varie  società,
antiche e moderne, sono stati  e  saranno  la  cagione  di  loro  ruina;  questi
principî, che ora verremo svolgendo, sono superiori ai  diritti  de'  popoli,  e
sono gl'incastri fra' quali l'umanità, dopo tante penose oscillazioni, verrà  ad
assettarsi.


XI. La Natura, avendo concesso a tutti gli uomini i medesimi organi, le medesime
sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali, ed ha, con  tal  fatto,
concesso loro uguale diritto al godimento dei beni che essa  produce.  Come  del
pari, avendo creato ogni uomo capace di provvedere alla propria esistenza,  l'ha
dichiarato indipendente e libero. I bisogni sono i soli  limiti  naturali  della
libertà  ed  indipendenza,  quindi  se  all'uomo  si  facilitano  i  mezzi  come
soddisfarli, la libertà ed indipendenza è piú completa.  L'uomo  s'associa  onde
piú facilmente soddisfare a' suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera  in  cui  si
esercitano le sue facoltà, e conseguire libertà ed indipendenza maggiore, epperò
ogni rapporto sociale che tende a mutilare questi due attributi  dell'uomo,  non
ha potuto, perché contro natura, contro il  fine  che  si  propone  la  società,
stabilirsi volontariamente, ma subirsi a forza; esso non può esser l'effetto  di
libera associazione, ma di conquista o d'errore. Dunque ogni contratto,  in  cui
una delle parti, dalla fame o  dalla  forza,  vien  costretta  ad  accettarlo  e
mantenerlo, è violazione manifesta delle leggi di Natura; ogni  contratto  dovrà
perciò dichiararsi annullato di fatto, appena mancagli il  liberissimo  consenso
delle due parti contrattanti. Da queste leggi  eterne  ed  incontrastabili,  che
debbono essere la base del patto sociale, emergono i seguenti principî, i  quali
reassumono l'intera rivoluzione economica: 1. Ogni individuo ha  il  diritto  di
godere di tutti i mezzi materiali di cui dispone  la  società,  onde  dar  pieno
sviluppo alle sue facoltà fisiche e morali.  2.  Oggetto  principale  del  patto
sociale, il garentire ad ognuno la libertà assoluta. 3. Indipendenza assoluta di
vita, ovvero completa proprietà del proprio essere, epperò: a)  L'usufruttazione
dell'uomo per l'uomo abolita. b) Abolizione d'ogni contratto ove non siavi pieno
consenso  delle  patti  contrattanti.  c)   Godimento   de'   mezzi   materiali,
indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla propria esistenza. d) Il
frutto de' proprî lavori sacro ed inviolabile.  Determinata,  con  tre  principî
fondamentali, la rivoluzione economica, passeremo alla politica. I bisogni  sono
i  limiti  della  libertà  ed  indipendenza.  Questa  legge  è   innegabile   ed
universalmente sentita. Ogni altra legge o principio, non sentito ma  predicato,
non può essere altro che impostura  di  qualche  scaltro  che  tenda  profittare
dell'altrui semplicità, ovvero effetto dell'ignoranza di chi predica  e  di  chi
ascolta, e la gerarchia, che  viola  direttamente  libertà  ed  indipendenza,  è
contro natura. La sovranità risiede nella Nazione intera. Gli atti di ogni  uomo
sono proporzionati e conseguenza della facoltà di  sentire,  variabile  in  ogni
individuo; del pari, gli atti della sovranità sono proporzionati  e  conseguenza
della media  fra  tutte  le  facoltà  di  sentire  de'  varî  individui  che  la
compongono, media in cui son distrutte tutte le particolari influenze alle quali
ogni essere piú o meno sottogiace: la sovranità è il senso comune, ovvero,  come
dice Vico, quel giudizio, che senz'alcuna riflessione vien  comunemente  sentito
da tutto un ordine, da tutto  un  popolo,  da  tutto  il  genere  umano;  ed  il
delegarla è un assurdo, come sarebbe quello di delegare la propria  sensibilità,
essa  è  inalienabile,  risiede  nell'intera  Nazione,   né   mai   può   essere
legittimamente rappresentata da una parte di essa. Le  leggi  di  Natura,  sotto
pena di gravissimi mali, proibiscono il comandare del pari  che  l'ubbidire.  Un
popolo, che per esistere piú facilmente delega la propria sovranità, opera  come
uno che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste verità emergono i
seguenti principî, che fanno seguito a quelli già stabiliti:  4.  Le  gerarchie,
l'autorità, violazione manifesta  delle  leggi  di  Natura,  vanno  abolite.  La
piramide: Dio, il re, i migliori, la plebe, adeguata alla  base.  5.  Come  ogni
Italiano non può essere che libero ed indipendente, del pari dovrà esserlo  ogni
Comune. Come è assurda la gerarchia fra gl'individui, lo è fra  i  Comuni.  Ogni
Comune non può essere che una libera associazione d'individui e la  Nazione  una
libera associazione dei Comuni.  Intanto,  molti  ostacoli  materiali  e  morali
vietano in molte occorrenze le funzioni della sovranità. I  principî  stabiliti,
conseguenza delle leggi di Natura, non sono che il  primo  ordito  degli  ordini
sociali, e non bastano: bisogna discendere a determinare  i  varî  rapporti  che
dovranno essere d'accordo con essi.  In  questa  laboriosa  ricerca,  la  nostra
natura, vinta dal  costume  e  smarrita  nel  suo  corso,  ad  ogni  passo  cade
nell'errore, quindi richiedesi  una  continuità  di  attenzione,  una  serie  di
ragionamenti, cose per le moltitudini  impossibili,  e  sovente  mancherebbe  il
luogo e 'l tempo onde fare  abilità  a  sí  numerosa  assemblea  di  riunirsi  e
deliberare. Cotesti lavori sono da individui, ed un solo  dev'essere  dichiarato
legislatore. Inoltre, è una verità dimostrata all'evidenza dal Romagnosi, che il
giudizio di tutti i savî del mondo può essere erroneo nel  sindacare  il  lavoro
compito da  un  solo;  quindi  un  congresso  di  delegati  del  popolo  avrebbe
l'incumbenza, non già di svolgere, di sopraccaricare di clausole ed  emendamenti
le leggi proposte, ma solo verificare scrupolosamente se i principî  immutabili,
dichiarati base del patto sociale, vengano  in  qualche  parte  lesi  da  queste
leggi.  Fatto  ciò,  pubblicarle;  né  può  andar  piú  innanzi  il  potere  del
legislatore e del congresso; la Nazione le adotterà se vorrà e quando vorrà, non
avendo il diritto di concedere ad uno o a  pochi  il  potere  d'imporgli  leggi,
l'attuazione di esse è atto della sovranità, e la sovranità non può delegarsi. I
concetti di un individuo possono definirsi i pensieri della nazione, è  il  modo
di cui essa si avvale onde manifestare il suo concetto collettivo,  ma  come  un
individuo non impone a  se  medesimo  l'obbligo  di  trarre  in  atto  i  proprî
pensieri, cosí i concetti di un solo non possono venire imposti a tutti. Per  la
ragione medesima, che la sovranità non può abdicarsi, o trasmettersi, non  potrà
determinarsi la durata delle funzioni del  legislatore  e  del  congresso,  esse
cesseranno appena la Nazione il  vorrà;  e  la  volontà  del  mandante,  dovendo
costituire la legge del mandatario, ogni deputato  non  può  essere  che  sempre
revocabile da'  suoi  elettori.  L'imporsi  per  un  dato  tempo  un  governo  o
un'assemblea è un assurdo, come lo è per un  individuo  il  costringersi  da  un
voto. È lo stesso che dichiarare la volontà e la determinazione  di  un  momento
arbitra e  tiranna  della  volontà  che  progressivamente  può  manifestarsi  in
avvenire. Di quinci i principî che seguono: 6. Le leggi non possono imporsi,  ma
proporsi alla Nazione. 7. I mandatarî sono sempre revocabili  dai  mandanti.  Di
piú la Natura stessa, che ha creato l'uomo indipendente e libero, ha dotato ogni
individuo di attitudini speciali, d'onde la potenza del  lavoro  collettivo,  la
sociabilità. Coteste attitudini son quelle appunto che, nelle  varie  operazioni
della  vita,   costituiscono   la   diversità   delle   incumbenze.   Dichiarare
un'incumbenza piú nobile che un'altra è un assurdo degno di una società  che  ha
vanità e privilegio per base. "Ma qual si è l'arte vile, - esclama Mario Pagano,
- quando ella giova alla società? vile è l'opinione degli uomini  che  avvilisce
gli utili mestieri". Ed è eziandio  assurdo  dichiarare  una  funzione  piú  che
un'altra faticosa; la meno faticosa è quella che meglio armonizzi con le proprie
attitudini ed  inclinazioni,  epperò  esse  solamente  debbono  dar  norma  alla
distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella società  si  riscontrano.
In tutte le varie operazioni dell'intera società o di  un  nucleo  qualunque  di
cittadini, sono indispensabili gli ordini e  la  distribuzione  delle  funzioni;
egli è impossibile operare tumultuariamente. Ciò deve aver luogo  nelle  grandi,
come nelle picciole cose, tanto nella guerra e  nella  pubblica  amministrazione
come in qualunque  altra  speculazione  o  industria.  A  conservare  illesa  la
sovranità nazionale,  nel  caso  che  una  parte  di  cittadini  debba  compiere
un'impresa che riguarda l'intera società, due condizioni si  richieggono,  cioè:
che l'impresa da eseguirsi e gli ordini da adottarsi siano il risultamento della
volontà nazionale, il che emerge di fatto  da'  principî  6.  e  7.;  e  che  la
distribuzione delle varie funzioni, fra quel nucleo di cittadini operanti, venga
fatta da que' cittadini medesimi. Se la nazione volesse indicargli  i  capi  che
debbono dirigerli, violerebbe manifestamente la libera  associazione.  Quindi  i
principî seguenti: 8. Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo, e
sarà sempre dal popolo  revocabile.  9.  Qualunque  nucleo  di  cittadini  dalla
società destinati  a  compiere  una  speciale  missione,  hanno  il  diritto  di
distribuirsi eglino medesimi le varie funzioni,  ed  eleggersi  i  proprî  capi.
Finalmente, l'uomo, facendo parte di una società, è  immedesimato  con  essa;  e
questa società proponendosi come fine  principale  non  solo  di  garentire,  ma
ampliare quanto piú sia possibile la libertà  ed  indipendenza  individuale,  ed
ogni offesa d'individuo ad individuo riducendosi alla violazione di  questi  due
attributi, ne inferisce che le offese private debbono  tutte  considerarsi  come
offese pubbliche: ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende  direttamente
l'intera società, la quale, giusto il tacito patto che ha con  ognuno  de'  suoi
membri, ha il dovere di vendicare l'offeso, e con  l'esempio  contenere  i  male
intenzionati; e questo dovere della società, per la natura  medesima  dell'uomo,
portato a vendicare altrui a tutela  di  se  medesimo,  diventa,  come  dice  il
Romagnosi, controspinta, ma non già criminosa, perocché l'urtato ha  il  diritto
di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del delitto,  utile.
Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto  trovi  la  cagione  promotrice
negli ordini sociali, o nell'indole dell'individuo, conchiuderemo come il  patto
sociale  debba  esser  volto  a  rimuovere  le   cagioni   del   delinquere   ed
all'educazione de' colpevoli, onde non venga distrutto  dalla  società  medesima
uno de' suoi membri. Egli è indubitato che le leggi scritte, invariabili, fra il
continuo  mutar  dei  tempi  e  de'  costumi,  riescono,   in   alcune   epoche,
soverchiamente rigide,  e  troppo  forte  il  loro  contrasto  con  la  pubblica
opinione, quindi  l'utile  della  giurisprudenza,  che  cerca  rammorbidirle  ed
adattarle ai tempi. Ma, se riesce soverchiamente duro il non lasciare al giudice
altra facoltà, se non quella di pronunciare la sua sentenza dietro il sillogismo
prescritto dal Beccaria, c'è cosa  egualmente  perigliosa,  il  dar  luogo  alla
giurisprudenza  che  conduca  all'arbitrio.   Come   evitare   entrambi   questi
inconvenienti che  risultano  dall'ordine  stesso  sociale,  dallo  svolgersi  e
modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi giudici naturali, al  popolo.
Le leggi scritte siano di norma e non d'altro, le decisioni del popolo superiori
ad ogni legge. Potrà  il  popolo  eleggere  dal  suo  seno  alcuni  cittadini  e
costituirli giudici, ma i giudizî  di  questi  saranno  sempre  annullati  dalla
volontà collettiva, a cui deve riconoscersi come diritto inalienabile,  inerente
alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione suprema di ogni contesa.  Cosí
non potrà piú avvenire che vengano inflitte  punizioni  contraddittorie  con  la
pubblica opinione e coi tempi; cosí avverrà che le leggi seguiranno lo svolgersi
ed il mutar dei costumi, né mai questi verranno in lotta accanita  e  sanguinosa
con esse. Adunque: 10. La sentenza del popolo è superiore ad ogni legge, od ogni
maestrato. Chiunque credesi mal giudicato  può  appellarsi  al  popolo.  E  cosí
prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili verità: - 1. L'uomo è
creato indipendente e libero, e solo i bisogni  sono  assegnati  come  limiti  a
questi attributi; 2. Per allontanare da sé questi limiti e  rendere  sempre  piú
ampia la sfera di sua attività l'uomo s'associa,  epperò  la  società  non  può,
senza mancare al proprio scopo, ledere in menoma parte gli attributi  dell'uomo;
- siamo stati condotti alla dichiarazione di dieci  principî  fondamentali,  de'
quali  uno  solo  che  non  venga  rigorosamente   osservato,   la   libertà   e
l'indipendenza saranno violate. Dunque ogni contratto sociale, volto non  già  a
confermare l'usurpazione di una classe, ma la felicità dell'intera nazione, deve
aver come base questi principî.


XII. Pria di procedere piú innanzi, rileva rammentare, per sommi capi, quello di
cui sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del  progresso  abbiamo
scorto come le società tendono, nelle varie loro evoluzioni, ad  assettarsi  fra
le leggi naturali,  e  quando,  per  errore  dell'istinto,  per  disaccordo  del
sentimento con la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente  declinano.  Indi
osservammo come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti abbia fatto, di
tutt'Europa, un popolo di costumi, di leggi, di propensioni  quasi  uniformi;  e
noi, abbracciandolo nel suo insieme, ne  siamo  venuti  scrutando  le  tendenze,
tanto economiche come politiche. Il continuo aumento del  prodotto  sociale,  il
restringersi il numero de' possessori di esso, il crescere incessante de' miseri
e della miseria, sono cose evidenti, innegabili, e quindi i mali,  la  necessità
di migliorare, la reazione de' tanti miseri contro i pochissimi  ricchi,  certa,
immancabile. Di quinci, sotto varie cagioni mascherato, il  connubio  de'  pochi
agiati co' despoti, e ad ogni minaccia, ad ogni tomulto, ad  ogni  rivolgimento,
crescere le milizie perpetue, solo argine contro la numerosa plebe, e da  questa
lotta emergere, indubitatamente, il  dispotismo  militare  o  il  trionfo  della
democrazia, l'uno seguito  dalla  licenza  e  dalla  dissoluzione,  l'altro  dal
rinnovamento sociale. Altra alternativa non v'è. Incerti, ci facemmo  a  cercare
quale delle due soluzioni fusse la piú probabile. L'atteggio,  i  tentativi,  il
cupo gorgogliare del proletario, fanno fede  che  la  sua  fibra  è  rozza,  non
flaccida, l'elatere n'è compresso ma non spento, quindi havvi speme di vita.  Il
soldato che lo fronteggia non è  pretoriano,  non  avventuriere,  ma  proletario
anch'esso, affatturato da  magica  forza  che  lo  costringe  a  sacrificare  se
medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle de' suoi uguali, epperò la
speme che la sua ottenebrata mente  potesse  balenare  per  un  istante,  e  ciò
basterebbe alla società per risorgere. Questi incerti e pallidi raggi di luce ci
sembrarono fulgidi, scorgendo quasi nunzî del nuovo giorno la splendida  pleiade
de' socialisti, la tendenza delle moltitudini all'associazione, la preponderanza
che giornalmente il concetto sociale acquista sul politico.  Ristorato  l'animo,
ci siamo ristretti  all'Italia  solamente.  Abbiamo  fatto  studio  sulle  varie
quistioni politiche, che si agitano in seno della nostra patria,  e  dimostrammo
quanto vana ed inutile sarebbe la loro soluzione se non si sbarbicassero le  due
cagioni da cui la miseria, la schiavitú, la corruzione irraggiano,  proprietà  e
governo. In ultimo, abbiamo  stabiliti  dieci  principî,  conseguenza  immediata
delle leggi di Natura, come base del futuro contratto sociale. Ora, non  verremo
esponendo un sistema, proponendo ordini, promettendo felicità, né esorteremo con
gonfie declamazioni gl'Italiani alla concordia, alla battaglia.  Noi  studieremo
le forze che operano nel seno  della  Nazione,  ne  cercheremo  l'intensità,  la
direzione, la risultante, onde  conoscere  cosa  l'Italia  sarà,  non  già  cosa
vogliono che sia i partiti. Epperò cominceremo dall'esaminare quale sia lo stato
dell'Italia relativamente alle altre nazioni dell'Europa.

CAPITOLO QUARTO

XIII. Italia e Francia. - XIV. I partiti in Italia. - XV. Il Comitato  nazionale
e Giuseppe Mazzini. - XVI. Insurrezione. - XVII. Dittatura.



XIII. Il volgo, il quale senza esaminate  minutamente  le  cose,  giudica  dalla
fallace apparenza di esse, considera la Francia  e  l'Inghilterra  come  le  due
nazioni dalle quali debbono partire gli impulsi che sospingeranno i popoli ad un
migliore  avvenire,  quasi  che  la  rigenerazione   politica-sociale   d'Europa
dipendesse dal progresso industriale di esse. Per non dilungarci  soverchiamente
su tale argomento, e perché cotesta missione rigeneratrice si  attribuisce  alla
Francia piú che all'Inghilterra, noi faremo paragone fra la prima di queste  due
nazioni e l'Italia. La rivoluzione francese del 1789 fu una grandiosa esperienza
che mise a nudo la poca importanza delle varie forme di governo relativamente ai
mali che la società ammiseriscono. Coloro  che  governarono  quella  rivoluzione
cercarono garentire  la  libertà,  proponendosi  a  modello  Grecia  e  Roma,  e
mostrarono ignorare affatto quelle storie. Se con maggiore  oculatezza  avessero
cercato le cagioni di quello splendore le avrebbero scorte ne' rapporti sociali,
nello stato economico di que' popoli,  per  cui  legavasi  strettamente  l'utile
pubblico al privato; ed in quelle forme di governi, creduti origine d'ogni bene,
avrebbero riscontrato la causa della non  tarda  ruina  di  quelle  nazioni.  Se
avessero fatto studio sui tanti esperimenti che  fecero  que'  popoli,  e  tutti
invano, per impedire l'usurpazione di chi reggevali;  se  avessero  meditata  la
storia d'un'epoca meno remota, quella degl'Italiani del medioevo, che  pel  loro
stato economico, religioso, morale, si rassomigliavano ai  Francesi  piú  che  i
Greci ed i  Romani,  si  sarebbero  convinti  facilmente  come  sia  impossibile
limitare l'abuso  ed  evitare  il  despotismo,  allorché  delegasi  a  pochi  la
sovranità ed il potere che risiede in tutti, e solleciti delle  forme  lasciansi
sfuggire la sostanza delle cose. La Francia al '93  subí  l'esperienza  medesima
che già avevano subito gl'Italiani nel medioevo.  I  nobili,  domati  dal  regio
potere, avevano smesse le armi, ed il re aveva vinto un rivale,  ma  perduto  un
sostegno. Intanto, come in Italia il popolo,  combattendo  a  difesa  del  papa,
conobbe di aver diritti, cosí in Francia, assumendo la difesa del re,  imparò  a
difendere  se  stesso.  Parteggiando  pel  re,  egli  credette  migliorare,   ma
svincolato dalle strette del feudalismo, videsi abbandonato, privo di  mezzi  ed
appoggi, in una lotta ineguale co' ricchi; sospinto dai suoi dolori rovesciò  il
trono, in tal modo la rivoluzione si compí, rivoluzione  che,  come  quella  del
mille in Italia, fu il trionfo del Comune sul medioevo. Agli Italiani  bastarono
sei secoli per cangiare in  popolare  il  barbaro  reggimento,  ai  Francesi  ne
bisognarono quattordici. L'unità, l'indipendenza assoluta, le superstizioni  del
cristianesimo scrollate, il prestigio de' nomi caduto, resero,  all'esterno,  la
Francia piú maestosa dell'Italia, furono idee, non famiglie,  che  parteggiarono
il popolo. Ma la stessa unità, la minore energia  della  plebe,  lo  spirito  di
libertà poco comune, insomma lo spirito repubblicano,  universale  in  Italia  e
difettivo in Francia, e  per  contro  fortemente  sentite  le  tradizioni  della
monarchia, distrussero in dieci anni tutte quelle conquiste del popolo  che  gli
Italiani conservarono per quattro secoli. La  rivoluzione  francese  scosse  dal
loro  letargo  i  popoli  d'Europa,  ed  il  governo,  che  i  moderni  chiamano
rappresentativo, fu la barriera,  l'ostacolo  che  gl'impotenti  troni  opposero
all'esigenze del popolo. Abbiamo parlato abbastanza largo di una  tal  forma  di
governo, quindi non è mestieri ritornare sull'argomento, diremo solo che da tale
epoca cominciò a germogliare l'epoca che minaccia di cancrena l'Europa. Intanto,
l'industria, il  commercio,  le  scienze,  progredirono,  il  secolo  XIX  venne
chiamato il secolo del progresso, ed i dottrinarî  credettero,  o  gli  convenne
credere, che sotto  tale  reggimento  compivasi  gradatamente  l'educazione  del
popolo, navigandosi a golfo lanciato verso la  libertà,  strana  aberrazione,  o
strana menzogna. Il secolo XIX sarà famoso nei fasti dell'umanità, non  già  per
la servile e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno,  ma  perché
in tal torno il socialismo, d'aspirazione fattosi sentimento,  ebbe  partito  ed
avrà attuazione. La grandezza, la degnità della  Nazione  non  va  misurata  dal
numero de' libri che in essa si pubblicano, come non è la dottrina solamente  la
qualità che determina il conto in cui debba tenersi un individuo. Un dotto,  che
pone la sua penna a disposizione del maggiore offerente, lambisce la mano che lo
sferza, bacia le catene che l'avvincono, e con facile viltà maledice chi  cadde,
né mai osa di  biasimare  il  potente,  non  può  certamente  preferirsi  ad  un
ignorante che, domo dalla forza, guarda torvo l'oppressore, minaccia ne'  ferri,
né lasciasi intimorire dalla spada, né dall'oro corrompere:  il  primo  sarà  un
uomo culto ma degradato, il secondo rozzo ma pieno del sentimento della  propria
dignità; nell'uno possiamo rappresentare il basso Impero e  l'Italia  al  secolo
de' Medici; nell'altro la Roma de' Bruti, de' Scevola... e l'Italia  del  mille;
nel primo possiamo scorgere l'odierna Francia,  nel  secondo  l'Italia  moderna.
Colui che si crea un padrone è schiavo per natura, chi  lo  subisce  non  è  che
disgraziato. Se i rivolgimenti avvenissero in ragione  de'  libri,  non  sarebbe
stata la Sicilia la prima ad iniziare i moti  del  '48,  né  la  dotta  Germania
sarebbesi rimasta quasi inerte  tra  l'universale  sconvolgimento.  Quali  dotti
contava la Grecia all'epoca della  sua  memorabile  rivoluzione?  Gli  Hoche,  i
Marceau, i Kléber... i Marco Botzari, i Canaris... eroi da rivoluzione e non già
da poltrona, non sono parto di dottrine, primogeniti di queste sono i Guizot,  i
Thiers... La probabilità di un rivolgimento è in ragion  diretta  de'  mali  che
opprimono il popolo e del grado d'energia che esso conserva. Faremo studio su di
ciò, onde discernere se in Italia l'abilità al moto sia minore che  in  Francia.
In Italia come in Francia, la vita pubblica  è  difettiva,  non  curato  l'utile
nazionale, a cui viene sempre preposto l'utile privato.  La  vita  pubblica  de'
moderni consiste nelle gesta da romanzo che  suppliscono  alla  sterilità  degli
avvenimenti storici. L'eroe da romanzo è il modello che la gioventú  si  propone
nel suo esordire; una brillante  comparsa,  come  dicono  i  Francesi,  dans  le
tourbillons du monde, è l'ambizione de' moderni eroi, de' lyons, è la gloria che
per essi adegua, anzi sorpassa quella de' Scipioni e de' Marcelli. All'operosità
succede il riposo, il  lyon  si  trasforma  e  comparisce  nel  mondo  sotto  il
carattere d'homme blasé. Il lyon ama i rischi del duello, di una corsa a cavallo
e... ma guardasi bene dal mischiarsi in politica, se  le  barricate  covrono  le
strade, chiudesi in casa curandosi  poco  dell'esito  della  lotta,  ed  aspetta
tranquillo quando les affairs ont  repris,  per  essere  richiamato  all'azione.
Allora si fa di nuovo ad usare in quelle numerose brigate ove lo  scambio  degli
affetti è impossibile, ed in quei teatri  ove  con  mostruosi  drammi  si  tenta
invano scuotere la flaccida e logorata fibra dell'annoiato ascoltante. In Italia
i lyons, i grandi ridotti,  quel  genere  di  produzioni  teatrali  sono  piante
esotiche. Ci sforziamo, egli è vero, di  accettare  i  medesimi  gusti  e  farci
imitatori degli oltremontani, ma fortunatamente con pochissimo successo.  Quanto
ristretto è il numero de' romanzi e  dei  romanzieri  in  Italia!...  E  perché?
mancano forse gl'ingegni, o la favella, come alcuni asseriscono, non prestasi  a
tali letterarie produzioni? mai no; se esse  venissero  chieste  dalla  pubblica
opinione, tutte le difficoltà sarebbero superate, né la tirannide le  interdice.
Ma quello poi che maggiormente ridonda a gloria nostra è  che  i  pochi  romanzi
italiani sono quasi tutti di  fama  imperitura,  quasi  tutti  hanno  uno  scopo
politico, ed i piú accreditati fra essi, come l'Assedio di Firenze,  Nicolò  de'
Lapi, Ettore Fieramosca,... suscitando un torrente di affetti patrii,  affogano,
attutiscono ogni affetto privato. Il prestigio del fasto immenso in Francia,  in
Italia abborrita la pompa:  gradirono  i  Francesi  il  brillante  corteggio  di
Bonaparte piú che la semplicità del governo provvisorio del '48 e di  Cavaignac;
in Italia, per contro, il modesto vivere di Mazzini e di Manin riscossero plauso
ed universale simpatia. La superstizione religiosa, in Italia come  in  Francia,
non esiste che fra le donnicciuole; la religione è ridotta ad  atti  esterni,  è
un'abitudine, non già un sentimento, e se sentimento religioso vi  fusse  ancora
al giorno d'oggi, la sua sede sarebbe in Francia e non già in  Italia.  Proudhon
rinnegava la storia scrivendo Le bigot italien, egli  non  rammentavasi  come  i
Francesi, da Carlo Magno, sono stati sempre i difensori del papa, non per ragion
di Stato, ma per fanatismo,  ed  i  nemici  de'  pontefici  sono  stati  e  sono
gl'Italiani, ai quali è riserbato d'inaugurare  il  trionfo  su  tutte  le  idee
religiose. Si eccettui il Piemonte in cui, per soverchia docilità del popolo  il
reggimento costituzionale dura, nelle altre parti d'Italia non ha potuto  gettar
le sue barbe; la violenza, la corruzione non son bastate in Napoli, in Roma,  in
Toscana, ad ottenere una camera  suddita  del  ministero.  Troverete  in  queste
provincie satelliti efferati ed impudenti della tirannide, ma  quei  trafficanti
in politica, pronti ad inchinarsi ai fatti compiuti, non esistono, feccia e  non
cima di  società,  come  essi  si  compiacciono  credere;  in  Napoli  sonovi  i
Windishgratz e gli Haynau, ma invano si cercano  i  Magnan,  i  Saint-Arnaud,  i
Maupas... Gli ex-triunviri, gli ex-ministri,  gli  ex-generali  italiani  vivono
tutti nell'indigenza, mentre non trovasi in  Francia  un  ex-impiegato  che  non
abbia sa petite fortune. Secondo il proprio stato, i proprî bisogni, le  proprie
inclinazioni, producono le nazioni gli uomini che le rappresentano, e  viceversa
dal carattere di  questi  uomini  potrà  inferirsi  lo  stato  in  cui  esse  si
rattrovano. E se non volesse considerarsi come  passeggiero  il  presente  stato
della  Francia,  in  vedendola  padroneggiata  da'  Guizot,  da'   Magnan,   da'
Saint-Arnaud, da' Bonaparte... bisognerebbe conchiudere che essa si dissolve,  e
che le ultime virtú rivoluzionarie sonosi spente con Armand Carrel.  In  Italia,
per contro si rattrovano esseri spregevoli, ma non sono che i rappresentanti de'
varî governi locali vicini a ruinare, mentre la nazione intera  non  onora,  non
prezza né costoro né i dottrinanti che predicano  rassegnazione,  ma  i  martiri
suoi; quindi è nazione che sente il peso de' proprî mali, che onora  quelli  che
danno la vita per combatterli, e dal martirio alla battaglia non  havvi  che  un
passo. L'attacco di centosettantamila stranieri contro Italia divisa, quasi  non
bastò a ristabilire  il  dispotismo;  essi  per  vincere  han  dovuto  ricorrere
eziandio al raggiro ed alla menzogna. Tre battaglie,  quattro  assedî,  sessanta
combattimenti, tre città messe a ferro e fuoco, sono  i  gloriosi  monumenti  di
nostra resistenza, mentre gli esuli, i prigioni, le vittime che muoiono col nome
d'Italia sulle labbra [sono] la nostra continua e  gloriosa  protesta.  Come  ha
difeso Francia la sua libertà? un pugno di  compri  francesi  in  poche  ore  da
libera la fanno schiava, e la nazione, ben lungi dal  resistere,  col  suffragio
universale, sancisce l'usurpazione ed appoggia  la  spregevole  tirannide.  Come
negare che i rivolgimenti avvenuti in Francia il 1830, il '48, il due  dicembre,
sono l'effetto d'una vittoria ottenuta da un  ristretto  partito  in  Parigi?  E
somigliano moltissimo alle congiure di palazzo del basso Impero,  a  cui  veruna
parte prendevano le popolazioni  delle  provincie,  mentre  in  Italia  non  v'è
movimento che non trovi un'eco in tutte le valli dell'Appennino. Tre volte,  nel
breve spazio di cinquanta anni, la Francia è stata arbitra de' suoi destini, tre
volte da se medesima si è foggiata le catene, mentre,  se  non  vi  fosse  stato
intervento straniero, l'Italia, forse, sarebbe libera da molto  tempo.  I  gusti
adunque, i costumi, i fatti, la dimostrano meno indifferente a' suoi mali,  meno
degradata che Francia, quindi  maggior  probabilità  di  risorgere,  accresciuta
eziandio dal desiderio ardente  che  sente  ogni  Italiano,  di  conquistare  la
propria nazionalità, significante movente di cui  difettano  i  Francesi  perché
credono possederla. Esaminate le forze che  sospingono  al  moto,  ci  faremo  a
studiate quelle che resistono. La nobiltà, la borghesia, i preti, gli  impiegati
d'ogni genere, un forte e numeroso esercito, sono una base  di  granito  che  in
Francia sorregge ogni genere di despotismo; ma ove sono queste forze in  Italia?
La piú famosa nobiltà italiana, la  vera  nobiltà  feudale  venne  distrutta  al
sorgere de' Comuni; solo nell'Italia cistiberina durò ancora lungamente,  ma  fu
in continua lotta col trono. Doma da Federico,  riprese  vigore  per  l'avarizia
degli Angioini; di nuovo perseguitata dagli  Aragonesi,  durante  il  regno  del
perfido Ferdinando d'Aragona, fece l'ultimo sforzo con la famosa congiura. Dieci
Baroni de' piú famosi lasciarono la vita  sul  palco,  altri  fuggirono,  furono
occupate le loro castella, disarmato il vassallaggio. I discendenti  non  ebbero
piú forza, e per tradizione, e pel continuo cangiare  della  dinastia  regnante,
essi non furono mai gli amici del re: undici nobili di primo rango perirono  nel
'99 come repubblicani, fra questi il formidabile campione della libertà,  Ettore
Carafa conte di Ruvo. In Piemonte la nobiltà non conta che i fasti di sua docile
servitú, nobiltà di secondo rango, perocché  i  grandi  feudatarî  si  estinsero
successivamente, e sulle loro mine s'innalzò il trono di casa Savoia. I numerosi
titolari che brulicano ne' varî Stati d'Italia, sono nobili  nuovi,  ovvero  non
nobili, né formano casta i cui privilegî li lega per  utile  proprio  al  trono;
sudditi, come il resto de'  cittadini,  sono  regî  se  percepiscono  stipendio,
liberali in caso contrario. I veri nobili d'Italia sono i  patrizî  delle  varie
repubbliche, ed in primo luogo i  veneziani,  e  cotesta  nobiltà  potrà  essere
municipale e non regia. La borghesia italiana, non solo non sostiene ma  odia  i
presenti governi, e se non è sollecita al muovere, non avversa  i  movimenti.  I
preti, non essendo salariati come in Francia, contano  moltissimi  liberali,  ed
anche  soldati  della  libertà.  Infine  possiamo  conchiudere  che   se   togli
dall'Italia i stranieri, l'appoggio dei  troni  riducesi  alla  codarda  schiera
degli impiegati e de' poliziotti.  Solo  in  Napoli  ed  in  Piemonte  havvi  un
esercito, ma esso non si è mostrato, in certe  circostanze,  inaccessibile  alla
brama di libertà. Quindi la tirannide non si sostiene  che  in  virtú  di  forze
straniere; aggiungi, le tradizioni dell'Italiani repubblicane tutte, quelle  de'
Francesi regie, e potremo senza errore conchiudere che l'esercito  conservativo,
potentissimo in Francia, in Italia  quasi  non  esiste.  La  sola  cosa  che  in
apparenza favorisce la Francia, è lo scorgere che in essa  le  idee  di  riforma
sociale sono piú generalmente sentite, sono  già  scritte  sulla  bandiera  d'un
partito. Ma  questo  partito  non  è  reciso  ne'  suoi  concetti  e  nella  sua
propaganda; lo stesso Proudhon spera accordare l'utile del proletario  e  quello
della borghesia; tutti sono, nella pratica, dubbiosi e timidi. I riformatori che
svolgono le dottrine, foggiano sistemi, altro non fanno che delineare  la  prima
orditura, che stabilire  de'  principî;  un  numero  ristrettissimo  di  persone
s'inspirano ne' loro volumi, e questi volumi possono dirsi un retaggio  europeo.
Ma nulla apprende il numeroso volgo, ché, eziandio le cose volte a migliorare la
sua condizione e minorare la sua fatica, non le accetta che stretto dall'estremo
bisogno, e non si lascia convincere se non dal fatto. I giornali, i ragionamenti
e le corrispondenze  pubbliche  o  private,  gli  scopi  che  si  propongono  le
congiure, le persecuzioni, le vittime, gli avvenimenti,  sono  quella  serie  di
argomenti per cui le astrazioni de' riformatori divengono concetti  popolari.  I
discorsi di Proudhon  all'assemblea,  i  suoi  articoli  sul  giornale  da  esso
redatto, le lezioni di Louis Blanc al Lussemburgo, le manifatture nazionali,  le
barricate di luglio, ha formato la propaganda la quale  cominciò  a  trasfondere
nelle masse il socialismo; il popolo, forse,  non  ha  compreso  il  significato
dell'ordinamento del lavoro, ma sa di essersi battuto per esso, e quindi può non
sembrargli strano il ritentare l'impresa. Il due  decembre  ha  spaventato  ogni
partito, e tutti avrebbero desiderato far tregua alle contese onde abbattere  il
nemico comune, i socialisti han taciuto ed han  quasi  perduto  il  terreno  che
avevano guadagnato. Le dicerie pubblicate dai rivoluzionarî francesi sono  vuote
declamazioni. Non si scrutano i varî rapporti, non si dimostra al minuto  popolo
quale sarebbe l'avvenire che, volendo, può conquistarsi: son  formalisti  e  non
altro. Tutti, si eccettui Proudhon, persistono nel grave  errore  di  pretendere
iniziare le riforme dall'alto [al] basso, imporle al popolo, e non farle sorgere
spontanee dal basso in alto; e siccome ogni caporale di partito credesi il  solo
atto a praticare le proprie idee, che egli crede le sole vere e giuste, tutti si
fanno propugnatori della dittatura, perché ognuno  la  spera  per  sé,  non  per
ambizione, ma pour faire le bien, dicono i  Francesi,  per  educare  il  popolo,
dicono gl'Italiani; epperò, comeché il moderno socialismo fosse nato in Francia,
non è la Francia  piú  innanzi  dell'Italia  nella  pratica  di  tali  dottrine.
Inoltre, il compimento della sociale riforma deve in Francia  superare  ostacoli
assai maggiori che  in  Italia,  e  perché  il  grande  sviluppo  dell'industria
accumulando grandi capitali ha creato potenti e numerose forze che resistono;  e
perché bisogna ridonare la vita al Comune, spenta affatto  dall'unità  francese,
mentre in Italia essa è latente, ma vigorosa e pronta a svilupparsi. Quindi  non
solo l'Italia ha in sé probabilità di  moto  maggiori  che  la  Francia,  ma  la
soluzione del problema sociale è molto piú facile  ed  omogenea  all'Italia  che
alla Francia. Seguiamo il confronto fra le due Nazioni, e  cerchiamo  discernere
per quale delle due, ammesso il moto, è piú facile il successo. Parigi è la sola
città della Francia ove l'insorgere è possibile; ivi, egli è vero, sono raccolti
grandi mezzi di resistenza, ma il popolo parigino è numeroso ed arrischiato,  il
vacillare delle soldatesche facilissimo in una sí grande città, quindi facile la
vittoria che menerà un partito al potere. La Francia pensa ed opera come Parigi:
a Carlo X  succede  Luigi  Filippo,  a  questi  la  repubblica,  poi  Cavaignac,
Bonaparte, l'Impero... ed in tutti questi cangiamenti, solo di nomi, la  Francia
intera si rimane tranquilla. Cangiano i pubblici funzionarî, piú per premiare  i
partegiani del nuovo potere che per punire quelli del caduto, pronti  sempre  ad
inchinarsi al vincitore, tanto è cieca la disciplina. Ubbidienza a chi comanda è
la formola che regge la Francia  intera;  il  re,  il  governo  provvisorio,  il
presidente, l'imperatore... qualunque, infine, sia il nome del potere che  siede
sovrano a Parigi, esso disporrà arbitrariamente delle forze di tutta la nazione.
Fra i moderni, i suoi  ordini  militari  sono  ottimi,  le  schiere  istrutte  e
costumate a fatica, il Francese per indole prode e  facile  all'esaltazione,  le
tradizioni  militari  brillanti  e  recenti,  la  fiducia  nelle  proprie  forze
grandissima, quindi formidabile, rispettata.  Dopo  l'esempio  del  '93  nessuna
Potenza d'Europa attaccherà la Francia per sostenere un partito, anzi tutti  gli
Stati crederanno di avere ottenuta una grande vittoria se dopo  un  rivolgimento
la Francia si rimane nelle sue frontiere. Per essa, adunque, li cangiar forma di
governo è un fatto il quale, con pochissimo rischio, compiesi in  pochi  giorni.
Ma quale è il vantaggio di tali  rivolgimenti?  sotto  altre  vesti,  forse  piú
luride, il dispotismo è permanente. La forza cade  nelle  mani  di  uomini  che,
parlando [di] libertà, si sostituiscono al  despota,  ne  calcano  le  orme,  ne
seguono il sistema, e fannosi scudo contro i cittadini di quell'esercito  stesso
che pochi istanti prima riguardavano loro  nemico.  Inesperti  nel  trattare  un
tanto terribile strumento di tirannide ne  rivolgono  contro  loro  medesimi  le
offese: un soldato o il discendente d'un soldato, legittimo  possessore  e  vero
rappresentante del diritto  della  forza,  impone  silenzio  al  loro  importuno
garrire, e col piatto della  sciabola  li  caccia  ignominiosamente  di  seggio.
Quando dittatura vi è in un paese, questa non può essere che militare, e se tale
non la crea la nazione, essa per la natura stessa delle cose tale diventa,  sono
vani gli ostacoli, i raggiri del curiali per garentirsi. Di  un  tal  genere  di
rivolgimenti, cioè ad una fazione sostituirgli un'altra al  potere,  la  Francia
può compierne uno l'anno; all'Italia sono impossibili. Ci faremo a  dimostrarlo.
Non già in una sola città italiana, ma in ognuna di esse, perché piene  di  vita
municipale, potrebbesi iniziare un movimento, ma con poca speranza di  successo.
L'Italia intera seguirà l'esempio, ma senza unità: gli uomini nel[le] cui  mani,
in ogni regione, verrà affidato il potere, non vorranno  sottomettersi  gli  uni
agli altri, ed ogni Stato, forse  ogni  Comune,  spererà  salvezza  isolando  la
propria causa. Ma poniamo il caso che  gl'Italiani,  resi  dotti  dalle  passate
vicende, affidassero ad un centro comune la somma  delle  cose,  questo  governo
unico, a quanti bisogni deve provvedere, e prontamente provvedere?  Insorgere  e
vincere le prime prove non basta agli  Italiani,  essi  debbono  combattere  una
delle piú formidabili Potenze militari, che possiede  in  Italia  una  munita  e
forte base d'operazione, alla quale appoggia  un  numeroso  esercito,  quindi  è
forza che, ad onta del difetto di milizie e di armi, un esercito italiano  sorga
in un baleno numeroso e compatto.  Come  provvederà  il  governo?  ricorrerà  al
terrore? Coloro i quali credono che un illusorio potere  concesso  da  pochi  ad
alcuni uomini possa far loro abilità di comandare d'un capo  all'altro  d'Italia
s'ingannano, eglino conoscono l'Italia come può  conoscerla  un  Francese  o  un
Inglese, che giudicano dal proprio l'altrui paese. La formola obbedienza  a  chi
comanda, che ora regge la Francia, resse eziandio l'Italia, nel secolo passato e
ne' due precedenti, ma il concetto del risorgimento italiano, fatto  sentimento,
dal '14, cangiolla. Il costume che, ora, dalle Alpi al Lilibeo, hanno  i  popoli
Italiani, è, sempre che lo possono,  resistenza  a  chi  comanda,  né  esso  può
cangiarsi in un istante. Il terrore produrrebbe l'immediata reazione, favorevole
al nemico già accampato fra noi; le passioni in Italia non son tiepide, la forza
medesima di esse rese gli Italiani padroni del mondo, e ne fa un popolo di assai
difficile reggimento. Ed ammessa l'ubbidienza, cosa valgono que' battaglioni per
forza raccolti? ne' tomulti ardenti,  son  codardi  in  ordinate  battaglie.  La
Francia stessa, su cui il terrore ebbe grandissimo successo, non  ebbe  esercito
prima del '94; per cinque anni rimase esposta ai colpi nemici, fu salva non  già
per propria virtú, ma per gli errori di quelli. Ma l'Italia non può sperare tale
fortuna,  appena  qualche  mese  sarà  concesso  all'insurrezione  italiana  per
trasformarsi in esercito. Inutile, inefficace, ruinoso è il terrore  in  Italia,
quali mezzi rimangono, adunque, agli uomini eletti a governarla in sí  difficile
emergenza? un solo: fare un fervido e continuato invito  al  paese,  proporre  i
mezzi come provvedere a tutto, dico proporre, perocché non potendo abusare della
forza,  i  comandi  non  si  ridurrebbero  che  a  semplici  proposte,  il   cui
risultamento dipenderà  dalla  volontà  del  paese,  epperò  dalle  cagioni  che
determineranno questa volontà. L'odio ai presenti governi bastante ad insorgere,
trionfata l'insurrezione s'ammorza, quindi bisogna  suscitare  una  passione  da
bilanciare i  rischi  ed  i  stenti  della  guerra.  Il  desiderio  di  libertà,
d'indipendenza, l'amor della patria, han forza grandissima nei cuori  di  quella
balda ed intelligente gioventú che è sempre prima ad affrontare i perigli  delle
battaglie; ma essi soli non bastano,  l'Italia  trionferà  quando  il  contadino
cangerà, volontariamente, la marra col fucile; e, per  questi,  onore  e  patria
sono parole che non hanno alcun significato; qualunque sia il risultamento della
guerra, la servitú e la miseria lo  aspettano.  Chi  può,  senza  mentire  a  se
medesimo,  affermare  che  le  sorti  del  contadino  e   del   minuto   popolo,
verificandosi i concetti de' presenti rivoluzionarî, subiranno  tal  cangiamento
da meritare le pene ed i sacrificî necessarî a  vincere?  Il  socialismo,  o  se
vogliasi usare altra parola,  una  completa  riforma  degli  ordini  sociali,  è
l'unico mezzo che, mostrando a coloro  che  soffrono  un  avvenire  migliore  da
conquistarsi, li sospingerà alla battaglia. Quindi, le difficoltà  che  presenta
la guerra del nostro risorgimento, i numerosi nemici, l'indole italiana di assai
difficile reggimento, la vita municipale prima a manifestarsi nelle rivoluzioni,
il  costume,  omai  reso  seconda  natura,  di  resistere   a   chi   comanda...
costituiscono il fato della  nazione,  che  inesorabilmente  ne  ha  segnato  il
destino. Schiavitú o socialismo, altra alternativa non v'è. Poniamo ora il  caso
che in un rivolgimento il popolo italiano vegga la possibilità di migliorare  il
suo avvenire, ed animato da una  passione  forte  e  popolare,  che  unifichi  e
determini la sua volontà e la sua azione, corra volenteroso incontro al  nemico,
e facciamoci a ricercare, seguendo il paragone con la Francia, se i  suoi  mezzi
materiali son  tali  da  vincere.  La  Francia  avanti  la  rivoluzione  contava
duecentocinquantamila uomini, de' quali diecimila  erano  milizie  dorate  della
corte sparite con essa; settantasettemila erano battaglioni provinciali; e venti
o venticinquemila stranieri, quindi i soldati regolari nazionali  si  riducevano
a' centocinquantamila. In Italia, ammessa una rivoluzione universalmente sentita
che ne raccolga le forze sotto la stessa bandiera, non manca certamente  un  tal
numero di soldati. Aggiungi che gli abusi, dopo quell'epoca riformati, han  reso
gli eserciti piú mobili e piú compatti,  e  centocinquantamila  uomini  in  oggi
valgono assai piú che centocinquantamila uomini in allora, e la  superiorità  di
ordini ed istruzione che avevano gli eserciti alemanni sul  francese,  nel  caso
nostro non esiste, perocché  gli  eserciti  stanziali,  all'epoca  presente,  si
pareggiano in Europa. Le schiere francesi rimasero  quasi  dissolte  pel  numero
significante d'ufficiali che seguirono le sorti del re, in Italia,  per  contro,
probabilmente non se ne conterebbe alcuno. Quindi  le  nostre  forze  materiali,
possiamo dirle per numero ed ordinamento superiori a quelle  che  possedevano  i
Francesi al cominciare della rivoluzione. Negare agli  Italiani  il  primato  in
armi, è negare la storia, che perciò siamo venuti rammemorando nel primo Saggio.
La nostra temperie, fornita di una quantità sufficiente, ma  non  eccedente,  di
sangue igneo, accoppia il coraggio all'ingegno,  qualità  che  spesse  volte  si
escludono; l'Italiano discerne il pericolo,  studia  il  proprio  vantaggio,  ed
opera. Se noi siamo degeneri dagli antichi, lo sono del pari  gli  altri  popoli
d'Europa, quindi il vantaggio che deriva dall'indole nostra, dono della  Natura,
rimane il medesimo. Ma il valore individuale  non  ci  vien  negato,  tutti  son
convinti che un Italiano valga assai piú, o almeno quanto un Francese. Ci faremo
a discorrere del valore delle soldatesche.  Un  contadino  che  difende  il  suo
tugurio con coraggio  da  leone,  un  brigante  che  combatte  valorosamente  la
sbirraglia, può, fatto soldato, mostrarsi codardo perché non  vede  la  ragione,
non sente la necessità di rischiare la propria vita, e qualunque sia la severità
della disciplina, le pene da cui vien  minacciato  non  controbilanciano  mai  i
perigli immediati della battaglia. La disciplina, bastante a rendere il Russo  e
l'Inglese ottimo soldato, non basta, con diverse  gradazioni,  all'Italiano,  al
Greco, allo Spagnuolo, al Francese eziandio; questi  popoli  debbono  combattere
sotto il pungolo d'una passione  che  li  esalti;  questi  popoli  hanno  troppo
discernimento per sacrificarsi come  ciechi  strumenti  dell'altrui  volontà.  I
Suliotti, di eroico valore fra le loro montagne, arrolati dalla corte di  Napoli
come soldati, non corrisposero alla  fama  [che]  era  corsa  di  loro;  al  '99
l'esercito napoletano fugge, ed il popolo napoletano  combatte  strenuamente  il
nemico in ogni vallata; Capua, difesa da un esercito, e la fortissima Gaeta, non
indugiano la marcia dello straniero che vede in periglio la sua facile  vittoria
innanzi alla città di Napoli, aperta e priva di  ogni  genere  di  milizia.  Non
appena in Francia cessò  il  feudalismo,  ed  ai  guerrieri  feudali,  guerrieri
eroici, successero le regie milizie, i  Francesi  perdettero  il  primato  delle
armi, i lanzi ed i Svizzeri gli vennero preferiti. Fate paragone  tra  le  gesta
de' Francesi durante la guerra de' sette anni e quelle durante la  guerra  della
rivoluzione, e scorgerete quanta differenza passi fra  le  milizie  regie  e  le
repubblicane; quelle  strumento  d'un  despota,  queste  animate  da  una  forte
passione. Paragonate le battaglie di Rosbach e Jemappes, la prima combattuta dal
fiore delle regie  milizie,  l'altra  da  inesperti  volontarî  tumultuariamente
accozzati. Paragonate il soldato italiano a Pastrengo, e  lo  stesso  soldato  a
Novara, e scorgerete ad evidenza come il convincimento e l'esaltazione siano per
tutti i popoli di svegliato ingegno moventi assai piú efficaci che la disciplina
ed il terrore. In virtú del loro discernimento cotesti popoli, e particolarmente
gl'Italiani, combattono da eroi in  lontane  regioni,  e  mollemente,  se  manca
l'esaltazione, nel proprio paese; nel primo caso essi veggono nella disfatta  la
loro ruina, nel secondo un pretesto per tornarsene a casa.  Solamente  dopo  una
lunga carriera sui campi di battaglia ed una serie non interrotta  di  vittorie,
possono formarsi quelle schiere di veterani che amano la guerra per  la  guerra,
che tutto il loro utile si reassume nell'utile della  vittoria,  come  erano  le
schiere napoleoniche; ma senza la rivoluzione, e per essa dieci anni di prospera
guerra, non sarebbero esistite né quelle schiere, né Napoleone, né  le  vittorie
di cui la Francia incoronasi degnamente. Adunque, la cagione medesima, la nostra
temperie, che assicuraci il primato in guerra, è stata quella per cui i  moderni
eserciti italiani fecero  cattiva  prova;  gli  Italiani  discernono  troppo  il
periglio, per incontrano in forza di una virtú  negativa,  l'ubbidienza.  Questa
virtú è efficacissima pe' popoli del nord, che, dotati di una grande  abbondanza
di sangue caldo, sono stupidi e coraggiosi, atti ad  essere  menati  come  massa
inerte contro il cannone, ma, per contro, incapaci di que' sforzi  che  richiede
la virtú ardita e libera allorché  inspirasi  nelle  grandi  passioni.  In  tali
sforzi gli Italiani non hanno pari che i Greci; seguono con maggiore impeto,  ma
minor costanza, i Francesi. Un esercito d'Italiani, guerreggiando per  conto  di
una dinastia e per cagioni che non comprende, sarà il  peggiore  degli  eserciti
europei, se poi combatterà per una causa sentita e popolare,  sarà  invincibile.
Senza una passione universalmente sentita, gli Italiani non potranno  combattere
con valore; se poi la passione  e  l'esaltazione  esisterà,  le  nostre  schiere
saranno tanto superiori a quelle degli altri  popoli  per  quanto  lo  furono  i
Romani, i quali non vissero sotto clima  diverso  dal  presente,  né  ebbero  un
maggiore numero d'organi sensorî, né diversa temperie che noi. Essi nella guerra
vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e  nulla  piú,  passa
tra noi e loro. La popolazione della Italia oggigiorno  è  quanto  quella  della
Francia nell'89, mentre l'estensione della nostra frontiera è poco piú del terzo
di quella. La Francia mise in armi ottocentomila uomini, ma questi, ripartiti in
quattordici eserciti, (cosí richiedeva la ragion di guerra),  non  potettero  in
alcun punto ottenere sul nemico una significante  preponderanza  di  forze;  gli
eserciti a' confini  di  Spagna,  d'Italia,  del  Belgio,  della  Germania,  non
potevano certamente operare con un  comune  disegno,  ed  ognuno  d'essi  rimase
abbandonato alle proprie forze. La posizione degli Italiani  è  molto  migliore:
difesi dalla cerchia delle Alpi, il nemico è  costretto  a  raccogliere  le  sue
forze in paese sterile e dirupato, mentre gl'Italiani si trovano nella valle del
Po, regione ubertosa ove popolose e ricche città, numerose strade,  un  maestoso
fiume, forniscono, trasfondono facilmente le vettovaglie. Gli  attacchi  che  le
diverse Potenze potrebbero intraprendere sui varî  punti  della  frontiera,  non
possono riuscire simultanei, perché non sono prevedibili tutti gli ostacoli  che
attraverso i monti  possono  indugiare  la  marcia  d'un  esercito.  Impossibile
riescirebbe loro il darsi un vicendevole soccorso, perché l'asprezza del terreno
nol comporta, ed ogni attacco, non solo rimarrebbe isolato, ma, sboccando  dalle
valli, non porrebbe che presentare delle teste di colonne agli Italiani, i quali
possono, facilmente, far massa contro il piú vicino de' nemici; di  modo  che  i
Francesi  con  ottocentomila  uomini  si  difesero  contro  tutta  l'Europa,  né
potettero sempre pareggiare in numero il nemico sui diversi campi di  battaglia,
mentre agli Italiani basterebbero duecentocinquantamila uomini per conservare in
ogni scontro la loro superiorità. I nemici della Francia, finalmente, ebbero uno
scopo alle loro operazioni, Parigi, i nemici d'Italia non ne  avrebbero  alcuno;
l'importanza delle varie capitali sparirebbe con la rivoluzione;  né  potrebbesi
questa, ad onta dei sforzi che farebbero gli stolti, attribuire ad una sola  fra
esse, sia anche Roma, perché l'indole nazionale nol tollera;  quindi  il  nemico
sarebbe costretto vincere in ogni  vallata,  in  ogni  borgo,  troverebbe  tante
capitali innanzi a sé per quanti sono  i  punti  strategici  del  nostro  suolo.
Facendoci a reassumere il detto conchiuderemo che le tendenze e  le  probabilità
di moto sono in Italia maggiori che in Francia, e minori  le  forze  resistenti;
che, quantunque i moderni socialisti siano francesi, la  propaganda  pratica  di
quelle idee non è in Francia piú avanzata che in Italia.  Nondimeno  i  vantaggi
che esse promettono sono tali, che se un rivolgimento ne  permetterà  la  benché
minima applicazione, esse diverranno in un tratto popolarissime in  Italia  come
in Francia. Ammesso il moto prodotto da cagione universalmente sentita,  abbiamo
discorso del numero e valore delle soldatesche, delle  frontiere,  della  guerra
che  dovremmo  sostenere,  e  che  la  Francia  sostenne,   ed   il   vantaggio,
evidentemente, è dalla nostra parte. Possa questo confronto rilevare gli  animi,
generare la fiducia in noi stessi, ch'è forza confessarlo,  manca,  imperciocché
gli Italiani hanno il torto di confondere le imprese dei nostri  tirannelli  con
quelle della nazione. Perché essi non s'inspirano in quelle gesta  che  l'Italia
tutta unita compí? in esse, la  cui  memoria  dura  da  tanti  secoli  e  durerà
lontana, avranno la giusta misura  delle  nostre  forze,  né  ci  sarà  luogo  a
scoraggiamento. Le nazioni, durante le medesime fasi di loro vita,  sono  sempre
le stesse; credi tu, o lettore, che siamo in decadenza? non leggere  oltre,  non
perdere il tempo, caccia le mani nella corruzione  che  ti  circonda,  usa  ogni
mezzo per arricchirti e goder della vita, inchinati ai  tiranni,  basta  che  ti
assicurino i materiali godimenti; se poi  credi  che  possiamo  risorgere,  devi
assolutamente credere che saremo grandi come furono i nostri progenitori; se nol
credi ti compatisco, il tuo animo poco  gagliardo  non  regge  alle  impressioni
delle conseguenze estreme, tentenni nel mezzo, e sei fra la turba di coloro  che
vissero senza biasimo e senza lode; sarai poco utile alla patria ed  increscioso
a te stesso. Inoltre, il  nostro  ragionamento  farà  risaltare  sempre  piú  la
stranezza di alcuni Italiani di pregevole ingegno,  di  ottimo  cuore,  i  quali
credono fermamente  adoperarsi  per  lo  bene  della  patria,  col  tessere  una
continuata apologia di Francia, mostrandocela quale astro che dovrà dar norma  e
rischiarare il nostro avvenire. E perché abbiamo qualche chilometro di  meno  di
strade a rotaie e di telegrafi elettrici, perché l'aristocrazia bancaria  non  è
cosí potente come in Francia, perché il monopolio, tra  noi,  non  ha  raggiunto
l'apogeo, perché in Francia si pubblica qualche  migliaio  di  piú  di  bugiardi
volumi, n'inferiscono che l'Italia non regge al confronto di quella  nazione.  I
loro scritti, eziandio nel cuore dei piú imparziali non possono che suscitare un
certo disgusto, pure, considerando ogni libro che si pubblica  l'espressione  di
un sentimento nazionale, e  lasciando  all'intolleranza  religiosa  e  regia  la
ripartizione fra libri buoni e libri cattivi, noi ci  siamo  dati  alla  ricerca
delle cagioni che possono suscitare simili dottrine.  L'apparenza  degli  eventi
hanno tratto fuori del loro proposito cotesti scrittori.  Eglino,  per  scrivere
come rivoluzionarî italiani, sonosi dati a fare profondo  studio  sulle  cose  e
sulle idee di Francia, che, al momento, avevano vita  piú  rigogliosa,  e  tutti
invasi di quelle idee si son fatti a ricercarle in Italia; cercavano Francia, ad
essi notissima, han trovato Italia, che poco conoscevano, e, come se le  nazioni
durante la loro vita dovessero calcare le medesime orme, han  dichiarato  Italia
in ritardo. Intanto la  loro  posizione,  dovendo  scrivere  d'Italia  con  idee
francesi, era falsa, e la conchiusione non poteva essere ch'una, l'Italia non  è
Francia. Allora han colorito diversamente il loro  disegno,  han  reso  francese
l'Europa, ed in questo quadro generale, in un posto  affatto  secondario,  quasi
totalmente in ombra, si scorge l'Italia in lontananza. Ma  chi  parte  da  falsi
principî deve esser condotto, naturalmente, a false  conseguenze.  Infrancescato
il globo intero, ne inferiva  la  supremazia  francese,  e  l'avvenire  da  essi
prognosticato sarebbe, come  dice  V.  Hugo,  il  mondo  francese  e  quindi  la
rivoluzione, la rigenerazione umanitaria, risultando d'un carattere  speciale  e
non già umanitario, veniva da essi, che se ne dicono i  propugnatori.  rinnegata
affatto. E tratti ancora piú innanzi da' loro ragionamenti additano  la  Francia
come nostra protettrice, come fonte di ogni nostro futuro bene, e  predicano  la
fratellanza con essa; assurdo manifesto. Avvegnaché  tra  il  protettore  ed  il
protetto, il maestro ed il discepolo, il difensore ed il difeso, fratellanza non
può esservi mai,  ma  dipendenza.  Senza  che  essi  se  ne  accorgano,  i  loro
ragionamenti prognosticano che un giorno Parigi sarà la nuova Roma, e  come  ora
la Francia china  il  capo  ai  Vitellî  sublimati  da  compri  pretoriani,  nel
felicissimo avvenire al quale ci avviciniamo, tutta l'Europa farà lo stesso.  Se
questo è il progresso, auguriamoci il regresso, e regresso prontissimo.  Non  si
affretta né si propugna la rivoluzione con dottrine che la distruggono, o almeno
la travisano e sgagliardiscono l'animo; l'unità mondiale vi  sarà,  ma  non  già
come pretendono costoro, distruggendo le nazionalità, incorporandosi insieme,  o
assorbite  dalla  preponderanza  di  una  fra  esse;  ma  come   un   individuo,
associandosi co' suoi simili, viene abilitato ad  uno  sviluppo  maggiore  delle
proprie facoltà, del pari, nell'associazione universale, ogni nazione, lungi dal
perdere la sua individualità e l'indole propria,  troverà  campo  piú  vasto  di
svilupparla; e nel modo stesso che una nazione  non  sarà  libera  in  tutto  il
significato della parola libertà, se ogni suo individuo non sente fiducia  nelle
proprie forze, dignità, ed uguaglianza assoluta col resto  dei  cittadini,  cosí
l'associazione universale non potrà aver luogo, se prima  ogni  nazione  non  si
costituisca strettamente ne' proprî  caratteri  e  non  ci  sia  fra  tutte  che
un'uguaglianza  universalmente  sentita.  Quindi,   per   attuarsi   la   nostra
fratellanza  con  la  Francia,  bisogna  combatterla  e  vincerla,  o  almeno  è
indispensabile che, in parità di circostanze e di forze, sul medesimo  campo  di
battaglia, contro un nemico comune, meritassimo la palma in una nobile  gara  di
gloriose gesta.


XIV. Se per numerare i partiti in Italia ci faremmo con microscopica diligenza a
discutere le minime gradazioni, e vorremmo tener conto di una turba  di  persone
che affannosi brulicano intorno ai  troni,  l'impresa  riuscirebbe  faticosa  ed
ingrata. Cotestoro non sono che individui, le  cui  opinioni  mutano  al  mutare
degli eventi: ora  veggono  il  re  di  Sardegna  cacciare  d'Italia  stranieri,
principi, papa, ed incoronarsi re d'Italia; ora promettono corone ed  assicurano
successi in  virtú  d'un  credito  che  mai  ebbero  o  piú  non  hanno;  oppure
distribuiscono l'Italia ai varî principi d'una dinastia, e cangiano il  pensiero
italiano in servitú per una schiatta principesca, e vorrebbero richiamare a vita
antichi regni, coi suoi baroni, i suoi pari, i suoi prelati, e  tutta  la  pompa
del feudalismo; altri, e sono i piú abbietti, cercano un re oltr'Alpi  invocando
l'appoggio d'un  avventuriero  e  degli  assassini  di  Roma.  Sono  tra  questi
dottrinarî, paghi di esprimere moderatamente i loro pensieri, badando, come essi
medesimi dicono, che la scienza non  uscisse  dalla  sua  innocenza,  ovvero  si
riducesse ad una pura perdita di tempo; vi sono banchieri e commercianti le  cui
faccende prosperano, e quindi temono qualunque rivolgimento che  ne  ristagnasse
il corso. Ma questi non sono partiti,  neppur  sette,  sono  individui,  ripeto,
esuli i piú, a' quali l'esilio, sorgente per  la  maggior  parte  di  miserie  e
dolori, fruttò loro onori, considerazioni, lucri, che mai ottennero nel  proprio
paese. Rispettando in questa numerosa schiera i  pochissimi  illusi  perché  non
vogliono darsi la pena  di  pensare,  e  perché  Natura  li  creò  d'animo  poco
gagliardo, spregiamo la generalità; né ci faremo a rimescolare un tal fango,  le
nostre riflessioni si rivolgeranno su coloro che meritano il nome di partito.  I
regî bramano la guerra europea; e leggendo come casa Savoia,  barcheggiando  fra
Austria e Francia, abbia ingrandito i suoi Stati, sperano che si possa porre  ad
effetto la cacciata dello straniero, e costituire un forte regno boreale arbitro
de' destini italiani. Il principio loro è quello sviluppato dal  Balbo,  tendere
all'unità col successivo ingrandimento de'  varî  Stati  italiani.  Noi  teniamo
bene, e l'abbiamo dimostrato, che questo successivo ingrandimento è di  ostacolo
all'unità: che uno Stato italiano non darà mai norma agli altri,  ma  accrescerà
in  quelli  l'occulto  potere  ed  il  credito  de'  stranieri;  abbiamo  emessa
distesamente la nostra opinione riguardo al significato che  diamo  alla  parola
nazionalità, epperò non  possiamo  riscontrare  la  nazionalità  italiana  negli
abitanti della vallata del Po, retti secondo i capricci di un  principe;  ed  in
ultimo, insegnandoci la storia con severissima  lezione,  che  le  guerre  regie
combattute in Italia son sempre state scaturigine  di  miserie  ed  umiliazione,
rispettiamo una  tale  opinione,  ma  la  logica  ed  il  cuore  si  ricusano  a
dichiararla italiana. L'altro partito che raccoglie sotto la sua bandiera la piú
ardita e generosa gioventú, è il repubblicano. Assennati  da'  passati  disastri
non han fede alcuna ne' principi, il risorgimento d'Italia,  la  cacciata  dello
straniero, la sperano dalle proprie forze, da  una  rivoluzione.  Si  distaccano
alquanto  da  questi  un  numero  limitatissimo  d'individui   che   si   dicono
federalisti:  per  gli  unitarî  lo  scopo  principale  è  la  nazionalità,  pei
federalisti la libertà; quelli escludono qualunque intrusione straniera,  questi
accetterebbero la libertà dalla Francia, quasi che la libertà potesse  riceversi
in dono, e cosí federalisti ed  unitarî,  per  soverchia  esclusività  ne'  loro
sistemi, errano, non potendo esistere,  come  nei  precedenti  capitoli  abbiamo
dimostrato, nazionalità senza libertà, né questa  senza  quella.  I  federalisti
hanno piú chiari e recisi concetti politici, sono repubblicani di principî;  gli
unitarî sentono piú fortemente la dignità nazionale, ma  non  sono  repubblicani
che di forme. Quindi repubblicani unitarî, federalisti e regî sono i tre partiti
che si riscontrano in Italia, ma i due ultimi aspettano l'impulso d'altronde,  e
son ben rari fra loro gli uomini d'azione, i piú son dottrinarî; i primi  invece
vanno fastosi di una schiera nobilissima di martiri e contano quaranta  anni  di
vita  operosissima.  Inoltre,  tanto  i  regî,  come  abbiamo  detto,  quanto  i
federalisti, appartengono quasi tutti all'Italia boreale o alla Sicilia, gli uni
contenti di un regno, gli altri di una cisalpina, mentre gli unitarî abbracciano
nelle loro mire l'intera  penisola,  dalle  Alpi  al  Lilibeo,  epperò,  se  non
vogliasi disconoscere il vero, i soli che abbiano un carattere reciso di partito
italiano sono i repubblicani unitarî. Gli avversarî accusano questo  partito  di
debolezza e discordia, e correndo dietro una chimera, ma è forza riconoscere che
sono i soli i quali si adoperano a dar corpo a cotesta chimera, senza  attendere
che la manna piombi dal cielo. Dal detto possiamo  conchiudere  che,  quantunque
l'energia arricchisce l'Italia di  tanti  diversi  concetti  per  quanti  uomini
pensanti essa conta, il che dal volgo è  tolto  quale  disgrazia,  fatto  studio
sulle diverse opinioni, tre soli partiti abbiamo visto nettamente coloreggiarsi,
de' quali due limitarsi a sperare, un solo operoso. Senza che,  fra  queste  tre
parti, che  in  apparenza  sembrano  escludersi,  havvi  eziandio  un  punto  di
contatto: l'odio ai stranieri; sentimento ad ogni altro prevalente in  un  cuore
italiano. E fatta eccezione di  alcuni  servili,  o  salariati,  o  baroni,  che
ambiscono d'essere senatori, o strisciare nelle anticamere de'  re,  il  partito
regio in Italia ha un carattere affatto diverso da quello che hanno  i  realisti
d'oltralpe; non è simpatia per la monarchia, o per una  schiatta,  ovvero,  come
dicono i Francesi, dévouement, che legali al trono, ma è  il  bisogno  che  essi
sentono  d'un  appoggio,  per  la  poca  fiducia  che  hanno  ne'   rivolgimenti
popoleschi. Del pari, le opinioni  de'  repubblicani,  meno  pochi,  avvicinansi
assai piú al dubbio, ovvero ad un'oscura ed incerta percezione di rapporti,  che
all'evidenza; son repubblicani perché convinti che i principi  non  vogliono  né
possono volere l'unità e l'indipendenza italiana ma regî e repubblicani  saranno
tutti con quell'insegne che prime muoveranno arditamente e lealmente  contro  li
stranieri. Il modo adunque per discernere quale partito è il piú forte,  non  è,
in Italia, quello  di  numerarlo;  l'azione,  indubitatamente,  farà  sparite  i
partiti, li raccoglierà sotto la medesima bandiera; ma invece  bisogna  studiare
quale abbia maggior probabilità d'iniziativa, quale, pei principî che  propugna,
potrà solvere piú facilmente i tanti ostacoli che si presentano.  Nel  ragionare
della nazionalità abbiamo visto come lo stato presente  d'Europa,  le  questioni
che vi si agitano, l'energia italiana, le tradizioni municipali,  la  difficoltà
dell'impresa, non  rendono  possibile  il  risorgimento  italiano,  che  da  una
rivoluzione radicale e sentita, epperò l'utile delle masse sarà come un torrente
che trarrà seco alla battaglia gl'Italiani  d'ogni  opinione.  Seguiamo  ora  il
successivo sviluppo di queste opinioni in tutte le diverse loro  fasi,  facciamo
studio sugli insegnamenti del passato, onde scorgere ove la  forza  delle  cose,
ovvero il fato della nazione, ci condurrà.



XV. Allorché una forza prepotente opprime un rivolgimento qualunque,  nel  cuore
de' vinti, privati de' loro beni, sorge,  a  rattemprare  i  mali,  una  fervida
speranza della riscossa, che lo scorrer degli  anni,  in  luogo  di  rafforzare,
scema e dilegua. Imperocché essendo allora il disquilibrio  dell'utile  e  delle
affezioni private grandissimo, la natura umana creasi un puntello, la  speranza,
e volge tutta la sua operosità alla  cosa  pubblica,  che  in  que'  fugacissimi
momenti  reassume  eziandio  l'utile  privato,  mentre  in  seguito  l'imperiosa
necessità li separa di  nuovo,  e  l'abitudine,  scemando  i  mali,  ammorza  il
desiderio della riscossa. Queste naturali ed universali disposizioni, cessata la
repubblica romana, trovarono in Mazzini chi diede loro  forme  ed  azione.  Cosí
surse  l'associazione  nazionale,  poi  il  comitato  nazionale,  fatto  la  cui
importanza lo rendono del dominio storico e meritevole di  riflessione.  Epperò,
innanzi tutto, ci renderemo esatto conto, e sottoporremo  a  severa  critica  le
dottrine che professa Mazzini, inspiratore di un tal fatto e  degli  avvenimenti
che n'emersero. Giuseppe Mazzini è una indole nobilissima.  I  suoi  piaceri,  i
suoi godimenti si reassumono nel  farsi  strumento  del  risorgimento  italiano.
Sospingere gli Italiani alla conquista della  loro  patria  fu  il  primo  forte
pensiero che balenò nella sua mente giovanile, [fu] poi la stella  polare  della
sua vita, e sarà l'ultimo suo voto. Se ragiona assistito dalla verità, ha logica
potentissima:  il  suo  discorso  è  colorito  e  convincente;  ma  se   qualche
pregiudizio lo trae di passo, allora declama, e ripetesi sovente, quasiché delle
idee  fisse,  de'  punti  di  fede,  angustiassero  il  suo  grande  ingegno  in
picciolissimo giro. Facile all'amicizia, generoso, inaccessabile all'odio, e coi
suoi nemici personali magnanimo. La sua temperie  non  è  robusta,  ed  a  niuno
meglio che a lui converrebbero gli agi della vita: nondimeno, niuno piú  di  lui
li sprezza; per esso la vita materiale non esiste. Durante la  sua  laboriosa  e
tribolata carriera, esposto alle ingiurie ed alle persecuzioni  degli  uomini  e
de' governi, essendo privo d'appoggio in sulla terra, ha inteso  il  bisogno  di
rivolgersi al cielo, ha ricorso alla  religione,  e  perciò  ne'  suoi  concetti
politici havvi un poco del misticismo. La religione  l'ha  fatto  propendere  un
poco verso il principio d'autorità; quindi le accuse mosse contro di lui, ora di
assumere un tuono dittatoriale, ora profetico, mentre la  sua  indole  lo  rende
capace della [piú] pacata discussione e della piú  ampia  tolleranza.  Quindi  i
suoi  difetti,  i  suoi  errori  prendono  tutti  origine  nei  suoi  sentimenti
religiosi; se Mazzini fosse irreligioso sarebbe l'ideale del cittadino.  Su  lui
il mondo esteriore non ha potenza di sorta alcuna,  mutano  i  tempi,  cadono  e
sorgono troni, ognuno in  questi  mutamenti  cerca  fortuna,  o  salvarsi  dalla
caduta, egli invece, costante ne' suoi principî, marcia  attraverso  le  rovine,
come attraverso le ricchezze, verso il fine proposto. Il sentimento  interno  ha
sempre la prevalenza sulle impressioni esteriori. Parlerò  delle  sue  dottrine,
esporrò piú diffusamente quello di cui tante volte parlammo insieme. Il fato  di
una nazione, Mazzini nol cerca ne' rapporti  sociali  ed  internazionali  d'onde
scaturiscono le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, ma abbandona la terra e lo
cerca nel cielo. La legge, dice egli, è un'emanazione  di  dio,  che  impone  di
vivere nel vero, nel reale, nel giusto. Cotesto dovere non e, secondo lui, verso
noi medesimi, ma verso l'umanità. Quindi la vita una  missione  a  compiere,  un
continuo sacrificio, che necessariamente deve aspettarsi un premio o  una  pena,
altrimenti non avrebbe scopo. Ma ove conducono questi principî?  Questo  dovere,
questa missione, questo sacrificio, secondo Mazzini, oggigiorno è disconosciuto.
Dal che risulta un fatto che gli  è  forza  riconoscere:  il  dispotismo,  forza
mondana e materiale, ha soffocato un'idea, una tendenza celeste, che Dio avrebbe
dovuto infondere in tutti i cuori. Per compiere la rivoluzione bisogna adoperare
ogni sforzo onde far  rivivere  questo  sentimento,  questo  germe  divino,  che
trovasi in ogni cuore. Ma se la rivoluzione avvenisse quando esso sarà  risorto,
avverrebbe precisamente quando piú non sarebbe necessaria,  giacché  se  ognuno,
trascurando se medesimo, s'interessasse  non  d'altro  che  del  bene  pubblico,
allora, ad onta de' despoti e de' stranieri, la nazione, pare,  dovrebbe  essere
felicissima; senza che, despoti e stranieri, uomini anch'essi, e perciò soggetti
alla potenza  di  tale  legge,  diverrebbero  nostri  padri  affettuosi,  nostri
fratelli, e gli Austriaci, volontariamente, senza bruttarsi le mani  di  sangue,
andrebbero a compiere, ne' loro paesi, la  missione  della  vita.  Tutta  questa
dottrina, altro non è che la sognata fratellanza  del  vangelo.  Mazzini  sfugge
questa conseguenza: il despotismo, egli dice,  impedisce  che  questa  legge  si
trasfonda nell'umanità (tanto poco curasi Dio di propagare le sue  leggi),  solo
pochissimi eletti, i migliori per senno e per  virtú,  hanno  il  privilegio  di
comprenderla, e nel tempo stesso il dovere di rovesciare gli ostacoli  materiali
e fare abilità ai molti di riconoscere ove si trovi il vero. Ponghiamo caso  che
alla voce,  all'impulso  di  pochi,  tutti  rispondessero,  e  la  patria  fusse
conquistata. Cosa ne seguirebbe? Il passato avendoci insegnato quanto sia facile
corrompere gli animi e cancellare da essi la percezione del vero e  del  giusto,
bisogna che, in avvenire, s'adoperi  ogni  mezzo  onde  evitare,  impedire  ogni
trista tendenza. D'onde emerge per necessità il governo de'  migliori,  i  padri
della patria, che terranno le  anime  sotto  la  loro  tutela,  che  diranno  al
cittadino: tu hai un'anima immortale, una missione da compiere, un  vincolo  con
quanto [ha] vita, un dovere verso tutti, un diritto all'amore  ed  all'aiuto  di
tutti. Chiunque affermasse che l'anima non è immortale; che non abbiamo missione
da compiere, ma un istinto,  che  ci  sospinge  continuamente  verso  il  nostro
meglio; che, verso altrui, non abbiamo né  doveri  né  diritti,  ma  vincoli  di
libera associazione, che il nostro personale  vantaggio  determina,  sarebbe  un
eretico, meriterebbe l'ostracismo con onta, ed infamati dovrebbero essere i nomi
di Beccaria, di Filangieri, di Romagnosi. Conseguente a tali  principî,  Mazzini
attribuisce i mali sotto cui ora geme la Francia al cattivo apostolato: e perciò
l'apostolato non potrà esser libero, ma bisogna adoperarsi  in  ogni  modo  onde
l'anima non venga illaqueata da' sofismi de' materialisti;  indice  adunque  de'
libri proibiti, censura, financo il rogo,  per  gli  ostinati,  se  fa  bisogno;
eterno, inesorabile assurdo in cui cadono coloro i quali  riconoscono  come  una
necessità imporre de' limiti alla libertà. I libri e le azioni, ripetiamolo, che
risultano dalla lettura di essi, altro non sono che la manifestazione della vita
sociale, ne sono i pensieri e le opere. La tirannide che cerca interdire cotesta
manifestazione onde sostituirsi  in  sua  vece,  è  naturale  che  la  tema.  Ma
riconoscere il diritto e la  sovranità  della  volontà  nazionale,  e  declamare
contro i cattivi libri è un grossolano errore;  un  popolo  libero  che  volesse
limitare la stampa,  sarebbe  come  un  individuo  che  per  limitare  i  propri
pensieri, le proprie azioni, mutilasse il suo essere. L'imperatore delle  Russie
Alessandro I dichiarò esservi al disopra di lui il principio della giustizia, ma
chi proclamava questo principio? egli medesimo; chi n'erano i  custodi?  i  suoi
satelliti. Ogni epoca annovera il suo giusto ed il  suo  vero:  di  quali,  fra'
tanti, parla Mazzini? Riconoscere doveri è, né può negarsi, ammettere il diritto
di limitare la libertà, e questo principio, piú o meno largamente  applicato,  è
quello su cui si fondano i moderni governi d'Europa. Voi siete liberi,  vi  dice
la monarchia costituzionale, fin tanto che la vostra libertà non eccede i limiti
dell'equo e del giusto; il fisco  è  incaricato  di  additarvi  cotesti  limiti.
Chiunque mi dirà: devi compiere il dovere di conquistarti la patria,  assume  su
di me un tuono di superiorità e di comando, io nol patisco, e rispondo: chi  sei
tu che il dici - Dio lo vuole. - Ed io: dimostrami prima che esiste Dio,  e  poi
dammi le prove che tu sei l'interprete della sua volontà,  altrimenti,  se  puoi
costringermi con la forza, non sei che un tiranno, nel caso contrario non  posso
che compatirti. Per contro, ogni individuo può farsi  propugnatore  de'  diritti
universali senza arrogarsi autorità e senza  intaccare  la  libertà  di  alcuno.
L'uomo nasce libero ed indipendente, dunque ha diritto all'esistenza, diritto di
sviluppare ed utilizzare le proprie facoltà,  diritto  al  pieno  godimento  del
frutto de' suoi lavori... ecco delle  verità  che  non  hanno  bisogno  d'essere
interpretare e svolte da' migliori per senno e per virtú; chiunque le  propugna,
sia egli l'ultimo o il primo per senno, sia  egli  cultore  della  virtú  o  del
vizio, esse non perderanno mai la loro evidenza, non  cesseranno  mai  di  esser
verità. Costui potrà aggiungere: - la  tirannide  che  sostiene  i  privilegî  è
quella che vi rapisce questi diritti; abbattiamola! - ed ognuno, senza fare atto
di ubbidienza, potrà afferrare un fucile  e  seguirlo.  La  società  non  impone
doveri, ma li crea, con promettere solamente guarentigia de'  diritti  d'ognuno,
il che  limita  di  fatto  i  diritti  altrui.  La  dissoluzione  della  società
conducendo per conseguenza immediata alla perdita di questi  diritti,  n'emerge,
senza  aver  bisogno  d'apostolato  o  di  educazione,  l'impegno,  la   volontà
d'adoperarsi con ogni possa onde difendere questa società. Ma se questi  diritti
si riducono a quelli del proletario, morir di fame ed essere tratto in prigione,
allora la sola forza, favorita dall'ignoranza, potrà  indurre  cotesti  iloti  a
difendere quel sistema e quelle istituzioni che l'opprimono. Questi diritti sono
quelli che mantengono l'equilibrio sociale, senza esservi bisogno di governo; ma
non appena questi diritti vengono lesi nella benché  minima  parte,  il  governo
diventa indispensabile perché sostegno d'usurpazioni e privilegi, non  di  leggi
eterne e naturali, che reggono da sé. Tanti fratelli messi sotto la  tutela  de'
migliori, è la società, la nazione sognata da Mazzini, ovvero  l'attuazione  del
cristianesimo. Quale teoria ha avuto un cosí lungo apostolato come l'evangelica,
ed in quale epoca si è mai verificato il sogno della fratellanza? I selvaggi  in
mortali duelli si disputano il vitto e la donna, si sbranano  l'un  l'altro;  in
essi è la Natura che parla in tutta la sua purezza, e secondo i religiosi è  Dio
che manifesta le sue leggi. Le famiglie combattono fra loro.  Dall'unione  delle
famiglie, prodotta dal bisogno di difesa, sorgono le città, le nazioni,  che  si
conquidono,  si  distruggono,  si  asserviscono,  quasi  senza  veruna   ragione
sufficiente, il piú sovente pel capriccio di un despota. Un soldato per un magro
guadagno, si dà al mestiere di uccisore d'uomini che non conosce e con  cui  non
ha astio veruno, anzi spesso vincoli di parentela e di amicizia. Il forte  cerca
sempre di opprimere il debole;  l'astuto  profitta  dell'altrui  semplicità;  il
dotto dell'altrui ignoranza. Non havvi fortuna che non  si  elevi  sulle  altrui
ruine. Fratelli contro fratelli, figli contro padre s'accaneggiano, disputandosi
il possesso di ricchezze che hanno usurpate al povero. Un mercante  vedrebbe  ad
occhio asciutto cadere a migliaia i suoi  simili,  piuttosto  che  ribassare  il
prezzo di una sua merce. Insomma, il mondo sempre in possesso de'  piú  forti  e
de' piú astuti è la storia dell'umanità. Finalmente, i primi  cristiani,  i  piú
fanatici adoratori di Cristo,  discutevano,  nella  Tebaide,  di  fratellanza  e
mansuetudine a colpi di pietre e di bastone. E piú tardi gli ortodossi cattolici
ponevano ad effetto il dogma della fratellanza con ardere vivo  chi  non  voleva
dirsi loro fratello. L'uomo, ben lungi dal propendere  a  dividere  il  suo  con
altri, mai sempre scontento di quel che ha, desidera ciò ch'altri  possiede,  di
quinci l'infaticabile operosità. Il coraggio, in qualunque epoca,  in  qualunque
nazione, dall'uomo timido come  dal  valoroso,  nell'assassino  o  nell'eroe,  è
sempre ammirato, di quinci le ardite imprese. Son queste le due espressioni  che
dan norma alla vita dell'uomo, e sono  in  contraddizione  manifesta  col  dogma
della fratellanza. Un uomo, in passando, scorge un moribondo per  fame,  oggetto
che produce in lui, in ragione della delicatezza di sua  fibra,  una  sensazione
dolorosa; a  sfuggirla,  soccorre  l'infelice.  Il  domani,  esaurito  il  magro
soccorso, quello muore per fame, e questi che  non  è  piú  sotto  l'impressione
dolorosa del giorno innanzi, neppur pensandovi,  banchetta  lietamente.  Un  tal
fatto, argomento validissimo contro l'istinto della  beneficenza,  è  tolto  dai
propugnatoti di essa, dallo stesso Rousseau, come una dimostrazione  favorevole,
tanto scarsi sono gli argomenti che rincalzano la loro asserzione. A' Romani  ed
a' Greci non venne mai in mente dirsi  fratelli,  e  ne  ammiriamo,  stupefatti,
l'amor di patria, gli atti generosi, il continuo prevalere  dell'utile  pubblico
sul privato: mentre il mondo cristiano, che  si  disse  un  mondo  di  fratelli,
presentaci il miserando  spettacolo  d'una  solitudine  di  voleri  e  di  mire,
scaturigine d'ignobili fazioni e guerre civili atrocissime. Egli è  adunque  ben
meraviglioso il pretendere rigenerare il mondo, predicando  la  fraternità,  che
dopo diciotto secoli di apostolato è rimasta infruttuosa. L'indole umana, le sue
propensioni, i suoi istinti sono inesorabilmente invariabili, e sono le forze di
cui il sistema sociale deve avvalersi per  produrre  la  pubblica  felicità,  la
quale sarà, necessariamente, nulla, se coteste forze si combattono e si  elidono
perché applicate in opposta  direzione,  e  massima  se  tutte  cospireranno  al
medesimo scopo. Quindi non è l'uomo  che  deve  educarsi,  ma  sono  i  rapporti
sociali che deggiono cangiare affatto e ciò basterà per trasformare un popolo di
egoisti e dissoluti in un popolo d'eroi; amor di patria e  fratellanza  vi  sarà
quando l'utile  privato  verrà  indissolubilmente  legato  coll'utile  pubblico,
quando  ognuno  adoperandosi  pel  proprio   bene,   farà   eziandio   il   bene
dell'universale. Consolantissima verità, che sostituisce al lento,  impossibile,
assurdo sistema di educazione, quello prontissimo della rivoluzione,  e  che  in
luogo di escludere, come irriducibili, un numero  considerevole  d'individui,  e
restringere gli eletti a pochissimi, allarga in vasto campo la nostra coscienza,
ed  abbraccia  senza  eccezione  di  sorta  l'universalità  de'  cittadini;   il
traditore, l'assassino, il ladro... tutti  potranno  diventare  utili  al  paese
allorché saranno sparite le cagioni del delinquere e  l'utile  che  dal  delitto
traevano. Il fine è l'unità d'interesse, la fratellanza; il  mezzo,  la  riforma
completa degli ordini sociali operata con la  forza.  Inoltre,  sarà  sempre  un
enigma inesplicabile, come alcuni trovino nelle pagine del vangelo l'inno  delle
battaglie; come il vangelo, ove è scritto: obedite principibus  etiam  dyscolis,
racchiuda  massime  favorevoli  alla  libertà.  I  stranieri,  i  satelliti  del
dispotismo, sono nostri fratelli, bisogna convincerli, non già ammazzarli: quale
orrore! versare il sangue fraterno!... ma questa è l'eterna  contraddizione  del
mondo  cristiano.  I  fiorentini  dichiarando  Cristo  patrono  della  città  ed
armandosi contro il principe d'Orange, mentivano a loro medesimi: lungi  da  voi
que' micidiali brandi, calpestate i fregi de' vostri cimieri, inginocchiatevi  e
pregate, umiliatevi al vostro nemico, il vostro regno è  nel  cielo,  tanto  piú
splendido quanto piú  umiliati  in  terra,  ecco  la  dottrina  di  Cristo.  Voi
combattete innalzando il vessillo della croce? voi non siete che degli  ipocriti
e de' stolidi che non sanno quel che si fanno. Un valoroso polacco,  durante  la
rivoluzione di Polonia, fece scrivere sul vessillo della sua legione: tutti  gli
uomini sono fratelli; e questa legione fu il terrore de' fratelli russi.  Ebbene
metterò de' guanti, rispose un soldato francese il due decembre ad  un  popolano
che dicevagli di non bruttarsi le mani di  sangue  fraterno,  meritato  sarcasmo
alla stupida ed  ipocrita  proposta.  Allorché  il  popolo  insorge,  i  soldati
potrebbero fargli il medesimo rimprovero, nulla giustifica il fratricidio,  è  a
Dio, secondo la vostra dottrina, il punire i colpevoli. Ma la digressione  sulla
fratellanza è già lunga e noiosa, riprendiamo il filo delle idee  e  continuiamo
il  ragionamento  sul  comitato  nazionale.  Tutti  coloro  che   speravano   il
risorgimento per mezzo delle forze della nazione e non d'altronde,  applaudirono
unanimemente  all'installazione  del  comitato  nazionale.  Tutti  rivolsero  lo
sguardo a questo nuovo faro; tutti fidavano nella candida fama degli uomini  che
lo componevano, guarentigia solenne della rettitudine  di  loro  intenzioni.  Il
comitato non ebbe in suo potere alcun mezzo  materiale  per  farsi  riconoscere,
anzi la minaccia di prigionia e d'esilio [vi  era]  contro  chiunque  facessegli
adesione, nondimeno le adesioni furono numerosissime; prova  incontrastabile  di
sua legittimità. Si confortarono i  dubbiosi,  si  ravvivarono  le  speranze,  e
generale era l'aspettativa. Il comitato esordí col prestito nazionale, e comeché
il risultamento non avesse corrisposto  alle  speranze,  fu  un  atto  logico  e
necessario; sarebbe stato follia sperare di  piú;  ottener  danaro  è  cosa  piú
difficile che ottener combattenti; ed  in  simile  circostanza  trattav[asi]  di
sborsarli correndo rischi gravissimi. La fama de' membri del comitato prestavasi
egregiamente ad ogni operazione  finanziaria,  come  quella  superiore  ad  ogni
villano attacco che si potesse muovere  in  materia  d'interesse.  Egli  è  cosa
indispensabile, per determinare quale avrebbe  dovuto  essere  la  condotta  del
comitato nazionale, il renderci conto esatto dello stato  in  cui  trovavasi  il
popolo italiano alla caduta di Roma. E poiché  gli  individui  giudicar  non  si
possono dalla vita monotona ed abituale a cui le circostanze li costringono,  ma
bensí da certi rarissimi momenti ne' quali tutta e  liberamente  manifestano  la
forza di loro temperie, cosí i popoli non dalle  leggi,  non  da'  costumi,  non
dall'inerzia in cui oppressi trascorrono molti  anni  prima  di  manifestare  la
nuova vita, ma da'  tomulti,  da'  martirî,  da'  grandi  misfatti,  da'  tratti
d'eroismo, si giudicano. Epperò senza troppo  distenderci,  e  sorvolando  sugli
avvenimenti,  prenderemo  le  mosse  alquanto  da  lungi.  Le  sollevazioni   di
Masaniello, di Balilla, de' straccioni... avevano, come dicemmo,  annunziato  un
nuovo popolo italiano sulla scena politica  del  mondo,  il  popolo  moderno.  A
Cosenza si  concepirono  i  primi  forti  e  liberi  pensieri,  che  poi  Bruno,
Campanella, Vico svolsero. Ma questi rapidi slanci furono ben tosto repressi. Le
armi straniere arrestarono l'azione  nel  popolo  ed  i  gesuiti  spensero  ogni
scintilla di libertà che manifestavasi nel pensiero. L'Italia palpitò, ma i suoi
palpiti furono repressi dalla barbera Europa  e  l'Italia,  ritornata  cadavere,
tale si fu sino all'89. Poco prima della rivoluzione francese, i  monarchi,  non
ancora atterriti  dallo  spettro  della  rivoluzione,  scossero  tanto  torpore.
Tanucci, Leopoldo,  l'imperatore  [Giuseppe  II]  si  diedero  a  migliorare  la
condizione de' popoli,  e  sursero  scrittori  che  d'un  balzo  superarono  gli
oltremontani, ma il ruggito del popolo fecesi sentire, e le riforme ristagnarono
di botto. I principi ripresero le antiche armi: la tirannide, avendo  a  maestra
la paura, mostrossi piú atroce che mai. La guerra tenne dietro alla rivoluzione;
i principi italiani, essendosi adoperati a tutto potere a  spegnere  ne'  popoli
ogni sentimento nazionale, non potettero opporre al nemico che schiere di  servi
vestiti da soldati, che vennero sbaragliati al primo urto de'  liberi  Francesi.
Vinti, atterriti, si videro costretti ad invocare quella passione  medesima  che
prima avevano  combattuto;  i  loro  editti  poco  differiscono  da  quelli  de'
rivoluzionarî moderni, ed il popolo rispose al generoso invito; a Domodossola, a
Pavia, a Lugo, a Verona, a Napoli, in Calabria, i stranieri  cadevano  sotto  il
brando italiano; tutte le valli dell'Alpi furono  intronate  dal  fragore  delle
armi. Profondiamo un istante la nostra riflessione, e vedremo  una  riproduzione
de' fatti del mille. In quell'epoca il papa scosse il popolo  dal  letargo,  gli
disse di essere italiano e l'oppose all'imperatore. Il popolo, che per legge  di
natura, fa sempre precedere i fatti al pensiero, senza riflettere,  combatté  lo
straniero; nel modo stesso adoperò nel '96.  Al  mille  sursero  in  Italia  due
partiti, guelfi e ghibellini, questi, che  avevano  privilegî  da  conservare  e
difendere dall'avidità della teocrazia, parteggiavano per l'imperatore;  quelli,
che  non  avevano  nulla  da  conservare,  lo  combattevano  perché   straniero;
similmente nel '96, i pensatori, gli amanti  di  libertà,  erano  coi  Francesi,
togliendoli quai difensori di essa, il popolo, invece, che altro non  vedeva  in
essi che invasori, osteggiavali.  Al  mille  appena  i  popoli  cominciarono  ad
avvertire ciò che avevano  solamente  inteso,  combatterono  nobili  e  prelati,
vollero governarsi da sé, e dopo mezzo secolo, al cominciare dell'XI, il  popolo
era risorto. Dal '96 noi scorgeremo nel popolo italiano un continuo progresso  e
lo stesso cangiamento, la stessa unificazione di partiti avvenuta sul mille. Nel
1805, ne' quattro anni seguenti, l'agitazione contro i stranieri manifestossi in
diversi luoghi d'Italia, nel Polesine, nel basso Po, nelle  Calabrie,  a  Parma,
nel Tirolo, e questa volta il partito liberale, che sostiene  i  stranieri,  piú
non esiste, ne sono parteggiani non altri che  gli  impiegati.  In  tale  epoca,
gradatamente,  la  contro-rivoluzione  comincia  ad  assumere  i  caratteri   di
rivoluzione; il '14  la  trasformazione  è  completa.  Il  popolo  cominciava  a
comprendere il bene della  libertà,  ed  apprezzava  le  pretese  dei  liberali,
questi, d'altra parte, s'erano convinti che i Francesi  con  pompose  e  mendaci
parole non portavano che tirannide, e si erano ravvicinati al  popolo.  Murat  e
Beauharnais venivano assaliti dagli Italiani al nome di libertà. Gli Inglesi,  i
fautori del dispotismo e della schiavitú d'Italia, per  acquistare  le  simpatie
de' popoli della penisola, sbarcando a Livorno, scrivevano sulle  loro  bandiere
libertà ed indipendenza italiana. Al '14 gli sforzi degli Italiani  cominciarono
ad avere unità, e la storia del nostro risorgimento comincia: lotta continua fra
la giovane Italia e l'Italia ufficiale; come quella  che  ebbe  luogo  dal  1056
all'XI, fra i Comuni  ed  i  feudatarî  ed  ecclesiastici.  I  popoli  ne'  loro
risorgimenti seguono le stesse evoluzioni.  Ugo  Foscolo,  prima  che  Bonaparte
distruggesse Venezia, giura odio a' stranieri, poi, rivolgendo un mesto  sguardo
all'Italia, e scorgendola priva di forze e di sentimento,  dispera,  ed  accetta
l'invasione come una crudele  necessità;  quindi  la  combatte  con  la  parola,
cospira contro di essa, e vorrebbe trarne profitto per la  sua  patria.  La  sua
vita, le sue opere, le sue speranze, reassumono la vita, le opere,  le  speranze
del popolo italiano dal '96 al '14, di cui Ugo Foscolo n'è la  personificazione.
Qui  cade  in  acconcio  una  degressione  onde  coglier  cagione  a  combattere
gl'infrancesati, e distruggere il turpe  vezzo  d'idoleggiare  i  stranieri,  ed
esaltarli in nostro paragone non solo, ma dichiararli nostri benefattori.  Dalle
continue irruzioni che han fatto i Francesi in Italia, sin dall'epoca  di  Carlo
VIII, traggono alcuni argomento a dimostrare la loro  influenza,  e,  trascinati
dall'amor di un sistema, veggono sempre in Italia partiti che, secondo le  varie
epoche, si agitano a favore o contro cotesti stranieri. Una  tale  asserzione  è
assurda: la storia, durante tre secoli di guerra, ci mostra  l'Italia  cadavere,
essa non era rappresentata che da varie corti codarde e dissolute, in Italia non
v'erano che individui, popolo e partiti  piú  non  esistevano.  All'epoca  della
rivoluzione francese s'iniziò il nostro risorgimento, non già perché di  Francia
si trasfondessero in noi  idee  di  libertà,  leggi,  istituzioni,  come  alcuni
asseriscono; coteste intrusioni non furono che dannose, il regno di Napoli,  ove
fu maggiore, quali vantaggi ne trasse? nessuno; perdette  invece  le  franchigie
municipali di cui sempre aveva goduto. Il fragore di quella rivoluzione serví  a
risvegliarci dal nostro letargo e non altro, fu lo scroscio di fulmine del Vico.
I Francesi altro non furono in Italia che predoni  e  tiranni,  gli  uomini  che
governarono l'Italia durante l'occupazione francese furono quali il  Foscolo  li
definisce: "antichi schiavi, novelli tiranni... La regia autorità  era  in  essi
senza il coraggio e senza il genio d'esercitarla, vili cogli audaci, audaci  coi
vili..." I Francesi in quell'epoca  ci  disarmarono,  perché  temevano  di  noi;
quindi ci dissero codardi, perché cosí disarmati non combattemmo i loro  nemici.
Ripetiamo, senza mai credere d'averlo  detto  abbastanza,  quale  è  la  vantata
superiorità della Francia  su  noi?  forse  perché  havvi  fra  essa  piú  vasta
erudizione? No, un uomo potrà essere eruditissimo, dottissimo, non perciò essere
grande, esser uomo  modello.  La  vita  della  Francia,  dal  risorgimento  alla
rivoluzione dell'89, altro non è che un continuo strisciare dietro lo  splendore
e le dissolutezze di una corte. L'89, una fazione la sospinse sul sentiero della
gloria e della grandezza, ma  il  popolo  stesso  la  rovesciò,  e  volle  farsi
sgabello a nuovo trono. Al 1830, padrone un'altra volta delle proprie sorti,  fu
suo primo pensiero crearsi un padrone. Il '48, per  la  terza  volta  nel  torno
brevissimo di mezzo secolo, la Francia è arbitra de' suoi destini, quali sono le
sue gesta? conserva nella sua costituzione tutto l'ordito d'un governo  assoluto
ed affida il supremo maestrato ad un ambizioso e goffo pretendente, e suo  primo
pensiero è quello d'assassinare l'Italia. Finalmente l'esercito, dopo poche  ore
di strage proclama l'Impero, e la Francia applaude, la  Francia  affida  i  suoi
figli ed i suoi tesori con codarda rassegnazione al  piú  ridicolo  ed  incapace
reggimento che mai abbia  usurpato  trono.  Non  è  nostro  proposito  ragionare
dell'erudizione francese, a noi basta d'aver dimostrato che non abbiamo  bisogno
di cercare oltremonti le leggi magistrali della  Natura,  in  Italia  proclamate
prima che altrove. Ma concediamo sotto tale riguardo qualsiasi superiorità  alla
Francia, essa rappresenterà un dotto la cui dottrina è al servigio del successo,
de' fatti compiuti e di chi meglio paga. Il  dottrinario  che  trovasi  bene  in
tutte le epoche, e sotto qualunque reggimento smaltisce con guadagno la  propria
dottrina, è precisamente la personificazione della Francia. L'Italia invece è un
colosso, cinto da catene, circondato d'armati pronti a  soffocare  in  lui  ogni
palpito di vita; se il gigante  svincola  uno  de'  suoi  membri  sbaraglia  gli
oppressori, ma immediatamente tutta l'Europa corregli  addosso  per  opprimerlo.
Facciamo fine alla digressione, che i gallomani  han  provocata,  e  rispettiamo
tutti i popoli, ma senza ammettere, né popoli modelli, né popoli  arbitri  delle
sorti d'Europa. Il carattere con cui  si  annunzia  la  futura  rivoluzione  nol
comporta. La prima nazione  che  senza  curarsi  dell'avvenire  abbatterà  tutto
l'ordine sociale che l'opprime, estirpando fin l'ultime sue barbe, sarà la testa
di colonna dell'umanità, e questo popolo potrà essere l'italiano, come il greco,
come il francese, come il tedesco; e questo popolo non sarà il piú dotto, ma  il
meno degradato, e quello  che  maggiormente  sente  l'oppressione  presente.  Le
sanguinose  e  tristi  esperienze  che  gli  Italiani  fecero  dal  '96  al  '14
racchiudono gravissimi ed importanti ammaestramenti: i  liberali  sperarono  ne'
Francesi, e n'ebbero invece disarmo, taglie di  guerra  e  schiavitú;  sperarono
bene  dalla  restaurazione,  ma  l'Austria  mancando  alle  promesse,  le   loro
condizioni peggiorarono. I stranieri ci chiamano codardi se fidando in  loro  ci
sottoponiamo al loro giogo, ribelli se insorgiamo, quindi da  essi  non  bisogna
sperare che disprezzo o martirio: combatterli e vincerli è la sola  risorsa  che
ci resta. Dopo questi fatali disinganni l'Italia comincia a vivere nelle società
segrete, che tutte vanno ad incorporarsi in quella  famosissima  de'  carbonari,
che, dal '19 al '21, fu oltre ogni credere  potente.  Il  '20  il  movimento  si
manifestò nel regno di Napoli, in vaste  proporzioni,  poi  in  Piemonte;  venne
oppresso dalle bajonette straniere. Le file  de'  settarî,  quantunque  decimate
dalla paurosa tirannide, conservarono ordini e forza. I Capozzoli, generosi, che
dal '20, piuttosto  che  inchinarsi  alla  ferocia  del  governo,  battevano  la
campagna, si fecero iniziatori di una  sommossa  che,  non  secondata,  e  quasi
preveduta e  desiderata  dal  governo,  fu  soffocata  nel  sangue  di  numerosi
cittadini e [sotto] le ruine di Bosco. Al '31  Ciro  Menotti  muore  da  eroe  a
Modena, Bologna sollevasi. Tutti gli  occhi  si  rivolgono  alla  Francia,  essa
proclama il non intervento, nuova menzogna per tradire i  popoli.  Gli  Italiani
ebbero la  stoltezza  di  credervi  ed  osservarono  ridicolmente  il  patto.  I
bolognesi non soccorsero perciò i modenesi, e non accolsero Zucchi, incalzato da
forze  straniere,  che  disarmato.  Gli  Austriaci,  ad   onta   de'   Francesi,
intervennero: piú tardi intervennero eziandio i Francesi in aiuto de' primi,  e,
secondo loro costume, intervennero mascherandosi con bugiarde  proteste.  Questi
fatti furono nuovi ammaestramenti, le società segrete sono mezzi poco  efficaci,
esse, avvolte nel mistero, tolgono a modello il dispotismo: come  questo  ad  un
cenno muove i suoi battaglioni, aggregato di armati uniti  per  disciplina,  per
utile, e materialmente concentrati; cosí quelle  vorrebbero  disporre  de'  loro
ascritti, separati non solo  materialmente,  ma  eziandio  dalle  circostanze  e
dall'utile di ognuno. Vane speranze, son sempre pochi che  muovono,  la  nazione
rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta trionfano,  allora  hanno  nel
loro seno il germe della dissoluzione,  la  gerarchia  della  setta,  e  le  sue
esigenze si sostituiscono  al  governo,  in  cui  prevalgono  le  cupe  e  torte
abitudini de' cospiratori. Il  cospiratore  vien  costretto  a  simulare,  e  la
simulazione al governo trasformasi in  moderazione  e  diplomatici  raggiri;  il
cospiratore  è  avvezzo  ad  infiltrare   gradatamente   le   sue   idee   quasi
mascherandole, mentre  coloro  che  sono  chiamati  a  reggere  una  rivoluzione
debbono, a scesa di testa, apertamente proclamare i principî e dai primi istanti
afferrare le ultime conseguenze, perocché ivi solo si riscontra l'utile che  può
convincere le moltitudini. La Giovine Italia  surse  come  conseguenza  di  tali
ammaestramenti. Non fida piú ne' governi stranieri ma ne' popoli, non piú  nelle
società segrete ma nelle masse popolari, ad esse, e non a' capi, vuole  affidare
il risultamento della rivoluzione, respinge perciò ogni  idea  di  dittatura,  e
sminuzza il popolo in bande. Mazzini non tace, non asconde i suoi principî, come
i carbonari: Mazzini, da rivoluzionario, tuona, e fa noto all'Europa de'  popoli
le miserie degl'Italiani, i loro diritti,  le  loro  speranze.  Le  cospirazioni
cangiano carattere, i vendicatori del popolo, gli amici del popolo non hanno  il
mistero e le discipline de' carbonari,  sono  piú  adattate  all'epoca,  ma  piú
esposte agli attacchi de' governi.  La  cospirazione  del  '33  è  soffocata  al
nascere, la spedizione di Savoia, come doveva, abortí. Il '41 l'Aquila e  Civita
di Penne rimangono isolate. Il  '43,  il  movimento  doveva  essere  vasto,  non
scoppiò, i Bandiera, se non estranei alla  cospirazione,  lo  erano  almeno  per
quella regione ove sbarcarono, furono le vittime. Attraverso a tali  esperienze,
e sacrificando numerosi e nobili martiri, l'Italia compiva la sua propaganda, di
fatti non di parole. Dietro i fatti, sempre  tardi,  sempre  incerti  sorgono  i
scrittori. I primi scrittori cominciarono per rinnegare  le  nostre  tradizioni:
Mario Pagano aveva già dimostrato come arti, scienze,  industria,  tutto  emerge
dalla vita politica de' popoli. Romagnosi aveva raccolto tutto lo scibile  umano
nella filosofia civile, la scienza del cittadino, ed essi,  invece,  si  dissero
letterati e si dichiararono estranei alla politica. "Voi siete,  -  diceva  loro
Mazzini, - prosatori, verseggiatori, pedanti, non  mai  cittadini".  Epperò  con
Mazzini e Guerrazzi comincia  la  letteratura  italiana  ad  assumere  un  nuovo
carattere, ma i loro scritti in Italia sono soppressi  sul  nascere  e  la  voce
d'Italia non può sentirsi che fuori d'Italia. Allora i scrittori,  per  ottenere
il favore alle loro dottrine, si rivolsero a' principi, sperando eziandio d'aver
un nuovo e saldo appoggio alle loro speranze.  Eglino  reassumevano  le  passate
esperienze, dichiarando nostri nemici i stranieri, impotenti le cospirazioni; di
quinci le dottrine di Gioberti, di Balbo, l'Italia  deve  far  da  sé,  uniamoci
tutti, popoli e principi, eziandio i gesuiti, scriveva il Balbo. I  rivolgimenti
del '48 ebbero precisamente questo carattere; tutto il popolo che  si  agita,  i
principi sono travolti nel turbine, ed al termine di questa nuova  fase  succede
una nuova disfatta ed un nuovo ammaestramento.  Popolo  e  principi  hanno  mire
opposte: quindi diffidenza, dubbia fede, spergiuro, incapacità ne' capi, e, dopo
tanti sforzi,  il  popolo  altro  non  guadagnò  che  persecuzioni  ed  efferata
tirannide. A Roma o Venezia il popolo  combatte  solo,  quasi  svincolato  dalle
pastoie domestiche, ivi  combattesi  con  tutta  l'anima;  gregarî  e  capi  non
vogliono che la vittoria, hanno unità di mire, unità d'interessi; la disfatta  è
egualmente ruinosa per tutti, non vi sono cagioni estranee alla  causa  italiana
che  distornano  ed  ammorzano  l'impeto  de'  combattenti,  non  v'è  nulla  da
conservare. Nondimeno Roma e Venezia cadono, e  perché?  perché  angustiarono  i
loro sguardi fra le mura di una città, si combatté per Roma e per  Venezia,  non
già per l'Italia. Come in Ugo Foscolo si personifica la vita del popolo italiano
dal '96 al '14, in Mazzini si personifica la stessa vita sino  al  '48.  Mazzini
esordí per esser carbonaro, poi osteggiò questa setta, fondò la Giovine  Italia,
vinto in ogni tentativo, il '48, egli, repubblicano, fu costretto, come tutti  i
repubblicani, a rassegnarsi all'opinione universale. A Roma fu troppo romano. In
questi quarant'anni di storia rinviensi l'avvenire d'Italia. E se ogni  Italiano
appuntasse il suo intelletto sulle gloriose pagine di un tale libro,  troverebbe
in esso la soluzione di ogni dubbio che adombra la sua  mente.  Dalla  vita  de'
nostri martiri, dalla  narrazione  di  tutti  gli  sforzi  fatti  dagl'Italiani,
scaturisce  un  corpo  di  dottrine,  d'onde  dovrebbero  prendere  le  mosse  i
ragionamenti, e trarsi le conchiusioni che i dottrinanti, con poco senno e  poco
decoro, cercano altronde. In questo periodo di nostra storia,  Mazzini,  che  vi
occupa un posto glorioso, avrebbe dovuto trarre  le  norme  per  la  condotta  a
tenersi  dal  comitato  nazionale,  ivi  avrebbe  trovato  scritto  a  caratteri
indelebili: i stranieri e principi [sono] nostri nemici; le sette impotenti;  il
municipalismo ruinoso. Non eravi che un altro passo a fare, ed egli  lo  avrebbe
potuto studiando sui passati avvenimenti, senza farsi trarre di passo da ciò che
detestava presso gli oltremontani. La prima esaltazione rivoluzionaria creò que'
battaglioni che valorosamente difesero la romana repubblica,  quella  ammorzata,
quantunque  tutti  applaudissero  al  governo  repubblicano,  esso  non  trovava
soldati. Il volgo, in un tal fatto, altro non scorge  che  un  mal  volere,  una
ripugnanza alla milizia, mentre  esso  emerge  da  piú  lontane  fonti,  da  piú
importanti cagioni, è la quistione economica che sotto varî aspetti  padroneggia
l'Europa e reclama la sua supremazia; il popolo  non  ottenne  dalla  repubblica
vantaggi tali da impugnare le armi a sua difesa, in  esso  prevaleva  l'odio  al
passato piú che l'amore al presente. Mazzini, oltre ciò, avrebbe dovuto  ridursi
alla memoria la lettera che Sismondi scriveva alla Giovine  Italia:  "Finalmente
la stessa libertà, - scriveva l'insigne pubblicista, - offre il piú tremendo  di
tutti i  problemi,  quello  della  protezione  del  povero  e  dell'ignorante...
affiderete  voi  la  causa  del  proletario  agli  uomini  che  ne  dividono  le
privazioni? essi non hanno forza. L'affiderete quindi ai ricchi? essi saranno  i
primi a tradire il popolo". Questo problema  Mazzini  avrebbe  dovuto  farne  il
cardine principale de' suoi sforzi, della sua propaganda, svolgerlo, ventilarlo,
l'adesione di molti sarebbe mancata al Comitato, ma le  sue  file  in  luogo  di
diradarsi, sarebbero andate sempre ingrossandosi  dell'immensa  moltitudine  che
soffre e che sola combatte. Mazzini avrebbe  dovuto  essere  quale  fu  allorché
iniziata la Giovine Italia: combattere i  governi,  le  sette,  ogni  specie  di
dittatura; richiedere tutto  alle  masse  popolari  ed  aggiungervi  una  franca
propaganda de' diritti del povero, una  guerra  accanita  alle  usurpazioni  del
ricco. Ma egli non ha presentito allora la morte della borghesia, la  supremazia
della plebe: si diresse alla prima, questa gli è venuta meno di fatto, ed  egli,
che credevasi isolato, ha visto sorgere  spontanea  la  plebe  e  sostituirsi  a
quella. Il mandato del comitato nazionale era  rivoluzionario;  quindi  era  suo
principale   carattere   quello   di   escludere   la   guerra   regia,   guerra
antirivoluzionaria, e già dichiarata dagli avvenimenti del '48 e '49 impotente e
volta  solo  a  spegnere  l'esaltazione  nazionale.  Il  comitato  sorgeva   per
sostituirsi a quel trono, verso cui fugacemente s'erano rivolte  le  speranze  d
Italia; accordarsi con esso era rinnegare la propria legittimità;  era  assurdo,
era  ridicolo.  Il  governo  sardo,  volendo  operare,  non  facevagli  mestieri
dell'adesione d'un comitato d'esuli residenti a Londra. Se gl'Italiani  volevano
seguire le sorti del Piemonte, non avrebbero certamente  domandato,  per  farlo,
l'adesione del  comitato;  e  non  volendolo,  quell'adesione  valeva  poco.  Il
comitato, in luogo di farsi un organo pel cui mezzo la pubblica opinione  poteva
manifestarsi ed operare,  pretese  darle  forma  e  carattere,  se  ne  credette
l'arbitro, e parlava come un governo costituito che  offriva  patti  al  governo
sabaudo. Un tale errore fu di breve durata: il comitato,  dopo  poco  tempo,  si
disdisse. Unificare le  volontà  sgomberando  i  dubbî,  avrebbe  dovuto  essere
l'opera principale del  comitato;  era  seconda  quella  di  aiutare  con  mezzi
materiali l'azione ovunque spontaneamente  sorgesse.  Il  primo  lavoro  avrebbe
dovuto esser quello di distruggere l'antico errore; la rivoluzione  non  era,  e
forse non è, compresa nel suo vero senso.  Il  prestigio  di  un  nome  superava
quello delle idee; ed il nome di Mazzini aveva  tanta  autorità,  da  aggiungere
grandissima forza alla verità per se  medesima  potente.  "Italiani,  -  avrebbe
dovuto esclamare, - in Roma, io e tutti coloro che mi  circondarono,  non  fummo
rivoluzionarî, non fummo all'altezza delle circostanze, e per legge  fatale  nol
potevamo essere; l'Italia doveva subire l'esperienza del '48. Noi avremmo dovuto
con un decreto rovesciare l'antico edifizio, proclamare i diritti che ad  ognuno
le leggi di Natura  accordano;  lasciare  ai  cittadini  libera  la  scelta  de'
magistrati, all'esercito la scelta de' generali e degli uffiziali di ogni grado:
chiamare tutta la nazione alle  armi,  bandire  la  guerra,  intraprenderla  con
audacia; cosí operando, se il popolo secondavaci, l'Italia era salva;  nel  caso
contrario, saremmo eziandio caduti, ma con la coscienza di aver fatto il proprio
dovere. Noi invece, calcammo le orme de'  passati  governi,  attaccati,  abbiamo
resistito, ecco il nostro merito. Facciamo studio  su  questi  errori,  per  non
incorrerci  nell'avvenire".   Ben   lungi   dall'esserne   oscurata,   sarebbesi
accresciuta in immenso la fama di Mazzini; invece  la  repubblica  romana  venne
dichiarata repubblica modello. Mazzini, se erra, conserva sempre la coscienza la
piú pura, e le intenzioni le piú rette. Egli non tradisce mai i  suoi  principî,
sono i suoi principî che qualche volta tradiscono lui. Egli propende  a  credere
che gl'individui non rappresentano le nazioni, ma sono le  nazioni  che  seguono
l'impulso di pochi; e cotesto è gravissimo errore. Mi  spiego  piú  chiaramente.
L'individuo non potendo avere idee, che non siano state generare  in  lui  dalle
impressioni che riceve dal mondo esteriore, non può mai svelare verità,  il  cui
germe non si trovi già abbastanza sviluppato nella società. La fama immediata  è
retaggio di colui che afferra il concetto  collettivo  e  lo  svolge  all'occhio
dell'universale; o di quello che nel  campo  dell'azione  non  trae  la  nazione
dietro di sé (cosa impossibile), ma la regge in  quel  cammino  che  la  nazione
medesima presceglie. La boria dell'uomo l'induce a  credersi  creatore  di  que'
concetti che egli ha semplicemente svolto, inspiratore di  quelle  imprese  che,
dall'universale  volontà  sospinto,  produsse  a  fine;  e  mentre  l'uomo  cosí
favorevolmente giudica se stesso, ogni altro, non trovando in sé o in altri tali
concetti, conferma un  tale  giudizio,  e  di  quinci  la  personificazione  de'
principî, la deificazione degli uomini, mentre la società nell'onorare gli eroi,
altro non fa che onorare le sue piú eccelse opere; è un artista  che  ammira  il
proprio lavoro. Quando la fama di uno scrittore  è  universale,  e  finanche  il
volgo comprende le sue idee, esso sarà onoratissimo, produrrà alla  patria  beni
incommensurabili, se poi questa fama restringesi nel picciol  mondo  de'  dotti,
allora  verrà  dimenticato,  non  frutterà  alcun  bene,  e  tutto  al  piú   lo
rammenteranno ed onoreranno i  posteri,  e  pure  il  secondo  ha  merito  molto
maggiore che il primo. Questi ha schiuso la via ad un germe quasi impercettibile
ed ha dato un frutto tanto precoce che la società non vuol riconoscere come suo,
quello ha trovato la pianta già rigogliosa e grande, ed il frutto già maturo, ha
durata poca fatica a coglierlo. Secondo la teoria dei deificatori  d'uomini,  se
Romolo, Cesare, Carlo  Magno,  Napoleone...  non  fossero  nati,  l'umanità  non
avrebbe storia. Cosí l'uomo per non riconoscere la potenza collettiva, cade  nel
puerile. Gli eroi sono effetti, non causa  degli  avvenimenti  sociali;  i  loro
caratteri sono il complesso de' vizî, delle virtú, delle tendenze dell'epoca; la
società può riconoscersi in essi, come un uomo nell'imagine che ai restringe nel
breve cerchio dello specchio di una picciol lente. Un popolo che vi addita  come
suoi duci i Scipioni, gli Attilî, i Cincinnati... è un popolo libero, la  gloria
e la grandezza della patria ne sono le passioni predominanti... Se, per  contro,
sono i Cesari che primeggiano, potete inferirne che la  nazione  inchinasi  allo
splendore guerresco ed alla forza; se volontariamente lasciasi reggere da uomini
inetti e corrotti, la nazione  declina.  Facciamo  fine  alla  digressione,  per
ritornare al comitato. Il concetto, non  solo  il  finale,  ma  le  prime  linee
dell'avvenire,  mancavano  in  Italia;  le  questioni  di  unità  e  federazioni
pendevano incerte, né sono ancora risolte: per unità s'intende la francese;  per
federazione quella adottata nell'Elvezia o in  America.  L'opinione  prevalente,
senza dubbio, è l'unitaria, ma i fatti danno ragione a' federalisti; nei passati
rivolgimenti, fu impossibile  tradurre  in  atto  il  concetto:  Roma,  Firenze,
Genova, Venezia, Palermo furono libere, e ad onta de' sforzi fatti  dal  partito
unitario,  non  si  unirono.  Il   modo   come   operare   ne'   primi   istanti
d'un'insurrezione incertissimo, gli Italiani, vittoriosi in una città, non sanno
come governarsi, non sanno quale sia il prossimo avvenimento che li attende,  di
quinci la deificazione de' nomi: insorgiamo, concediamo al tale tutti i  poteri,
ed egli penserà al resto. Strana e ruinosa aberrazione è questa, rinunziasi alla
libertà con tanti sacrifizî  acquistata,  s'ammorza  l'esaltazione;  e  noi  che
manchiamo di  un  prossimo  e  splendido  passato,  epperò  manchiamo  d'uomini,
fondiamo sugli uomini il nostro avvenire!!!... questi dubbî, questi  errori,  in
luogo di venir rimossi con un esteso lavoro di propaganda, il comitato nazionale
li confermò. La propaganda rivoluzionaria in Italia, pel numero de' nemici,  per
le varie divisioni politiche, per le sentite e numerose tradizioni municipali, è
lavoro difficoltosissimo, che solo la potente voce della nazione può compiere. E
questa voce solenne viene espressa da ogni italiano, che  parla,  scrive,  opera
come meglio crede, in un campo libero e non già angustiato  o  dalle  tiranniche
esigenze de' governi o delle sette. Dalle discordi voci, dalle tante idee che si
manifestano emerge il concetto collettivo, che unifica le tante volontà, latente
sino all'istante dell'azione, i fatti che si svolgono lo manifestano.  Tanto  il
federalista, quanto l'unitario che propugnano le  loro  dottrine,  hanno  uguale
diritto alla gratitudine della patria, perché entrambi, in manifestando i  pregî
ed i difetti de' due sistemi, lumeggiano l'argomento,  ed  entrambi  sono  sotto
l'ampio vessillo della rivoluzione che il comitato  avrebbe  dovuto  inalberare.
Egli, elevandosi al disopra di tutte le  opinioni,  avrebbe  dovuto  essere  sua
missione il facilitare cotesta propaganda, che sorge spontanea fra i  cittadini,
facendo abilità ad ogni scritto rivoluzionario, senza prediligere  una  dottrina
piuttosto che un'altra, di  circolare  nell'interno.  Il  comitato  non  avrebbe
dovuto credersi un governo, aggiunto a' tanti altri che opprimono  l'Italia,  ma
un mezzo come eludere la vigilanza di essi e scrollarne  l'autorità;  non  crear
ceppi ma rompere gli esistenti; non chieder silenzio, ma libertà  di  dire,  non
fare né dire, ma lasciar fare e lasciar dire; non governare ma rivoluzionare. Il
comitato volle imperare; la sua formula fu tacete e fate; avrebbe dovuto essere:
FATE e dite come  meglio  credete.  Le  città  d'Italia,  varie  d'indole  e  di
tradizione, e variamente oppresse, non possono astringersi ad unico organamento,
né da un sol centro dipendere, ma solo riceverne aiuto. Il popolo che  in  varie
foggie vede sorgere i patiboli e cadere le vittime, è solo giudice  del  come  i
cittadini debbano tra loro intendersi ed a  quali  uomini  debbano  fidarsi.  Il
comitato volle tutto accentrare nelle sue mani, e che tutti muovessero ad un suo
cenno. L'intolleranza, nelle opinioni, crebbe a tale  che  il  comitato  toscano
escluse pubblicamente dalle sue file coloro i quali non erano unitarî, dicendosi
abbastanza forte, e mostrandosi  quale  fazione  dominante  in  Italia;  ingenua
confessione della  piú  assoluta  mancanza  d'idee  pratiche.  Fu  concetto  de'
carbonari,  ed  allora  era  idea  comunemente   accetta,   liberata   l'Italia,
conservare, per un certo tempo, una dittatura educatrice; ora  le  opinioni  son
cangiate, non si fa guerra ai governanti ma al governo, al principio d'autorità:
ed intanto Mazzini, il fondatore della Giovine Italia, che  avea  combattuta  la
dittatura in quell'epoca,  se  ne  fece,  al  giorno  d'oggi,  il  propugnatore.
Dittatura, dice il Mazzini, che preparerebbe: l'educazione iniziatrice;  con  la
stampa ordinata ad un fine; con l'associazione pubblica concentrata ad una  sola
bandiera; con l'esercizio delle facoltà  elettorali  fin  dove  è  possibile  ai
militi. E non è forse questo il principio su [cui] fondasi  il  dispotismo,  che
non dice: voi dovete essere schiavi, ma  ammette  la  necessità  di  ordinare  e
limitate  la  libertà?  Non  anarchia,  continua  Mazzini,  non   tentativo   di
sovvertimento delle condizioni sociali, predicazioni  inconsiderate  di  sistemi
stranieri, esclusivi, imperfetti, tirannici. Quindi la censura, la persecuzione,
lo spionaggio per conoscere se alcuno secretamente si facesse l'apostolo di tali
sistemi, erano le conseguenze immediate di coteste massime.  Egli  è  certo  che
scrivendo queste parole soggiacque ad un momento d'aberrazione. E  chi  sei  tu,
può rispondergli ogni  Italiano,  che  pretendi  proibirmi  di  propugnare  tali
sistemi? D'onde trai il convincimento che fosse questa la volontà della nazione?
se questi sistemi son contrarî al voto  pubblico,  essi  saranno  respinti,  io,
italiano  quanto  te,  opino  diversamente,  e  quale  altro  giudice   se   non
l'universale volontà ed il fatto, può decidere la nostra contesa? Tu dici che la
nazione in ceppi non può esprimere la sua volontà, ed ammesso questo, come  puoi
asserire che il tuo e non già il mio sia il concetto nazionale? E  poniamo  caso
che l'Italia risorga, che, trascurando la sustanza  delle  cose  ed  attenendosi
alle  forme,  ti  conceda  assoluti  poteri,  e  col  potere  la  forza,  tu  mi
costringerai a tacere, ma non perciò avrai ragione, ne avrai tanto quanto ne  ha
Bonaparte contro i socialisti di Francia. È vano  il  dire,  la  nazione  mi  ha
concessa la forza: tutti i tiranni possono dirlo, allorché non reggono in  virtú
di forze straniere. Furono francesi quelli che  compirono  il  colpo  di  Stato,
francesi quelli che votarono, e se la  Francia  non  volesse  davvero,  potrebbe
reggere Bonaparte sul trono? Nel potere a te, o a chiunque  altro  concesso,  io
non vedrei, se questo potere  restringe  la  mia  libertà  individuale,  che  il
momentaneo trionfo d'una tirannica fazione. Come adunque decidere la  quistione?
Se dal primo istante che in un angolo qualunque della terra italiana cesserà  il
presente stato di cose, avremo tutti piena libertà di dire e  nessuno  la  forza
per porre altrui il bavaglio, e la nazione accetterà le tue e  non  già  le  mie
idee, allora io ti darò ragione. Ma finché tal prova  non  sia  fatta,  chiunque
vorrà imporre una sua  idea,  dicendo:  "cosí  vuole  il  paese",  se  ha  forza
materiale non è che un tiranno. La tirannide,  la  semi-tirannide,  o  qualsiasi
specie di governo, esprimendo sempre la prepotenza  di  una  parte  piú  o  meno
numerosa  della  Nazione,  deve,  per  sua  natura,  temere  la   manifestazione
dell'universale volontà, essendo dessa  che  l'osteggia  e  tenta  indefessa  di
sostituire la sovranità del tutto all'usurpazione della  parte.  Ma  bandire  la
sovranità del popolo e limitare la manifestazione del pensiero, è un chiedere la
luce con favorire le tenebre. Le opere ed i pensieri di una società non  possono
mai minacciare l'esistenza di essa società, ma tendono sempre  d'assettarla  ne'
suoi incastri, e contrastano a tutto ciò che vuole spostarnela e  mantenerla  in
un equilibrio che non gli è naturale.  Conchiudiamo,  al  comitato  nazionale  è
avvenuto quello che ad ogni governo, a cui non sia tronca affatto la possibilità
di usurpare, avviene. Per istinto invariabile dell'umana natura, gli uomini  che
lo compongono cercano farsi centro d'attrazione di  quanto  succede,  e  sempre,
comecché spesso con rettissimi fini,  pretendono  che  tutto  pieghi  alla  loro
volontà; eglino praticano e non dicono ciò che il XIV Luigi diceva e  praticava:
"lo Stato sono io". Il comitato fece solitudine intorno a  sé,  allontanandosene
tutti coloro che non volevano  abdicare  alla  ragione  e  credevano  assurdo  e
ruinoso errore il rinunziare  alla  libertà  per  conquistarla.  La  stampa  che
rappresentava il partito, in luogo di richiamarlo con severa critica sul diritto
sentiero,  sacro  debito  d'Italiano,  credette   migliore   tattica   adularlo.
Disconobbe cosí la propria missione, e prese norma da' scrittori ministeriali, i
quali, in luogo di correggere, lodano a cielo gli  atti  del  governo.  I  pochi
utili atti, che un governo o un centro qualunque può compiere,  portano  scritta
in fronte la loro apologia; sono innumerevoli i  dannosi  che  la  stampa  debba
energicamente attaccare. Ogni governo, ogni centro, a cui  per  necessità  viene
concesso un potere superiore a  quello  che  per  loro  medesimi  avrebbero  gli
individui che lo compongono, è un'ulcera che tende a spandersi sulla società  se
la pubblica opinione non ne arresta il  progresso.  Intanto  se,  scorgendo  gli
Italiani uniti a rovesciare la monarchia, adottarne  i  principî,  le  forme,  i
costumi, bisognava conchiudere che la rivoluzione non era compresa; nella  guisa
stessa, scorgendo come il comitato cessò,  perché  successivamente  gli  vennero
meno tutti gli appoggi, se ne inferisce che vi è  stato  progresso  significante
nelle idee. Come il cristianesmo è sceso nel sepolcro co' panni da  filosofo  di
cui l'han  vestito  Gioberti  e  Rosmini...  del  pari  il  comitato  nazionale,
speriamolo almeno,  è  stata  l'ultima  prova  del  principio  monarchico,  che,
trasformandosi in mille forme, mascherandosi con varî  nomi,  si  è  spento  con
quello di comitato rivoluzionario. Pongo fine a questo capitolo consacrandone  a
Mazzini gli ultimi versi. Ho fatto tacere ogni simpatia personale, e com'era mio
debito, l'ho severamente giudicato. Ora mi sarà caro il dire, che il  suo  nome,
ad onta della mia censura, avrà sempre meritate e splendide pagine nella  nostra
storia. Niuno, durante l'intera vita, ha operato con fini piú  retti,  niuno  ha
rivolto, con maggior costanza, tutti i pensieri e tutte  le  opere  ad  un  solo
fine, cosí grandioso come è quello del risorgimento italiano, una tale  idea  ha
inspirato la sua giovinezza e ne ha assorbito ogni affetto. Nella storia  antica
e moderna non si riscontra un uomo che abbia sacrificato tutto  l'utile  privato
ad un utile pubblico sperato. Cotesto tipo di un uomo, di cui tutti i pensieri e
gli affetti si reassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria, è  frutto
di terra italiana, è una gloria  di  piú  da  aggiungersi  alle  tante  che  noi
contiamo.


XVI. Il comitato italiano cessato, gl'Italiani ondeggiarono nell'incertezza: era
un sistema crollato perché venuto meno il  punto  d'appoggio.  Surse  in  alcuni
l'idea di ricostituire un nuovo centro, fortuna che non si rinvennero uomini che
avessero raccolti i  suffragî  universali,  altrimenti  sarebbesi  ricaduti  nel
fatale errore per cui tutte le rivoluzioni riescono  infruttuose:  cangiare  gli
uomini ritenendo i principî. Il piú grande amatore di libertà, non appena assume
il potere, se non è uomo dappoco, vuole  che  tutto  pieghi  alla  sua  volontà;
epperciò il nuovo centro, come il caduto, avrebbe personificato in  se  medesimo
la patria, dichiarando ambiziosi e corrotti coloro che si fossero  opposti  alle
sue mire. Il comitato aveva fatto un gran bene, aveva incarnato il convincimento
negli Italiani, di sperare la loro salvezza dalla cospirazione e  dalle  proprie
forze; aveva poi prodotto un gran male, quello  di  dare  alle  cospirazioni  un
carattere  passivo,  che,  invece  di  operare  da  sé,  aspettavano  sempre   e
l'imbeccata e gli ordini d'altronde. Per determinare il modo come governarsi  in
tale bisogna, è d'uopo esaminare  come  operano  queste  forze  latenti  che  si
nascondono nel seno di un popolo, e che in alcuni giorni fatali  si  manifestano
terribili. Le nazioni funzionano come l'individuo, che prima avverte appena, poi
con turbamento, quindi riflette, in ultimo opera. Ma sovente  il  dolore  troppo
vivo precipita l'uomo dal turbamento all'azione senza dargli campo a riflettere,
mentre altre volte, i stimoli essendo leggieri, ne prolungano oltre il  bisogno,
la riflessione. Nella guisa medesima,  in  una  nazione  ove  godesi  una  certa
libertà di pensiero, ed ove i mali sono leggieri, si svolgono fra  un  importuno
cicalío molte dottrine; per contro, ove forti sono i  dolori  ed  interdetto  il
pensiero, i  fatti  abbondano  e  quasi  sempre  precedono  le  parole.  Da  ciò
s'inferisce quanto sia assurdo il voler decidere se una nazione debba  ragionare
o combattere; è lo stesso che pretendere di voler regolare  secondo  la  propria
volontà  il  moto  degli  elementi.  Le  idee,  i  ragionamenti,   le   dottrine
politiche-sociali, non sono che lo studio dei mali che opprimono la società e la
ricerca dei modi come lenire questi mali. Secondo  le  circostanze  e  l'ingegno
dell'autore, piú o meno inclinato all'astrazione, le dottrine si  allontanano  o
si avvicinano alla pratica. Vico dai mali che opprimevano la sua patria fu mosso
a cercarvi un rimedio, e non potendo appigliarsi agli immediati e pratici perché
l'epoca glielo avrebbe interdetto, e la natura del suo ingegno  nol  comportava,
e' si elevò ad altissime regioni e l'animo  suo  acchetossi,  trovando  che  una
legge e non il caso reggeva i destini  dell'umanità;  legge  ch'egli  la  nominò
provvidenza, e determinò [cosí] la periferia di quel circolo su cui  le  nazioni
dovevano compiere il loro giro. Mentre Vico rivela un fatto  che  riconosceranno
sempre con maggiore evidenza  le  future  generazioni,  vi  sarà  altri  d'animo
rimesso e d'ingegno pedestre, che, stimolato dai medesimi moventi,  dopo  lunghi
ragionamenti, chiederà il cangiamento d'un  ministro  o  qualche  insignificante
concessione, fra questi due estremi trovasi  tutta  la  diversa  gradazione  dei
scrittori. Or dunque, scrittori le cui idee potranno giovare  alla  costituzione
sociale non potranno esistere senza mali sociali. Oltrecché fra placidi  affetti
e deboli passioni è assai raro che si formino, in tale materia,  grandiose  idee
ed ardite verità, l'operosità umana manca di  stimoli  sufficienti;  durante  la
tempesta, e non già durante la calma, il pilota manifesta la sua  abilità.  Quei
scrittori medesimi che ora imprecano contro le insurrezioni, senza  le  tempeste
del '48 e '49 sarebbero un nulla, sarebbero rimasti ai Prolegomeni di  Gioberti.
Epperò, ammettere il facile e lento progresso fra il continuo  prosperare  della
società, è un pretendere l'effetto senza la causa. Come  i  mali  sociali  fanno
sorgere i scrittori, i  medesimi  mali  producono  le  sette,  le  congiure,  le
insurrezioni; la gradazione che scorgesi fra i scrittori,  si  osserva  eziandio
fra  i  congiuratori  stimolati  dai  medesimi  moventi:  havvi   congiura   per
conquistare una patria libera, l'altra  per  l'abolizione  di  una  tassa.  Cosí
procedono le nazioni col pensiero e con le opere, e siccome l'uomo compie i  piú
grandi fatti quando esegue energicamente ciò che maturamente ha pensato, cosí le
nazioni sono mature, toccano quasi la  meta  alla  quale  aspirano,  allorché  i
scrittori ed i  congiuratori  tendono  al  medesimo  fine.  Quale  è  in  questo
svolgersi delle umane vicende l'opera ed il dovere del  rivoluzionario?  Con  la
penna trattare tutte le quistioni che conducono al fine bramato; con la congiura
far cospirare l'azione al medesimo fine; e cercare  di  legare  strettamente  il
pensiero e l'azione. Dire fucili e non libri è un errore, come il dire  libri  e
non fucili. Abbiamo già detto come una sequela non interrotta di fatti, dal  '14
al giorno d'oggi, sono le varie esperienze attraverso le quali ha  proceduto  il
popolo italiano. Da queste esperienze, e non già dai libri, risulta la coscienza
nazionale.  Ma  questa  coscienza  ove  si  manifesta,  nei  scrittori   o   nei
congiuratori? indubbiamente nei secondi. Cotesta coscienza, cotesto sentimento è
vago nella generalità, in pochissimi è reciso, esso per conseguenza è soggetto a
vacillare sotto l'impressione dei  fatti;  gli  avvenimenti  che  si  succedono,
mostrano l'avvenire sotto tanti diversi aspetti sempre erronei;  come  i  gruppi
dei monti, i quali sembrano cangiare la loro dispositura al  cangiare  del  sito
dell'osservatore;  quindi  quel  mutare  continuo  delle  opinioni.   Una   nota
diplomatica, le parole di un ministro, la  morte  di  un  principe  possono  dar
cagione ad una quantità di opuscoli; sono  essi  l'espressione  della  coscienza
nazionale? No. Ma mutano la coscienza nazionale piú o meno  modificata  da  tale
avvenimento, secondo la gagliardia d'animo di chi scrive.  La  cospirazione  per
contro non prende le mosse da tali avvenimenti, ma molto piú da  lungi,  le  sue
aspirazioni e le sue forze non le cerca in ciò che mostrasi sulla società, ma in
quei sentimenti, in quelle aspirazioni occulte non solo, ma osteggiate;  inoltre
la congiura richiede fermezza  di  proposito  e  gagliardia  d'animo  piú  dello
scrivere, quindi tutte le  circostanze  concorrono  a  mantenere  salda  cotesta
coscienza nazionale piú nel cospiratore che nell'autore, epperò  le  aspirazioni
di quello sono prove piú evidenti  che  le  ragioni  di  questo.  Quanti  libri,
discordi fra loro, sonosi stampati in Italia dal '49 al giorno d'oggi? Chi vuole
l'Italia una; chi il regno boreale;  chi  due  Italie;  chi  spera  tutto  dalla
Francia; chi tutto dal Piemonte; quale sarebbe adunque la  coscienza  nazionale?
impossibile a dirlo. Ma osservate le cospirazioni, le congiure, i martiri  tutti
indistintamente, ed in tutte le epoche hanno accennato al medesimo scopo: Italia
una e libera; e quindi è forza inferirne che, ad onta dei colpi  di  Stato,  dei
protocolli, dei memorandum, la coscienza  nazionale  è  rimasta  salda.  Sarebbe
stoltezza attribuire al solo Mazzini, ispiratore della maggior parte  di  questi
tentativi, tale fermezza di proposito. Mazzini non avrebbe  potuto  trovare  mai
tante braccia pronte ai suoi voleri; egli, cessato il comitato, ritornò ad esser
semplice cittadino, e, come tale, fece molto piú bene di quello  che  non  aveva
fatto come membro del comitato; la sua operosità, la sua fortuna, il suo credito
personale fu messo al servizio di coloro che  volevano  tentare  di  salvare  la
patria; forse avrebbe potuto  accettare  con  piú  riserva,  o  rifiutare  certi
progetti che  non  promettevano  riuscita,  ma  da  questo  picciolissimo  torto
all'accusa stolta di mandare la gente al macello havvi un abisso.  Egli  avrebbe
dovuto, a parer mio, scegliere una sola regione d'Italia,  ed  evidentemente  il
mezzogiorno, e su quella accentrare tutti  i  mezzi  di  cui  disponeva.  Invece
preferí farsi centro universale a cui  ricorrevano  tutti  coloro  che  volevano
trarre in atto un pensiero generoso, cosí governandosi,  forse,  avrà  ritardato
una rivoluzione; e se avesse negato agli  operosi  i  suoi  soccorsi,  cosa  non
facile per chi sente sviscerato amore di  patria,  avrebbe  risparmiato  qualche
vittima, ma non perciò il bene che egli ha fatto può disconoscersi.  Poniamo  il
caso che non fosse esistito  il  comitato  nazionale,  né  le  sue  vicende,  né
Mazzini, o altri come lui che avesse continuamente fomentato le  cospirazioni  e
le congiure; e che in Italia, secondo  avrebbero  voluto  i  dottrinanti,  niuno
avesse pensato a muovere, chi parlerebbe d'Italia? Forse l'Austria,  rassicurata
dello spirito pacifico delle sue popolazioni, avrebbe imposto al Piemonte  delle
restrizioni alle sue  libertà;  ed  il  Piemonte  stesso,  in  una  tranquillità
generale, non avrebbe inteso il bisogno di mostrarsi ostile all'Austria. Su  che
si fondavano le ragioni addotte al congresso di Parigi,  per  chiedere  riforme?
sugli articoli di giornali e sui libri stampati in Italia, o sulle vittime,  sui
condannati, sui processi continui, che sono poi  l'effetto  delle  congiure,  di
quella resistenza organizzata in Italia? Ed a quale partito è dovuta la presente
agitazione in Inghilterra in favore d'Italia? Ai dottrinanti o ai  congiuratori?
Ripetiamolo, sono i fatti e non  le  dottrine  che  manifestano  la  vita  della
nazione. Una nazione, ripeteranno i dottrinanti, che insorge senza  un  concetto
politico reciso, ricade nella schiavitú. D'accordo in questo. Ma questo concetto
politico  non  si  forma  né  diventa  popolare  coi  libri,  ma  coi  fatti;  i
rivolgimenti del '48 falliti sono quelli che hanno convinto gli Italiani di  non
aver fede nei principi, perché casta la quale ha degl'interessi affatto staccati
dal popolo; e, come nel '48 coloro i quali dimostravano questa verità non  erano
ascoltati, anzi maledetti, cosí  in  un  nuovo  rivolgimento  rimarranno  delusi
coloro che vorrebbero rifare il '48. Il popolo progredisce nelle sue idee, ma  i
soli fatti lo balzano da un concetto in un altro. Se  dai  libri  dipendesse  il
progresso di  una  nazione,  i  scrittori  sarebbero  gli  arbitri  delle  sorti
dell'umanità. Invece  sono  gli  uomini  d'azione  che  imperano;  e  tutti  gli
usurpatori, da Cesare a Bonaparte, han sempre trovato  un  grandissimo  appoggio
nella coscienza nazionale, di cui quasi potevano dirsi i rappresentanti  secondo
i mezzi piú o meno violenti, piú o meno obliqui con cui hanno raggiunto il fine.
Quale scrittore in buona fede può affermare che la plebe, che  non  sa  leggere,
educasi coi libri? Non parliamo di coloro che sotto il dispotismo pretendono che
il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno, che vale il dire ad un uomo
legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a correre; o altri che, vedendo
un popolo corrotto, pretendono renderlo morale, non già sbarbicando  ogni  germe
di corruzione, ma proponendo un reggimento fondato precisamente su di un sistema
corruttore; ma di quelli i quali credono possibile, a furia di scritti, spandere
le idee rivoluzionarie. La plebe non è dorata  di  quelle  eroiche  qualità  che
alcuni  gli  attribuiscono,  la  plebe  sovente,  traviata  dai  pregiudizî,  ed
angustiata la mente dall'ignoranza, ondeggia fra la  temerità  e  l'abbiettezza.
Stimolata dai materiali bisogni, la loro  mente  non  può  elevarsi  a  pensieri
sublimi, ma se tra loro uno giunge ad  appuntare  l'intelletto  sulle  quistioni
politiche che agitano il paese, quasi per istinto ragiona con maggiore esattezza
che il migliore fra i scrittori; imperocché tutte le impressioni  che  il  mondo
ufficiale, che l'ordinamento sociale produce sulle altre classi  della  società,
non han presa, non hanno ascendente sull'uomo del popolo; egli non  è  stimolato
che da' mali, quindi, svincolato da tutti quei legami  che  lo  incatenano  allo
stato presente delle cose; oggi non vede che male; ragionando,  riconosce  senza
fatica dove è il bene. Ma coloro i quali non sentono il bisogno  di  migliorare,
ed anzi temono che una scossa improvvisa li balzi fuori da  quella  nicchia  ove
godono, se non altro, l'inerzia, amano ragionare  dell'avvenire,  ma  vorrebbero
placidamente raggiungerlo, non rischiare  per  esso  se  non  altro  il  placido
presente; di quinci l'innumerevole  schiera  dei  conservatori,  degli  eroi  da
poltrona flagellati dal Giusti. Tutti gli sforzi che vuol sospingere  un  popolo
al risorgimento debbono consistere  a  svolgere  e  rendere  popolati  le  idee,
adattandole alla loro intelligenza e traendone quelle  conseguenze  che  debbono
condurre ad un utile materiale immediato, onde siano sempre fomite maggiore alle
passioni che debbono, essenzialmente, esistere  nel  popolo.  Il  rivoluzionario
dev'essere apostolo  e  cospiratore.  "La  passione,  -  scrive  Beccaria,  -  è
un'impressione sempre costante della sensibilità nostra,  tutta  rivolta  ad  un
medesimo oggetto; essa è un desiderio di ottenere o di fuggire qualche cosa  che
sempre si riproduce, ed è sempre riprodotta nella nostra  mente  quasi  ad  ogni
circostanza". Quindi perché un desiderio si trasformi in passione, fa d'uopo che
vi sia mancanza e percezione della cosa desiderata, il che troveremo verificarsi
nel minuto popolo, se ci facciamo a riflettere sul suo stato. La mancanza  è  la
miseria in cui esso geme, una vita piú agiata è la cosa desiderata e  percepita;
e siccome la mancanza del necessario è continua, continuo eziandio è  il  dolore
ed il desiderio del benessere venendo perciò riprodotto ad ogni istante  di  sua
vita; le passioni esistono e non resta che giovarsene eccitandole e  dirigendole
ad un giusto fine. L'impossibilità di conquistare  il  desiderato  benessere  le
ammorza, la mancanza d'un obbietto determinato le svia dal diritto  sentiero,  e
perciò [quelli de] il popolo, o adagiandosi ne' difetti  si  rassegnano,  oppure
con la forza e con la frode tentano rapire ad altri quello che essi  agognano  e
corrono cercando l'agiatezza, dall'ignoranza sospinti,  al  patibolo.  Scuotiamo
adunque gli addormentati ed ai sviati mostriamo il  cammino.  Se  il  despotismo
promettegli come premio di loro rassegnazione beni celesti,  il  rivoluzionario,
con la spada della vendetta e la bilancia della  giustizia,  dovrà  promettergli
beni terreni ed immediati, additandogli il modo  come  conquistarli.  Esploriamo
ogni sua piaga, richiamiamo su di essa la sua attenzione, ed additiamo  un  solo
mezzo come rimedio, la conquista della patria, ma non già di un pomposo  nome  e
di vani diritti, ma la conquista del suolo della nazione e di quanti prodotti vi
esistono. Ognuno diventi un Socrate, in piazza, ne'  trivii,  al  deschetto  del
ciabattino, al pancone del falegname, si  faccia  ad  interrogare  quelle  rozze
menti, e le conduca passo per passo alla scoverta della verità. Io sono simile a
mia madre, diceva Socrate, figlio di una levatrice, non creo nulla, ma aiuto gli
altri a produrre. È questo il solo mezzo di rischiarare, in parte, la mente  del
popolo, di educarlo, e non già tenendolo a forza nelle scuole, o stampando libri
che esso non legge. E questo mezzo medesimo di  propaganda  volgare,  ed  adatto
alla sua intelligenza, e che trae argomento  dai  suoi  piú  pressanti  bisogni,
neppur è bastante a conseguire lo scopo  desiderato.  La  plebe  non  si  lascia
convincere che da' fatti, ma la propaganda di cui discorremmo  elabora,  fra  un
numero significante di giovani, la conoscenza  de'  diritti  che  ad  ogni  uomo
accorda la Natura; e cotesti giovani, appena il  popolo,  sotto  la  sferza  del
dolore, si precipita nel moto, e dubbioso non sa ove  dirigere  gli  attacchi  e
come colorire i desiderî,  facendosi  tutti  oratori  di  circostanza  dureranno
pochissima fatica a far loro comprendere quello che in un secolo di calma ed  in
mille volumi non avrebbero mai appreso  da'  dottrinarî.  Non  già  la  profonda
dottrina richiedesi in cotesti oratori, ma forza di carattere che non li  faccia
retrocedere in faccia alle conseguenze ignote de' principî da  essi  propugnati;
guai se essi si accostano alla spregevole schiera de' cosiddetti  moderati,  che
si atteggiano da rivoluzionarî, da riformatori, da amici de' popoli,  perché  si
fanno a sostenere alcune franchigie che servono  a  riempire  le  loro  casse  e
soddisfare la loro bassa e puerile  vanità.  Il  rivoluzionario  di  buona  fede
sospinge lo sguardo sulle moltitudini, e non mira  che  al  trionfo  della  vera
democrazia,  discendere  alla  benché  minima  transazione  è  un  rinnegare  la
rivoluzione; come la minuta polve che il turbo solleva, o poggiasi sulla  corona
de' re e sulle eccelse torri, oppure ricade sotto i piedi de' passanti, cosí  il
minuto popolo o acquista pieni ed interi i suoi  diritti,  o  ritorna  turba  di
vilissimi servi derisi con pomposi nomi. Quando  non  mirasi  al  trionfo  d'una
setta o di una classe di cittadini, il mezzo termine, qualunque caso sia, tronca
i nervi della rivoluzione e l'uccide. Finalmente a' spiriti rimessi e timidi,  a
cui è spavento l'assoluta libertà, e chiedono programmi  e  norme,  risponderemo
che il programma già esiste. Siete voi rivoluzionari? mirate  al  trionfo  della
vera democrazia? in tal caso per voi non può esservene altro che gli aforismi di
cui ragionammo nel terzo capitolo. Se pretendete limitarne, nella benché  minima
parte,  il  significato,  cesserete  d'essere  rivoluzionarî,  non  sarete   che
opportunisti o faziosi.


XVII. Fatto studio sul modo come la  nazione  elabora  le  idee  ed  opera  onde
prorompere all'azione, è mestieri segnarne, supposto iniziato il moto, le  prime
orme. I principî da cui bisogna prender norma, son que' medesimi  accettati  da'
rivoluzionarî, quindi ognuno altro non dovrà fare che mostrarsi consentaneo a se
medesimo, e respingere qualunque misura, comunque temporanea, che li leda  nella
benché minima parte. Da tale base prenderemo le mosse, e ci faremo a  distendere
un tale argomento. La piú importante quistione a risolversi, è il determinare il
potere che dovrà reggere quella parte  d'Italia  che  prima  sarà  sgombera  da'
nemici, e quindi man mano l'Italia  tutta  sino  al  termine  della  guerra.  La
sovranità del popolo, che  tutti  bandiscono,  a  cui  tutti  aspirano,  è,  nel
governo, la sostituzione del concetto collettivo  all'individuale.  Il  concetto
collettivo emerge  dallo  stato  di  progresso  della  nazione,  costituito  da'
svariatissimi rapporti sociali. Chi parlasse di libertà a gente che avesse servo
il cuore, non sarebbe compreso, i suoi sforzi tornerebbero vani; come a gente di
spiriti liberi farebbe schifo il linguaggio di uno schiavo.  Il  concetto  della
nazione è fatale, esso è  il  solo  giusto  ed  il  solo  possibile,  esso  sarà
indubitamente, l'arbitro delle nostre sorti, lasciamo adunque che  si  manifesti
liberamente; il pretendere di mutarlo è vano. Diremo  solo  che  un  popolo,  il
quale per esser libero vuol esser dominato, o erra o non è degno di  libertà,  e
tanto nell'uno quanto nell'altro caso non sarà mai libero, e piú che ogni  altro
popolo l'italiano, perché maggiori ostacoli si frappongono al suo  risorgimento,
e per superarli gli fa d'uopo libertà maggiore. La dittatura deve esser potente,
se non è tale non è  dittatura.  Essendo  scopo  di  un  tal  maestrato  il  far
prevalere la propria volontà a quella dell'intera nazione, bisogna  che  i  capi
dell'esercito e tutti i pubblici funzionarî siano di sua scelta; gli è  mestieri
d'una polizia onde spiare i passi ed i pensieri de'  cospiratori,  de'  ribelli,
immancabili, perocché essi sono alla dittatura come l'ombra ai corpi; e  dovendo
rivolgere in suo favore l'opinione pubblica, deve,  per  conseguenza,  spiare  i
pensieri di ognuno; ed infine dovrà possedere a sua  tutela  una  potente  forza
materiale. Un tale governo sarà divenuto  ancora  piú  solido  per  le  ottenute
vittorie; e quando l'epoca della sua missione sarà compita, chi  potrà  imporgli
di cedere il posto alla costituente? e cosí la libertà conquistata a  prezzo  di
tante vittime, di tanti sacrifizî, sarà in balía di uno o piú  individui,  dalla
cui buona fede dipenderà la sorte della nazione. Ma chi ignora quanto sia facile
che nella mente de' dittatori sorga l'idea che essi siano necessari  all'Italia,
che abbiano una missione da compiere? Se tale idea  diventa  sentimento,  eglino
trucideranno  e  si  lasceranno  trucidare  prima  di  abbandonare   il   seggio
dittatoriale. L'amore stesso del paese,  e  la  natura  umana  generano  un  tal
sentimento, ognuno credendo le proprie idee le migliori, crederà  fare  il  bene
della patria costringendola ad accettarle. Chiunque è al  potere  (esclusi  que'
tiranni che per salvezza personale cercano tutto colpire perché di tutto temono)
crede, in ogni suo atto, fare cosa utile o almeno necessaria al paese. Nel  1494
i fiorentini cacciarono i principi, e per porre rimedio a'  tanti  mali  da  cui
erano  gravati,  confidarono  pieni  poteri  a  coloro  che  credevano  atti   a
governarli, ma ad onta del continuo cangiar di governanti e di scegliere  coloro
i quali con maggior veemenza declamavano contro cotesti mali, andarono sempre da
male in peggio, di quinci l'adagio italiano: costoro hanno un'anima in piazza ed
un'altra in palazzo. E pure, il torto non era di coloro  che  erano  assunti  al
potere, un uomo non può cangiare mai totalmente i rapporti stabiliti  dal  lungo
lavoro de' secoli, solo una rivoluzione può farlo: i  Fiorentini  avevano  nelle
loro mani il modo di sciogliere il problema, dichiarandosi e rendendosi di fatto
liberi ed uguali, la nazione poteva solo far ciò e non mai un individuo; i  mali
scaturivano  da  un  sol  fatto,  pochi  straordinariamente  ricchi,  moltissimi
mendichi,  né  vi  erano  governanti  che  avrebbero  potuto  far  sparire  tale
mostruosità. Ogni cittadino ha il  diritto  di  proporre  leggi  e  riforme,  ma
chiunque - abbiate fede in me, affidatemi il potere, ed io vi renderò  liberi  e
felici -, costui non merita neanche di essere ascoltato. Libertà ed  uguaglianza
sono i cardini su cui  deve  poggiare  l'umana  felicità,  tutte  le  leggi  che
favoriscono questi principî ottime, quelle che tendono a limitarle  pessime;  la
fede negli individui spalanca alla nazione l'abisso, imperocché  la  fede  senza
convincimento turba l'uguaglianza. "L'autorità libera nel potere,  limitata  nel
tempo, - scrive il Machiavelli, - è pericolosissima,  perocché  nell'uomo  nasce
brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi non essendo  dati  dalla
legge a quel fine al quale egli  l'indirizza,  debbono  per  necessità  diventar
tirannici". Ammettiamo che in Italia vi siano uomini di una tempera diversa  che
tutti gli altri, e che, debellati i nemici, educati tutti noi a libertà,  eglino
ritornino, all'epoca stabilita, a confondersi nelle file del popolo;  l'orditura
del loro governo, l'incastellamento del governo dittatoriale, il  principio  che
l'informa, l'ubbidienza; gli interessi creati da questo  governo,  non  potranno
certamente sparire; quindi vi sarà sempre la dittatura. Cangeranno  i  nomi,  le
forme, ma non già la sustanza delle cose. Il popolo continuerà  ad  ubbidire,  i
pubblici funzionarî a comandare, lo spirito della nazione  sarà  monarchico,  ed
ogni governo che gli succederà,  eziandio  non  volendo  comandare  (e  chi  non
vuole!), comanderà come quelli comandavano. Delle due cose l'una, o la dittatura
non giungerà a comprimere ed aggiogare gli spiriti  nazionali  ed  in  tal  caso
riesce inutile, o vi riescirà, ed allora, per rilevarli, fa d'uopo d'una seconda
rivoluzione. Dopo lunghissimi anni di sforzi, di  sangue  sparso,  di  patimenti
dorati onde esaltare lo spirito nazionale, noi medesimi, mentre ci  affatichiamo
a ciò, andiamo in traccia del mezzo  come  comprimerlo.  Oh  nullità  dell'umana
ragione!... Terminata la guerra sotto il reggimento dittatoriale, ci  troveremmo
una monarchia senza re, ed i re  facilmente  si  trovano.  Guai  quando  non  si
confermano da' primi momenti le  conquiste  del  popolo!  Fino  ad  ora  abbiamo
ragionato, ed abbiamo ammessa possibile la dittatura  civile  ma  essa  non  può
distinguersi dalla militare. Le forze armate della nazione  saranno,  oppur  no,
sotto la sua immediata giurisdizione? Se vi saranno la dittatura  sarà  militare
di fatto; se non vi saranno  non  esisterà  dittatura.  Ma  ammettiamo  eziandio
cotesta anomalía, vi sarà dittatura di uomini non  militari.  La  loro  sorte  è
irrevocabilmente decisa, eglino verranno cacciati di  seggio  col  piatto  della
sciabola dal vincitore delle prime battaglie. Quei giovanotti medesimi, che  ora
parteggiano da fanatici per la dittatura, allora saranno  gl'istrumenti  che  la
cangeranno. La gloria militare ecclissa qualunque  altra,  rapisce  l'animo  de'
guerrieri in favore di colui, dal  cui  braccio,  dalla  cui  mente  riconoscono
l'inebbriante piacere della vittoria, quindi il generale disporrà  de'  soldati.
Intanto, questo generale  che  periglia  in  campo,  e  credesi  giustamente  lo
strumento di salvezza di sua  patria,  con  riluttanza  riceverà  ordini  da  un
governo civile; egli crederà, e non a torto, che durante la  guerra  da  cui  la
nazione spera salute, sia piú giusto, piú logico, piú utile,  che  un  guerriero
abbia questo assoluto potere, e non  mancherà  di  ghermirlo,  eziandio  con  la
forza. Non senza ragione i principi cercano fra i  piú  fidi  servitori  i  capi
dell'esercito, si circondano di prestigio, si incalzano col diritto  divino,  si
dichiarano guerrieri essi medesimi,  eziandio  senza  esserlo.  I  convenzionali
francesi, uomini al certo di somma energia,  caddero  inesorabilmente  sotto  la
spada di Napoleone; vissero otto anni, e vissero a prezzo di moltissimo  sangue,
imperocché, richiedendo la Francia quattordici eserciti, potettero  contrapporre
gli uni agli altri i varî generali; ma non appena la riputazione di uno elevossi
su gli altri, quest'uno ghermí il potere. In Italia richiedesi un solo esercito,
epperò dopo la prima battaglia vinta, il generale non avrà rivali.  Nel  '48  in
Ungheria la dittatura finí per passare  nelle  mani  di  Görgey.  La  Repubblica
francese del '48 creò una presidenza civile, ed essa ben presto si è trasformata
in dittatura militare. Pare impossibile come l'amor proprio faccia  disconoscere
le verità piú evidenti, i fatti piú noti. È un assioma, è un fatto evidente, che
ripetesi tuttogiorno, e può dirsi esistere nell'ordine naturale delle cose,  che
la forza militare s'impadronirà sempre  della  dittatura  se  essa  esiste.  Con
facilità ed indifferenza cangiasi di padrone, anzi natura del popolo  è,  se  lo
accostumasi ad ubbidire, di scegliere colui che piú  imperiosamente  comanda,  e
tutto quello che vien creato dalla forza, presto o tardi in potere  della  forza
ritorna. Per contro, se da' primi istanti cominciasi ad assaporare  la  libertà,
niuno soffrirà che altri venga a rapircela; e quanto  è  naturale  e  facile  il
sostituirsi in luogo d'un altro, per tanto è difficile cangiare  le  istituzioni
ed un reggimento libero trasformarlo in dittatoriale.  Risuona  nella  bocca  di
molti il nome  di  Washington  quale  argomento  che  dimostri  l'utilità  della
dittatura, la possibilità d'evitarne i perigli, ma un tal fatto, che verrebbe  a
rincalzare le nostre asserzioni imperocché sarebbe stata una dittatura militare,
non ha mai esistito, e chi il crede ignora affatto quell'interessante storia. Le
leggi, le istituzioni da cui venivano rette le colonie inglesi in America, erano
liberissime, quasi come lo sono al presente, eziandio  prima  della  guerra.  In
ogni Stato i pubblici funzionarî erano eletti dal popolo, le  leggi,  le  tasse,
decretate  dalle  assemblee,  liberissima  la  stampa,  garentita   la   libertà
individuale. Scacciati i governatori che dall'Inghilterra  venivano  inviati  in
ogni Stato, le colonie furono di fatto liberissime senza aver bisogno di  mutare
la costituzione, o di far nuove leggi. Un congresso assunse il  potere  supremo,
non di far leggi, non di educare, non di limitare i diritti  de'  cittadini,  ma
incaricato solo di riunire i sforzi dei vari Stati, richiedendo ad ognuno uomini
e danaro per osteggiare il nemico comune. Ogni Stato,  con  riprovevole  costume
ebbe le sue milizie; eravi poi un esercito comune a tutti, e qualche volta  due,
dipendenti dal congresso: di questi due  eserciti,  un  solo,  il  maggiore,  fu
capitanato da Washington, ma egli non ebbe mai ingerenza alcuna  nelle  faccende
civili, ed il suo potere, come semplice generale,  fu  inferiore  a  quello  che
concedesi comunemente ai condottieri di eserciti, la sua opinione, eziandio  ne'
disegni di guerra, doveva sottostare a quella della maggioranza de' generali. In
un momento assai difficile il congresso gli conferí sei mesi di dittatura, ma il
suo potere in altro non consisteva  che  eseguire  gli  arrolamenti,  provvedere
l'esercito nel modo il piú spedito possibile, e senza  dirigersi  al  congresso,
scorsi i sei mesi, i suoi poteri furono di  nuovo  limitati.  Solamente  la  sua
opinione ne' disegni di guerra fu dichiarata prevalente, e  cosí  corressero  un
grave errore. Washington non fu mai dittatore nel vero senso in cui s'interpreta
questa parola. Egli, per carpire in America un potere dittatoriale, non  bastava
che si fosse sostituito al congresso, ma sarebbe stato costretto a debellare  ad
uno ad uno  i  diversi  Stati  e  cangiarne  le  istituzioni.  Washington  salvò
l'America, non già per gli estesi poteri  a  lui  accordati,  ma  pel  suo  gran
carattere mostrato come generale. Egli (concedasi  a  un  tale  eroe  una  breve
digressione) rimase saldo durante le avversità e le difficili congiunture in cui
mettevalo la dissoluzione del suo esercito. Egli fu  gran  generale,  e  la  sua
condotta, forse, fu superiore a quella  di  Fabio  Massimo.  Questi  ebbe  forze
sempre superiori al nemico, e comandava  a'  Romani,  per  indole  e  tradizioni
guerrieri per eccellenza; quello comandò esercito sempre minore  del  nemico,  e
composto di  gente  raccogliticcia  a  cui  mancavano  tradizioni  ed  abitudini
militari.  Fabio  non  impedí  le  scorrerie  del  nemico,   Washington,   senza
combattere, interdisse tutte le operazioni agli Inglesi, ed in ultimo,  ghermita
l'occasione, e  col  semplice  soccorso  della  flotta  francese,  distrusse  un
esercito nemico e pose fine alla guerra. La Svizzera, le Fiandre, l'America,  la
Francia,  la  Grecia  han  compiuto  memorabili  rivoluzioni;   martiri,   eroi,
battaglie, combattimenti, ostinate difese di città, nobili sacrifizî,  nulla  ad
esse è mancato, e le gesta delle due ultime nazioni sono, è cosa innegabile, piú
brillanti, gli  eroi  piú  sublimi,  e  maggiore  lo  sviluppo  delle  passioni;
nondimeno Grecia  e  Francia  sono  schiave,  le  altre  libere,  d'onde  questa
differenza? Le prime non dovettero  fare  altro  che  rovesciare  il  giogo  che
interdiceva lo sviluppo delle loro libere istituzioni comunali,  non  concessero
mai ad alcuno il potere di comandare a bacchetta, e nol potevano concedere senza
ledere le libere leggi che si trovavano in vigore, e perciò  il  dispotismo  non
trovò terreno da gittar le sue radici. Per contro, tutte le  nuove  costituzioni
francesi, non hanno distrutta ma riformata l'antica, la quale è pura  emanazione
della tirannide, e corrivi i francesi,  perché  d'indole  servili,  a  concedere
estesi poteri, a crearsi le pouvoir fort, com'essi dicono, ad onta delle goffe e
stolide complicazioni aggiunte alla macchina governativa  per  garantirsi,  essi
sono stati  sempre  schiavi,  sempre  tiranneggiati,  prima  della  rivoluzione,
durante la rivoluzione, e dopo la rivoluzione. La Grecia ebbe tutto a creare, ed
in luogo di abbandonarsi liberamente alle proprie ispirazioni, prese  norma  da'
Stati che si dicevano civilizzati, ritornò serva. In Italia, le  istituzioni  in
vigore sono tali, tali le abitudini de' pubblici funzionarî, i quali si  credono
i padroni non già i servitori del popolo, che  se  concederemo  dieci  gradi  di
potere ad un governo, esso, indubitatamente, n'usurperà altri dieci. Guai a noi,
se ci faremo a ritoccare e correggere l'antica  legislazione,  a  conservare  le
vecchie basi, la  vecchia  orditura,  noi  non  sortiremo  dalla  schiavitú,  ma
stringeremo,  complicheremo  le  nostre  catene.  Gl'Italiani  debbono  spianare
affatto il vecchio edifizio, e lasciare che  i  rapporti  fra  i  cittadini  ne'
Comuni, e quelli de' Comuni fra loro, vadano creandosi  da  sé,  non  assegnando
loro altra norma che leggi di natura ed  il  triste  passato.  La  Nazione  essa
medesima prenderà l'equilibrio sul suo vero centro di gravità. Per  condurre  la
guerra basta un centro, come diremo, ove, facendo capo i mezzi  che  la  nazione
vorrà impiegarvi, verranno diretti contro il nemico. Nell'antica Roma il  potere
dittatoriale non  poneva  in  nessun  rischio  la  libertà:  il  paese  era  già
costituito, le leggi quali si convenivano ad un popolo libero;  e  queste  leggi
tacevano pel breve tempo che durava la dittatura,  quindi  riprendevano  vigore.
Eravi, inoltre, un potente patriziato, quasi tutti  già  generali  di  eserciti,
guarentigia bastante contro ogni usurpazione. Né la dittatura doveva dar leggi o
educare un popolo, essa era dittatura militare e non civile,  e  fu  creata  dai
patrizî onde  contrapporla  al  potere  tribunizio.  Propugnare  in  Italia  una
dittatura educatrice, ed educatrice a libertà, è tale enigma, è tale  frase  che
altro non  racchiude  che  una  manifesta  contraddizione.  Dimostrato  come  la
dittatura altro non sia che una contraddizione con se medesimo per un popolo che
aspiri a libertà, come sia impotente a produrre il bene,  e  scaturigine  d'ogni
male; come nasconda  in  se  medesima  grandissimi  perigli,  ora  ci  faremo  a
dimostrarla impotente affatto a dirigere la guerra. L'Italia potrà vincere  solo
a patto, il dice Mazzini, che la lotta sia lotta  di  giganti;  abbiamo  adunque
bisogno di capi, i quali suppliscano con l'ingegno e con  l'energia  al  difetto
del materiale, alla propria inesperienza ed a quella delle soldatesche: di capi,
i quali non si credono impacciati, ma sanno giovarsi delle passioni che  bollono
nel popolo. Tali capi, ora  che  rivoluzione  non  v'è,  non  esistono,  ma  non
mancheranno certamente fra i venticinque  milioni  d'Italiani.  Quale  stoltezza
cercarli prima? I generali son figli,  non  padri  della  rivoluzione.  Ma  come
sperare che sorgessero cotesti eroi, coteste folgori, se la dittatura verrà  ben
tosto a calmare la tempesta, ad ammorzare col suo soffio  tiepido  le  passioni?
Gli eroi non escono né  da'  guardinfanti  delle  corti  né  dalla  camera  d'un
dittatore, ma dal fermento delle passioni popolari. Se tutto dovrà  piegarsi  al
volere d'un uomo, le  forti  passioni  sono  impossibili,  ed  impossibili,  per
conseguenza, gli eroi. Oltrecché,  i  dittatori  che  verranno  sostituiti  alla
nazione, come conosceranno le numerose capacità che l'Italia nasconde dalle Alpi
al Lilibeo? La loro  scelta  dovrà  raggirarsi  fra  l'angusto  campo  de'  loro
aderenti, e tra questi, non già ai piú capaci, verranno affidate le sorti  della
nazione, e perché, non essendo militari, non potranno essere giudici competenti,
e perché la preferenza verrà naturalmente accordata a colui che sia  piú  amico,
piú simpatico, per docilità  e  per  dottrina,  coi  dittatori.  Infine  cotesti
dittatori civili preferiscono, quasi sempre, generali  stranieri  a'  nazionali,
imperocché  temono  il  credito  di  questi,  e  piú  facilmente  conservano  il
predominio su quelli, e cosí decretano la ruina e la vergogna della nazione;  ed
atterriti dalla popolarità che acquista un generale, son riluttanti a menare  di
forza la guerra, e  se  scorgono  una  probabilità  di  terminarla,  senza  piú,
eziandio con danno della causa, transigono. Finalmente  è  mestieri  riflettere,
comunque voglia supporsi perfetto un tale governo, che, in caso de' rovesci,  il
governo non essendo fondato su de' principî, ma sul carattere e l'opinione degli
uomini presso cui trovasi il  maestrato  supremo,  si  ricorrerà  al  volgare  e
puerile  mezzo,  quale  è  quello  di  cangiarli,  e  quindi  un  sol  disastro,
probabilissimo in simile lotta, basterà per sostituire al potere uomini  d'altra
gradazione di colore, che daranno alla rivoluzione un nuovo indirizzo  politico,
e da tale continuo ondeggiamento verrà strozzata. La dittatura in  Italia,  come
in Europa, ha fatto le sue prove, il governo provvisorio di  Milano,  quello  di
Venezia,  di  Firenze,  di  Roma,  di  Sicilia...  potevano   decretare   tasse,
provvisioni militari, far la pace o la guerra, creare  cariche,  e  ne  crearono
infinite, furono insomma poteri dittatoriali. Che cosa avvenne? Lo  stato  delle
cose  rimase  ove  la  nazione  l'avea  condotto  nel  primo  periodo  del   suo
rivolgimento, la rivoluzione non avanzò d'un passo, anzi, come è  natura  d'ogni
potere, ne repressero  gli  slanci,  senza  accrescerne  le  forze.  Se  con  la
dittatura siamo stati mai sempre vinti, perché non provare  la  libertà?  Faremo
fine a questo ragionamento con affermare, come cosa  per  se  medesima  evidente
che, se la dittatura fosse  necessaria  all'Italia,  in  tal  caso  bisognerebbe
disperare affatto del nostro risorgimento, la dittatura in Italia è impossibile:
sarebbe il frangente della rivoluzione,  renderebbe  inattuabile  l'unità  degli
sforzi. Il fato che ha decretato per l'Italia la schiavitú o l'assoluta libertà,
con la grandezza che  l'accompagna,  ha  reso  impossibile  la  dittatura.  Come
supporre  che  tutta  l'Italia  s'inchinasse  al  potere  assoluto  surto  dalle
barricate di una città? Palermo, Napoli, Milano riderebbero degli ordini che  si
emanassero da Roma. Questa dittatura non solo dovrebbe combattere  i  stranieri,
ma per unificare l'Italia dovrebbe conquistare i varî Stati e tenerli  soggetti,
fare in un mese assai piú di quello che non fece l'antica Roma  in  sei  secoli.
Quale erroneo giudizio dell'indole del paese!  Dimostrata  l'assurdità  di  tale
concetto, e come in esso, senza  vantaggio  veruno,  si  riscontrano  tutti  gli
inconvenienti e tutti i rischi della tirannide, e come le tradizioni e  l'indole
del paese siano con esso riluttanti, ora verremo  a  discorrere  di  quello  che
bisogna sostituirvi. Lo stato presente d'Italia, il fine a cui tendiamo, i sacri
principî che emergono dalle leggi di natura, determinano recisamente la forma  e
le attribuzioni del potere che dovrà  amministrare  gl'interessi  della  nazione
durante la lotta. Le diverse condizioni in cui  trovansi  i  diversi  Stati  non
solo, ma le diverse città  d'Italia,  rendono  quasi  impossibile  un  insorgere
simultaneo; ed eziandio che per una favorevole circostanza ciò avvenisse, non in
un tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombero il suolo da' nemici. Quindi è
forza che non già l'Italia tutta, ma una parte di essa, dovrà prima che le altre
inalberare la bandiera comune, e  nominare  un  maestrato,  non  municipale,  ma
italiano. Questi Italiani, primi ad esser liberi, che dovranno al  caso  o  alle
loro speciali circostanze l'iniziativa, non potranno certamente  pretendere  che
la nazione intera confermi o si  sottometta  al  potere  da  essi  eletto,  tale
pretesa non solo sarebbe tirannica ma vana; si vedrebbero  sorgere  tanti  altri
governi per quante sono le diverse provincie, o almeno i diversi  Stati  in  cui
ora è divisa. Il maestrato che dovrà amministrare l'Italia,  deve  assolutamente
procedere per addentellati, facendo cosí abilità ad ogni parte  di  essa,  fatta
libera, d'unirsi alle provincie iniziatrici del moto, non  già  sottomettendosi,
ma trovando pronto il proprio incastro, onde comporre un sol tutto. Quindi altro
non potrà essere che una convenzione o congresso nazionale, eletto con suffragio
universale, il quale verrà completandosi a misura che  la  rivoluzione  proceda.
Restaci ora a determinare le attribuzioni di questo congresso. Se  ci  faremo  a
considerarlo con  quelle  idee,  che  oggi  si  hanno  in  Europa,  del  governo
parlamentare, ognuno ne troverà, nel fondo della propria coscienza, la condanna.
Garrule, lente, tumultuanti, snervate, riescono coteste  congreghe,  ed  esse  o
cagionano la ruina del paese o si restringono in  una  dittatura,  essendo  cosa
impossibile ottenere l'unità de' fatti in tanta disparità di pareri. Ma ciò  non
è difetto di queste adunanze, ma bensí errore de' popoli che le concedono poteri
e ne richieggono opere con la loro natura  riluttanti.  Un  tal  congresso  deve
essere non imitazione della convenzione  francese,  ma  tutt'altro;  avvicinarsi
piuttosto al congresso americano, a quello delle Fiandre, al greco, cercando  la
maggiore unità ed energia di sforzi non già in esso, ma  nell'ordinamento  delle
altre parti dello Stato. Prima d'ogni altro, non bisogna mai perdere di vista il
principio che un popolo, per esser libero, bisogna che  fin  dal  primo  istante
spezzi le sue catene ed assicuri la libertà. La sovranità per legge di natura  è
inalienabile, né havvi circostanza  che  possa  giustificare  la  violazione  di
questa legge; concederla ad altri è un suicidarsi; il suicidio consumato, è vana
speranza il pretendere di ritornare  in  vita;  quindi  ogni  membro  di  questo
congresso è sempre revocabile  da'  suoi  elettori,  e  la  istessa  durata  del
congresso non può prestabilirsi, dovendo dipendere dalla  libera  volontà  della
nazione. Il suo mandato è quello di mandare ad effetto  il  concetto  collettivo
della nazione, concetto chiaro ed innegabile,  il  quale  comprende  in  se'  la
rivoluzione, né ammette restrizione di  sorta  alcuna:  guerra  allo  straniero,
qualunque lingua esso parli, finché non sia fuori d'Italia; guerra a  tutto  ciò
che inceppi l'assoluta libertà. Questo concetto è il despota, il dittatore degli
Italiani, se eglino trasgrediranno i suoi assoluti ed imperiosi comandi, la pena
sarà certa e terribile: schiavitú e  miseria.  I  limiti  poi  ne'  quali  dovrà
operare cotesto congresso, o  convenzione  nazionale,  vengono  tracciati  dalle
leggi di natura, che son le basi del patto sociale, espresse nel terzo  capitolo
di questo saggio, ed esse non danno luogo a  dubbio  di  sorta  alcuna.  Essendo
sacra la libertà individuale e quella de'  Comuni,  il  congresso  non  avrà  la
benché minima autorità nella loro interna amministrazione  e  nella  nomina  de'
pubblici funzionarî; i Comuni, assolutamente  indipendenti,  provvederanno  come
meglio credono alla loro amministrazione, uniformandosi  ai  dettati  di  quelle
tali leggi naturali, che formano il solo  patto  costituente  l'unità  italiana.
L'esercito, essendo un nucleo di cittadini destinati dalla  nazione  a  compiere
una speciale missione, in virtú delle medesime  leggi  testè  citate,  hanno  il
diritto di eleggersi i propri capi, ai quali, come  nel  terzo  [recte:  quarto]
Saggio ampiamente svilupperemo, per ragion di guerra s'addice  il  concetto  de'
disegni militari e l'esecuzione di essi. Svincolati dalle mille spire in cui  la
diplomazia si va ravvolgendo, questo congresso non ha alcun trattato da lacerare
in volto al nemico: finché esso sarà sul suolo italiano altra ragione  oltre  il
cannone non v'è; cacciato d'Italia, compiuta la missione  dell'esercito,  allora
solo, pacatamente il congresso potrà  discendere  a  ragionare,  non  avendo  il
diritto di nulla stabilire senza  il  consenso  della  nazione.  Adunque  questo
congresso non ha cariche od onori da conferire; non leggi da fare, non  trattati
da conchiudere, non eserciti da dirigere. È sua missione  accusare  al  cospetto
della nazione ed  esortare  a  riprendere  il  dritto  sentiero  quel  Comune  o
quell'individuo il quale violasse i principî da  noi  stabiliti  come  base  del
patto nazionale; è sua incumbenza  determinare,  secondo  la  popolazione  e  la
ricchezza d'ogni Comune, la porzione contingente in uomini e danari con cui deve
concorrere alla guerra, e cosí, equamente, ripartire i sacrifizî; è sua speciale
opera raccogliere tutte le risorse  materiali  e  dirigerle  ove  l'esercito  il
richiede, onde fornire incessantemente il  campo.  In  tal  guisa,  la  nazione,
assolutamente libera, appresta in ogni Comune tutte le sue forze;  il  congresso
le raccoglie e le invia all'esercito; questo, secondo la ragion  di  guerra,  le
dirige contro il nemico. Il congresso non è governo, ma centro su cui la nazione
equilibrasi, verso cui tendono le  sue  forze,  e  vigile  guardiano  del  patto
nazionale. Esso può, in virtú di quelle medesime leggi che gli danno vita  e  ne
tracciano le funzioni, conferire a pochi individui, o ad un solo, scelti dal suo
seno o fuori, i proprî attributi, onde ottenere la massima energia nel  disbrigo
delle sue incumbenze, basta che non abdichi mai il  diritto  inalienabile  della
loro revoca e del sindacato su di essi. In questo solo modo  può  concepirsi  in
Italia l'unità degli sforzi, senza ledere in menoma parte la libertà.

CAPITOLO QUINTO

XVIII. Risorgimento d'Italia. - XIX.  Educazione  pubblica.  -  XX.  Bandiera  e
formola.



XVIII. Nei primi capitoli di questo  Saggio  abbiamo  cercato  quelle  leggi  di
Natura, que'  principî,  non  già  deduzioni  d'un  ragionamento  basato  su  di
arbitrarî accordi o strani supposti, ma attributi della Natura  stessa,  effetti
invariabili dell'indole umana. Principî che una società non può riconoscere come
veri, senza prima percorrere lunga, scabrosa ed intricata via, per cui il fugace
utile immediato ed i pregiudizî, facendo ombra al suo intelletto, la costringono
a serpeggiare. In seguito abbiamo discorso del cospirare, dell'insorgere,  mezzi
di cui s'avvalgono le nazioni onde  sgomberare  con  fremito  il  cammino  dalle
incomode ruine del passato. Non ho creduto proporre un modo nuovo di cospirare e
dar norma ai primi passi  della  rivoluzione,  ma  bensí  fu  mio  proposito  il
dimostrare logori i mezzi sino ad ora usati, e determinare  non  quale  dovrebbe
essere, ma quale inesorabilmente sarà lo sviluppo ed il modo  di  operare  delle
varie forze che possiede  la  società.  E  porto  ferma  opinione  che  la  vera
rivoluzione,  il  vero  trionfo  della  democrazia,  che   suona   trionfo   del
proletariato, non  si  otterrà  con  altri  mezzi  se  non  con  questi,  né  si
conquisterà la libertà che liberamente operando. Il sottostare a forza  maggiore
è necessità, il rinunziare volontariamente ad una parte o a  tutta  la  libertà,
non è prova di spiriti liberi ma d'inclinazione al servaggio. Chi vende i proprî
convincimenti ha cuore depravato ma piú libero di colui che  volontariamente  li
abdica. Quello rinunzia alla libertà per  un  guadagno,  patteggia  col  nemico,
questi per l'indole; l'uno,  trovando  il  suo  meglio,  saprà  riacquistarla  e
avvalersene, l'altro, eziandio volendolo, nol potrà fare. È  vano  il  dire  che
sarà cosa pregevole rinunziarvi per amor di patria,  imperocché  il  sommo  bene
della nazione altro non è che assoluta libertà, che essendo costituita  non  dai
limiti imposti  alla  libertà  individuale,  ma  dal  pieno  sviluppo  di  essa,
rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della patria, è lo  stesso
che mutilarla per renderla intera, è un assurdo. Agli  Italiani  è  mestieri  di
educarsi a libertà, ma educatori  e  libertà  sono  materie  eterogenee  che  si
escludono affatto. La libertà non può apprendersi, essa è sentimento, e  nessuno
può darci sensazioni non nostre. Per educarci  a  libertà  bisogna  vivere,  per
quanto possiamo, liberamente, in tal guisa ognuno, educando se  medesimo,  educa
tutti, e tutti compiono l'educazione di ognuno. Da ciò  risultano  spontanee  le
cospirazioni, le congiure, ma senza idoli, senza  patroni,  senza  padri,  niuno
pretenderà comandare, come niuno si piegherà ad ubbidire. Se la nazione  devierà
ancora dalla linea retta, se ancora non è abbastanza assennata  dall'esperienza,
potranno de' strani connubî, delle strane combinazioni aver luogo, ma  essa  non
raggiungerà con questi mezzi la sua  piena  libertà  e  la  grandezza  a  cui  è
destinata. Additate le piaghe  della  società,  i  diritti  di  chi  soffre,  le
usurpazioni di chi gode; dimostrata la necessità di estirpare fin l'ultima barba
della presente costituzione sociale, di sgomberare  il  suolo  dalle  sterminate
macerie di  pregiudizî,  di  leggi,  di  opinioni  ammucchiare  sul  diritto  di
proprietà che gli  serve  di  base,  e  che  poggia  a  sua  volta  sugli  omeri
dell'immensa moltitudine de' null'abbienti, come rivoluzionario potrei far fine.
La nazione penserà a ricostituirsi. Nondimeno sospingeremo lo sguardo in  questo
ignoto avvenire e procederemo in  esso  attenendoci  strettamente  a'  stabiliti
principî. "I tiranni, - scrive Mario Pagano, - col progresso  del  tempo,  dalle
continue  reazioni  degli  oppressi,  debbono  rimaner  disfatti.  La  legge   è
immutabile, l'ordine è costante, la pena è  certa,  benché  col  piè  di  piombo
giunge al fine". Ora che scrivo,  la  miseria  cresce  ogni  giorno,  i  governi
moderati, corruttori e codardi, in putredine vanno  consumandosi,  la  tirannide
mostrasi, perché minacciata, terribile ed ingorda e cosí la sua azione  affretta
l'immancabile reazione. I popoli, intolleranti dello stato presente, fremono, il
movimento non tarderà, e non già, come pretendono i dottrinarî,  il  popolo  piú
dotto e piú incivilito, ma il piú oppresso darà il segnale della  battaglia.  La
quistione economica, quasi in tutt'Europa prevale, non  solo  fra  i  dotti,  ma
nella plebe, la  questione  politica  n'è  stata  quasi  del  tutto  ecclissata.
Cominciato lo sbaraglio, vedremo  il  popolo,  da'  suoi  dolori  sospinto,  con
abbandonate redini precipitarsi ne' pericoli,  ma  le  sue  prime  orme  saranno
incerte, vacillanti, esso non saprà scorgere il vero nemico, né colorite i  suoi
disegni.  In  questi  momenti,  la  riuscita,  l'indirizzo  della   rivoluzione,
dipenderà da quella gioventú intelligente, non dotti, ma illuminati  combattenti
di cui il popolo naturalmente se ne fa testa. Se questi desiderano il vero  bene
della patria,  dovranno,  senza  far  gruppi  o  sette,  ma  ognuno  secondo  le
ispirazioni del proprio genio, darsi a tutt'uomo, non già calmare, ma a sfrenare
per quanto può  le  passioni  del  popolo  e,  dando  forma  a'  suoi  desiderî,
additargli il nemico. Colui che dopo tanti  tristi  e  sanguinosi  casi,  che  i
popoli, nel fare transazioni e contentarsi di rimedî mezzani, patirono, in luogo
di mirare alla riforma completa degli ordini sociali, broglia per afferrare  una
carica, o per donare i poteri a qualche suo idolo, e, tutto fede, spera  che  un
uomo compia la rivoluzione, ammorzando  l'effervescenza  popolare,  presenti  il
dorso al bastone della tirannide,  egli  altro  non  è  che  vilissimo  schiavo,
mascherato col saio del repubblicano. Ci faremo ora a compendiare quanto dicemmo
del passato e del presente, dei mali sociali e  de'  rimedî,  delle  usurpazioni
della tirannide e de' diritti della democrazia, e cosí rileveremo le provvisioni
da prendersi, le riforme da adottarsi. Son quasi quattro secoli di schiavitú,  e
durante  quest'epoca,  quanti  inutili  tentativi,  quanto  sangue   inutilmente
sparso!... I popoli a noi vicini, dopo grandissimi sforzi  non  son  riusciti  a
migliorare la loro condizione. È dunque inutile l'insorgere?  No.  È  questo  un
fatale cammino che il popolo è costretto a  percorrere,  onde  dalle  sanguinose
esperienze venga condotto alla scoverta  degli  errori.  Raccogliamo  adunque  i
frutti del passato travaglio; gioviamoci di que' fatti, e sia questa rivoluzione
principio d'êra novella, e non già nuova esperienza  utile  a'  posteri,  a  noi
dannosa. Che cosa ha fruttato  la  moderazione?  patibolo,  carceri,  esilio.  I
nostri nemici sono inesorabili, ingordi; ad ottenere due gradi di libertà (se la
libertà si ottenesse per gradi), ed ottenerla intera, ci è  forza  sostenere  la
lotta medesima. Perché dunque arrestarci ai primi passi? La  moderazione  ci  ha
fruttato, forse, la protezione di qualche altra Potenza? Mai no, tutti i governi
stranieri, apertamente o con l'inganno, sonosi  cooperati  alla  nostra  rovina.
Confidiamo adunque nelle sole nostre forze, e miriamo alla completa  distruzione
del nemico, senza arrestarci alla minaccia, essa altro non è che  un'arma  nelle
mani del minacciato. Guai se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere
dall'altrui volere le proprie sorti! Essa vedrà molti di coloro  che  si  dicono
liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci parole adularla,  come
costumano adulare i  tiranni,  e  carpirne  il  voto.  Divenuti  onnipotenti  ed
inviolabili, pensano al loro meglio,  e  ribadiscono  le  sue  catene;  ed  alla
richiesta di pane e lavoro rispondono, come  l'assemblea  francese  rispose  nel
'48, col cannone. Finché la società verrà composta da molti che  lavorano  e  da
pochi che dissipano, e nelle mani di questi pochi sarà  il  governo,  il  popolo
deriso col nome di libero e di sovrano, [i  molti]  non  saranno  che  vilissimi
schiavi. Tutte  le  leggi,  tutte  le  riforme,  eziandio  quelle  in  apparenza
popolari,  favoriscono  solamente  la  classe  ricca  e  culta;  imperocché   le
istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutto in suo vantaggio. Voi plebe,
allorché crederete avvicinarvi alla meta, ne sarete, invece, piú  discosti.  Voi
lavorate, gli  oziosi  gioiscono;  voi  producete,  gli  oziosi  dissipano;  voi
combattete ed essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno: come
il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario  del
padrone, dalle concessioni  del  proprietario?  voi  indubitatamente  votereste,
costretti dal bisogno, come quelli vorranno.  Come  il  vostro  voto  può  esser
giusto, se la miseria vi condanna a perpetua ignoranza e vi toglie ogni  abilità
per giudicare degli uomini e de' loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la
cui esistenza dal capriccio d'un altro uomo dipende? La miseria è la  principale
cagione, la sorgente inesauribile  di  tutti  i  mali  della  società,  voragine
spalancata  che  ne  inghiotte  ogni  virtú.  La  miseria  aguzza   il   pugnale
dell'assassino; prostituisce la donna; corrompe il cittadino; trova satelliti al
dispotismo. Conseguenza immediata della miseria  è  l'ignoranza,  che  vi  rende
incapaci di governare i vostri particolari negozî, nonché quelli del pubblico, e
corrivi  nel  credere  tutte  quelle  imposture   che   vi   rendono   fanatici,
superstiziosi, intolleranti. La miseria e l'ignoranza sono gli  angeli  tutelari
della moderna società,  sono  i  sostegni  sui  quali  la  sua  costituzione  si
incastella,  restringendo  in  picciol  giro  l'ampio  cerchio   dell'universale
cittadinanza. Il delitto e la prostituzione, conseguenze  inevitabili,  sgorgano
dal seno di questa società. Bagni e patiboli sono le sue opere, volte a  punire,
con raffinata ipocrisia, i frutti medesimi delle  sue  viscere.  La  statistica,
scienza  moderna,  che  mostra  come  indissolubilmente  si  legano   le   varie
istituzioni sociali, ha  già  registrato  come  la  miseria  e  l'ignoranza  non
scompagnano  mai  il  misfatto.  Finché  i  mezzi  necessarî  all'educazione   e
l'indipendenza assoluta del vivere non saranno assicurati ad ognuno, la  libertà
è promessa ingannevole. I nemici  che  dobbiamo  debellare  son  molti,  è  vano
l'illudersi, ma se tutti vorremo  combattere  da  liberi  cittadini,  vinceremo.
Cerchiamo penetrare con lo sguardo attraverso l'atmosfera che  i  pregiudizî  ci
hanno addensato intorno, né vi sarà difficile discernere, in questo istante  che
trovasi distrutta la gerarchia sociale, quanto siano  mostruose  le  usurpazioni
del ricco e quanto grandi le miserie del popolo!... Con qual diritto  un  ozioso
proprietario scialacqua col prodotto de' sudori del  fittaiuolo,  mentre  questi
appena potrà offrire un pane alla sua povera e  laboriosa  famiglia?  Con  quale
diritto, in un'officina in  cui  cento  lavorano,  un  solo,  oltre  ogni  stima
arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato l'avvenire, ma neanche la
benché minima guarentigia del presente, bastando il capriccio  di  un  solo  per
affamare centinaia di dipendenti? Distruggiamo coteste mostruosità col garantire
al contadino ed all'operaio il frutto del loro lavoro, e questi e quelli saranno
contenti [di] lasciare per poco  la  vanga  ed  il  martello,  ed  impugnare  il
moschetto a difesa degli acquistati diritti. Se la  vittoria  assicura  a  tutti
l'agiatezza, e la disfatta li ricaccia nella miseria,  tutti  saranno  valorosi.
Ecco il segreto di cui si avvalsero  i  nostri  progenitori  per  soggiogare  il
mondo. Nei passati rivolgimenti sonosi  cangiati  gli  uomini  e  le  forme  del
governo, ma il principio su cui esso  poggiava,  l'autorità  insomma,  cangiando
nome, rimase; come adunque potevano sparire i mali? Volete cogliere il frutto di
tante pene? diroccate l'antico edifizio  sino  alle  fondamenta,  sgomberate  il
suolo dalle ruine, e su nuove basi riedificate. Le leggi a  cui  ubbidiamo  sono
quelle stesse, che da tredici secoli, da Giustiniano, i  despoti  ed  un  ordine
privilegiato,  quelli  che  posseggono,  hanno  create,   svolte,   e   curatane
l'esecuzione sempre in danno della plebe; e  queste  leggi  che  hanno  sí  bene
servita la tirannide, non possono certamente essere utili ad un popolo che vuole
esser libero. E però la prima determinazione da prendersi è quella di annullarle
tutte; una sola che ne rimanga  basterà  per  dare  alla  rivoluzione  un  falso
indirizzo, o almeno per ritardarne il naturale progresso.  La  forza  è  l'altro
cardine sul quale poggia la tirannide, qualunque siasi il nome del governo,  re,
dittatore, triumvirato, congresso, se esso dispone di  forza  materiale,  saremo
schiavi. Non bisogna mai conferire ad altri la facoltà di nuocere;  gli  uomini,
buono o tristo sia lo scopo a cui tendono, sono o prepotenti  o  deboli;  questi
inetti al governo, quelli oppressori; i primi, avendone la forza,  opprimono,  i
secondi ci abbandoneranno ai loro satelliti. Ognuno, in buona fede, crede che le
proprie idee tornino a gran d'uopo al paese; e però se avrà la forza  d'imporle,
le imporrà. Lasciamo a tutti la libertà di proporre i proprî pensieri, a nessuno
facoltà d'imporli. L'uomo, creato indipendente e libero, non dovrà  mai  servire
un altro uomo, ma solo la propria natura ed il proprio meglio; e se in virtú  di
questa  legge,  nelle  specialità,  conviengli  alla  direzione   de'   migliori
sottoporsi, non dovrà mai, in forza della legge  medesima,  lasciare  che  altri
stabilisca i rapporti della società di cui fa parte e dia norma a tutto  il  suo
vivere. I diritti di ognuno limitano di fatto  la  sfera  d'azione  de'  diritti
altrui, le naturali inclinazioni ne distribuiscono le incombenze,  e  da  questa
libertà ch'altri limiti non conosce che l'altrui libertà, ne  risulta  l'armonia
sociale. Chiunque pretende governarmi, chiunque pretende che io mi uniformi alle
sue idee, alle sue abitudini, è uno stolto tiranno;  ad  ottenere  ciò  dovrebbe
trasferirmi la sua sensibilità. Or dunque, considerando questi veri come i punti
di riscontro del nostro avvenire, verremo traducendoli in pratica  esponendo  le
provvisioni che sul retto sentiero indirizzeranno  la  rivoluzione,  assicurando
sin da' primi istanti il suo magnifico e semplicissimo procedere.  1.  Tutte  le
leggi, i  decreti,  le  cariche,  le  incombenze,  insomma  tutte  le  esistenti
istituzioni sociali, rimangono da quest'istante annullate. a) Ogni contratto  il
quale non sussiste per  la  libera  volontà  delle  due  parti  contrattanti,  è
sciolto. b) Le tasse ed ogni specie di gravezze  imposta  dal  passato  governo,
annullate. Non vi sarà che un'imposta unica sulla  ricchezza,  da  un  congresso
italiano ripartita sui Comuni, dai consigli comunali  ripartita  sui  cittadini.
Questa prima provvisione spezzando le ritorte [catene] da cui  eravamo  avvinti,
ridonaci la piena libertà delle membra, indispensabile a sostenere la gran lotta
in cui dovremo impegnarci, né la vittoria sarà mai  possibile,  se  combatteremo
impastoiati fra leggi ed istituzioni volte a sgagliardirci e toglierci qualunque
libertà  d'operare.  Né  qui  finiscono  gli  effetti  di  tali   provvedimenti:
l'abolizione delle tasse ecc., produrrà, cosa indubitata, un ribasso nel  prezzo
degli oggetti di prima necessità, ed il minuto popolo sentirà, dal nuovo  ordine
di cose, immediatamente sgravarsi delle tante imposizioni da cui era oppresso; e
quindi troverà cosa importantissima il difenderle ed assicurarle in avvenire. In
tal guisa con un semplice decreto avremo ridonato al popolo tutta la sua  forza,
e creato il movente che, unificandone eziandio  la  volontà,  lo  sospinge  alla
difesa della patria. Inoltre, se il concedere altrui il governo  assoluto  della
cosa pubblica ci ricaccia  nella  miseria  e  ci  abbandona  al  dispotismo,  il
disordine conduce parimente alle conseguenze stesse;  e  però  alla  rivoluzione
bisogna assegnare un fine cosí ampio  ed  incontrastabile  da  esser  certi  che
nessuno  possa  durar  fatica  a  riconoscerlo,  o  nessuno  rinnegarlo.  Quindi
stabilire come punti di riscontro, come limiti e guarentigie della  libertà,  le
leggi inviolabili della Natura, le quali daranno norma e determineranno tutte le
provvisioni volte ad organare e dirigere le forze della nazione al conseguimento
del fine prefisso. I due seguenti decreti basteranno per tradurre  in  fatti  le
idee esposte. 2. Il fine che si propone la rivoluzione è  quello  di  sgomberare
l'Italia da' stranieri, qualunque lingua essi parlano, e da tutto ciò che  viola
l'indipendenza e la libertà individuale. La guerra sarà menata di  forza  finché
questo fine non sia compiutamente conseguito. I principî  da  noi  espressi  nel
terzo capitolo di questo Saggio, resi di pubblica ragione sin dai primi  istanti
della Rivoluzione, verranno  presentati  in  ogni  Comune  all'accettazione  del
popolo, che riconoscendoli come base del nuovo patto sociale, dichiarerà reo  di
lesa nazione chiunque attenterà di violarli. Se un tal decreto verrà bandito dal
popolo, la rivoluzione  da  quell'istante  sarà  assicurata,  la  libertà  e  la
grandezza d'Italia indubitata; se poi un solo di questi principî è  rigettato  o
ristretto, la rivoluzione non si compirà, verrà conseguito  qualche  cangiamento
di forme, ed il popolo  s'incamminerà,  meritatamente,  in  un  nuovo  corso  di
miserie, di dolori e di vizî. Ridonata al popolo la sua piena libertà; creato il
movente delle sue imprese; determinato  il  fine  da  conseguirsi;  stabiliti  i
limiti all'autorità, le guarentigie ed i diritti  del  popolo,  la  rivoluzione,
senza tema d'esser tratta di passo, potrà procedere nel suo  corso,  e  poche  e
semplicissime provvisioni basteranno ad assicurare il suo progresso energico  ed
ordinato. 1. Tutti i cittadini, qualunque ne sia il sesso e  l'età,  pongono  se
medesimi e le loro sostanze  a  disposizione  della  patria,  finché  non  siasi
ottenuta la piena vittoria sui nemici di essa. 2. Ogni Comune verrà amministrato
da un consiglio comunale, formato da un  numero  di  consiglieri  stabilito  da'
cittadini medesimi. I consiglieri verranno eletti  al  suffragio  universale,  e
saranno revocabili dagli elettori e soggetti al loro  sindacato.  Il  consiglio,
affinché i comandamenti del popolo siano  mandati  ad  effetto  con  la  massima
energia possibile, trasmetterà il proprio  mandato  ad  un  solo  individuo  che
eleggerà nel suo seno, riserbandosi, in ogni tempo, il diritto di revoca, e  del
sindacato. a) La potestà politica e la giudiziaria risiederanno nel  popolo  del
Comune. L'ultima potrà conferirsi ad un certo numero  di  cittadini  eletti  dal
popolo, che non cesserà di essere il supremo  tribunale  al  quale  i  giudicati
potranno appellarsi. b) La speciale incombenza del consiglio comunale  è  quella
di raccogliere ed apparecchiare nel Comune tutte le risorse materiali  richieste
dal nazionale congresso. 3. Il congresso nazionale  verrà  eletto  co'  principî
medesimi, cioè: suffragio universale e diritto di revoca  e  di  sindacato  agli
elettori. Come i  consigli  comunali,  questo  congresso  potrà  trasmettere  il
proprio mandato ad un solo eletto dal proprio seno, riserbandosi sugli eletti  i
medesimi diritti accennati pei consiglieri comunali. a) Le incombenze di  questo
congresso saranno di rappresentare l'Italia verso le  Potenze  straniere;  potrà
conchiudere  trattati,  ma  essi  non  avranno  effetto  senza  prima   ottenere
l'approvazione del popolo. b) In forza de'  principî  stabiliti  come  base  del
patto sociale, questo congresso non avrà sui Comuni altra autorità, che  [quella
di] determinare ed esigere da essi la porzione contingente in uomini  e  danari,
con cui dovranno concorrere alla guerra, inviare queste risorse  ove  l'esercito
indicherà; accusare al cospetto della nazione quel  Comune,  o  quell'individuo,
che violasse il patto espresso dalle leggi di Natura. 4. L'esercito  eleggerà  i
propri capi e sarà l'esecutore supremo de' voleri  della  nazione.  Sono  queste
semplicissime provvisioni che potranno attuarsi da qualunque città o  borgo  che
sarà sgombero dal nemico. Il popolo di questo borgo che darà cominciamento  alla
rivoluzione, annullerà tutte le leggi esistenti, tutte le  gravezze;  bandirà  i
principî che dovranno essere la  base  del  nuovo  patto  sociale;  eleggerà  il
consiglio comunale, i deputati al congresso nazionale; e tutti i cittadini,  con
le norme  che  daremo  nel  terzo  [recte:  quarto]  saggio,  si  formeranno  in
battaglioni e si eleggeranno i capi. In tal guisa si procederà conforme al corso
naturale degli eventi,  e  la  nazione  da  sé,  senza  crearsi  padroni,  senza
concedere ad una città  autorità  o  ascendente  piú  delle  altre,  raccoglierà
successivamente le proprie forze e le adopererà al conseguimento del fine che si
propone, conservando la sua piena libertà. Il popolo non  avrà  nulla  a  temere
dagli errori in  cui  per  ignoranza  o  per  intrigo  d'altri  potrà  incorrere
nell'eleggere questi diversi  maestrati;  imperocché  non  sono  inviolabili  né
irrevocabili, e non dispongono di alcuna forza materiale. Essi non comandano, ma
propongono. Il popolo, con pochissima pena potrà francamente eleggere coloro che
desiderano tali incombenze, trattandosi di crearsi servi e non  padroni,  quelli
che volontariamente  si  offrono  saranno  i  migliori.  Negare  questa  verità,
ricorrere a ripieghi, è negare la  rivoluzione;  è  lo  stesso  che  restringere
l'utile universale a quello d'una fazione, è una questione di semplice forma che
non vale il pregio d'esser discussa. Durante la guerra, il  congresso  nazionale
si occuperà a risolvere il problema  sociale  e  cercherà  stabilire  l'avvenire
della nazione. Il congresso terrà ai  fittaiuoli  il  seguente  discorso:  -  Il
provvedimento preso di sospendere il pagamento delle rendite vi ha sostituito ai
proprietarî, bene grandissimo per voi stessi e per la società:  voi,  produttori
per eccellenza, ritenete e godete giustamente del frutto delle vostre fatiche, e
la società si è  sgravata  da  quella  classe  di  oziosi  digeritori,  che  per
sostenere il loro lusso producevano l'incarimento  dei  viveri;  ogni  cittadino
soffriva per cagion loro, ad ogni poverello veniva tolto un pezzo del  suo  pane
per impinguare i cani ed i cavalli di questi proprietarî;  ed  oltre  di  questi
vantaggi  evidenti,  quegli  oziosi,  costretti  ora  a  lavorare  per   vivere,
accrescono eziandio il prodotto sociale. Ma fa d'uopo riflettere che, quali  voi
oggi  siete,  tali  essi  furono,  e  l'esperienza,  varie  volte  ripetuta,  ha
dimostrato che, eziandio ripartendo ugualmente la terra, dopo qualche  tempo  vi
sarà tra voi chi per maggior forza, solerzia, o ingegno,  ingrandirà  all'altrui
spese, e cosí a poco a poco sorgerà di nuovo la classe de' proprietarî che avete
annientata. Inoltre, il medesimo diritto  che  avete  voi  sulla  terra,  lo  ha
ognuno: la  medesima  ingiustizia  che  voi  pativate,  la  patiscono  i  vostri
giornalieri, e voi usurpate ad essi quel  frutto  dei  loro  lavori  che  i  già
proprietarî vi usurpavano, e finalmente, rimanendo  la  vostra  condizione  tale
quale ora è, i principî da  voi  stessi  banditi  sarebbero  violati;  il  patto
sociale sarebbe ingiusto come lo era prima, ed i vostri figli si troverebbero in
una società non diversa da quella che ora vogliamo riformare. -  La  cagione  di
questi mali futuri è evidente; la proprietà ha cangiato possessore ma è  rimasta
illesa, è dessa che bisogna abbattere, è il  principio  che  bisogna  mutare,  e
perciò è necessario occuparsi della soluzione del problema, di  impedire  che  i
proprietarî  rinascono:  questo  problema,  unito  agli  altri  che   riguardano
l'industria ed  il  commercio,  formeranno  l'oggetto  delle  nostre  cure.  Per
riuscire nel nostro proponimento non basta seguire i suggerimenti  dell'istinto,
che ci trarrebbero di passo, ma bensí giovarci  dell'esperienze  che  la  storia
registra. Le attinenze degl'innumerevoli fatti consacrati nelle sue  pagine  han
porto materia a studio profondo, da cui è risultata una  serie  di  proposizioni
che formano la filosofia civile,  la  quale,  scienza  universale,  con  attenta
osservazione, traendoci dalla fallace via che il volgo per abitudine  frequenta,
in quella magistrale e permanente della Natura ci conduce; questa  scienza  darà
norma alle nostre ricerche. Inoltre, il nuovo patto sociale, che verrà stabilito
dalla  costituente,  non  sarà,  come  le  passate  costituzioni,  imposto  agli
Italiani, ma  proposto,  e  la  costituente,  non  disponendo  di  veruna  forza
materiale, non potrebbe operare diversamente;  quindi  il  cuore,  la  fede,  le
intenzioni di coloro che dovranno comporla, in questo caso, non hanno importanza
di sorta alcuna; queste  qualità,  impossibili  a  ritrovarsi,  perché  mutabili
secondo l'utile individuale, queste qualità, sempre cercate e  mai  trovate  dal
popolo, oggi non debbono tenersi in verun conto; l'ingegno e  la  dottrina  sono
necessarie, eziandio i piú perversi saranno utili;  ma  il  popolo  non  potendo
discernere queste qualità, la costituente sarà nominata dal congresso nazionale,
che ammetterà in essa tutti coloro  che  volontariamente  si  offrono  di  farne
parte. Questo sarà il campo ove la scienza,  non  avendo  altri  limiti  che  le
medesime leggi di Natura da cui  essa  risulta,  potrà  elevarsi  dalle  inutili
astrazioni alla pratica, e stabilire la felicità della nazione. Questo congresso
di scienziati, dichiarato costituente, determinerà e  proporrà  il  nuovo  patto
sociale, le cui basi saranno que' principî dal popolo dichiarati inviolabili, ed
il fine quello di garentirne l'inviolabilità per l'avvenire. Compito il  lavoro,
reso di pubblica ragione, rimarrà esposto  alla  pubblica  censura;  e  tutti  i
dubbî,  tutte  le  considerazioni  espresse  per  mezzo  della  stampa,  saranno
accuratamente raccolte da coloro  che  presiedono  all'amministrazione  di  ogni
Comune ed inviate alla costituente, che, nel piú breve  tempo  possibile,  dovrà
modificare o rispondere a tutte le osservazioni fatte dal pubblico. Dopo  questa
prova, il patto, sottoposto in ogni Comune alla finale approvazione del  popolo,
avrà effetto. Noi adombreremo questo nuovo patto sociale senza presumere di aver
risoluto un problema che  dovrà  risolvere  l'intera  nazione;  è  stato  nostro
proposito sgomberare il suolo e scavar le fondamenta, non già riedificare.

I.

Le siepi e quanto serve di chiusura o limite ai  poderi  saranno  abbattute.  Il
suolo italiano verrà ripartito secondo  le  diverse  specie  di  coltura  a  cui
mostrasi atto. Una  porzione  di  terra  proporzionata  alla  popolazione  verrà
assegnata ad ogni Comune e coltivata da coloro che si dedicano  all'agricoltura,
i quali formeranno una società che stabilirà essa medesima la sua  costituzione,
in caso che non volesse accettare quella che la costituente proporrà. Ma  questa
Costituzione, dovendo esser conforme  a  que'  principî  che  formano  la  legge
universale ed immutabile della nazione, non potrà  essere  molto  diversa  dalla
seguente: un amministratore ed un direttore eletti, e soggetti al  sindacato  di
un consiglio amministrativo e di un consiglio di tecnologia dirigente. Tutte  le
altre incumbenze distribuite secondo le inclinazioni e le attitudini di  ognuno.
Il guadagno netto diviso egualmente fra tutti. In tal guisa, con grandissimo  ed
universale vantaggio, la proprietà fondiaria sarà  distrutta.  Il  compartimento
del suolo determinato dal genere di coltura  e  non  dal  caso;  lo  stimolo  al
lavoro, non già la fame ma un maggior guadagno; una società  di  uomini  agiati,
tutti dediti, ognuno secondo le  proprie  attitudini,  ad  un  medesimo  lavoro,
dovranno indubitatamente produrre un accrescimento grandissimo  delle  ricchezze
sociali. Sosterrebbero gli economisti, che  l'agiatezza  degli  agricoltori,  la
mancanza de' proprietarî che consumano  senza  produrre,  facessero  languire  o
scemare la produzione? Sosterrebbero che le facoltà d'una  società  numerosa  ed
agiata siano inferiori a quelle d'una misera famiglia, capace  a  pena  di  quel
lavoro che serve a pagare il vistoso tributo al proprietario e comperare per  sé
un affumicato pane? Tutto può sostenersi col sofisma, ma esso perde la sua forza
quando il minuto popolo non può piú sopportare i suoi mali e  rovescia  la  soma
che soverchiamente lo grava. Queste proposte non vengono fatte  a  congreghe  di
digeritori, di persone dedite all'usura ed al monopolio, ovvero di  proprietarî,
di banchieri, di trafficanti, ma ad una società in cui la forza ha già distrutta
la  preponderanza  di  queste  classi.  Con  la  spada  bisogna  adeguare   alle
moltitudini i piú sublimi: quindi la legge stabilisce l'ordine e l'uguaglianza.

II.

Il capitale, come già dicemmo, essendo proprietà collettiva, non può appartenere
ad un uomo; l'appropriarsi il capitale è un'usurpazione, non cosí manifesta,  ma
simile a quella della proprietà fondiaria; tutti i capitali verranno  dichiarati
proprietà della nazione, il denaro potrà in parte involarsi, ma le fabbriche, le
macchine rimarranno. Tutti gli  impiegati,  in  ogni  stabilimento  d'industria,
comporranno una società, ai  quali  la  nazione  affida  il  capitale  tolto  al
capitalista, e questa società potrà reggersi con  una  costituzione  identica  a
quella  stabilita  per  gli  agricoltori.  Cosí   trasformata   e   ricostituita
l'agricoltura e l'industria, i mercanti che vendono in grosso si rinverranno nei
depositi  delle  stesse  società  e  saranno  membri  di  esse;  e  socî  a  ciò
espressamente delegati saranno i merciaioli che vendono al minuto.

III.

I trafficanti, intermedî fra i produttori ed i consumatori, a cui la miseria de'
primi  fa  abilità  a  speculare  a  discapito  del  popolo,  verranno  eziandio
trasformati in società composte  ognuna  dal  già  capitalista  sino  all'ultimo
facchino, marinaio, carrettiere, che trasporta le merci.

IV.

Tutti gli edifizî saranno dichiarati proprietà nazionale, e gli edili eletti dal
popolo, e soggetti al suo sindacato, destineranno, ad ognuno secondo il bisogno,
l'abitazione. In tal guisa piú non si vedranno spaziosi appartamenti  deserti  e
destinati a semplice lusso, mentre a breve distanza dalle loro mura, in oscuri e
malsani tugurî, giacciono ammucchiate le famiglie dell'infelice proletario,  con
danno manifesto della pubblica salute e del pudore.

V. Il testamento, mostruoso diritto,  che  oltre  l'epoca  dalla  Natura  stessa
prescritta prolunga la volontà dell'uomo,  abolito.  I  risparmî  accumulati  da
ognuno appartengono di diritto, dopo la sua morte,  alla  società  di  cui  esso
faceva parte ed al Comune ove erasi domiciliato, se il  defunto  esercitava  una
professione singolare, come architetto, medico, od altro.

VI.

In ogni Comune vi sarà un banco di scambio, che porranno  in  relazione  i  varî
Comuni dello Stato ed i varî stabilimenti d'industria,  dirigeranno  le  derrate
ove maggiore è il bisogno.  Questi  banchi  assorbiranno  e  faranno  sparire  i
trafficanti.

VII.

Ogni cittadino il quale trovasi isolato e privo di  lavoro,  ha  il  diritto  di
essere ammesso come socio in quella società di agricoltura o d'industria che  da
lui medesimo verrà scelta. La  forza  dell'intera  nazione  garentisce  ad  ogni
Italiano un tale diritto, diritto che rende impossibile la miseria  e  forma  il
cardine principale del nuovo patto sociale.

VIII.

Stabilita la costituzione economica, la politica non offre alcuna difficoltà; un
consiglio in  ogni  Comune,  un  congresso  per  l'intera  nazione,  eletti  col
suffragio universale, amministreranno il paese; questo e quelli  saranno  sempre
revocabili dagli elettori e soggetti  al  sindacato  del  popolo.  Il  congresso
stabilirà la relazione con le altre Potenze, avrà cura degli  affari  stranieri,
rappresenterà la  nazione;  dovrà  sopraindendere  ai  lavori,  ai  stabilimenti
militari e di pubblica  educazione,  alle  milizie  (e  di  queste  discorreremo
minutamente nel terzo [recte: quarto] Saggio) in quella parte che  non  riguarda
direttamente ai Comuni. Determinerà le spese, e  quindi  le  gravezze  le  quali
dovranno  pagarsi  dalla  nazione,  per  questi   varî   rami   della   pubblica
amministrazione. Non avrà ingerenza alcuna nella  politica  interna  e  polizia,
questa e quella non avranno altra norma che i principî  da  noi  stabiliti  come
base del patto sociale; il congresso denunzierà alla nazione quel  Comune,  quel
magistrato, quel cittadino, che violerà o tenterà di  violare  questi  principî.
Questi consigli ed il congresso  potranno,  pel  pronto  spaccio  degli  affari,
delegare o distribuire i loro poteri a persone  elette  dal  proprio  seno,  che
saranno sempre da essi revocabili e soggette al loro sindacato.

IX.

Tutti i pubblici magistrati saranno eletti dal popolo,  saranno  revocabili  dal
popolo e soggetti al suo sindacato. Niuno percepirà stipendio, ma l'associazione
di cui esso faceva parte sarà obbligata a considerarlo e retribuirlo come  socio
presente. Lo stesso dicasi dei consiglieri comunali e de' deputati al congresso.

X.

L'unica gravezza  sarà  un'imposta  progressiva  sulla  rendita  netta  di  ogni
associazione.

Adombrato il nuovo patto sociale, ci faremo  ad  esaminarne  gli  effetti,  onde
conoscere se i mali, i quali ora minacciano di annientare la  presente  società,
spariranno. È un fatto dimostrato ad evidenza che la concorrenza, le macchine, e
la divisione del lavoro, mentre accrescono immensamente il prodotto,  accrescono
eziandio il  numero  de'  miseri  ed  avviliscono  l'operaio,  peggiorandone  la
condizione. Esaminiamo se col nuovo patto sociale [si] produrrebbero i  medesimi
effetti. Concorrenza. Supponiamo due stabilimenti  d'industria  in  concorrenza,
uno composto da numerosa e cospicua associazione, l'altro meschino, questo  sarà
costretto a smettere, non potendo sostenere la concorrenza  con  quello,  e  gli
operai, come accade oggigiorno,  rimarranno  privi  di  lavoro;  ma  siccome  la
nazione guarentisce loro il diritto di essere ammessi  in  una  società  a  loro
scelta, questi operai, naturalmente, sceglieranno e dovranno essere ammessi come
socî in quella società  da  cui  sono  stati  soperchiati,  e  però  questa,  se
distruggesse  tutte  le  sue  rivali,  sarebbe  sopraccaricata  da   un   numero
esorbitante di operai. Per evitare il male, troverà il suo  conto  associandosi,
piuttosto che distruggendo le sue rivali. In  tal  guisa,  la  concorrenza,  che
nella presente società arricchisce uno a discapito di  molti,  col  nuovo  patto
sociale promuoverebbe l'associazione e spanderebbe egualmente il profitto  sugli
operai dell'arte medesima. Con le macchine e la divisione del lavoro ottenendosi
il prodotto medesimo con un  numero  assai  minore  di  operai,  nei  quali  non
richiedendosi alcuna speciale attitudine, si ribassano i salarî, e ne risulta la
miseria. Col nuovo patto sociale, il  numero  degli  operai  non  è  quello  che
semplicemente è necessario all'arte, ma [di] quanti se ne rinvengono nel Comune,
nella città, nella nazione, che si dedicano a tale  lavoro;  il  salario  non  è
proporzionato alla loro abilità,  ma  al  prodotto,  quindi  le  macchine  e  la
divisione del lavoro saranno la vittoria dell'ingegno umano sulla materia, e gli
operai,  giovandosi  di  tali  ritrovati,  in  poche  ore  di   facile   lavoro,
guadagneranno  moltissimo.  Inoltre,  come  conferma  della  giustissima   legge
dell'uguaglianza di salario, le  diverse  incumbenze  si  andranno  pareggiando.
Inoltre, siccome, crescendo il numero delle persone dedite  alla  medesima  arte
scema il guadagno, ne risulta che il diritto riconosciuto e garentito ad ognuno,
di essere messo come socio in uno stabilimento di sua  scelta,  è  la  legge  la
quale  stabilisce  l'equilibrio  fra  le  diverse   diramazioni   dell'industria
nazionale. Le ardite intraprese, l'esattezza del lavoro,  la  varietà,  il  buon
mercato che si richieggono in un'arte, sono qualità che non possono sperarsi dai
piccioli capitali, i  quali  s'impiegano  con  la  speranza  di  ottenere  utili
immediati e grossi; solo dai vistosi capitoli, che anticipano  le  spese  e  con
picciolo profitto sull'unità della merce guadagnano sul grande  numero  di  esse
unità, possono ottenersi tali risultamenti. D'altra  parte,  i  grandi  capitali
formandosi con accumulare in poche mani le ricchezze sociali, ne  risulta,  come
legge inesorabile, nella presente società, che il perfezionamento dell'industria
s'ottiene a prezzo della quasi universale  miseria,  laddove,  col  nuovo  patto
sociale,  la  formazione  dei  grandi  capitali  s'effettuerà  non  già  con  la
distruzione de' piccioli ma con l'associazione, che sarà  la  legge  regolatrice
della pubblica economia, come ora è la  concorrenza.  Il  bisogno  che  hanno  i
produttori di smaltire al piú presto possibile la loro merce,  la  mancanza  del
danaro necessario alle spese di deposito  e  di  trasporto,  han  fatto  sorgere
l'avida classe de' trafficanti, i quali lucrano ed  arricchiscono  a  spese  de'
produttori e dei consumatori. Questo bisogno del produttore di vender subito, fa
abilità  a  costoro  d'esercitare  il  monopolio,  di  affamare  una   città   e
procacciarsi vistosi lucri sul pane che i poverelli comprano  col  sudore  della
fronte.  La  concorrenza  è  quella  che  piú  d'ogni   altra   cosa   favorisce
l'incettatore, l'associazione l'uccide. Col nuovo  ordine  di  cose  le  diverse
società produttrici facoltosissime, non han bisogno di  vendere  prontamente  le
merci, e potranno avere magazzini, vascelli, e giovarsi di ogni sorta di veicolo
onde da se medesime, o col solo mezzo del  banco  di  scambio,  provvedere  allo
spaccio dei loro prodotti; e cosí,  con  vantaggio  grandissimo  della  società,
spariranno i trafficanti, e con essi il monopolio. Nella presente  società,  gli
incettatori comprano il grano ove abbonda e lo spediscono ove scarseggia, quindi
in quel mercato ove essi han comprato, crescendo il prezzo del  grano,  il  pane
per  conseguenza  incarisce;  questo  fatto  protesta  contro  la  libertà   del
commercio. Ma, vi rispondono i propugnatori  del  libero  scambio:  s'introiterà
maggior danaro, l'agricoltore che ha guadagnato avrà molto danaro  da  spendere:
il che torna in vantaggio dell'industria, nonché di qualunque altro prodotto; né
qui  finiscono  i  vantaggi:  gli  operai,  se  pagheranno  piú  caro  il  pane,
prosperando l'industria crescerà il loro guadagno, e spenderanno pochissimo  per
l'acquisto di altri generi di cui fanno uso. Cosí gli economisti, con  raffinata
ipocrisia, fanno generali alcuni vantaggi che si restringono a pochissimi: non è
l'agricoltore che ricava profitto dal caro del grano, ma gl'incettatori, i quali
accrescono i loro capitali volti ad affamare le città; non è l'operaio che sente
il vantaggio della  prosperità  dell'industria,  ma  il  capitalista;  e  quelle
derrate, i cui prezzi per la libertà del commercio scemeranno, sono  oggetti  di
lusso che non usano né il  povero  contadino  né  l'operaio,  quindi  il  libero
commercio, come tutte le altre leggi e tutti gli altri ritrovati  che  aumentano
il prodotto sociale, altro non  fa  che  vantaggiare  i  ricchissimi  con  danno
manifesto de' poverelli. Per contro, rimessa la  società  secondo  le  leggi  di
Natura, i vantaggi del libero commercio saranno evidenti per tutti; il monopolio
reso impossibile, sarà l'agricoltore che goderà del guadagno, il quale, come ora
diremo,  troverà  maggior  vantaggio  nello  spendere  i  suoi  danari  che  nel
conservarli: quindi prosperità dell'industria, di cui goderanno tutti gli operai
sui quali egualmente è distribuito il lucro; ed  infine,  contadini  ed  operai,
vivendo agiatamente, faranno uso di molti generi di cui ora neppur  conoscono  i
nomi, e sentiranno il vantaggio di acquistarli a pochissimo  prezzo.  Non  è  il
solo aumento del prodotto che accresce la prosperità, ma  questo,  per  riuscire
veramente utile, deve accompagnarsi con l'aumento de' consumatori; nella società
presente cresce continuamente il prodotto, ma il numero de' consumatori, per  la
crescente miseria, scema; pochissimi possessori di sterminate ricchezze  fra  le
miriadi di affamati è il fine verso il  quale  inesorabilmente  ci  avviciniamo.
Abolite la proprietà, supponete che la società abbia subito le proposte riforme,
ed il crescere  delle  ricchezze,  ugualmente  sparse  su  tutti,  crescerà  per
conseguenza il numero de'  consumatori.  In  ultimo,  poniamo  il  caso  che  un
capitalista coi suoi milioni venga nel mezzo di una nazione cosí costituita,  ed
esaminiamo in che modo possa impiegare il suo danaro. Non potrà acquistar terre,
perché la nazione è la sola padrona, ed  essa  non  vende  e  non  riconosce  il
diritto di proprietà; fabbricare palazzi nemmeno, perché la nazione, padrona  di
tutti gli edifizî se ne impadronirebbe; affidare i suoi capitali  ad  una  delle
tante società in cui è ripartita la nazione sarebbe perderli, perché i  capitali
di esse sono proprietà nazionali ed egli non potrebbe sperare altro guadagno che
quello di essere ammesso come semplice socio ed aver la sua parte al  lavoro  ed
al lucro, come tutti gli altri operai;  stabilire  un  lavoro,  un  negozio  per
proprio conto nol può, perché non troverebbe operai in uno Stato ove tutti fanno
parte di società come sovrani; potrebbe forse giovarsi di  operai  stranieri,  e
cosí col suo stabilimento  far  concorrenza  alle  arti  nazionali?  ma,  appena
comincerebbe il suo lavoro, il governo interviene, riunisce gli  operai  e  dice
loro: Voi, per le leggi dello Stato, avete facoltà di  amministrare  e  reggervi
come meglio credete, tutti avete uguale diritto al godimento  del  guadagno,  il
capitale non può appartenere a nessuno, ma allo  Stato,  e  voi  ne  sarete  gli
usufruttuarî, ed il capitalista con voi, se gli  conviene;  una  tale  sentenza,
senza esservi il bisogno dell'intervento del  fisco  e  dei  birri,  gli  operai
medesimi la porrebbero in atto.  Dunque  in  una  società  costituita  nel  modo
indicato, chi riuscisse ad accumulare vistose somme, non potendo  impiegarle  in
modo alcuno, non potendo disporne dopo la sua  morte,  troverà  il  suo  miglior
partito spendendole e godendosele e, cosí  il  nuovo  patto  sociale,  non  solo
abolisce la miseria e la rende impossibile, ma sbandisce eziandio  l'avarizia  e
mantiene il danaro in una continua circolazione. A coloro i quali riconoscendo i
vantaggi di un tal  sistema,  oppugnassero  la  rivoluzione,  asserendo  che  la
società senza scossa veruna ma con un successivo progresso  potrà  trasformarsi,
noi risponderemo che eglino disconoscono gli effetti inevitabili delle leggi  di
economia pubblica applicate alle presenti  condizioni  dei  popoli,  che  eglino
disconoscono i fatti che ogni giorno si compiono sotto i loro occhi. Le numerose
associazioni di operai che spontaneamente sorgono, mostrano  la  tendenza  della
società verso un avvenire che comincia a presentirsi, ma non migliorano per  ciò
le loro condizioni; a queste associazioni si opporranno quelle dei capitalisti e
quelle, con maggiori danni, dovranno soccumbere  nella  concorrenza:  pretendere
che potessero sussistere e prosperare istituzioni di utile  universale,  in  una
società  costituita  da  forze  tra  loro  riluttanti,  che  vicendevolmente  si
distruggono, ed il cui sistema è volto a favorire l'utile  individuale  a  danno
del pubblico, è pretendere una cosa impossibile, è pretendere  che  un  picciolo
rigagnolo seguisse il corso medesimo di  un  torrente  senza  venir  travolto  e
confuso tra le sue onde. La condizione del  proletario,  senza  una  completa  e
violenta rivoluzione, non solo non può cangiarsi ma neppure migliorarsi, anzi  è
forza che essa continuamente peggiori. Non ci restano ora che due altri punti, i
quali bisogna prendere in considerazione; uno è di esaminare se manca lo stimolo
al lavoro, l'altro di vedere se mai siavi nel sistema il nocivo  intervento  del
governo.  Il  lavoro  non  è  attraente  come  asserisce  Fourier,  ma   nemmeno
riluttante;  senza  necessità  non  lavorasi,  ma  esistendo  la  necessità   ed
armonizzando il lavoro con le proprie inclinazioni, tutto  ciò  che  in  esso  è
penoso sparisce. Quale lavoro sarà piú proficuo, quello del proletario che ha il
solo stimolo della fame, il cui salario  è  invariabile,  e  le  cui  forze  son
logorate dalla miseria; o pure quello di un agiato cittadino, che ha  scelto  il
lavoro secondo la propria inclinazione, ed il cui guadagno  cresce  al  crescere
del prodotto? Gli infingardi esistono, ma  essi  riconosciuti  come  tali  della
società di cui fanno parte, verrebbero assoggettati ad una multa all'epoca della
divisione dei lucri. Il  governo  interviene  nel  solo  caso,  che  osserva  la
violazione di quei principî stabiliti come base del nuovo patto  sociale.  Prima
che la nazione sia costituita egli dice agli oziosi proprietarî: voi  non  avete
diritto alcuno sulla terra, se volete vivere, lavorate; ai contadini: la  Natura
non ha concesso a nessuno la  proprietà  della  terra,  tutti  sono  padroni  di
coltivarla e la nazione garantisce loro il frutto de' lavori; per fare  ciò  con
ordine, associatevi. Si rivolge al capitalista e gli dice: tu  non  sei  che  un
usurpatore delle altrui fatiche, il capitale è proprietà nazionale, a  te  altro
non spetta che una porzione uguale a quella degli operai, e devi, secondo le tue
attitudini, lavorare come essi lavorano. Il governo non farà che  bandire  leggi
semplicissime e chiarissime, che nessuno avrà bisogno di aiuto per  comprendere;
e lascerà ai contadini ed agli operai la cura di  porle  in  atto.  Proporrà  la
costituzione delle varie società, che la costituente, congresso  di  scienziati,
avrà  compilato,  rimanendo  ai  cittadini  piena  libertà  di   respingerla   o
modificarla, basta che rimangano inviolati  i  principî.  Queste  leggi,  questi
consigli verranno pubblicati dal governo, non già quando la mente è  ottenebrata
ed il  senso  comune  pervertito  dai  pregiudizî,  ma  quando  la  spada  della
rivoluzione ha già rimosso gli ostacoli, quando i contadini e gli operai avranno
rotto l'incanto che [li] mantiene tra i fragili ceppi  del  proprietario  e  del
capitalista; il governo  non  dovrà  sospingere  a  fare,  cosa  impossibile  ai
governi,  ma  frenare  alquanto,  indirizzare,  dirigere  le  passioni,  che  la
rivoluzione  ha  sfrenate.  Fin  qui   della   parte   economica.   Ora   faremo
un'osservazione  che  riguarda  la  politica.  Il  governo   rappresentativo   è
discreditato in Europa; l'assemblea eletta a rappresentare i diritti del  popolo
ad altro non serve che a convalidare e vestire con una maschera di legalità e di
giustizia le usurpazioni  della  tirannide.  Non  havvi  principe,  dittatore  o
ministro, il  quale  non  faccia  decidere  secondo  le  proprie  intenzioni  il
congresso che la nazione ha eletto a  guarentigia  de'  proprî  diritti;  queste
assemblee, sovente sono d'impaccio  al  pronto  operare,  senza  mai  essere  di
ostacolo al male; nascono dalla corruttela, e vivono finché la forza crede dover
subire il loro importuno garrito; odiose al tiranno, comecché accarezzate,  sono
sprezzate dalla nazione. Questo tristo fatto, che  sembra  conseguenza  di  loro
natura, è l'effetto del modo come oggi sono regolati i rapporti sociali: l'utile
privato essendo in opposizione col pubblico, produce una diversità di  mire,  di
desiderî, di speranze, e quindi la irriconciliabile discordia delle idee e delle
opinioni; e di piú, il potere che ha il principe, il dittatore, il ministro,  di
concedere cariche, distribuire oro ed  onori,  fan  sí  che  le  tante  opinioni
riluttanti, trovando l'utile su di una via comune, si accordano nel vendersi  ad
un padrone e cospirano verso il fine che da esso gli viene indicato. Invece,  se
il governo non avrà doni da distribuire, né pene da infliggere, se l'utile  d'un
cittadino dipende dal guadagno della società di cui fa parte, e la prosperità di
questa dalla prosperità dell'intera nazione, vi sarà in tutti unità di mire,  di
desiderî, di speranze, e quindi  concordia  nelle  idee  e  nelle  opinioni.  Ma
quantunque il nuovo patto sociale ridona all'assemblea quella forza, di cui  ora
manca, pure egli è cosa interessante di non perdere di mira una verità che dalla
stessa natura umana risulta.  Le  assemblee,  capacissime  nel  sindacare,  sono
incapaci di concepire e  di  eseguire,  quindi,  per  conservare  la  necessaria
energia  nelle  intraprese  del  governo,  bisognerà  sempre   (adattando   alle
circostanze il principio) affidare ad un solo l'incarico di concepire il disegno
e di effettuarlo, quindi unità ed energia nell'azione, riserbandosi  l'assemblea
un perpetuo ed illimitato sindacato. Non altrimenti  governavasi  il  Senato  di
Roma; e finché nella repubblica non vi furono poveri per vendersi e  ricchi  per
comprarli ed ogni cittadino era  soldato,  la  libertà  non  corse  mai  rischio
veruno. Per contro, nei Stati moderni non v'è potere, limitato che sia, il quale
non tenti e non riesca ad usurpare; ciò dipende dalla condizione economica della
società, ed ogni rimedio, finché non cangia il patto, è vano. Molti osserveranno
che, per attuare una simile trasformazione,  sarà  necessario  far  violenza  ai
proprietarî ed ai capitalisti; e noi risponderemo che sí; e  in  forza  di  quel
diritto medesimo che hanno gli oppressi di abbattere la  tirannide,  che  ha  la
società presente contro i ladri. Finalmente, se in cotesta trasformazione, certo
meno violenta di quello che molti si vanno immaginando, molti interessi  privati
soffriranno,  e  moltissimi  cadranno  nella  lotta,  noi  risponderemo  che  le
rivoluzioni in cui tutti si salvano, esistono solo nella mente dei dottrinanti e
degli utopisti; la rivoluzione è sempre una lotta di oppressi contro una  classe
di oppressori, quindi se vi sarà vittoria, vi sarà eziandio disfatta;  scacciare
un re  dal  trono  non  è  rivoluzione:  la  rivoluzione  si  compie  quando  le
istituzioni,  gli  interessi,  su  cui  quel  trono  poggiava,   son   cangiati.
Conchiudiamo, ripetendo agli economisti le medesime loro parole: "Non si  giunge
senza perdite sulla breccia. Né possiamo tener conto delle vittime che il  carro
del progresso schiaccia nel suo corso". Ed  usando  il  medesimo  linguaggio  di
Malthus diremo: "La Natura  ha  prescritto  all'uomo  di  lavorare  per  vivere,
l'ozioso non  ha  piazza  nel  banchetto  della  vita;  la  Natura  gli  comanda
d'andarsene, né tarderà dare ella medesima esecuzione alla sua sentenza".

XIX. La filosofia della storia prova ad evidenza che l'umano istinto, come è sua
natura, considerando la sola apparenza e l'effetto immediato delle  cose,  senza
riflettere sulle conseguenze che  ne  risultano,  va  soggetto  ad  un  continuo
errare; quindi la pubblica educazione, che  ferma  l'attenzione  e  sviluppa  il
pensiero, non solo è dovuta di diritto ad ognuno, ma  è  il  cardine  principale
della  libertà.  Il  Filangieri,  col  suo  naturale  splendore,  lungamente  ha
ragionato di ciò, ma suo malgrado, soggiacque ai  pregiudizî  ed  alle  opinioni
dell'epoca.  Egli  richiede  la  prosperità  universale  come   una   condizione
indispensabile alla felicità di uno Stato "che può dirsi ricco  e  felice,  egli
scrive, solo quando ogni cittadino, con un lavoro discreto di  alcune  ore,  può
comodamente supplire ai suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia". Nell'epoca
in cui visse l'Autore, l'accrescimento continuo del prodotto faceva credere come
cosa possibile che la prosperità potesse un giorno non ugualmente  ma  equamente
spandersi su tutti; non ancora  l'esperienza  avea  dimostrato  il  contrario  e
disingannato gli illusi; non ancora la ragione avea sentenziato che l'universale
miseria e l'opulenza di pochissimi è il risultamento  inevitabile  del  presente
patto sociale. Il Filangieri adattò il suo sistema d'educazione ad  una  società
composta di due classi, ricchi e non ricchi; destinava  i  primi  a  servire  la
società con la mente, i secondi con le braccia, e quindi due metodi  diversi  di
educazione. Per impedire che sorgessero un gran numero di semi-dotti, che ora si
vedono, i quali senza utile della scienza privano il lavoro di braccia, fece  in
modo che la dottrina fosse accessibile, per le spese  che  richiedeva,  ai  soli
ricchi. Ma cotesta base, sulla quale poggiano le diverse parti del suo  sistema,
egregie tutte, è erronea.  La  diversità  delle  incumbenze,  cioè:  servire  la
società con la mente o con le braccia,  dal  sistema  del  Filangieri  era  resa
ereditaria, ed il popolo sarebbe stato diviso in due classi, non  solo  separate
dal caso distributore delle ricchezze, ma dalle leggi, che non per  diritto,  ma
di fatto accordavano ai soli ricchi il monopolio della scienza. Né il vendere  a
caro prezzo la dottrina avrebbe minorato il  numero  de'  semi-dotti,  anzi  ciò
l'avrebbe accresciuto oltre misura. La vera dottrina è raggiunta solo da  quelli
che la Natura predispone a  ciò,  concedendo  loro  le  necessarie  facoltà  per
conseguirla, ed a questa predisposizione, che sola non basta, fa d'uopo  che  si
aggiungano de' gagliardi moventi, che gli  avvenimenti,  a  cui  la  società  va
soggetta, creano; e tanto l'una, come gli altri  difficilmente  si  riscontrano,
raramente operano fra il giro ristrettissimo dei ricchi, a cui l'abbondanza,  il
lusso  inflaccidiscono  le  fibre,  e  piú  all'ozio  che   alla   solerzia   li
predispongono; i ricchi non sarebbero che semi-dotti, e divenuta la dottrina  un
privilegio da ottenersi a prezzo d'oro, i semi-ricchi,  per  far  comprendere  i
loro figli fra coloro  che  debbono  servire  lo  Stato  con  la  mente,  ovvero
comandare, farebbero qualunque sacrifizio, ed il numero dei semi-dotti  verrebbe
accresciuto in immenso; inoltre ne seguirebbe lo scadimento,  l'avvilimento  del
lavoro, e di coloro che i ristretti mezzi condannerebbero a  servire  la  patria
con le braccia. Cosí ogni legge, che per impedire un male qualunque,  pregiudica
la libertà e l'uguaglianza, produrrà sempre un effetto diverso da quello che  si
propone il legislatore. Gli uomini sono naturalmente inclinati al  lavoro  delle
braccia, si giovano delle facoltà mentali per agevolare il lavoro di quelle;  la
dottrina, l'astrazione non è naturale all'uomo. Ma i  governi  d'oggi,  che  per
intervenire in ogni cosa  creano  un  numero  strabocchevole  di  salariati;  la
farragine di leggi oscure e contradditorie d'onde pullulano a sciami  i  curiali
come dalla putredine gli insetti, e salariati e curiali impinguandosi a spese di
coloro che lavorano, hanno diviso la società in scorticatori  e  scorticati,  ed
avvilito il lavoro. Ognuno, se sa  leggere,  potendo  farsi  comprendere  fra  i
primi, crede avvilirsi se adopera la vanga o conduce l'aratro. Ma, allorché sarà
data al lavoro la considerazione  che  merita,  nessuno  l'abbandonerà  per  una
semi-dottrina che non potrà fruttargli né considerazione né  lucro.  Lasciamo  a
tutti  aperta  la  via  che  mena  alla  scienza,   ed   essa   sarà   percorsa,
volontariamente, solo da coloro che Natura ha destinato a  sublimarsi  in  essa.
Questo è il principio generale sul quale bisogna basare il sistema d'educazione,
nei particolari egregiamente svolto dal Filangieri; e però noi [non faremo  che]
accennare poche idee senza dilungarci su di un argomento ampiamente trattato  da
grandissimi  ingegni.  Sino  all'età  dei  sette  anni,  le  cure  materne  sono
indispensabili ai fanciulli, sono prescritte dalla Natura: raggiunta questa  età
lo sviluppo fisico è pienamente assicurato,  l'educazione  del  fanciullo  verrà
affidata allo Stato. Ogni Comune avrebbe il suo  ginnasio  ove  si  troverebbero
tutti i mezzi necessarî allo sviluppo completo delle facoltà fisiche  e  morali.
Né dovrebbe trascurarsi la sublime idea del Campanella di adornare le pareti con
dipinti che tutte le  scienze  rappresentassero.  Non  dovrebbero  i  convittori
vivere in comune, imperocché per ottenere l'unità  nazionale  bisogna  riserbare
integra ogni individualità, ed il vivere sempre insieme forma  sette,  quindi  i
giovanetti sarebbero  tutti  alunni  esterni.  L'educazione  in  questi  ginnasi
durerebbe  sino  all'età  di  quindici  anni,  nel  qual   tempo   ogni   alunno
apprenderebbe un'arte di suo gradimento. Dai quindici ai sedici tutti  sarebbero
obbligati di assistere ad un corso di filosofia civile ed  origine  di  tutti  i
culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e potesse  garentirsi  dalla
superstizione.  Ai  sedici  anni  le  naturali   inclinazioni   son   pienamente
sviluppate, ogni giovane  dichiara  la  sua  volontà,  e  sceglie  l'arte  o  la
professione alla quale vuol dedicarsi. Lo  Stato  gli  accorda  altri  due  anni
d'istruzione nella specialità da esso prescelta, e queste scuole  di  tecnologia
si troverebbero nelle principali città d'Italia. A diciotto anni la tutela della
nazione cessa, ed il giovane, avendo il diritto di entrare in un'associazione di
sua scelta, è dichiarato cittadino e  milite,  e  deve  da  sé  procacciarsi  da
vivere. Ragioneremo ora dell'educazione  delle  donne  e  di  ciò  che  ad  esse
riguarda, con la brevità medesima che ci siamo  imposti  in  questo  ramo  della
costituzione sociale. Sarebbe stata  una  lacuna  troppo  significante,  tacendo
della piú bella parte del genere umano, depositaria  dei  piú  vivi  ed  ardenti
piaceri. La Natura ha dato loro fibre piú delicate e piú sensibili delle nostre,
e però le loro sensazioni vivissime non possono essere che  fugaci;  elleno  non
possono  sopportare  lungamente  l'impero  d'una  passione,  che  deve  in  loro
ammorzarsi con la rapidità medesima che si desta. Capaci di quelle azioni ove il
decidersi e l'eseguire succedonsi rapidamente, son poi incapaci di  sopportar  a
lungo dolori, e mirare al conseguimento di un fine  con  attenzione  profonda  e
prolungata: brillano  sí,  ma  non  grandeggiano.  L'amore  nelle  donne  ha  un
carattere diverso che nell'uomo; l'uomo s'accende delle bellezze della  donna  e
desidera fortemente, la  donna  invece  è  presa  dall'amore  che  inspira,  non
desidera, ma brama  di  essere  desiderata.  Dante  parlando  di  Francesca,  ha
espresso questa idea:

Amor che a nullo amato amar perdona Mi prese del costui piacer sí forte

di  quinci  il  pudore,  che  accresce  in  altri  il  desiderio.  Epperò   [la]
preponderanza dell'amore sulle  altre  passioni,  aggiunte  alle  cure  ed  agli
incomodi di dovere esser madre, la rendono inabile al governo ed  alla  milizia,
quindi non potrebbero aver voto nelle cose  pubbliche.  Ma,  d'altra  parte,  la
Natura, avendole create abili a procacciarsi  come  vivere,  le  ha  dichiarate,
perciò, indipendenti e libere, e tale dovrà essere la loro  condizione  sociale.
Esse saranno educate come gli uomini, con i riguardi e le modifiche nel  metodo,
che si debbono alla gentilezza del sesso;  al  pari  degli  uomini,  con  uguali
diritti,  dovranno  essere  ammesse   in   quelle   società   che   prescelgono.
Probabilmente i lavori da sarto, da crestai, le belle arti, da  donne  sarebbero
tutte esercitate. Tutte le leggi sono scaturite dalle dipendenze che la violenza
e l'ignoranza stabilí fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risultò  dai
ratti che i piú forti fecero delle piú belle, e se ne usurparono  il  godimento.
La Natura, per  contro,  sottopone  l'unione  dei  due  sessi  alla  sola  legge
dell'amore, e se un'altra regola, qualunque siasi, interviene, l'unione cangiasi
in contratto, in prostituzione. La meretrice che senza amore vende il suo corpo,
la  donna  che  senza  amore  sottoscrive  ad  un  contratto   matrimoniale   si
prostituiscono egualmente. La prima vi è costretta dal  bisogno  e  vendesi  per
breve tempo, l'altra è  piú  spregevole,  perché,  senza  bisogno,  vendesi  per
sempre; quella non promette  amore  né  si  obbliga  a  rinunziarvi,  questa  lo
promette per sempre quasi premeditando lo spergiuro. L'amore adunque nel  nostro
patto  sociale  sarà  la  sola  condizione  richiesta  che  tende  legittimo  il
congiugnimento de' due sessi; se manca l'amore, la volontà, la  libertà  diventa
prostituzione. La comunanza delle donne non è  naturale,  l'amore  è  esclusivo,
quasi tutti gli animali non si accoppiano che con una  sola  femmina;  le  varie
coppie si formeranno da sé, l'unione durerà finché dura l'amore, cessato  questo
l'unione è sciolta di fatto. L'uomo deve provvedere alla sussistenza  della  sua
compagna finché i doveri di madre gl'impediscono di lavorare. I figli rimarranno
con la madre, alla quale per legge di Natura appartengono. Sino  ai  sette  anni
essa provvederà,  con  l'aiuto  del  padre,  che  dovrà  concorrere  alle  spese
necessarie per essi con una somma proporzionata ai suoi lucri. Dai sette anni ai
diciotto la Nazione ne assume la tutela e l'educazione; ai diciotto sono  liberi
affatto e provvedono a loro medesimi. Non  essendovi  testamenti,  né  le  altre
mostruose leggi  che  vorrebbero  rendere  ereditario  finanche  il  merito,  il
formarsi e lo sciogliersi delle coppie non ha  ostacoli  né  impaccio  di  sorte
alcuna. Qui fo fine ed avendo misurate le  vele  col  vento  ed  il  timone  con
l'onde, non mi sono imposto l'obbligo di risolvere il problema sociale;  il  mio
proposito è stato di mostrare la profondità delle piaghe, e l'inefficacia d'ogni
rimedio,  finché  non  venga  estirpato  il  diritto  di  proprietà  e  le   sue
conseguenze, e  questo  proposito  credo  d'averlo  compito;  spetta  all'intera
nazione di stabilire, dopo aver tolto gli ostacoli che ho additati, la sua nuova
costituzione, e se ho cercato d'indicarne i punti principali,  l'ho  fatto  solo
per  rintuzzare  la  stupida  risposta:  è  impossibile  vivere  altrimenti.  Il
rinvenire in questo cenno degl'incovenienti  non  sarà  difficile,  ma  saranno,
certamente, molto minori de' mali sotto cui l'umanità geme  oppressa,  mali  che
fatalmente,  senza  tregua,  ingrandiscono;  mali,  che  la   prepotente   forza
dell'abito fa credere inevitabili, e perciò  vengono,  con  pazienza,  sofferti.
Nella  ricerca  della  nuova  costituzione  sociale   ho   seguito   il   metodo
semplicissimo, che il corso naturale degli avvenimenti  additavami:  distruggere
il presente, e creare il nuovo patto sociale,  basandolo  su'  principî  che  le
leggi magistrali della Natura c'insegnano. Ho svolto poi i vantaggi del  sistema
dimostrando che le tendenze funeste della presente società vengono completamente
a cangiarsi. Conchiudo con rammentare a' conservatori che la rivoluzione sociale
non sarebbe affrettata neppur di un'ora, eziandio se tutto il mondo riconoscesse
attuabile un nuovo ordinamento sociale; questa crisi della  società  dipende  da
cagioni  assai  piú  terribili  e  fatali;  essa  dipende  dalle  tendenze   che
inesorabilmente, in progressione geometrica, si manifestano. Potete voi, non già
estirpare la miseria, ma evitare che cresca? potete  voi  negare  che  la  forza
materiale è dalla parte di coloro che soffrono? e se le tradizioni  e  l'inerzia
formano il solo fascino per cui la società presente non crolla,  in  un  istante
impreveduto può rompersi l'incanto.


XX. Senza accordare importanza  soverchia  a'  colori  d'una  bandiera  ed  alla
formola scritta su di essa, esporremo la  nostra  opinione  su  di  ciò,  poiché
trattasi di cosa che richiede pochissima fatica; opinione di cui  ci  faremmo  i
propugnatori in un'assemblea, se mai potesse capitarne l'occasione. Fintanto che
la nazione non sarà perfettamente libera, ed avrà completamente debellati i suoi
nemici, non bisogna né discutere, né porre in  dubbio,  quale  dovrà  essere  la
bandiera che ci condurrà alla  battaglia.  Il  vessillo  tricolore  è  da  tutti
riconosciuto, e ciò basta: ove sventola e rannoda de' guerrieri  intorno  a  sé,
questi guerrieri combattono pel trionfo della  rivoluzione  italiana,  e  nessun
rivoluzionario può astenersi dal seguirli; ma se su tale  bandiera  scorgesi  un
simbolo od una formola, allora ognuno ha il diritto di dire: quella causa non  è
causa che mi riguarda, e per  la  quale  io  combatto;  proporre  formole  è  un
dissolvere, e dissolvere  per  puerile  soddisfazione  personale.  Terminata  la
guerra, ricostituita l'Italia, conserverà essa il tricolore vessillo, o adotterà
un'altra bandiera? pare che le opinioni potrebbero dividersi su tale  argomento;
alcuni  sosterrebbero  con  ragione  che  la  nuova  costituzione  sociale,  non
ammettendo divisione di potere,  ma  le  leggi,  la  loro  esecuzione,  il  loro
sindacato,  tutto  trovandosi  nel  popolo,  la  pluralità   de'   colori,   che
precisamente accenna è assurda, quindi diranno: sia qual  si  voglia  il  colore
della bandiera, ma sia un solo. Altri invece potranno sostenere che il  vessillo
tricolore, intorno a cui si saranno vinte tante  battaglie,  è  troppo  caro,  è
troppo ricco di gloriose reminiscenze,  per  abbandonarlo,  perché  non  trovasi
perfettamente d'accordo con la logica: noi saremmo tra questi ultimi, proponendo
solo che il berretto frigio ne sormonti  l'asta,  escludendo  ogn'altro  simbolo
d'autorità e di conquista, e che nel mezzo di esso, l'archipendolo indichi  come
l'uguaglianza sia il patto fondamentale di nostra  costituzione.  Rimane  ora  a
discutere quale sarà la formola che adotterà la nazione,  noi  trascriveremo  il
ragionamento sensatissimo,  che  troviamo  nell'opera  di  Ausonio  Franchi,  La
Religione del secolo XIX, in  cui  si  fa  paragone  tra  la  formola  francese,
Libertà, Eguaglianza, Fratellanza e la formola di Mazzini, Dio e Popolo:

"Esaminiamo  le  differenze  radicali,  finora  poco  avvertite,   e   nondimeno
importanti, che Mazzini scorge  fra  una  formola  e  l'altra.  "La  Francese  è
essenzialmente storica; ricapitola  in  certo  modo  la  vita  dell'umanità  nel
passato, accennando poco definitivamente al futuro". Questo giudizio, né  quanto
al passato, né  quanto  al  futuro,  non  parmi  esatto.  La  formola:  Libertà,
Eguaglianza,  Fratellanza,  non  può  dirsi  che  recapitoli   la   vita   reale
dell'umanità nel passato; perché non può ricapitolarsi quello che non  è  ancora
esistito, e Mazzini per fermo non saprebbe indicarci nessun'epoca  della  storia
in cui già regnasse la libertà, l'eguaglianza e la fratellanza universale.  Onde
egli stesso, tracciando l'ordine e lo sviluppo con cui si vennero  elaborando  i
tre elementi della formola, parla sempre dell'idea, non mai del fatto.  E  però,
se la formola teoricamente è la ricapitolazione del passato, praticamente  è  la
legge del futuro; legge, non poco definita, ma cosí chiara, che non ha  mestieri
d'alcuna spiegazione; cosí vasta, che abbraccia tutte le  condizioni  private  e
pubbliche della  vita;  cosí  progressiva,  che  nemmeno  col  pensiero  si  può
oltrepassare la perfezione, che prefigge qual meta alla  carriera  dell'umanità.
"La formola italiana  (cosí  appella  Mazzini  la  sua)  è  invece  radicalmente
filosofica; accettando le conquiste del passato, guarda risolutamente al futuro,
e tende a definire il metodo piú opportuno allo  svolgimento  progressivo  delle
facoltà umane". Confesso che tutto questo periodo è per me un  enigma.  In  qual
senso può mai chiamarsi filosofica l'espressione: Dio e il  Popolo?  Nessuno  di
questi due termini ha qualche relazione particolare con la filosofia:  non  Dio,
perché è concetto  religioso  anziché  scientifico;  non  il  Popolo,  perché  è
concetto empirico anziché scientifico razionale. E come  può  dirsi  che  quella
formola accetti le conquiste del passato? Né Dio né il Popolo sono principî  che
l'umanità abbia conquistato: ma l'uno è il simbolo di un sentimento  connaturale
allo spirito umano, e l'altro per sé non è che  un  fatto  materiale.  Come  può
dunque guardare al futuro? Come tendere a definire un metodo  qualsiasi  per  lo
svolgimento delle umane facoltà? Ho un bel  ripetere  a  me  stesso:  Dio  e  il
Popolo; io non ritrovo in queste parole né passato, né futuro; non ci  veggo  né
definizione, né metodo di sorta; non ci sento né progresso,  né  svolgimento  di
nessuna facoltà: scientificamente non ci trovo nulla; perché Dio è un'incognita,
e il Popolo è un fenomeno di storia naturale. "La prima esprime  compendiato  un
grande fatto: la seconda scrive su la bandiera un principio. La prima definisce,
afferma  il  progresso  compiuto:  la  seconda  costituisce  lo  strumento   del
progresso, il mezzo, il modo, per cui deve  compirsi".  A  me  sembra  tutto  il
contrario. La formola francese non esprime un fatto, ma un principio;  perché  i
suoi  elementi  sono  idee,  sono  verità  che  hanno  ancora  da  incarnarsi  e
realizzarsi nella storia. Essa  adunque  afferma  bensí  un  progresso  compiuto
nell'ordine del pensiero,  ma  determina  insieme  la  legge  del  progresso  da
compiersi nell'ordine dell'azione.  All'incontro,  la  formola  di  Mazzini  non
significa né il progresso compiuto, né quello da compirsi;  né  la  verità  d'un
principio, né la legge d'un fatto; e l'ingegno il piú  acuto  ed  analitico  del
mondo non arriverà giammai a scoprire in quelle due voci la costituzione di  uno
strumento, di un mezzo, di un modo quale che sia di progresso. Ben ve lo  scorge
Mazzini, lo so; ma ve lo scorge mediante un commento che dà ai  due  termini  un
senso   tutto   suo   proprio.   Egli    continua    infatti:    "Una    formola
filosofico-politica, per aver dritto e potenza  d'avviar  normalmente  i  lavori
umani, deve racchiudere due sommi termini: la surgente, la sanzione  morale  del
progresso: la legge e l'interprete della legge". Questa  nozione  della  formola
politica, a mio avviso, è falsa.  Una  formola  scientifica  non  è  altro,  che
l'espressione chiara e concisa, e quasi la riduzione a' minimi  termini  di  una
legge. Ora che cosa sono, nel linguaggio filosofico, le leggi? Sono  i  rapporti
naturali e necessarî degli esseri. Ma per determinare  questi  rapporti  non  fa
d'uopo di assegnarne la surgente; e nessuna legge fisica, matematica, metafisica
e morale si fa dipendere in alcuna guisa dal concetto della sua causa. Dunque il
primo termine, che Mazzini prescrive alla formola, non le appartiene. E  non  le
appartiene neppur il secondo, che è, giusta  la  sua  dottrina,  la  sanzione  o
l'interpretazione della legge. In primo luogo, perché la  sanzione  d'una  legge
non ha che fare con la sua interpretazione: identificare l'una  con  l'altra,  è
distruggerle entrambe. In secondo luogo, perché la formola d'una legge è affatto
diversa ed indipendente dalla sua interpretazione e dalla sua sanzione: le  sono
quistioni d'ordine e di  natura  al  tutto  differente:  confonderle  in  una  è
renderle insolubili tutte. La formula politica adunque non deve esprimere  altro
che la legge sociale, ossia i rapporti naturali e necessarî de' cittadini  verso
la nazione, e delle nazioni verso l'umanità. La surgente poi e  la  sanzione  di
questa legge sono due problemi a parte, gravissimi e importantissimi  quanto  si
voglia, ma  indipendenti  dalla  formola.  Dunque  allorché  Mazzini  soggiunge:
"Questi due termini mancano alla formola  francese,  costituiscono  l'italiana",
pronuncia senz'accorgersene il piú grande elogio  di  quella  e  la  piú  severa
condanna della sua. "La surgente, la sanzione morale della  legge  sta  in  Dio,
cioè in una sfera inviolabile, eterna, suprema, su  tutta  quanta  l'umanità,  e
indipendente dall'arbitrio, dall'errore, dalla forza cieca e  di  breve  durata.
Piú esattamente Dio e legge sono termini identici". Con questo  commento,  lungi
dallo spiegare  la  sua  formola,  Mazzini  l'immerge  in  un  pelago  di  nuove
difficoltà e di nuovi misteri. Se Dio e legge  sono  termini  identici,  la  sua
tesi, che la surgente, la sanzione della legge sta in Dio, equivale precisamente
a quest'altre: la surgente della legge è la legge: - la sanzione della  legge  è
la legge; - la surgente di Dio è Dio; - la sanzione di Dio è Dio; - la  legge  è
la legge, - Dio è Dio. - E che senso daremo noi a questo gergo?  Inoltre  se  la
legge è Dio, convien dunque sapere che cos'è Dio per conoscere che cosa  sia  la
legge. E il Dio di Mazzini qual è? Ecco il nodo  della  questione.  L'accennare,
come egli fa, ad una sfera inviolabile, eterna, suprema, non è definire;  poiché
a tutte quante le religioni e le sette possono appropriarsi quelle belle parole;
ma son parole! Avanti d'accettare la sua formola,  dobbiamo  chiedergli  che  ci
dica una buona volta, senza ambagi e senza tropi, che cos'è Dio?  Ovvero  fra  i
varî Dei presentemente noti  in  Europa,  qual  è  il  suo?  Teologicamente  noi
possiamo annoverarne quattro, assai diversi fra loro: il Dio degli ebrei, il Dio
de' cattolici, il Dio de' maomettani, e il Dio de' protestanti. Filosoficamente,
poi, li Dei  possono  contarsi  a  centinaia.  Ciascuno  de'  molti  sistemi  di
panteismo, di materialismo, di spiritualismo, d'idealismo, ecc., ha un  suo  Dio
particolare, che è sempre la negazione del Dio di ciascun altro.  Or  bene:  fra
questa turba di Dei, qual è il Dio che Mazzini adora e che vuol  farci  adorare?
Da' suoi scritti non mi venne mai fatto di raccapezzarlo; poiché ci  sono  frasi
per tutti: ce n'è per il Dio del papa, per  quello  di  Lutero,  per  quello  di
Maometto, per quello di Socino, per quello di Rousseau, per quello di Spinoza...
Non è dunque possibile che la sua formola abbia un valore,  finché  il  primo  e
massimo elemento  non  è  ben  definito.  "L'interpret[azione]  della  legge  fu
problema continuo all'umanità. - La formola  italiana  affida  l'interpretazione
della  legge   al   popolo,   cioè   alla   Nazione,   all'Umanità   collettiva,
all'associazione di tutte le facoltà,  di  tutte  le  forze,  coordinate  ad  un
patto". Qui abbiamo una certa definizione; ma siccome  è  arbitraria,  cosí  non
vale a costituire né legge né formola  veruna.  Chi  abbia  già  del  Popolo  la
sublime idea che a Mazzini venne inspirata dal suo nobile cuore, dirà come  lui,
certamente: ma i termini d'una formula, di una legge sociale, devono portare  in
se stessi il loro valore, e non ritrarlo dall'arbitrio e  dall'intenzione  dello
scrittore. Fra i due termini Dio e il Popolo, non  è  espresso  alcun  rapporto;
dunque o bisogna supporre che l'unico rapporto possibile sia quello di  Mazzini;
o altrimenti la sua formula non significa nulla perché non determina  nulla.  Il
primo caso non è ammessibile, dacché ripugna  egualmente  alla  logica  ed  alla
storia; dunque sta il secondo. "La formola italiana, intesa a  dovere,  sopprime
dunque per sempre ogni casta, ogni interprete privilegiato,  ogni  intermediario
per diritto proprio tra Dio,  padre  e  inspiratore  dell'umanità,  e  l'umanità
stessa". Ma perché possa produrre tanti  bei  frutti  la  formola  va  intesa  a
dovere, cioè nel senso di Mazzini; chè, altrimenti, preso ciascun  termine  come
suona, non ha senso  alcuno  determinato.  E  questa  clausola  sola  non  prova
abbastanza  la  completa  nullità  della   formula   mazziniana?   La   francese
all'incontro sopprime ogni casta, ogni interprete privilegiato, senza bisogno di
chiose che ne la facciano intendere a dovere;  ma  semplicemente  in  virtú  del
senso naturale, ordinario e vulgarissimo delle  parole.  Dovunque  sia  libertà,
eguaglianza e fratellanza, ivi è impossibile fino il  concetto  di  casta  e  di
privilegio; laddove Dio e il Popolo son dappertutto, e pure dappertutto regna il
privilegio e la casta.  "La  formula  italiana,  generalizzata  da  una  nazione
all'associazione delle nazioni, dichiara fondamento d'una teoria della vita: Dio
è Dio, e l'umanità è suo profeta". Non so capire come un apostolo del  progresso
abbia potuto tenere questo linguaggio che odora cosí  forte  di  musulmano.  Oh!
Mazzini dovea lasciarlo a quei devoti e fanatici settarî, i quali credono  tanto
piú fermamente una cosa, quanto piú è incomprensibile ed assurda; ma egli  parla
ad uomini civili del secolo XIX, e sa meglio di me che costoro non sono disposti
a credere se non quello che intendono. O spera  forse  d'aver  loro  tolto  ogni
dubbio e chiarita ogni difficultà con quella strana definizione: Dio  è  Dio?  E
quando avranno imparato che Dio è Dio, conosceran poi  davvero  che  cos'è  Dio?
Quando pure gli concedano che l'Umanità è profeta di Dio,  potranno  persuadersi
d'aver trovato il fondamento  d'una  teoria  della  vita?  Una  teoria  non  può
assumere per fondamento se non un principio certo ed evidente;  e  Mazzini  vuol
fondare la teoria della vita sopra d'un giuoco di parole, sopra di un'incognita?
"La formula italiana è dunque  essenzialmente,  inevitabilmente,  esclusivamente
repubblicana;  non  può  uscire  che  da  una  credenza  repubblicana;  non  può
inaugurare che repubblica". Ed anche questa conclusione è  fallace.  La  formula
Dio e il Popolo non è, e non può dirsi  né  esclusivamente,  né  inevitabilmente
repubblicana, poiché è essenzialmente indeterminata, ossia nulla. Essa riceve il
suo significato dal carattere di  chi  la  proclama;  ed  è  repubblicana  sulla
bandiera di Mazzini, come sarebbe teocratica su quella di Pio  IX.  "La  formula
francese, non accennando  alla  surgente  eterna  della  legge,  ha  potere  per
difendere con la forza, co 'l terrore, non con l'educazione, alla quale manca la
base, le conquiste del passato; è muta, incerta, mal ferma su l'avvenire".  V'ha
qui un gruppo di metafore, in cui non veggo lume da nessuna parte. Accusare  una
formula di non potersi difendere! Mescolare insieme formula e forza;  formula  e
terrore, formula ed educazione! O che? la formula dev'essere dunque un  esercito
o una fortezza, una scuola o un'accademia? E la formula di Mazzini ha dunque  il
potere di educare? A crederlo però aspetteremo di vederla salire in bigoncia,  e
di ascoltare le sue pedagogiche  lezioni!...  Del  resto  che  la  francese  non
accenni alla surgente della legge, è appunto il  suo  pregio  e  il  suo  merito
principale;  e  che  sia  muta,  incerta,  mal  ferma  su  l'avvenire,  non  può
sostenerlo, se non chi ignori o voglia affatto dimenticare il  senso  piú  ovvio
delle parole libertà, eguaglianza, fratellanza. Il rimanente  del  suo  discorso
dovrei dire, se non si trattasse di Giuseppe  Mazzini,  che  offende  troppo  il
senso comune: "La formola  francese  non  definendo  l'interprete  della  legge,
lascia schiuso il varco agl'interpreti privilegiati, papi, monarchi  o  soldati.
Quella formola poté nascere  dagl'ultimi  aneliti  d'una  monarchia:  sussistere
ipocritamente in una repubblica che strozzava la libertà repubblicana  di  Roma:
soccombere sotto il nepote di Napoleone, che dichiarava:  io  sono  il  migliore
interprete della legge, io  sarò  tutore  alla  libertà,  all'eguaglianza,  alla
fratellanza de' milioni". Come! Mazzini trova modo di associare  insieme  questi
concetti: libertà e privilegio, eguaglianza  e  papa,  fraternità  e  monarca  o
soldato!  Ma  se  questi  non  sono   concetti   rigorosamente,   evidentemente,
palpabilmente contraddittori,  c'insegni  un  po'  che  cosa  sia  ripugnanza  e
contraddizione; giacché, se mi permette di ragionare con la sua logica,  io  gli
convertirò tutti gli assurdi in altrettanti assiomi.  Inoltre,  quel  rimprovero
che esso rivolge alla formola francese, mi fa nuovamente dubitare ch'egli  esiga
proprio dalle formole l'officio degli schioppi, dei cannoni e  delle  bombe.  Ma
non è una stranezza, a dir poco, l'imputare ad una formola  le  iniquità  di  un
governo? Quelle iniquità erano forse una conseguenza legittima e  necessaria  di
quella formola? Questo governo era forse fedele al suo principio? A chi mai farà
credere Mazzini che se in luogo  delle  parole:  liberté,  égalité,  fraternité,
fosse  stato  scritto  in  fronte  a'  pubblici  monumenti:  Dio  e  il  Popolo,
l'assemblea francese  non  avrebbe  decretato  la  spedizione  di  Roma,  né  il
Bonaparte avrebbe fatto il colpo di stato? Le parole: Dio e il Popolo ben  erano
scritte sulle bandiere di Roma; e perché non fecero  il  miracolo  di  salvarla?
Perché  Mazzini  non  isconfisse  i  battaglioni  francesi,  non   disperse   le
artiglierie tedesche, non mantenne saldi ed incolumi i bastioni italiani  co  'l
suo magico grido: Dio e il Popolo? - In verità, io arrossisco di dover discutere
argumenti cosí stravaganti. No, Napoleone non commise la follia  di  dichiararsi
tutore della libertà, dell'uguaglianza, e della fratellanza dei milioni. Egli fu
assai  piú  consentaneo  a  se  stesso:  "giú  la  libertà,  egli   disse,   giú
l'eguaglianza e la fratellanza! Io sono il vincitore  e  comando:  il  popolo  è
vinto e obbedisca". E quella povera formula, che Mazzini stima  conciliabile  di
fatto col dispotismo, Napoleone non la giudicò compatibile, né pur di solo nome,
co 'l suo potere: la cancellò dapertutto! Ma invece quale è la formula che trovò
bella e fatta per lui? È quella di Mazzini: in nome di Dio e del Popolo (par  la
grace de Dieu et la volonté nationale)... Ed è la storia, non  io,  che  dà  una
smentita cosí fresca e solenne a quell'altra singolare asserzione: "Né  papa  né
re potrebbero assumere co' repubblicani italiani linguaggio siffatto. La formola
inesorabile gli direbbe: non conosciamo  interpreti  intermediarî,  privilegiati
tra Dio e il popolo; scendi ne'  suoi  ranghi,  ed  abdica".  Sí,  Bonaparte  ha
assunto linguaggio siffatto co' repubblicani; e la formola di Mazzini si mostrò,
non mica inesorabile, ma la piú compiacente e  pieghevole  creatura  del  mondo.
Essa non solamente stette cheta e si tacque; ma fece assai piú, ed assai peggio.
Si presentò lesta lesta al Bonaparte e gli disse: "Tu cerchi un'insegna  per  la
tua bandiera ed un'iscrizione pe' tuoi decreti: eccomi qua, nata, fatta per  te.
Grida sempre: Dio e Popolo, e fa quel che vuoi: tu avrai  sempre  ragione".  Oh!
Mazzini è tornato in mal  punto  a  celebrare  la  sua  formola.  Doveva  almeno
purgarla  dal  fango,  di  cui  l'ha   contaminata   Bonaparte!   e   assolverla
dall'infamia, onde l'hanno coperta i bonapartisti!..."

Ho  cominciato  a  trascrivere  questa  splendida  confutazione  della   formula
mazziniana, col proposito di sceverarla de' periodi meno interessanti; ma, fatta
eccezione di alcune parole, nel principio ed alla fine, le une  che  servono  di
legame con quello di cui precedentemente ragiona l'A. e le altre che  riguardano
lui personalmente, non ho trovato nulla che ridondi, che non interessi, che  non
piaccia, perciò interamente e fedelmente l'ho trascritta. Aggiungo  ora  le  mie
osservazioni. Le condizioni alle quali debba soddisfare  una  formola  politica,
attenendoci alle opinioni medesime del Mazzini e del  Franchi,  sono  che:  deve
esprimere la verità d'un principio, la legge d'un fatto; un principio che,  base
del patto sociale, determini i rapporti de' cittadini fra loro e con la società,
ed accenni eziandio la legge che darà norma al progresso futuro.  E  tutto  ciò,
leggendo la formola, deve presentarsi chiaro,  immediato,  concreto  alla  mente
d'ognuno, senza aver bisogno d'interpreti o  di  commenti.  A  me  pare  che  la
formola francese non soddisfi a queste condizioni. Il suo merito altro non è che
non contraddirle. Libertà non può esistere  senza  eguaglianza;  quindi  una  di
queste due parole ridonda; se tutti sono eguali non potranno essere che  liberi,
né potranno dirsi liberi i  cittadini  fra  cui  non  siavi  eguaglianza;  e  la
fratellanza poi, come che accenni il fine a cui tende la nazione, il  patto  che
lega i cittadini è un'ipocrisia perché non esiste in natura; e  se  i  cittadini
vivranno come fratelli perché tali li rendono gl'interessi tutti  cospiranti  al
bene pubblico, non perciò saranno tali; inoltre da questa parola  viene  l'odore
del cristianesmo a mille miglia. Non comprendo come sia sfuggita alla  mente  di
tutti la formola semplicissima e chiarissima, già titolo d'un savio  giornaletto
che pubblicavasi in Genova: LIBERTÀ ED ASSOCIAZIONE.  Questa  formola,  evidente
per se medesima, non ha bisogno né d'interpreti,  né  di  commenti;  essa  è  un
principio, ed è quello appunto su cui deve basarsi il patto sociale: la  libertà
esprime il diritto d'ogni Italiano,  l'associazione  la  sola  legge  a  cui  si
sottopongono, il solo patto che li unisce, l'unico  rapporto  sociale;  e  sotto
questa unica legge, eziandio, deve svilupparsi l'indefinito  progresso  sociale.
Come Ausonio Franchi, dico che  per  noi  deve  essere  "nostrale  ogni  verità,
straniero ogni errore": ma in parità di circostanze preferisco ciò ch'è italiano
a ciò ch'è straniero. E quando ad una formola adottata da  un'altra  nazione  io
trovo da sostituirne altra uguale o migliore,  non  dubito  un  istante,  perché
l'imitazione mai è scompagnata da qualche cosa di servile. Sono  umanitario,  ma
innanzitutto italiano, e come in una nazione non può costituirsi il nuovo  patto
fra i cittadini, se  ognuno  di  essi  non  acquisti  piena  ed  intera  la  sua
individualità, cosí non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se
prima ogni popolo non ottenga la sua completa autonomia; e  come  è  impossibile
sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo
passo che dobbiamo fare noi Italiani, onde avviarci alla soluzione del  problema
umanitario, è quello di sentirci e di costituirci esclusivamente italiani.  Come
dalla libera manifestazione del pensiero  d'ognuno  risulta  il  vasto  concetto
nazionale; cosí dalla libertà ed esistenza propria ed  assoluta  d'ogni  nazione
può risultarne il patto umanitario; chi ammette supremazia di nazione,  astri  e
satelliti, nega la rivoluzione verso cui aspiriamo.

[Testamento politico]

Genova, 24 giugno 1857.

Nel momento d'avventurarmi in una intrapresa  risicata,  voglio  manifestare  al
paese la mia opinione per combattere la critica del volgo, sempre disposto a far
plauso ai vincitori e a  maledire  ai  vinti.  I  miei  principî  politici  sono
sufficientemente conosciuti; io credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso
dai sistemi francesi, tutti piú o meno fondati sull'idea monarchica e dispotica,
che prevale nella nazione: esso è l'avvenire inevitabile e prossimo  dell'Italia
e fors'anche dell'Europa intiera. Il socialismo, di cui parlo, può definirsi  in
queste due parole: libertà e associazione. Questa opinione fu da  me  sviluppata
in due volumi, che ho composto, frutto di quasi sei anni di studi, ai quali  per
mancanza di tempo non ho potuto dedicare le ultime cure che richiedono lo  stile
e la dizione. Se qualcheduno fra [i] miei amici volesse surrogarmi e  pubblicare
questi due volumi, io gliene sarei riconoscentissimo. Io sono  convinto  che  le
strade  di  ferro,  i  telegrafi  elettrici,  le   macchine,   i   miglioramenti
dell'industria, tutto ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio, è  da
una legge fatale destinato ad impoverire le masse fino  a  che  il  riparto  dei
benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti,  ma
li accumolano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto  vantato
progresso  termina  per  non  esser  altro  che  decadenza.  Se   tali   pretesi
miglioramenti si considerano  come  un  progresso,  questo  sarà  nel  senso  di
aumentar la miseria del povero per spingerlo  infallibilmente  a  una  terribile
rivoluzione, la quale cambiando l'ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò
che ora riesce a profitto di alcuni. Io sono convinto che l'Italia  sarà  grande
per la libertà o sarà schiava: io sono convinto che i rimedî temperati, come  il
regime costituzionale del Piemonte e le  migliorie  progressive  accordate  alla
Lombardia, ben lungi dal far avanzare il risorgimento d'Italia, non possono  che
ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io non farei il piú piccolo  sacrifizio  per
cambiare un ministero o per ottenere una costituzione, neppure per scacciare gli
Austriaci dalla Lombardia e riunire questa provincia al regno di  Sardegna.  Per
mio avviso la dominazione della casa di  Savoia  e  la  dominazione  della  casa
d'Austria sono precisamente  la  stessa  cosa.  Io  credo  pure  che  il  regime
costituzionale del Piemonte è piú nocivo all'Italia di  quello  che  lo  sia  la
tirannia di Ferdinando II. Io credo fermamente che se il  Piemonte  fosse  stato
governato nello  stesso  modo  che  lo  furono  gli  altri  Stati  italiani,  la
rivoluzione   d'Italia   sarebbe   a   quest'ora   compiuta.   Questa   opinione
pronunciatissima deriva in me  dalla  profonda  mia  convinzione  di  essere  la
propagazione dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee
nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non  sarà  libero  perché
sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero. La sola cosa,  che
può  fare  un  cittadino  per  essere  utile  al  suo  paese,  è  di   attendere
pazientemente il giorno, in cui potrà cooperare ad una rivoluzione materiale: le
cospirazioni, i complotti, i tentativi di  insurrezione  sono,  secondo  me,  la
serie dei fatti per mezzo dei quali l'Italia s'incammina  verso  il  suo  scopo,
l'unità, L'intervento della baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto
piú efficace che mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del
nostro paese e  del  mondo  intiero.  Vi  sono  delle  persone  che  dicono:  la
rivoluzione dev'esser fatta dal paese. Ciò  è  incontestabile.  Ma  il  paese  è
composto di  individui,  e  se  attendessero  tranquillamente  il  giorno  della
rivoluzione senza prepararla colla cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe
mai. Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione  deve  farsi  dal  paese  e
siccome io sono parte infinitesimale del paese, cosí ho io  pure  la  mia  parte
infinitesimale di dovere da adempiere, e  l'adempisse,  la  rivoluzione  sarebbe
fatta immediatamente e riuscirebbe invincibile perché immensa. Si può non  esser
d'accordo sulla forma di una cospirazione, sul luogo e  sul  tempo  in  cui  una
cospirazione  debba  compiersi:  ma  non  essere  d'accordo  sul   principio   è
un'assurdità, un'ipocrisia, un modo di celare il piú  basso  egoismo.  Io  stimo
colui che approva la cospirazione ed egli stesso non cospira: ma non  sento  che
disprezzo per coloro, che non solo non voglion far niente ma che si compiacciono
nel biasimare e nel maledire gli uomini d'azione. Secondo i miei principî  avrei
creduto di mancare ad un sacro dovere se vedendo la possibilità  di  tentare  un
colpo di mano su d'un punto bene scelto ed in circostanze favorevoli, non avessi
spiegato tutta la mia energia per eseguirlo e farlo riuscire a buon fine. Io non
ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare se  stessi,  di
essere il salvatore della patria. No: ma io sono convinto  che  nel  mezzogiorno
dell'Italia la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico  può  spingere
le popolazioni a tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi  si
sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quello impulso.  Se
giungo sul luogo dello sbarco, che sarà  Sapri,  nel  Principato  citeriore,  io
crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciar la vita
sul palco. Semplice individuo, quantunque  sia  sostenuto  da  un  numero  assai
grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare,  e  lo  faccio.  Il  resto
dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia  vita  da  sacrificare  per
quello scopo ed in questo sacrifizio non  esito  punto.  Io  sono  persuaso,  se
l'impresa riesce, otterrò gli applausi generali: se  soccombo,  il  pubblico  mi
biasimerà. Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento,  e  quelli,  che  nulla  mai
facendo  passano  la  loro  vita   nel   criticare   gli   altri,   esamineranno
minuziosamente il tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi accuseranno
di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e  di  energia...  Tutti
questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo incapaci  di  fare
ciò che si è da me tentato, ma anche di concepirne l'idea. A quelli che  diranno
che l'impresa era d'impossibile riuscita io rispondo che se prima  di  combinare
di tali imprese si  dovesse  ottenerne  l'approvazione  nel  mondo  bisognerebbe
rinunziarvi. Il mondo non approva in prevenzione che i disegni volgari. Fu detto
un pazzo colui che fece in America l'esperimento del primo battello a vapore,  e
si è piú tardi dimostrata l'impossibilità di  traversare  l'Atlantico  con  tali
battelli. Era un pazzo il nostro Colombo prima di  aver  scoperto  l'America,  e
l'uomo volgare avrebbe trattato di pazzi e d'imbecilli Annibale e  Napoleone  se
avessero avuto a soccombere quello  alla  Trebbia,  questo  a  Marengo.  Io  non
pretendo paragonare la mia impresa con quelle di questi grandi uomini. Essa  per
altro loro rassomiglia in  una  parte:  perché  sarà  l'oggetto  dell'universale
disapprovazione se fallisco, e dell'ammirazione di tutti se riesco. Se Napoleone
prima di  abbandonare  l'isola  d'Elba  per  sbarcare  a  Fréjus  con  cinquanta
granatieri  avesse  domandato  dei  consigli,  il  suo  progetto  sarebbe  stato
biasimato all'unanimità. Napoleone aveva ciò ch'io non ho, il prestigio del  suo
nome, ma io unisco alla mia bandiera tutte le  affezioni  e  tutte  le  speranze
della rivoluzione italiana. Combatteranno con me  tutti  i  dolori  e  tutte  le
miserie d'Italia. Io piú non aggiungo che una parola: se  non  riesco  disprezzo
profondamente l'uomo ignobile e volgare che mi condannerà: se riesco  apprezzerò
assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa io la troverò  nel  fondo  della
mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici, che mi hanno  recato
il loro concorso ed hanno diviso i battiti del mio cuore e le mie speranze:  che
se il nostro sacrifizio non apporta  alcun  bene  all'Italia,  sarà  almeno  una
gloria per essa l'aver prodotto dei figli che vollero immolarsi al suo avvenire.

Sottoscritto CARLO PISACANE
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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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