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Silvio PELLICO - Le mie prigioni

Silvio Pellico

CAPO I

Il venerdì  13  ottobre  1820  fui  arrestato  a  Milano,  e  condotto  a  Santa
Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece  un  lungo  interrogatorio  per
tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò  nulla.  Simile  ad  un
amante maltrattato  dalla  sue  bella,  e  dignitosamente  risoluto  di  tenerle
broncio, lascio la politica ov'ella sta, e parlo d'altro. Alle nove  della  sera
di quel povero venerdì, l'attuario mi consegnò al custode, e questi,  condottomi
nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere  con  gentile  invito,  per
restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa  ch'io  avessi
in tasca, e m'augurò rispettosamente la buona notte. «Fermatevi, caro voi;»  gli
dissi «oggi non ho pranzato; fatemi portare qualche cosa.» «Subito, la locanda è
qui vicina; e sentirà, signore, che buon vino!» «Vino, non ne  bevo.»  A  questa
risposta, il signor Angiolino mi guardò spaventato, e sperando ch'io scherzassi.
I custodi  di  carceri  che  tengono  bettola,  inorridiscono  d'un  prigioniero
astemio. «Non ne bevo, davvero.»  «M'incresce  per  lei;  patirà  al  doppio  la
solitudine...» E vedendo ch'io  non  mutava  proposito,  uscì;  ed  in  meno  di
mezz'ora ebbi il pranzo. Mangiai pochi bocconi, tracannai un bicchier d'acqua, e
fui lasciato solo. La stanza era a pian terreno, e metteva sul cortile.  Carceri
di qua, carceri di là, carceri di sopra, carceri dirimpetto. Mi  appoggiai  alla
finestra, e stetti qualche tempo ad ascoltare l'andare e venire de'  carcerieri,
ed il frenetico canto di parecchi de' rinchiusi. Pensava: "Un secolo fa,  questo
era un monastero: avrebbero mai le sante e penitenti vergini che  lo  abitavano,
immaginato che le loro celle sonerebbero oggi, non  più  di  femminei  gemiti  e
d'inni divoti, ma di bestemmie e di canzoni  invereconde,  e  che  conterrebbero
uomini d'ogni fatta, e per lo più destinati agli ergastoli o alle forche? E  fra
un secolo, chi respirerà in queste celle? Oh fugacità  del  tempo!  oh  mobilità
perpetua delle cose! Può chi vi  considera  affliggersi,  se  fortune  cessò  di
sorridergli, se vien sepolto in prigione, se gli si minaccia il patibolo?  Ieri,
io era uno de' più felici mortali del  mondo:  oggi  non  ho  più  alcuna  delle
dolcezze che confortavano la mia  vita;  non  più  libertà,  non  più  consorzio
d'amici, non più speranze! No; il lusingarsi sarebbe follia. Di qui  non  uscirò
se non per essere gettato ne' più orribili covili, o  consegnato  al  carnefice!
Ebbene, il giorno dopo la mia morte, sarà come s'io fossi spirato in un palazzo,
e portato alla sepoltura co' più grandi onori". Così il riflettere alla fugacità
del tempo m'invigoriva l'animo. Ma mi ricorsero alla mente il padre,  la  madre,
due fratelli, due sorelle, un'altra famiglia ch'io amava quasi fosse la mia;  ed
i ragionamenti filosofici nulla più  valsero.  M'intenerii,  e  piansi  come  un
fanciullo.

CAPO II

Tre mesi prima, io era andato a Torino, ed avea riveduto, dopo parecchi anni  di
separazione, i miei cari genitori, uno de' fratelli e le due sorelle.  Tutta  la
nostra famiglia si era sempre tanto amata! Niun figliuolo era stato  più  di  me
colmato di benefizi dal padre e dalla madre! Oh  come  al  rivedere  i  venerati
vecchi io m'era commosso, trovandoli notabilmente più aggravati dall'età che non
m'immaginava! Quanto avrei allora voluto non  abbandonarli  più,  consacrarmi  a
sollevare colle mie cure la loro vecchiaia! Quanto mi dolse,  ne'  brevi  giorni
ch'io stetti a Torino, di aver parecchi doveri che mi portavano fuori del  tetto
paterno, e di dare così poca parte del mio tempo agli amati congiunti! La povera
madre diceva con melanconica amarezza: «Ah, il nostro  Silvio  non  è  venuto  a
Torino per veder noi!». Il mattino che ripartii per Milano,  la  separazione  fu
dolorosissima. Il padre entrò in carrozza con me, e m'accompagnò per un  miglio;
tornò indietro soletto. Io mi voltava a guardarlo,  e  piangeva,  e  baciava  un
anello che la madre m'avea  dato,  e  mai  non  mi  sentii  così  angosciato  di
allontanarmi da' parenti. Non credulo a' presentimenti, io stupiva di non  poter
vincere il mio dolore, ed era forzato a dire con ispavento: "D'onde  questa  mia
straordinaria inquietudine?". Pareami pur di prevedere qualche grande  sventura.
Ora,  nel  carcere,  mi  risovvenivano  quello  spavento,   quell'angoscia;   mi
risovvenivano tutte le parole  udite,  tre  mesi  innanzi,  da'  genitori.  Quel
lamento della madre: «Ah, il nostro Silvio non è venuto a Torino per veder noi!»
mi ripiombava sul cuore. Io mi rimproverava di non essermi mostrato  loro  mille
volte più tenero. "Li amo cotanto, e ciò dissi loro così debolmente!  Non  dovea
mai più vederli, e mi saziai così poco de' loro cari volti!  e  fui  così  avaro
delle testimonianze dell'amor  mio!"  Questi  pensieri  mi  straziavano  l'anima
Chiusi la finestra, passeggiai un'ora, credendo di  non  aver  requie  tutta  la
notte. Mi posi a letto, e la stanchezza m'addormentò.

CAPO III

Lo svegliarsi la prima notte in  carcere  è  cosa  orrenda!  "Possibile!"  dissi
ricordandomi dove io fossi "possibile! Io qui? E non è ora un sogno il mio? Ieri
dunque m'arrestarono? Ieri mi fecero quel lungo interrogatorio,  che  domani,  e
chi sa fin quando dovrà continuarsi? Ieri  sera,  avanti  di  addormentarmi,  io
piansi tanto, pensando a' miei genitori?" Il riposo, il  perfetto  silenzio,  il
breve  sonno  che  avea  ristorato  le  mie  forze  mentali,  sembravano   avere
centuplicato in me la possa del dolore. In quell'assenza totale di  distrazioni,
l'affanno di tutti i miei cari, ed  in  particolare  del  padre  e  della  madre
allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella  fantasia  con  una  forza
incredibile. "In quest'istante" diceva io "dormono ancora tranquilli, o vegliano
pensando forse con dolcezza a me, non punto presaghi del luogo  ov'io  sono!  Oh
felici, se Dio li togliesse dal mondo, avanti che giunga  a  Torino  la  notizia
della mia sventura! Chi darà loro la forza di sostenere questo colpo?" Una  voce
interna parea rispondermi: "Colui che tutti gli afflitti  invocano  ed  amano  e
sentono in se stessi! Colui che dava la forza ad una Madre di seguire il  Figlio
al Golgota, e di stare sotto la sua croce! l'amico  degl'infelici,  l'amico  dei
mortali!". Quello fu il primo momento, che la religione trionfò del  mio  cuore,
ed all'amor filiale debbo questo benefizio. Per l'addietro, senza essere avverso
alla religione, io poco e male la seguiva. Le volgari obbiezioni, con cui  suole
essere combattuta, non mi parevano un gran che, e tuttavia mille sofistici dubbi
infievolivano la mia fede. Già da lungo tempo  questi  dubbi  non  cadevano  più
sull'esistenza di Dio, e m'andava ridicendo che se Dio esiste,  una  conseguenza
necessaria della sua giustizia è un'altra vita per l'uomo, che patì in un  mondo
così ingiusto: quindi la somma ragionevolezza di  aspirare  ai  beni  di  quella
seconda vita; quindi un culto di amore  di  Dio  e  del  prossimo,  un  perpetuo
aspirare a nobilitarsi con generosi  sacrifizi.  Già  da  lungo  tempo  m'andava
ridicendo tutto ciò, e soggiungeva: "E che  altro  è  il  Cristianesimo  se  non
questo perpetuo aspirare a nobilitarsi?". E mi meravigliava  come  sì  pura,  sì
filosofica, sì inattaccabile manifestandosi l'essenza del  Cristianesimo,  fosse
venuta un'epoca in cui la filosofia osasse dire: "Farò io d'or  innanzi  le  sue
veci". Ed in qual modo farai tu le sue veci?  Insegnando  il  vizio?  No  certo.
Insegnando la virtù? Ebbene sarà amore di Dio  e  del  prossimo;  sarà  ciò  che
appunto il Cristianesimo insegna. Ad onta ch'io così da parecchi anni  sentissi,
sfuggiva  di  conchiudere:  "Sii  dunque  conseguente!  sii  cristiano!  non  ti
scandalezzar più degli abusi! non malignar più su qualche punto difficile  della
dottrina della Chiesa, giacché il punto principale è questo, ed  è  lucidissimo:
ama Dio e il prossimo". In  prigione  deliberai  finalmente  di  stringere  tale
conclusione, e la strinsi. Esitai alquanto, pensando  che  se  taluno  veniva  a
sapermi  più  religioso  di  prima,  si  crederebbe  in  dovere   di   reputarmi
bacchettone,  ed  avvilito  dalla  disgrazia.  Ma  sentendo  ch'io  non  era  né
bacchettone né avvilito, mi compiacqui di non punto curare i  possibili  biasimi
non meritati, e fermai d'essere e di dichiararmi d'or in avanti cristiano.

CAPO IV

Rimasi stabile in questa risoluzione più tardi, ma cominciai a ruminarla e quasi
volerla in quella prima notte di cattura. Verso il mattino le mie  smanie  erano
calmate, ed io ne stupiva. Ripensava a' genitori ed  agli  altri  amati,  e  non
disperava più della loro forza d'animo, e la memoria  de'  virtuosi  sentimenti,
ch'io aveva altre volte conosciuti in essi, mi consolava. Perché dianzi  cotanta
perturbazione in me, immaginando la loro, ed or cotanta fiducia nell'altezza del
loro coraggio? Era questo  felice  cangiamento  un  prodigio?  era  un  naturale
effetto della mia ravvivata credenza in Dio? - E che importa chiamar prodigi,  o
no, i reali sublimi benefizi della religione? A mezzanotte, due secondini  (così
chiamansi i carcerieri dipendenti dal  custode)  erano  venuti  a  visitarmi,  e
m'aveano trovato di pessimo umore. All'alba tornarono, e mi trovarono  sereno  e
cordialmente scherzoso. «Stanotte, signore, ella aveva una faccia da  basilisco»
disse il Tirola «ora è tutt'altro,  e  ne  godo,  segno  che  non  è...  perdoni
l'espressione... un birbante: perché i birbanti (io sono vecchio del mestiere, e
le mie osservazioni hanno qualche peso),  i  birbanti  sono  più  arrabbiati  il
secondo giorno del loro arresto, che il primo. Prende tabacco?» «Non  ne  soglio
prendere, ma non vo' ricusare le vostre grazie. Quanto alla vostra osservazione,
scusatemi, non è da quel sapiente che sembrate. Se stamane non ho più faccia  da
basilisco, non potrebb'egli essere che il mutamento fosse prova  d'insensatezza,
di facilità ad illudermi, a sognar prossima  la  mia  libertà?»  «Ne  dubiterei,
signore, s'ella fosse in prigione per altri motivi; ma per queste cose di stato,
al giorno d'oggi, non è possibile di credere che finiscano così su due piedi. Ed
ella non è siffattamente gonzo da  immaginarselo.  Perdoni  sa:  vuole  un'altra
presa?» «Date qua. Ma come si può avere una faccia  così  allegra,  come  avete,
vivendo sempre fra disgraziati?» «Crederà che sia per  indifferenza  sui  dolori
altrui: non lo so nemmeno positivamente io, a dir vero; ma l'assicuro che spesse
volte il veder piangere mi fa male. E talora fingo d'essere allegro  affinché  i
poveri prigionieri sorridano anch'essi.» «Mi viene, buon uomo, un  pensiero  che
non ho mai avuto: che si possa fare il carceriere ed essere d'ottima pasta.» «Il
mestiere non fa niente, signore. Al di là di quel voltone ch'ella vede, oltre il
cortile, v'è un altro cortile ed altre carceri, tutte  per  donne.  Sono...  non
occorre dirlo... donne di mala vita. Ebbene, signore, ve n'è  che  sono  angeli,
quanto al cuore. E s'ella fosse  secondino...»  «Io?»  e  scoppiai  dal  ridere.
Tirola restò sconcertato dal mio riso, e non proseguì. Forse intendea, che  s'io
fossi stato secondino mi sarebbe riuscito malagevole non affezionarmi ad  alcuna
di quelle disgraziate. Mi chiese  ciò  ch'io  volessi  per  colezione.  Uscì,  e
qualche minuto dopo mi portò il caffè. Io lo guardava in faccia fissamente,  con
un sorriso malizioso che voleva dire: "Porteresti tu un mio viglietto  ad  altro
infelice, al mio amico Pietro?". Ed egli mi rispose con  un  altro  sorriso  che
voleva dire: "No, signore; e se vi dirigete ad  alcuno  de'  miei  compagni,  il
quale vi dica di si, badate che vi tradirà". Non sono veramente certo ch'egli mi
capisse, né ch'io capissi lui. So bensì ch'io  fui  dieci  volte  sul  punto  di
dimandargli un pezzo di carta ed una matita, e non ardii, perché v'era alcun che
negli occhi suoi, che sembrava avvertirmi di  non  fidarmi  di  alcuno,  e  meno
d'altri che di lui.

CAPO V

Se Tirola, colla sua espressione di bontà, non avesse anche avuto quegli sguardi
così furbi, se fosse stata una fisionomia  più  nobile,  io  avrei  ceduto  alla
tentazione di farlo mio ambasciatore, e forse un mio viglietto  giunto  a  tempo
all'amico gli avrebbe data la forza di riparare qualche sbaglio, - e  forse  ciò
salvava, non lui, poveretto, che già troppo era scoperto, ma  parecchi  altri  e
me!   Pazienza!   doveva   andar   così.   Fui   chiamato   alla   continuazione
dell'interrogatorio, e ciò durò tutto quel giorno, e parecchi altri, con  nessun
altro intervallo che quello de' pranzi. Finché il  processo  non  si  chiuse,  i
giorni  volavano  rapidi  per  me,  cotanto  era  l'esercizio  della  mente   in
quell'interminabile rispondere a sì varie dimande, e nel raccogliermi, alle  ore
di pranzo ed a sera, per riflettere a tutto ciò che mi  s'era  chiesto  e  ch'io
aveva risposto, ed a tutto ciò su cui probabilmente  sarei  ancora  interrogato.
Alla fine della prima settimana m'accadde un  gran  dispiacere.  Il  mio  povero
Piero, bramoso, quanto lo era io, che potessimo metterci  in  comunicazione,  mi
mandò un viglietto, e si servì non d'alcuno de' secondini, ma  d'un  disgraziato
prigioniero che veniva con essi a fare qualche servigio nelle nostre stanze. Era
questi un uomo dai sessanta ai settant'anni, condannato a non so quanti mesi  di
detenzione. Con una spilla ch'io aveva, mi forai un  dito,  e  feci  col  sangue
poche linee di risposta, che rimisi al messaggero. Egli  ebbe  la  mala  ventura
d'essere  spiato,  frugato,  colto  col  viglietto  addosso,  e,  se  non  erro,
bastonato. Intesi alte urla che mi parvero del misero vecchio, e nol rividi  mai
più. Chiamato a processo,  fremetti  al  vedermi  presentata  la  mia  cartolina
vergata col sangue (la quale, grazie al cielo, non parlava di  cose  nocive,  ed
avea l'aria d'un semplice saluto). Mi si chiese con che mi fossi tratto  sangue,
mi si tolse la spilla, e si rise dei burlati. Ah, io non  risi!  Io  non  poteva
levarmi dagli occhi il vecchio messaggero. Avrei volentieri  sofferto  qualunque
castigo, purché gli perdonassero. E quando mi giunsero quelle urla, che  dubitai
essere di lui, il cuore mi s'empì di lagrime. Invano chiesi parecchie  volte  di
esso al custode e a' secondini. Crollavano il capo,  e  dicevano:  «L'ha  pagata
cara colui... non ne farà più di simili... gode un po' più di riposo». Né  volea
no spiegarsi di più. Accennavano essi a prigionia ristretta in cui veniva tenuto
quell'infelice, o parlavano così perch'egli fosse morto sotto le bastonate od in
conseguenza di quelle? Un giorno mi parve di vederlo,  al  di  là  del  cortile,
sotto il portico, con un fascio di legna sulle spalle. Il cuore mi palpitò  come
s'io rivedessi un fratello.

CAPO VI

Quando non fui più martirato dagl'interrogatorii,  e  non  ebbi  più  nulla  che
occupasse le mie giornate, allora sentii amaramente il  peso  della  solitudine.
Ben mi si permise ch'io avessi una Bibbia ed  il  Dante;  ben  fu  messa  a  mia
disposizione dal custode la sua biblioteca, consistente  in  alcuni  romanzi  di
Scuderi, del Piazzi, e peggio; ma il mio spirito era troppo agitato, da  potersi
applicare a qualsiasi lettura. Imparava ogni giorno un canto di Dante a memoria,
e questo esercizio era tuttavia sì macchinale, ch'io lo faceva pensando  meno  a
que' versi che a'  casi  miei.  Lo  stesso  mi  avveniva  leggendo  altre  cose,
eccettuato alcune volte qualche passo della Bibbia. Questo  divino  libro  ch'io
aveva sempre amato molto, anche quando pareami d'essere incredulo, veniva ora da
me studiato con più rispetto che mai. Se non  che,  ad  onta  del  buon  volere,
spessissimo io lo leggea colla mente ad altro, e  non  capiva.  A  poco  a  poco
divenni capace di  meditarvi  più  fortemente,  e  di  sempre  meglio  gustarlo.
Siffatta lettura non mi diede mai la minima  disposizione  alla  bacchettoneria,
cioè a quella divozione  malintesa  che  rende  pusillanime  o  fanatico.  Bensì
m'insegnava ad amar Dio e gli uomini,  a  bramare  sempre  più  il  regno  della
giustizia, ad abborrire l'iniquità,  perdonando  agl'iniqui.  Il  Cristianesimo,
invece di disfare in me ciò che la filosofia potea avervi  fatto  di  buono,  lo
confermava, lo avvalorava di ragioni più alte, più  potenti.  Un  giorno  avendo
letto che  bisogna  pregare  incessantemente,  e  che  il  vero  pregare  non  è
borbottare molte parole alla guisa de' pagani, ma adorar Dio con semplicità,  sì
in parole, sì in azioni, e fare che le une e le altre  sieno  l'adempimento  del
suo santo volere, mi proposi di cominciare davvero  quest'incessante  preghiera:
cioè di non permettermi più neppure  un  pensiero  che  non  fosse  animato  dal
desiderio di conformarmi ai decreti di  Dio.  Le  formole  di  preghiera  da  me
recitate in adorazione furono sempre poche, non già per disprezzo (ché  anzi  le
credo salutarissime, a chi più, a chi meno, per fermare l'attenzione nel culto),
ma perché io mi sento così fatto, da non essere capace di recitarne molte  senza
vagare in distrazioni e porre l'idea del culto in obblio. L'intento di stare  di
continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della  mente,
ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che  Dio
è sempre vicino a noi, ch'egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in  esso,  la
solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me: "Non sono io in  ottima
compagnia?" mi andava dicendo. E mi rasserenava, e canterellava, e zufolava  con
piacere e con tenerezza. "Ebbene," pensai "non avrebbe potuto venirmi una febbre
e portarmi in sepoltura? Tutti i miei cari,  che  si  sarebbero  abbandonati  al
pianto, perdendomi, avrebbero  pure  acquistato  a  poco  a  poco  la  forza  di
rassegnarsi alla mia mancanza. Invece  d'una  tomba,  mi  divorò  una  prigione:
degg'io credere che Dio non li munisca d'egual forza?" Il mio cuore alzava i più
fervidi voti per loro, talvolta con qualche lagrima; ma le lagrime stesse  erano
miste di dolcezza. Io aveva piena fede che Dio sosterrebbe loro  e  me.  Non  mi
sono ingannato.

CAPO VII

Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita?  Eppure
anche nelle miserie d'un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le
gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza  e  non  negli
oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita. Io in meno d'un mese avea
pigliato, non dirò perfettamente, ma in comportevole guisa, il mio partito. Vidi
che  non  volendo  commettere  l'indegna  azione  di  comprare  l'impunità   col
procacciare la rovina altrui, la mia sorte non poteva essere se non il  patibolo
od una lunga prigionia. Era necessità adattarvisi. "Respirerò finché mi lasciano
fiato" dissi "e quando me lo torranno, farò come tutti  i  malati  allorché  son
giunti all'ultimo momento. Morrò." Mi studiava di non lagnarmi di  nulla,  e  di
dare all'anima mia tutti i godimenti possibili. Il più consueto godimento si era
di andarmi rinnovando l'enumerazione dei  beni  che  avevano  abbelliti  i  miei
giorni: un ottimo padre, un'ottima madre, fratelli e sorelle eccellenti, i  tali
e tali amici, una buona educazione, l'amore delle lettere, ecc. Chi  più  di  me
era stato dotato di felicità? Perché non  ringraziarne  Iddio,  sebbene  ora  mi
fosse temperata dalla sventura? Talora facendo quell'enumerazione m'inteneriva e
piangeva un istante; ma il coraggio e la letizia tornavano. Fin da' primi giorni
io aveva acquistato un amico. Non era il custode, non alcuno de' secondini,  non
alcuno de' signori processanti. Parlo per altro d'una creatura umana. Chi era? -
Un fanciullo, sordo e muto, di cinque o sei anni. Il  padre  e  la  madre  erano
ladroni, e la legge li aveva colpiti. Il misero orfanello veniva mantenuto dalla
Polizia con parecchi altri fanciulli della stessa condizione. Abitavano tutti in
una stanza in faccia alla mia, ed a certe ore aprivasi loro  la  porta  affinché
uscissero a prender aria nel cortile. Il  sordo  e  muto  veniva  sotto  la  mia
finestra, e mi sorrideva, e gesticolava. Io gli gettava un bel pezzo di pane: ei
lo prendeva facendo un salto di gioia, correva  a'  suoi  compagni,  ne  dava  a
tutti, e poi veniva a mangiare la  sua  porzioncella  presso  la  mia  finestra,
esprimendo la sua gratitudine col  sorriso  de'  suoi  begli  occhi.  Gli  altri
fanciulli mi guardavano da lontano, ma non ardìano  avvicinarsi:  il  sordo-muto
aveva una gran simpatia per me, né già  per  sola  cagione  d'interesse.  Alcune
volte ei non sapea che fare del pane ch'io gli gettava, e facea segni ch'egli  e
i suoi compagni aveano mangiato bene, e non potevano prendere maggior cibo. S'ei
vedea venire un secondino nella mia stanza, ei gli dava il  pane  perché  me  lo
restituisse. Benché nulla aspettasse allora  da  me,  ei  continuava  a  ruzzare
innanzi alla finestra, con una grazia amabilissima, godendo  ch'io  lo  vedessi.
Una volta un secondino  permise  al  fanciullo  d'entrare  nella  mia  prigione:
questi, appena entrato, corse ad abbracciarmi le  gambe  mettendo  un  grido  di
gioia. Lo presi fra le braccia, ed è indicibile il trasporto con cui mi  colmava
di carezze. Quanto amore in quella cara animetta! Come avrei voluto poterlo  far
educare e salvarlo dall'abbiezione in che si trovava! Non ho mai saputo  il  suo
nome. Egli stesso non sapeva di averne uno. Era sempre lieto, e non lo vidi  mai
piangere se non una volta che fu battuto, non so perché,  dal  carceriere.  Cosa
strana! Vivere in luoghi simili sembra il  colmo  dell'infortunio,  eppure  quel
fanciullo avea certamente tanta felicità quanta  possa  averne  a  quell'età  il
figlio d'un principe. Io  facea  questa  riflessione,  ed  imparava  che  puossi
rendere l'umore indipendente dal luogo.  Governiamo  l'immaginativa,  e  staremo
bene quasi dappertutto. Un giorno è presto passato, e  quando  la  sera  uno  si
mette a letto senza fame e senza acuti dolori,  che  importa  se  quel  letto  è
piuttosto fra mura che si chiamino prigione, o fra mura che si chiamino  casa  o
palazzo? Ottimo ragionamento! Ma come si fa a governare l'immaginativa? Io mi vi
provava, e ben pareami talvolta di riuscirvi a meraviglia:  ma  altre  volte  la
tirannia trionfava, ed io indispettito stupiva della mia debolezza.

CAPO VIII

"Nella mia sventura sono pur fortunato,"  diceva  io  "che  m'abbiano  data  una
prigione a pian terreno, su questo cortile, ove a quattro passi da me viene quel
caro fanciullo, con cui converso alla muta sì dolcemente! Mirabile  intelligenza
umana! Quante cose ci diciamo  egli  ed  io  colle  infinite  espressioni  degli
sguardi e della fisionomia! Come compone i suoi  moti  con  grazia,  quando  gli
sorrido! Come li corregge quando vede che mi spiacciono!  Come  capisce  che  lo
amo, quando accarezza o regala alcuno de' suoi compagni! Nessuno al mondo se  lo
immagina, eppure io, stando alla finestra, posso essere una  specie  d'educatore
per quella povera creaturina. A forza di ripetere il mutuo esercizio de'  segni,
perfezioneremo la comunicazione delle nostre idee. Più sentirà d'istruirsi e  di
ingentilirsi con me, più mi s'affezionerà.  Io  sarò  per  lui  il  genio  della
ragione e della bontà; egli imparerà a confidarmi i suoi dolori, i suoi piaceri,
le sue brame: io a consolarlo, a  nobilitarlo,  a  dirigerlo  in  tutta  la  sua
condotta. Chi sa che tenendosi indecisa la mia sorte di mese  in  mese,  non  mi
lascino invecchiar qui? Chi sa che quel  fanciullo  non  cresca  sotto  a'  miei
occhi, e non sia adoperato a qualche servizio in questa casa? Con tanto  ingegno
quanto mostra d'avere, che potrà egli riuscire? Ahimè!  niente  di  più  che  un
ottimo secondino o qualch'altra cosa  di  simile.  Ebbene,  non  avrò  io  fatto
buon'opera, se avrò contribuito ad ispirargli il desiderio di piacere alla gente
onesta ed a se stesso, a dargli l'abitudine de'  sentimenti  amorevoli?"  Questo
soliloquio era naturalissimo. Ebbi sempre molta inclinazione  pe'  fanciulli,  e
l'ufficio d'educatore mi parea sublime. Io adempiva simile  ufficio  da  qualche
anno verso Giacomo e Giulio Porro, due giovinetti di belle speranze ch'io  amava
come figli miei e come tali amerò sempre. Dio sa, quante  volte  in  carcere  io
pensassi a loro! quanto m'affliggessi di non poter compiere la loro  educazione!
quanti ardenti voti formassi perché incontrassero un nuovo maestro che mi  fosse
eguale nell'amarli! Talvolta esclamava tra me: "Che  brutta  parodia  è  questa!
Invece di Giacomo e Giulio, fanciulli  ornati  de'  più  splendidi  incanti  che
natura e fortuna possano dare, mi tocca per discepolo un poveretto, sordo, muto,
stracciato, figlio d'un ladrone!... che al più  diverrà  secondino,  il  che  in
termine  un  po'  meno  garbato  si  direbbe  sbirro.  Queste   riflessioni   mi
confondeano, mi sconfortavano. Ma appena sentiva io lo strillo del mio mutolino,
che mi si rimescolava il sangue, come ad un padre che sente la voce del  figlio.
E quello strillo e la sua vista dissipavano in me ogni idea di  bassezza  a  suo
riguardo. "E che colpa ha egli s'è stracciato e difettoso, e di razza di  ladri?
Un'anima umana, nell'età dell'innocenza, è sempre rispettabile." Così diceva io;
e lo  guardava  ogni  giorno  più  con  amore,  e  mi  parea  che  crescesse  in
intelligenza, e confermavami nel dolce divisamento d'applicarmi ad ingentilirlo;
e fantasticando su tutte le possibilità,  pensava  che  forse  sarei  un  giorno
uscito di carcere ed avrei  avuto  mezzo  di  far  mettere  quel  fanciullo  nel
collegio de' sordi e muti, e di aprirgli così la via ad una  fortuna  più  bella
che d'essere sbirro. Mentre io m'occupava così deliziosamente del suo  bene,  un
giorno due secondini vengono a prendermi. «Si cangia  alloggio,  signore.»  «Che
intendete dire?» «C'è comandato di trasportarla in un'altra  camera.»  «Perché?»
«Qualch'altro grosso  uccello  è  stato  preso,  e  questa  essendo  la  miglior
camera... capisce bene...» «Capisco: è la prima posa de' nuovi arrivati.»  E  mi
trasportarono alla parte del cortile opposta, ma, ohimè! non più a pian terreno,
non più atta al conversare col mutolino. Traversando  quel  cortile,  vidi  quel
caro ragazzo seduto a terra, attonito, mesto: capì ch'ei  mi  perdeva.  Dopo  un
istante s'alzò, mi corse incontro; i secondini volevano cacciarlo, io  lo  presi
fra le braccia, e, sudicetto com'egli era, lo baciai e ribaciai con tenerezza, e
mi staccai da lui - debbo dirlo? - cogli occhi grondanti di lagrime.

CAPO IX

Povero mio cuore! tu  ami  sì  facilmente  e  sì  caldamente,  ed  oh  a  quante
separazioni sei già stato condannato! Questa non fu certo la men dolorosa; e  la
sentii tanto più che il nuovo mio  alloggio  era  tristissimo.  Una  stanzaccia,
oscura, lurida, con finestra avente non vetri alle imposte, ma carta, con pareti
contaminate da goffe pitturacce di colore, non oso dir quale; e ne'  luoghi  non
dipinti erano iscrizioni. Molte portavano semplicemente nome, cognome  e  patria
di qualche infelice, colla data del giorno  funesto  della  sua  cattura.  Altre
aggiungeano esclamazioni contro falsi amici, contro se stesso, contro una donna,
contro il giudice, ecc. Altre erano compendi d'autobiografia. Altre  contenevano
sentenze morali. V'erano queste parole di  Pascal:  «Coloro  che  combattono  la
religione imparino almeno  qual  ella  sia,  prima  di  combatterla.  Se  questa
religione si vantasse d'avere una veduta chiara di Dio, e  di  possederlo  senza
velo, sarebbe un combatterla il dire che non si vede niente  nel  mondo  che  lo
mostri con tanta evidenza. Ma poiché dice, anzi, essere gli uomini nelle tenebre
e lontani da Dio, il quale s'è nascosto alla loro cognizione, ed essere  appunto
il nome ch'egli si  dà  nelle  Scritture,  Deus  absconditus...  qual  vantaggio
possono essi trarre,  allorché  nella  negligenza  che  professano  quanto  alla
scienza della verità, gridano che la verità non vien loro mostrata?»  Più  sotto
era scritto (parole dello stesso autore): «Non trattasi qui del lieve  interesse
di qualche persona straniera; trattasi di  noi  medesimi  e  del  nostro  tutto.
L'immortalità  dell'anima  è  cosa  che  tanto  importa,  e   che   toccaci   sì
profondamente, che bisogna aver perduto ogni senno per essere  nell'indifferenza
di saper che ne sia.» Un altro scritto diceva:  «Benedico  la  prigione,  poiché
m'ha fatto conoscere l'ingratitudine degli uomini, la mia miseria, e la bontà di
Dio.» Accanto a queste umili parole erano le più violente e superbe imprecazioni
d'uno che si diceva ateo, e che si scagliava contro Dio come se si  dimenticasse
di aver detto che non v'era Dio. Dopo una colonna di tai bestemmie,  ne  seguiva
una di ingiurie contro i vigliacchi, così li chiamava egli, che la sventura  del
carcere fa religiosi. Mostrai quelle  scelleratezze  ad  uno  de'  secondini,  e
chiesi chi l'avesse scritte. «Ho piacere d'aver trovata quest'iscrizione:» disse
«ve ne son tante, ed ho sì poco tempo da cercare!» E senz'altro, diessi  con  un
coltello a grattare il muro per farla sparire. «Perché ciò?» dissi.  «Perché  il
povero  diavolo  che  l'ha  scritta,  e  fu  condannato  a  morte  per  omicidio
premeditato, se ne pentì,  e  mi  fece  pregare  di  questa  carità.»  «Dio  gli
perdoni!» sclamai. «Qual omicidio era il suo?»  «Non  potendo  uccidere  un  suo
nemico, si vendicò uccidendogli il figlio, il più bel  fanciullo  che  si  desse
sulla terra.» Inorridii. A tanto può giungere  la  ferocia?  E  siffatto  mostro
teneva il linguaggio insultante d'un uomo superiore a tutte le debolezze  umane!
Uccidere un innocente! un fanciullo!

CAPO X

In quella mia nuova stanza, così tetra e così immonda, privo della compagnia del
caro muto, io era oppresso di tristezza. Stava molte ore alla finestra la  quale
metteva sopra una galleria, e al di là della galleria  vedeasi  l'estremità  del
cortile e la finestra della mia prima stanza. Chi erami succeduto  colà?  Io  vi
vedeva un uomo che molto passeggiava colla rapidità di chi è pieno d'agitazione.
Due o tre giorni dappoi, vidi che gli avevano dato da scrivere, ed allora se  ne
stava tutto il dì al tavolino. Finalmente lo riconobbi. Egli  usciva  della  sua
stanza accompagnato dal custode: andava agli esami. Era Melchiorre Gioia! Mi  si
strinse il cuore. "Anche tu, valentuomo, sei qui!" (Fu più fortunato di me. Dopo
alcuni mesi di detenzione venne rimesso  in  libertà.)  La  vista  di  qualunque
creatura buona mi consola, m'affeziona, mi fa pensare. Ah! pensare ed amare sono
un gran bene. Avrei dato la mia vita per salvar  Gioia  di  carcere;  eppure  il
vederlo mi sollevava. Dopo essere stato lungo tempo a guardarlo, a  congetturare
da' suoi moti se fosse tranquillo d'animo od inquieto, a far voti per lui, io mi
sentiva maggior forza, maggiore abbondanza d'idee, maggior contento di  me.  Ciò
vuol dire che lo spettacolo d'una creatura  umana,  alla  quale  s'abbia  amore,
basta a temprare la solitudine.  M'avea  dapprima  recato  questo  benefizio  un
povero bambino muto, ed or me lo recava la  lontana  vista  d'un  uomo  di  gran
merito. Forse qualche secondino gli disse dov'io era. Un mattino, aprendo la sua
finestra, fece sventolare il fazzoletto in atto di saluto. Io gli risposi  collo
stesso segno. Oh quale piacere mi inondò l'anima in quel momento! Mi pareva  che
la distanza fosse sparita, che fossimo insieme. Il cuore mi balzava come  ad  un
innamorato che rivede l'amata.  Gesticolavamo  senza  capirci,  e  colla  stessa
premura, come se ci capissimo: o piuttosto ci  capivamo  realmente;  que'  gesti
voleano dire tutto ciò che le nostre anime sentivano, e l'una non  ignorava  ciò
che l'altra sentisse. Qual conforto sembravanmi dover essere  in  avvenire  quei
saluti! E l'avvenire giunse, ma que' saluti non furono più replicati! Ogni volta
ch'io rivedea Gioia alla finestra, io faceva sventolare il fazzoletto. Invano! I
secondini mi dissero che gli era stato proibito d'eccitare i  miei  gesti  o  di
rispondervi. Bensì guardavami egli  spesso,  ed  io  guardava  lui,  e  così  ci
dicevamo ancora molte cose.

CAPO XI

Sulla galleria ch'era sotto la finestra, al livello medesimo della mia prigione,
passavano e ripassavano da mattina a sera  altri  prigionieri,  accompagnati  da
secondini; andavano agli esami, e ritornavano. Erano per  lo  più  gente  bassa.
Vidi nondimeno anche qualcheduno che parea  di  condizione  civile.  Benché  non
potessi gran fatto fissare gli occhi  su  loro,  tanto  era  fuggevole  il  loro
passaggio, pure attraevano la mia  attenzione;  tutti  qual  più  qual  meno  mi
commoveano. Questo triste spettacolo, a' primi giorni, accresceva i miei dolori;
ma a poco a poco mi v'assuefeci, e finì per diminuire anch'esso  l'orrore  della
mia solitudine. Mi passavano parimente sotto gli occhi molte donne arrestate. Da
quella galleria s'andava, per un voltone, sopra un altro cortile, e là erano  le
carceri muliebri e l'ospedale delle sifilitiche. Un muro solo, ed assai sottile,
mi dividea da una delle stanze delle donne. Spesso le poverette  mi  assordavano
colle loro canzoni, talvolta colle loro risse. A tarda  sera,  quando  i  romori
erano cessati, io le udiva conversare. Se avessi voluto  entrare  in  colloquio,
avrei potuto. Me n'astenni, non so perché.  Per  timidità?  per  alterezza?  per
prudente riguardo di non affezionarmi a donne degradate? Dovevano esservi questi
motivi tutti tre. La donna, quando è ciò che debb'essere, è per me una  creatura
sì sublime! Il vederla, l'udirla, il parlarle, mi arricchisce la mente di nobili
fantasie. Ma avvilita, spregevole, mi  perturba,  m'affligge,  mi  spoetizza  iI
cuore. Eppure... (gli eppure sono indispensabili per dipingere l'uomo,  ente  sì
composto) fra quelle voci femminili ve n'avea di soavi, e queste - e perché  non
dirlo? - m'erano care. Ed una di quelle era più soave delle altre, e s'udiva più
di rado, e non proferiva pensieri volgari. Cantava poco, e  per  lo  più  questi
soli due patetici versi:

Chi rende alla meschina la sua felicità?

Alcune volte cantava le litanie. Le sue compagne la secondavano, ma io aveva  il
dono di discernere la voce di Maddalena dalle altre, che pur  troppo  sembravano
accanite a rapirmela. Sì, quella disgraziata chiamavasi Maddalena. Quando le sue
compagne raccontavano i loro dolori, ella  compativale  e  gemeva,  e  ripeteva:
«Coraggio, mia cara; il Signore non  abbandona  alcuno».  Chi  poteva  impedirmi
d'immaginarmela più bella e più infelice  che  colpevole,  nata  per  la  virtù,
capace  di  ritornarvi,  s'erasene  scostata?  Chi  potrebbe   biasimarmi   s'io
m'inteneriva udendola, s'io l'ascoltava con venerazione, s'io  pregava  per  lei
con un fervore particolare? L'innocenza è veneranda, ma  quanto  lo  è  pure  il
pentimento! Il migliore degli uomini, l'uomo-Dio, sdegnava egli di porre il  suo
pietoso sguardo sulle peccatrici, di rispettare la loro confusione, d'aggregarle
fra le anime ch'ei più onorava? Perché disprezziamo noi tanto  la  donna  caduta
nell'ignominia? Ragionando così, fui cento volte tentato di alzar la voce e fare
una dichiarazione d'amor fraterno a Maddalena. Una volta avea già cominciato  la
prima sillaba vocativa: «Mai!...». Cosa strana! il cuore mi batteva, come ad  un
ragazzo di quindici anni innamorato; e sì ch'io n'avea trentuno, che non  è  più
l'età dei palpiti infantili.  Non  potei  andar  avanti.  Ricominciai:  «Mad!...
Mad!...». E fu inutile. Mi trovai ridicolo, e gridai dalla rabbia: «Matto! e non
Mad!».

CAPO XII

Così finì il mio romanzo con quella poveretta. Se non che  le  fui  debitore  di
dolcissimi sentimenti per parecchie settimane. Spesso io era melanconico,  e  la
sue voce m'esilarava: spesso, pensando alla  viltà  ed  all'ingratitudine  degli
uomini, io m'irritava  contro  loro,  io  disamava  l'universo,  e  la  voce  di
Maddalena tornava a dispormi a compassione ed indulgenza. Possa tu, o  incognita
peccatrice, non essere state condannata a grave pena! Od a qualunque pena sii tu
stata condannata, posse tu profittarne e rinobilitarti, e vivere e morir care al
Signore! Possa  tu  essere  compianta  e  rispettata  da  tutti  quelli  che  ti
conoscono, come lo fosti da me che non ti conobbi! Possa tu ispirare, in  ognuno
che ti vegga, la pazienza, la dolcezza, la brama della virtù, la fiducia in Dio,
come le ispiravi in colui che ti amò senza  vederti!  La  mia  immaginativa  può
errare figurandoti bella di corpo, ma l'anima tua, ne son certo, era  bella.  Le
tue  compagne  parlavano  grossolanamente,  e  tu  con  pudore   e   gentilezza;
bestemmiavano, e tu benedicevi Dio; garrivano, e tu componevi le loro  liti.  Se
alcuno t'ha porto la mano per sottrarti dalla carriera  del  disonore,  se  t'ha
beneficata  con  delicatezza,  se  ha  asciugate  le  tue  lagrime,   tutte   le
consolazioni piovano su lui, su'  suoi  figli,  e  sui  figli  de'  suoi  figli!
Contigua alla mia, era una prigione abitata da  parecchi  uomini.  Io  li  udiva
anche parlare. Uno di loro  superava  gli  altri  in  autorità,  non  forse  per
maggiore finezza di condizione, ma  per  maggior  facondia  ed  audacia.  Questi
facea, come si dice, il dottore. Rissava e metteva  in  silenzio  i  contendenti
coll'imperiosità della voce e colla foga delle  parole;  dettava  loro  ciò  che
doveano pensare e sentire, e quelli, dopo qualche renitenza, finivano per dargli
ragione in tutto. Infelici! non uno di  loro  che  temperasse  le  spiacevolezze
della prigione esprimendo qualche soave sentimento, qualche poco di religione  e
d'amore! Il caporione di que' vicini mi salutò, e risposi.  Mi  chiese  come  io
passassi quella maledetta vita. Gli dissi che, sebben  trista,  niuna  vita  era
maledetta per me, e che, sino alla morte,  bisognava  procacciar  di  godere  il
piacer di pensare e d'amare. «Si spieghi, signore, si spieghi.»  Mi  spiegai,  e
non fui capito. E quando, dopo ingegnose ambagi preparatorie, ebbi  il  coraggio
d'accennare, come esempio, la tenerezza carissima che in me veniva destata dalla
voce di Maddalena, il caporione diede in una grandissima risata. «Che cos'è? che
cos'è?» gridarono i suoi compagni. Il profano  ridisse  con  caricature  le  mie
parole, e le risate scoppiarono in coro, ed io  feci  lì  pienamente  la  figure
dello sciocco. Avviene in prigione come nel mondo. Quelli  che  pongono  la  lor
saviezza  nel  fremere,  nel  lagnarsi,  nel  vilipendere,  credono  follia   il
compatire, l'amare, il consolarsi con belle fantasie che onorino l'umanità ed il
suo Autore. . CAPO XIII

Lasciai ridere, e non opposi sillaba. I vicini mi diressero due o tre  volte  la
parole; io stetti zitto. «Non sarà  più  alla  finestra...  se  ne  sarà  ito...
tenderà l'orecchio ai sospiri di Maddalena... si sarà offeso delle nostre risa.»
Così andarono dicendo per un poco. E finalmente  il  caporione  impose  silenzio
agli altri che susurravano sul mio conto. «Tacete, bestioni, che non sapete quel
che diavolo vi dite. Qui il vicino non è un sì grand'asino come credete. Voi non
siete capaci di riflettere su niente. Io sghignazzo, ma poi rifletto, io.  Tutti
i villani mascalzoni sanno far gli arrabbiati, come facciamo noi. Un po' più  di
dolce allegria, un po' più di carità, un po' più di fede ne' benefizi del Cielo,
di che cosa vi pare sinceramente che sia indizio?» «Or che ci rifletto anch'io,»
rispose uno «mi  pare  che  sia  indizio  d'essere  alquanto  meno  mascalzone.»
«Bravo!» gridò il caporione con urlo  stentoreo  «questa  volta  torno  ad  aver
qualche stima della tua zucca.»i Io non  insuperbiva  molto  d'essere  solamente
reputato alquanto meno mascalzone di loro; eppure provava una specie  di  gioia,
che  que'  disgraziati  si  ricredessero  circa  l'importanza  di  coltivare   i
sentimenti benevoli. Mossi l'imposta della finestra, come se tornassi allora. Il
caporione mi chiamò. Risposi, sperando che avesse voglia di moralizzare  a  modo
mio. M'ingannai. Gli spiriti volgari  sfuggono  i  ragionamenti  serii:  se  una
nobile verità traluce loro, sono capaci di applaudirla un istante, ma tosto dopo
ritorcono da essa lo sguardo, e non resistono  alla  libidine  d'ostentar  senno
ponendo quella verità in dubbio e scherzando.  Mi  chiese  poscia  s'io  era  in
prigione  per  debiti.  «No.»  «Forse  accusato  di  truffa?  Intendo   accusato
falsamente  sa.»  «Sono  accusato  di  tutt'altro.»  «Di  cose  d'amore?»  «No.»
«D'omicidio?» «No.» «Di carboneria?» «Appunto.» «E che sono  questi  carbonari?»
«Li conosco così poco che non saprei dirvelo.»  Un  secondino  c'interruppe  con
gran collera, e dopo d'aver colmato d'improperii i miei vicini  si  volse  a  me
colla gravità non d'uno sbirro, ma d'un maestro, e  disse:  «Vergogna,  signore!
degnarsi di conversare con ogni sorta di gente! Sa ella che costoro son ladri?».
Arrossii e poi arrossii  d'aver  arrossito,  e  mi  parve  che  il  degnarsi  di
conversare con ogni specie d'infelici sia piuttosto bontà che colpa.

CAPO XIV

Il mattino seguente andai alla finestra per  vedere  Melchiorre  Gioia,  ma  non
conversai più co' ladri. Risposi al loro saluto, e dissi che  m'era  vietato  di
parlare. Venne l'attuario che m'avea fatto gl'interrogatorii, e  m'annunciò  con
mistero una visita che m'avrebbe recato piacere. E  quando  gli  parve  d'avermi
abbastanza preparato disse: «Insomma, è suo padre; si compiaccia  di  seguirmi».
Lo seguii abbasso negli  uffici,  palpitando  di  contento  e  di  tenerezza,  e
sforzandomi d'avere un aspetto sereno che tranquillasse  il  mio  povero  padre.
Allorché avea saputo il mio  arresto,  egli  avea  sperato  che  ciò  fosse  per
sospetti da nulla, e ch'io tosto uscissi. Ma vedendo che la  detenzione  durava,
era venuto a sollecitare il Governo austriaco per  la  mia  liberazione.  Misere
illusioni dell'amor paterno! Ei  non  poteva  credere  ch'io  fossi  stato  così
temerario da espormi al rigor delle leggi, e la studiata  ilarità  con  che  gli
parlai lo persuase ch'io non aveva sciagure a temere. Il breve colloquio che  ci
fu conceduto m'agitò indicibilmente; tanto più ch'io  reprimeva  ogni  apparenza
d'agitazione. Il più difficile fu di non manifestarla quando convenne separarci.
Nelle circostanze in cui era l'Italia, io tenea per fermo che l'Austria  avrebbe
dato esempi straordinarii di rigore, e ch'io sarei stato condannato a morte od a
molti anni di prigionia. Dissimulare questa credenza  ad  un  padre!  lusingarlo
colla dimostrazione di fondate speranze di prossima libertà! non  prorompere  in
lagrime abbracciandolo, parlandogli della madre, de' fratelli e  delle  sorelle,
ch'io pensava non riveder più mai sulla terra! pregarlo con voce non  angosciata
che venisse ancora a vedermi, se poteva! Nulla mai mi costò tanta violenza. Egli
si divise consolatissimo  da  me,  ed  io  tornai  nel  mio  carcere  col  cuore
straziato. Appena mi vidi solo, sperai di potermi  sollevare  abbandonandomi  al
pianto. Questo sollievo mi mancò.  Io  scoppiava  in  singhiozzi,  e  non  potea
versare una lagrima. La disgrazia di non piangere è una delle  più  crudeli  ne'
sommi dolori, ed oh quante volte l'ho provata! Mi prese una febbre  ardente  con
fortissimo mal di capo. Non inghiottii un cucchiaio  di  minestra  in  tutto  il
giorno. "Fosse questa una malattia mortale" diceva io "che  abbreviasse  i  miei
martirii!" Stolta e codarda brama! Iddio non l'esaudì, ed or ne lo ringrazio.  E
ne lo ringrazio, non solo perché dopo dieci anni di carcere ho riveduto  la  mia
cara famiglia e posso dirmi felice;  ma  anche  perché  i  patimenti  aggiungono
valore all'uomo, e voglio sperare che non sieno stati inutili per me.

CAPO XV

Due giorni appresso, mio padre tornò. Io aveva dormito bene  la  notte,  ed  era
senza febbre. Mi ricomposi a disinvolte e liete maniere, e niuno dubitò  di  ciò
che il mio cuore avesse sofferto e soffrisse ancora. «Confido» mi disse il padre
«che fra pochi giorni sarai mandato a Torino.  Già  t'abbiamo  apparecchiata  la
stanza, e t'aspettiamo con grande ansietà. I miei doveri d'impiego mi  obbligano
a ripartire. Procura, te ne prego,  procura  di  raggiungermi  presto.»  La  sua
tenera e melanconica amorevolezza mi squarciava l'anima. Il  fingere  mi  pareva
comandato da pietà, eppure io fingeva con una specie  di  rimorso.  Non  sarebbe
stata cosa più degna di mio padre e di me, s'io gli avessi detto: "Probabilmente
non ci vedremo più in questo mondo!  Separiamoci  da  uomini,  senza  mormorare,
senza gemere; e ch'io oda pronunciare sul  mio  capo  la  paterna  benedizione"?
Questo linguaggio mi sarebbe mille volte più  piaciuto  della  finzione.  Ma  io
guardava gli occhi di quel venerando vecchio, i suoi lineamenti,  i  suoi  grigi
capelli, e non mi sembrava che l'infelice potesse  aver  la  forza  d'udire  tai
cose. E se per non  volerlo  ingannare  io  l'avessi  veduto  abbandonarsi  alla
disperazione, forse svenire, forse (orribile  idea!)  essere  colpito  da  morte
nelle mie braccia? Non potei dirgli il vero, né lasciarglielo tralucere! La  mia
foggiata serenità lo illuse pienamente. Ci dividemmo senza lagrime. Ma ritornato
nel carcere, fui angosciato come l'altra volta,  o  più  fieramente  ancora;  ed
invano pure invocai il dono del pianto. Rassegnarmi a tutto l'orrore d'una lunga
prigionia,  rassegnarmi  al  patibolo,  era  nella  mia  forza.  Ma  rassegnarmi
all'immenso dolore che ne avrebbero provato padre, madre,  fratelli  e  sorelle,
ah! questo era quello a cui la mia forza non  bastava.  Mi  prostrai  allora  in
terra con un fervore quale io non aveva mai avuto si forte, e pronunciai  questa
preghiera:  «Mio  Dio,  accetto  tutto  dalla  tua  mano;  ma   invigorisci   sì
prodigiosamente i cuori a cui io era necessario, ch'io cessi d'esser loro  tale,
e la vita d'alcun di loro non abbia perciò ad abbreviarsi pur d'un  giorno!»  Oh
beneficio della preghiera! Stetti più ore colla mente elevata a Dio,  e  la  mia
fiducia cresceva a misura ch'io meditava sulla  bontà  divina,  a  misura  ch'io
meditava sulla grandezza dell'anima umana, quando esce  del  suo  egoismo  e  si
sforza di non aver più altro volere che il volere  dell'infinita  Sapienza.  Sì,
ciò si può! ciò è il dovere dell'uomo! La ragione, che è  la  voce  di  Dio,  la
ragione ne dice che bisogna tutto sacrificare alla virtù. E sarebbe compiuto  il
sacrificio di cui siamo debitori alla virtù, se nei casi più dolorosi luttassimo
contro il volere di Colui che d'ogni virtù è il principio? Quando il patibolo  o
qualunque altro martirio è inevitabile, il temerlo codardamente,  il  non  saper
muovere ad esso benedicendo il Signore, è segno di  miserabile  degradazione  od
ignoranza.  Ed  è  non  solamente  d'uopo  consentire  alla  propria  morte,  ma
all'afflizione che ne proveranno i nostri cari. Altro non lice se non  dimandare
che Dio la temperi, che Dio tutti ci regga: tal preghiera è sempre esaudita.

CAPO XVI

Volsero alcuni giorni, ed io era nel medesimo stato; cioè in una mestizia dolce,
piena  di  pace  e  di  pensieri  religiosi.  Pareami  d'aver  trionfato  d'ogni
debolezza, e di  non  essere  più  accessibile  ad  alcuna  inquietudine.  Folle
illusione! L'uomo dee tendere alla perfetta costanza, ma non vi giunge mai sulla
terra. Che mi turbò? La vista d'un amico infelice; la vista del mio buon  Piero,
che passò pochi palmi di distanza da  me,  sulla  galleria,  mentr'io  era  alla
finestra. L'aveano tratto dal suo covile per condurlo  alle  carceri  criminali.
Egli, e coloro che l'accompagnavano, passarono  così  presto,  che  appena  ebbi
campo a riconoscerlo, a vedere un suo cenno di  saluto,  ed  a  restituirglielo.
Povero giovane! Nel fiore dell'età, con un ingegno di splendide speranze, con un
carattere onesto, delicato, amantissimo, fatto per  godere  gloriosamente  della
vita, precipitato in  prigione  per  cose  politiche,  in  tempo  da  non  poter
certamente evitare i più severi fulmini della legge! Mi prese tal compassione di
lui, tale affanno di non poterlo redimere,  di  non  poterlo  almeno  confortare
colla mia presenza e colle mie parole, che nulla valeva a rendermi  un  poco  di
calma. Io sapeva quant'egli amasse sua madre, suo fratello, le sue  sorelle,  il
cognato, i nipotini; quant'egli agognasse contribuire alla loro felicità, quanto
fosse riamato da tutti  quei  cari  oggetti.  Io  sentiva  qual  dovesse  essere
l'afflizione di ciascun di loro a tanta  disgrazia.  Non  vi  sono  termini  per
esprimere la smania che allora s'impadroni di me. E questa  smania  si  prolungò
cotanto, ch'io disperava di più sedarla. Anche questo spavento era un'illusione.
O afflitti, che vi credete preda d'un ineluttabile,  orrendo,  sempre  crescente
dolore, pazientate alquanto, e  vi  disingannerete!  Né  somma  pace,  né  somma
inquietudine possono durare quaggiù. Conviene persuadersi di questa verità,  per
non insuperbire nelle ore felici e non avvilirsi in quelle del perturbamento.  A
lunga smania successe stanchezza ed apatia. Ma l'apatia neppure non è  durevole,
e temetti di dover,  quindi  in  poi,  alternare  senza  rifugio  tra  questa  e
l'opposto eccesso. Inorridii alla prospettiva  di  simile  avvenire,  e  ricorsi
anche questa volta ardentemente alla preghiera. Io dimandai a Dio d'assistere il
mio misero Pietro come me, e la sua casa come la mia. Solo ripetendo questi voti
potei veramente tranquillarmi.

CAPO XVII

Ma quando l'animo era quetato io rifletteva alle smanie sofferte,  e  adirandomi
della mia debolezza, studiava il modo di guarirne. Giovommi a  tal  uopo  questo
espediente. Ogni mattina mia prima occupazione, dopo breve omaggio al  Creatore,
era il fare una diligente e coraggiosa rassegna d'ogni possibile evento  atto  a
commuovermi. Su ciascuno fermava vivamente la fantasia, e mi vi preparava: dalle
più care visite, fino alla visita del carnefice, io le immaginava tutte.  Questo
tristo esercizio sembrava per alcuni  giorni  incomportevole,  ma  volli  essere
perseverante, ed in breve ne fui contento. Al primo dell'anno  (1821)  il  conte
Luigi Porro ottenne di venirmi a vedere. La tenera e calda amicizia  ch'era  tra
noi, il bisogno che avevamo di dirci tante  cose,  l'impedimento  che  a  questa
effusione era posto dalla presenza d'un attuario, il troppo breve tempo  che  ci
fu dato di stare insieme, i  sinistri  presentimenti  che  mi  angosciavano,  lo
sforzo che facevamo egli ed io di parer  tranquilli,  tutto  ciò  parea  dovermi
mettere una delle più terribili tempeste nel cuore. Separato da quel caro amico,
mi sentii in calma; intenerito, ma in calma. Tale è l'efficacia  del  premunirsi
contro le forti emozioni. Il mio impegno di acquistare una  calma  costante  non
movea tanto dal desiderio di diminuire la mia infelicità, quanto  dall'apparirmi
brutta, indegna dell'uomo, l'inquietudine. Una mente agitata  non  ragiona  più:
avvolta fra un turbine irresistibile  d'idee  esagerate,  si  forma  una  logica
sciocca, furibonda,  maligna:  è  in  uno  stato  assolutamente  antifilosofico,
anticristiano. S'io fossi predicatore,  insisterei  spesso  sulla  necessità  di
bandire l'inquietudine: non si può esser buono ad altro patto. Com'era  pacifico
con sé e cogli altri  Colui  che  dobbiamo  tutti  imitare!  Non  v'è  grandezza
d'animo, non v'è giustizia senza idee moderate, senza uno spirito tendente più a
sorridere che ad adirarsi degli avvenimenti di questa breve vita. L'ira  non  ha
qualche valore se non nel caso rarissimo che sia presumibile d'umiliare con essa
un malvagio e di ritrarlo dall'iniquità. Forse si dànno smanie di natura diversa
da quelle ch'io conosco, e meno condannevoli. Ma quella che m'aveva  fin  allora
fatto suo schiavo, non era una smania di pura afflizione: vi si mescolava sempre
molto odio, molto prurito di maledire, di  dipingermi  la  società  o  questi  o
quegli individui coi colori più esecrabili. Malattia epidemica nel mondo! L'uomo
si reputa migliore, abborrendo gli altri. Pare che tutti  gli  amici  si  dicano
all'orecchio: «Amiamoci solamente fra noi; gridando che tutti  sono  ciurmaglia,
sembrerà che siamo semidei». Curioso fatto, che  il  vivere  arrabbiato  piaccia
tanto! Vi si pone una specie d'eroismo. Se l'oggetto contro cui ieri si  fremeva
è morto, se ne cerca subito un altro. «Di chi mi  lamenterò  oggi?  chi  odierò?
sarebbe mai  quello  il  mostro?...  Oh  gioia!  l'ho  trovato.  Venite,  amici,
laceriamolo!» Così va il mondo: e, senza lacerarlo, posso ben dire che va male.

CAPO XVIII

Non v'era  molta  malignità  nel  lamentarmi  dell'orridezza  della  stanza  ove
m'aveano posto. Per buona ventura,  restò  vota  una  migliore,  e  mi  si  fece
l'amabile sorpresa di darmela. Non avrei io dovuto esser  contentissimo  a  tale
annunzio?  Eppure...  Tant'è;  non  ho  potuto   pensare   a   Maddalena   senza
rincrescimento. Che fanciullaggine! affezionarsi sempre a  qualche  cosa,  anche
con motivi, per verità, non molto forti! Uscendo di  quella  cameraccia,  voltai
indietro lo sguardo, verso la parete alla quale io m'era sì sovente  appoggiato,
mentre, forse un palmo più in là, vi s'appoggiava dal  lato  opposto  la  misera
peccatrice. Avrei voluto sentire ancora una volta que' due patetici versi:

Chi rende alla meschina la sua felicità?

Vano desiderio! Ecco una separazione di  più  nella  mia  sciagurata  vita.  Non
voglio parlarne lungamente, per non far ridere di me; ma sarei  un  ipocrita  se
non confessassi che ne fui mesto per più giorni. Nell'andarmene, salutai due de'
poveri ladri, miei vicini, ch'erano alla finestra. Il caporione  non  v'era,  ma
avvertito dai compagni v'accorse, e mi risalutò  anch'egli.  Si  mise  quindi  a
cantarellare l'aria: «Chi rende alla meschina...». Voleva egli burlarsi  di  me?
Scommetto che se  facessi  questa  dimanda  a  cinquanta  persone,  quarantanove
risponderebbero: «Sì». Ebbene, ad onta di tanta pluralità  di  voti,  inclino  a
credere che il buon ladro intendea di farmi una gentilezza. Io la ricevetti come
tale, e gliene fui grato, e gli diedi ancora un'occhiata: ed egli, sporgendo  il
braccio fuori de' ferri col berretto in mano,  faceami  ancor  cenno  allorch'io
voltava per discendere la scala. Quando fui nel cortile, ebbi una  consolazione.
V'era il mutolino sotto il portico. Mi vide,  mi  riconobbe,  e  volea  corrermi
incontro. La moglie del custode, chi sa  perché?  l'afferrò  pel  collare  e  lo
cacciò in casa. Mi spiacque di non poterlo abbracciare, ma i saltetti ch'ei fece
per correre a me mi commossero deliziosamente. È cosa sì dolce  l'essere  amato!
Era giornata di grandi avventure.  Due  passi  più  in  là,  mossi  vicino  alla
finestra della stanza già mia, e nella quale  ora  stava  Gioia.  «Buon  giorno,
Melchiorre!» gli dissi passando. Alzò il capo, e balzando verso me, gridò: «Buon
giorno, Silvio!» Ahi! non mi fu dato di fermarmi un  istante.  Voltai  sotto  il
portone, salii una scaletta, e venni posto in una cameruccia pulita, al di sopra
di quella di Gioia. Fatto portare il letto, e lasciato solo dai  secondini,  mio
primo affare fu di visitare i muri. V'erano alcune memorie  scritte,  quali  con
matita, quali con carbone, quali con punta incisiva. Trovai graziose due  strofe
francesi, che or m'incresce di non avere imparate a memoria.  Erano  firmate  Le
duc de Normandie. Presi a cantarle, adattandovi alla  meglio  l'aria  della  mia
povera Maddalena: ma ecco una voce vicinissima che  le  ricanta  con  altr'aria.
Com'ebbe  finito,  gli  gridai:  «Bravo!».  Ed  egli  mi   salutò   gentilmente,
chiedendomi s'io era Francese. «No; sono Italiano, e mi chiamo Silvio  Pellico.»
«L'autore della Francesca da Rimini?» «Appunto.» E qui un gentile complimento, e
le naturali condoglianze sentendo ch'io fossi in carcere.  Mi  dimandò  di  qual
parte d'Italia fossi nativo. «Di Piemonte,» dissi «sono Saluzzese.» E qui  nuovo
gentile complimento sul carattere e sull'ingegno de' Piemontesi,  e  particolare
menzione de' valentuomini Saluzzesi, e in ispecie di Bodoni. Quelle  poche  lodi
erano fine, come si fanno da persona di buona educazione. «Or mi sia lecito» gli
dissi  «di  chiedere  a  voi,  signore,  chi  siete.»  «Avete  cantata  una  mia
canzoncina.» «Quelle due belle strofette che stanno sul muro, sono vostre?» «Sì,
signore.» «Voi siete dunque...» «L'infelice duca di Normandia.»

CAPO XIX

Il custode passava sotto le nostre finestre, e ci fece  tacere  "Quale  infelice
duca di Normandia?" andava io ruminando. "Non è questo il titolo che  davasi  al
figlio di Luigi XVI? Ma quel povero fanciullo è indubitatamente  morto.  Ebbene,
il mio vicino sarà uno dei disgraziati che si sono provati a farlo rivivere. Già
parecchi si spacciarono per Luigi XVII, e furono  riconosciuti  impostori:  qual
maggior credenza dovrebbe questi ottenere?" Sebbene  io  cercassi  di  stare  in
dubbio,  un'invincibile  incredulità  prevaleva  in  me,  ed  ognor  continuò  a
prevalere.  Nondimeno  determinai  di  non  mortificare  l'infelice,   qualunque
frottola fosse per raccontarmi. Pochi istanti dappoi, ricominciò a cantare, indi
ripigliammo la conversazione. Alla mia dimanda sull'esser suo,  rispose  ch'egli
era appunto Luigi XVII, e si diede a declamare con forza contro Luigi XVIII, suo
zio, usurpatore de' suoi diritti. «Ma questi diritti, come non li faceste valere
al tempo della Ristorazione?» «Io  mi  trovava  allora  mortalmente  ammalato  a
Bologna. Appena risanato, volai a Parigi, mi presentai  alle  Alte  Potenze,  ma
quel ch'era fatto era fatto:  l'iniquo  mio  zio  non  volle  riconoscermi;  mia
sorella s'unì a lui per opprimermi. Il solo buon principe di Condé  m'accolse  a
braccia aperte, ma la sua amicizia nulla poteva. Una sera, per le vie di Parigi,
fui assalito da sicarii armati di pugnali, ed a  stento  mi  sottrassi  a'  loro
colpi. Dopo aver vagato qualche tempo in  Normandia,  tornai  in  Italia,  e  mi
fermai a Modena. Di  lì,  scrivendo  incessantemente  ai  monarchi  d'Europa,  e
particolarmente  all'imperatore  Alessandro,  che  mi  rispondea  colla  massima
gentilezza,  io  non  disperava  d'ottenere  finalmente  giustizia,  o  se,  per
politica, voleano sacrificare i miei diritti al trono di Francia, che almeno  mi
s'assegnasse un decente appannaggio. Venni arrestato, condotto  ai  confini  del
ducato di Modena, e consegnato al Governo austriaco. Or, da otto mesi, sono  qui
sepolto, e Dio sa quando uscirò!» Non prestai fede a tutte  le  sue  parole.  Ma
ch'ei fosse lì sepolto era una verità,  e  m'ispirò  una  viva  compassione.  Lo
pregai di raccontarmi in compendio la sua vita. Mi disse con minutezza  tutti  i
particolari ch'io  già  sapeva  intorno  Luigi  XVII,  quando  lo  misero  collo
scellerato Simon, calzolaio; quando lo indussero ad attestare un'infame calunnia
contro i costumi della povera regina sua madre, ecc.,  ecc.  E  finalmente,  che
essendo in carcere, venne gente una notte a prenderlo; un fanciullo stupido  per
nome Mathurin fu posto in sua vece, ed ei fu trafugato. V'era nella  strada  una
carrozza a quattro cavalli, ed uno de' cavalli era una macchina di legno,  nella
quale ei fu celato. Andarono felicemente  al  Reno,  e  passati  i  confini,  il
generale... (mi disse il nome, ma non me lo ricordo)  che  l'avea  liberato  gli
fece per qualche tempo da educatore, da padre; lo mandò  o  condusse  quindi  in
America. Là il giovine re senza regno ebbe molte peripezie,  patì  la  fame  ne'
deserti, militò, visse onorato e felice  alla  corte  del  re  del  Brasile,  fu
calunniato, perseguitato, costretto a fuggire. Tornò in  Europa  in  sul  finire
dell'impero napoleonico; fu tenuto prigione a Napoli  da  Giovacchino  Murat,  e
quando si rivide libero ed in procinto di reclamare  il  trono  di  Francia,  lo
colpì a Bologna quella  funesta  malattia,  durante  la  quale  Luigi  XVIII  fu
incoronato.

CAPO XX

Ei raccontava questa storia con una sorprendente aria di verità. Io, non potendo
crederlo, pur l'ammirava. Tutti i fatti della  rivoluzione  francese  gli  erano
notissimi; ne  parlava  con  molta  spontanea  eloquenza,  e  riferiva  ad  ogni
proposito aneddoti curiosissimi. V'era alcun che di soldatesco nel suo dire,  ma
senza mancare di quella eleganza ch'è data  dall'uso  della  fina  società.  «Mi
permetterete» gli dissi «ch'io vi tratti alla buona, ch'io non vi  dia  titoli.»
«Questo è ciò che desidero» rispose. «Dalla sventura  ho  almeno  tratto  questo
guadagno, che so sorridere di tutte le vanità.  V'assicuro  che  mi  pregio  più
d'esser uomo che d'esser re.» Mattina e sera, conversavamo  lungamente  insieme;
e, ad onta di ciò ch'io reputava esser commedia in lui, l'anima  sua  mi  pareva
buona, candida, desiderosa  d'ogni  bene  morale.  Più  volte  fui  per  dirgli:
"Perdonate, io vorrei credere che foste Luigi XVII, ma sinceramente vi  confesso
che  la  persuasione  contraria  domina  in  me,  abbiate  tanta  franchezza  da
rinunciare a questa finzione". E ruminava tra me una bella predicuccia da fargli
sulla vanità d'ogni bugia, anche delle bugie che sembrano innocue. Di giorno  in
giorno differiva; sempre aspettava che l'intimità  nostra  crescesse  ancora  di
qualche grado, e mai non ebbi ardire d'eseguire il mio intento. Quando  rifletto
a questa mancanza d'ardire, talvolta la scuso come urbanità  necessaria,  onesto
timore d'affliggere, e che so io. Ma queste  scuse  non  m'accontentano,  e  non
posso dissimulare che sarei più soddisfatto di me se non  mi  fossi  tenuta  nel
gozzo l'ideata  predicuccia.  Fingere  di  prestar  fede  ad  una  impostura,  è
pusillanimità: parmi che nol farei più. Sì, pusillanimità! Certo, che per quanto
s'involva in delicati preamboli, è aspra cosa il dire ad uno: «Non vi credo». Ei
si  sdegnerà,  perderemo  il  piacere  della  sua  amicizia,  ci  colmerà  forse
d'ingiurie. Ma ogni perdita è più onorevole del mentire. E forse il  disgraziato
che ci colmerebbe d'ingiurie vedendo  che  una  sua  impostura  non  è  creduta,
ammirerebbe poscia in secreto la nostra  sincerità,  e  gli  sarebbe  motivo  di
riflessioni che il ritrarrebbero  a  miglior  via.  I  secondini  inclinavano  a
credere ch'ei fosse veramente Luigi XVII, ed avendo già veduto  tante  mutazioni
di fortune, non disperavano che costui non fosse  per  ascendere  un  giorno  al
trono di Francia e si ricordasse  della  loro  devotissima  servitù.  Tranne  il
favorire la sua fuga,  gli  usavano  tutti  i  riguardi  ch'ei  desiderava.  Fui
debitore a ciò, dell'onore  di  vedere  il  gran  personaggio.  Era  di  statura
mediocre, dai quaranta ai quarantacinque anni, alquanto pingue, e di  fisionomia
propriamente borbonica. Egli è verosimile  che  un'accidentale  somiglianza  coi
Borboni l'abbia indotto a rappresentare quella trista parte.

CAPO XXI

D'un altro indegno rispetto umano bisogna ch'io m'accusi. Il mio vicino non  era
ateo, ed anzi parlava  talvolta  dei  sentimenti  religiosi  come  uomo  che  li
apprezza  e  non  v'è  straniero;  ma   serbava   tuttavia   molte   prevenzioni
irragionevoli contro il Cristianesimo, il quale ei guardava meno nella sua  vera
essenza, che nei suoi abusi. La superficiale filosofia che in Francia precedette
e seguì la rivoluzione, l'aveva abbagliato. Gli pareva che si potesse adorar Dio
con maggior purezza, che secondo la  religione  del  Vangelo.  Senza  aver  gran
cognizione di Condillac  e  di  Tracy,  li  venerava  come  sommi  pensatori,  e
s'immaginava che quest'ultimo avesse dato il compimento  a  tutte  le  possibili
indagini metafisiche. Io che aveva spinto più oltre i miei studi filosofici, che
sentiva la debolezza della dottrina sperimentale,  che  conosceva  i  grossolani
errori di critica con cui il secolo di Voltaire aveva preso a voler diffamare il
Cristianesimo; io che avea letto Guénée ed altri valenti smascheratori di quella
falsa critica; io ch'era persuaso non potersi con rigore di logica ammettere Dio
e ricusare il Vangelo; io che trovava tanto volgar cosa il seguire  la  corrente
delle opinioni anticristiane  e  non  sapersi  elevare  a  conoscere  quanto  il
cattolicismo, non veduto in caricatura, sia semplice e sublime; io ebbi la viltà
di sacrificare al rispetto umano. Le facezie del  mio  vicino  mi  confondevano,
sebbene non potesse sfuggirmi la loro leggerezza. Dissimulai  la  mia  credenza,
esitai, riflettei se fosse o no  tempestivo  il  contraddire,  mi  dissi  ch'era
inutile, e volli persuadermi d'essere giustificato. Viltà! viltà! Che importa il
baldanzoso vigore d'opinioni accreditate, ma senza fondamento? È  vero  che  uno
zelo intempestivo è indiscrezione, e può maggiormente irritare chi non crede. Ma
il confessare con franchezza, e modestia ad un  tempo,  ciò  che  fermamente  si
tiene per importante verità, il confessarlo  anche  laddove  non  è  presumibile
d'essere approvato, né d'evitare un poco di scherno, egli è  preciso  dovere.  E
siffatta   nobile   confessione   può   sempre   adempirsi,    senza    prendere
inopportunamente il carattere  di  missionario.  Egli  è  dovere  di  confessare
un'importante verità in ogni tempo, perocché se non è sperabile che venga subito
riconosciuta, può pure dare tal preparamento all'anima altrui, il quale  produca
un giorno maggiore imparzialità di giudizi ed il conseguente trionfo della luce.

CAPO XXII

Stetti in quella stanza un mese e qualche dì. La notte dai 18 ai 19 di  febbraio
(1821) sono svegliato da romore di catenacci e di chiavi; vedo entrare  parecchi
uomini con lanterna: la prima idea che  mi  si  presentò,  fu  che  venissero  a
scannarmi. Ma  mentre  io  guardava  perplesso  quelle  figure,  ecco  avanzarsi
gentilmente il conte B., il quale mi dice ch'io abbia la compiacenza di vestirmi
presto per partire. Quest'annunzio mi sorprese, ed ebbi la follia di sperare che
mi si conducesse ai confini del Piemonte. Possibile  che  sì  gran  tempesta  si
dileguasse così? Io racquisterei ancora la dolce libertà?  Io  rivedrei  i  miei
carissimi  genitori,  i  fratelli,  le  sorelle?  Questi  lusinghevoli  pensieri
m'agitarono brevi istanti. Mi vestii  con  grande  celerità,  e  seguii  i  miei
accompagnatori senza pur poter salutare ancora il mio  vicino.  Mi  pare  d'aver
udito la sua voce, e m'increbbe di non potergli rispondere. «Dove si va?»  dissi
al conte, montando in carrozza con lui e con un uffiziale di  gendarmeria.  «Non
posso significarglielo finché non siamo un miglio al di là di Milano.» Vidi  che
la carrozza non andava verso porta Vercellina, e le mie speranze furono svanite!
Tacqui. Era una bellissima notte con lume di luna. Io guardava quelle care  vie,
nelle quali io aveva passeggiato tanti anni così  felice;  quelle  case,  quelle
chiese.  Tutto  mi  rinnovava  mille  soavi  rimembranze.  Oh  corsia  di  porta
Orientale! Oh pubblici giardini, ov'io avea tante volte vagato con Foscolo,  con
Monti, con Lodovico di  Breme,  con  Pietro  Borsieri,  con  Porro  e  co'  suoi
figliuoli, con tanti altri diletti mortali, conversando in sì gran  pienezza  di
vita e di speranze! Oh come nel dirmi ch'io vi vedeva  per  l'ultima  volta,  oh
come al vostro rapido fuggire a' miei  sguardi,  io  sentiva  d'avervi  amato  e
d'amarvi! Quando fummo usciti dalla porta,  tirai  alquanto  il  cappello  sugli
occhi, e piansi, non osservato. Lasciai passare più d'un miglio,  poi  dissi  al
conte B.: «Suppongo che si vada a Verona.» «Si va più in là;» rispose «andiamo a
Venezia, ove debbo consegnarla ad  una  Commissione  speciale.»  Viaggiammo  per
posta senza fermarci, e giungemmo  il  20  febbraio  a  Venezia.  Nel  settembre
dell'anno precedente, un mese prima che m'arrestassero, io  era  a  Venezia,  ed
aveva fatto un pranzo in numerosa e lietissima compagnia all'albergo della Luna.
Cosa strana! Sono appunto dal conte e dal gendarme  condotto  all'albergo  della
Luna. Un cameriere strabiliò vedendomi, ed accorgendosi (sebbene il gendarme e i
due satelliti, che faceano figura di servitori, fossero  travestiti)  ch'io  era
nelle mani  della  forza.  Mi  rallegrai  di  quest'incontro,  persuaso  che  il
cameriere parlerebbe del mio arrivo a più d'uno. Pranzammo, indi fui condotto al
palazzo del Doge, ove ora sono i tribunali. Passai sotto quei cari portici delle
Procuratie ed innanzi  al  caffè  Florian,  ov'io  avea  goduto  sì  belle  sere
nell'autunno trascorso:  non  m'imbattei  in  alcuno  de'  miei  conoscenti.  Si
traversa la piazzetta... E su  quella  piazzetta,  nel  settembre  addietro,  un
mendico mi avea detto queste singolari parole «Si  vede  ch'ella  è  forestiero,
signore; ma io non capisco com'ella e tutti i forestieri ammirino questo  luogo:
per me è un luogo di disgrazia, e vi passo unicamente per necessità».  «Vi  sarà
qui accaduto qualche malanno?» «Sì, signore; un malanno orribile,  e  non  a  me
solo. Iddio la scampi, signore, Iddio la scampi!» E se  n'andò  in  fretta.  Or,
ripassando io colà, era impossibile  che  non  mi  sovvenissero  le  parole  del
mendico. E fu ancora su quella piazzetta, che l'anno seguente io ascesi il palco
donde intesi leggermi la sentenza di morte e la commutazione di questa  pena  in
quindici anni di carcere duro! S'io fossi testa un po' delirante di  misticismo,
farei gran caso di quel mendico, predicentemi così energicamente esser quello un
luogo di disgrazia. Io non noto questo fatto se non come uno  strano  accidente.
Salimmo al palazzo;  il  conte  B.  parlò  co'  giudici,  indi  mi  consegnò  al
carceriere, e, congedandosi da me, m'abbracciò intenerito.

CAPO XXIII

Seguii in silenzio  il  carceriere.  Dopo  aver  traversato  parecchi  ànditi  e
parecchie sale, arrivammo ad una scaletta che ci condusse sotto i Piombi, famose
prigioni di Stato fin dal tempo della Repubblica Veneta. Ivi il carceriere prese
registro del mio nome, indi mi chiuse nella stanza  destinatami.  I  così  detti
Piombi sono la parte superiore del  già  palazzo  del  Doge,  coperta  tutta  di
piombo. La mia stanza avea una gran finestra, con enorme inferriata, e  guardava
sul tetto parimente di piombo della chiesa di San Marco. Al di là della  chiesa,
io vedeva in lontananza il termine della piazza, e da tutte parti un'infinità di
cupole e di campanili. Il  gigantesco  campanile  di  San  Marco  era  solamente
separato da me dalla lunghezza della chiesa, ed io udiva coloro che in  cima  di
esso parlavano alquanto forte. Vedevasi anche, al lato  sinistro  della  chiesa,
una porzione del gran cortile del  palazzo  ed  una  delle  entrate.  In  quella
porzione di cortile sta un pozzo pubblico, ed ivi continuamente veniva  gente  a
cavare acqua. Ma la mia  prigione  essendo  così  alta,  gli  uomini  laggiù  mi
parevano fanciulli, ed io non discerneva le loro parole se non quando gridavano.
Io mi trovava assai più solitario che non era nelle carceri di Milano. Ne' primi
giorni le cure del processo criminale che dalla Commissione speciale  mi  veniva
intentato m'attristarono alquanto, e vi s'aggiungea forse quel penoso sentimento
di maggior solitudine. Inoltre io era più lontano dalla mia famiglia, e non avea
più di essa notizie. Le facce nuove ch'io vedeva  non  m'erano  antipatiche,  ma
serbavano una serietà quasi spaventata. La fama aveva esagerato  loro  le  trame
dei Milanesi e del resto d'Italia per l'indipendenza, e dubitavano  ch'io  fossi
uno dei più imperdonabili motori di  quel  delirio.  La  mia  piccola  celebrità
letteraria era nota al custode, a sua moglie, alla figlia, ai due figli  maschi,
e persino ai due secondini: i quali tutti, chi sa che non s'immaginassero che un
autore di tragedie fosse una specie di  mago?  Erano  serii,  diffidenti,  avidi
ch'io loro dessi maggior contezza di me, ma pieni di garbo. Dopo i primi  giorni
si mansuefecero tutti, e li trovai buoni. La moglie era quella che più manteneva
il contegno ed il carattere di  carceriere.  Era  una  donna  di  viso  asciutto
asciutto, verso i quarant'anni, di parole asciutte asciutte, non dante il minimo
segno d'essere capace di qualche benevolenza ad altri che ai suoi  figli.  Solea
portarmi il caffè, mattina e dopo pranzo, acqua, biancheria, ecc.  La  seguivano
ordinariamente sua figlia, fanciulla di quindici anni, non bella ma  di  pietosi
sguardi, e i due figliuoli, uno di tredici,  l'altro  di  dieci.  Si  ritiravano
quindi colla madre, ed i tre  giovani  sembianti  si  rivoltavano  dolcemente  a
guardarmi chiudendo la porta. Il custode non veniva da me se non quando aveva da
condurmi nella sala ove si adunava la Commissione per  esaminarmi.  I  secondini
venivano poco perché attendevano alle prigioni di polizia, collocate ad un piano
inferiore, ov'erano sempre molti ladri. Uno di que' secondini era un vecchio  di
più di settant'anni, ma atto ancora a quella faticosa vita di correre sempre  su
e giù per le scale ai diversi carceri. L'altro era un giovinotto di ventiquattro
o venticinque anni, più voglioso di raccontare i suoi amori che di badare al suo
servizio,

CAPO XXIV

Ah  sì!  le  cure  d'un  processo  criminale  sono  orribili  per  un  prevenuto
d'inimicizia allo Stato! Quanto timore di nuocere altrui! quanta  difficoltà  di
lottare contro tante accuse, contro tanti sospetti! quanta  verosimiglianza  che
tutto non s'intrichi sempre più funestamente, se il processo non termina presto,
se nuovi arresti vengono fatti,  se  nuove  imprudenze  si  scoprono,  anche  di
persone non conosciute ma della fazione medesima! Ho fermato di non  parlare  di
politica,  e  bisogna  quindi  ch'io  sopprima  ogni  relazione  concernente  il
processo. Solo dirò che spesso, dopo essere stato lunghe ore  al  costituto,  io
tornava nella mia stanza così esacerbato, così fremente, che mi sarei ucciso, se
la voce della religione e la memoria de' cari parenti non m'avessero  contenuto.
L'abitudine di tranquillità, che già mi pareva a Milano d'avere acquistato,  era
disfatta. Per alcuni giorni disperai di ripigliarla, e furono giorni  d'inferno.
Allora cessai di pregare, dubitai della giustizia di Dio, maledissi agli  uomini
ed all'universo, e rivolsi nella mente tutti i possibili  sofismi  sulla  vanità
della  virtù.  L'uomo  infelice  ed  arrabbiato  è  tremendamente  ingegnoso   a
calunniare i suoi simili e  lo  stesso  Creatore.  L'ira  è  più  immorale,  più
scellerata che generalmente non si pensa.  Siccome  non  si  può  ruggire  dalla
mattina alla sera, per settimane, e l'anima, la più dominata dal furore,  ha  di
necessità i suoi intervalli di riposo,  quegli  intervalli  sogliono  risentirsi
dell'immoralità che li ha preceduti. Allora sembra d'essere in pace,  ma  è  una
pace maligna, irreligiosa; un sorriso selvaggio, senza carità, senza dignità; un
umore di disordine, d'ebbrezza, di scherno. In simile stato io cantava  per  ore
intere con una specie d'allegrezza  affatto  sterile  di  buoni  sentimenti;  io
celiava con tutti quelli che entravano nella  mia  stanza;  io  mi  sforzava  di
considerare tutte le cose con una sapienza  volgare,  la  sapienza  de'  cinici.
Quell'infame tempo durò poco: sei o sette giorni. La mia Bibbia  era  polverosa.
Uno de' ragazzi del custode, accarezzandomi, disse: «Dacché ella non  legge  più
quel libraccio, non ha più tanta melanconia, mi pare». «Ti pare?» gli  dissi.  E
presa la Bibbia, ne tolsi col fazzoletto la polvere, e sbadatamente apertala, mi
caddero sotto gli occhi queste parole: «Et ait ad discipulos  suos:  Impossibile
est ut non veniant scandala; vae autem illi per quem veniunt! Utilius est  illi,
si lapis molaris imponatur circa collum eius et projiciatur  in  mare,  quam  ut
scandalizet unum de pusillis istis». Fui colpito di trovare  queste  parole,  ed
arrossii che quel ragazzo si fosse accorto, dalla polvere ch'ei  sopra  vedeavi,
ch'io più non leggeva la Bibbia, e ch'ei presumesse  ch'io  fossi  divenuto  più
amabile divenendo incurante di Dio. «Scapestratello!» gli  dissi  con  amorevole
rimprovero e dolendomi d'averlo scandalezzato. «Questo non è un libraccio, e  da
alcuni giorni che nol leggo, sto assai peggio. Quando tua madre ti  permette  di
stare un momento con me, m'industrio di cacciar via  il  mal  umore;  ma  se  tu
sapessi come questo mi vince, allorché son solo, allorché tu m'odi cantare  qual
forsennato!»

CAPO XXV

Il ragazzo era uscito; ed io provava un certo godimento di aver ripreso in  mano
la Bibbia; d'aver confessato ch'io stava peggio senza di lei.  Mi  parea  d'aver
dato  soddisfazione  ad  un  amico  generoso,  ingiustamente  offeso;  d'essermi
riconciliato con esso. «E  t'aveva  abbandonato,  mio  Dio?»  gridai.  «E  m'era
pervertito? Ed avea potuto credere che l'infame riso del cinismo convenisse alla
mia disperata situazione?»
 «E disse ai suoi discepoli: "È impossibile che non avvengano scandali; ma  guai
a colui per colpa del quale avvengono, Meglio sarebbe per lui che gli si legasse
una macina da mulino al collo e lo si gettasse in mare, piuttosto che  esser  di
scandalo a uno solo di questi fanciulli»» (Luca, XVII). Pronunciai queste parole
con una emozione indicibile; posi la Bibbia sopra una sedia,  m'inginocchiai  in
terra a leggere, e quell'io che sì difficilmente piango,  proruppi  in  lagrime.
Quelle lagrime erano mille volte più  dolci  di  ogni  allegrezza  bestiale.  Io
sentiva di nuovo Dio! lo amava! mi pentiva d'averlo oltraggiato degradandomi!  e
protestava di non separarmi mai più da lui, mai più! Oh come un ritorno  sincero
alla religione consola ed eleva lo spirito!  Lessi  e  piansi  più  d'un'ora;  e
m'alzai pieno di fiducia che Dio fosse con me, che Dio mi avesse perdonato  ogni
stoltezza. Allora le mie  sventure,  i  tormenti  del  processo,  il  verosimile
patibolo mi sembrarono poca cosa.  Esultai  di  soffrire,  poiché  ciò  mi  dava
occasione d'adempiere qualche dovere; poiché, soffrendo con rassegnato animo, io
obbediva al Signore La Bibbia, grazie al Cielo, io sapea leggerla. Non  era  più
il tempo ch'io la giudicava colla meschina  critica  di  Voltaire,  vilipendendo
espressioni, le quali non  sono  risibili  o  false  se  non  quando,  per  vera
ignoranza o per malizia, non si penetra nel loro senso.  M'appariva  chiaramente
quanto foss'ella  il  codice  della  santità,  e  quindi  della  verità;  quanto
l'offendersi per certe sue imperfezioni di  stile  fosse  cosa  infilosofica,  e
simile all'orgoglio di chi disprezza tutto ciò che non ha forme eleganti; quanto
fosse cosa assurda l'immaginare che una tal collezione di  libri  religiosamente
venerati avessero un principio non autentico;  quanto  la  superiorità  di  tali
scritture sul Corano e sulla  teologia  degl'Indi  fosse  innegabile.  Molti  ne
abusarono, molti vollero farne un codice d'ingiustizia, una sanzione  alle  loro
passioni scellerate. Ciò è vero; ma siamo sempre lì: di tutto puossi abusare:  e
quando mai l'abuso di cosa  ottima  dovrà  far  dire  ch'ella  è  in  se  stessa
malvagia? Gesù Cristo lo dichiarò: Tutta la legge ed  i  Profeti,  tutta  questa
collezione di sacri libri, si riduce al precetto d'amar Dio e gli uomini. E tali
scritture non sarebbero verità adatta a tutti i secoli? non sarebbero la  parola
sempre viva dello Spirito Santo? Ridestate in me queste riflessioni, rinnovai il
proponimento di coordinare alla religione  tutti  i  miei  pensieri  sulle  cose
umane,  tutte  le  mie  opinioni  sui  progressi  dell'incivilimento,   la   mia
filantropia, il mio amor patrio, tutti  gli  affetti  dell'anima  mia.  I  pochi
giorni ch'io aveva passati nel cinismo m'aveano molto contaminato. Ne sentii gli
effetti per lungo tempo, e dovetti faticare per vincerli. Ogni volta che  l'uomo
cede alquanto alla tentazione di snobilitare il suo intelletto, di  guardare  le
opere di Dio colla  infernal  lente  dello  scherno,  di  cessare  dal  benefico
esercizio della preghiera, il guasto ch'egli  opera  nella  propria  ragione  lo
dispone a facilmente ricadere.  Per  più  settimane  fui  assalito,  quasi  ogni
giorno, da forti pensieri d'incredulità; volsi tutta la potenza del mio  spirito
a respingerli.

CAPO XXVI

Quando questi combattimenti furono cessati, e sembrommi d'esser di  nuovo  fermo
nell'abitudine di onorar Dio in tutte le mie volontà, gustai per  qualche  tempo
una dolcissima pace. Gli esami, a cui sottoponeami ogni  due  o  tre  giorni  la
Commissione, per quanto fossero tormentosi,  non  mi  traevano  più  a  durevole
inquietudine. Io procurava, in quell'ardua posizione, di  non  mancare  a'  miei
doveri d'onestà e d'amicizia, e poi dicea: «Faccia Dio  il  resto».  Tornava  ad
essere esatto nella  pratica  di  prevedere  giornalmente  ogni  sorpresa,  ogni
emozione, ogni sventura supponibile; e siffatto  esercizio  giovavami  novamente
assai. La mia solitudine intanto s'accrebbe. I due figliuoli  del  custode,  che
dapprima mi faceano talvolta un po' di  compagnia,  furono  messi  a  scuola,  e
stando quindi pochissimo in casa, non venivano più da me. La madre e la sorella,
che allorché c'erano i ragazzi si fermavano anche spesso a favellar meco, or non
comparivano più se non per portarmi il caffè, e mi lasciavano. Per la  madre  mi
rincresceva poco, perché non  mostrava  animo  compassionevole.  Ma  la  figlia,
benché bruttina, avea certa soavità di sguardi e di parole che non erano per  me
senza pregio Quando questa mi portava il caffè e diceva:  «L'ho  fatto  io»,  mi
pareva sempre eccellente. Quando diceva: «L'ha fatto la mamma», era acqua calda.
Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche  che  venivano
sulla mia finestra, le  cibai  sontuosamente,  quelle  andarono  a  chiamare  un
esercito di compagne,  e  la  finestra  fu  piena  di  siffatti  animali.  Diedi
parimente retta ad un bel ragno che  tappezzava  una  delle  mie  pareti.  Cibai
questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò sino a venirmi sul letto  e  sulla
mano e prendere la preda dalle mie dita. Fossero quelli stati i soli insetti che
m'avessero  visitato!  Eravamo  ancora  in  primavera,  e  già  le  zanzare   si
moltiplicavano, posso proprio dire, spaventosamente. L'inverno era stato di  una
straordinaria dolcezza, e, dopo pochi venti in marzo, seguì  il  caldo.  È  cosa
indicibile, come s'infocò l'aria del covile  ch'io  abitava.  Situato  a  pretto
mezzogiorno, sotto un tetto di piombo, e colla finestra sul tetto di  S.  Marco,
pure di piombo, il cui riverbero era tremendo, io soffocava.  Io  non  avea  mai
avuto idea d'un calore sì opprimente. A tanto supplizio s'aggiungeano le zanzare
in tal moltitudine, che per quanto  io  m'agitassi  e  ne  struggessi  io  n'era
coperto; il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la  volta,  tutto
n'era coperto, e l'ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per
la finestra e facienti un ronzio infernale. Le punture di  quegli  animali  sono
dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, e si  dee
avere la perenne molestia di pensare a diminuirne il numero, si soffre veramente
assai e di corpo e di spirito. Allorché, veduto simile flagello, ne  conobbi  la
gravezza, e non potei conseguire che mi mutassero di carcere, qualche tentazione
di suicidio mi prese, e talvolta temei d'impazzare. Ma, grazie al  Cielo,  erano
smanie non durevoli, e la religione continuava a sostenermi. Essa mi  persuadeva
che l'uomo dee patire, e patire con forza; mi facea sentire  una  certa  voluttà
del dolore, la compiacenza di non soggiacere, di vincer tutto. Io dicea: "Quanto
più dolorosa mi si fa la vita, tanto meno sarò atterrito, se, giovane come  sono
mi vedrò condannato al supplicio. Senza questi patimenti preliminari sarei forse
morto codardamente. E poi, ho io tali  virtù  da  meritare  felicità?  Dove  son
esse?". Ed esaminandomi con giusto rigore, non trovava negli anni da me  vissuti
se non pochi tratti alquanto plausibili: tutto il resto erano  passioni  stolte,
idolatrie, orgogliosa e falsa virtù. "Ebbene" concludeva io "soffri, indegno! Se
gli uomini e  le  zanzare  t'uccidessero  anche  per  furore  e  senza  diritto,
riconoscili stromenti della giustizia divina, e taci!"

CAPO XXVII

Ha  l'uomo  bisogno  di  sforzo  per  umiliarsi  sinceramente?  per   ravvisarsi
peccatore? Non è egli vero, che in generale sprechiamo la gioventù in vanità, ed
invece d'adoprare le forze  tutte  ad  avanzare  nella  carriera  del  bene,  ne
adopriamo gran parte a degradarci? Vi saranno eccezioni, ma confesso che  queste
non riguardano la mia povera persona. E non ho alcun merito ad essere  scontento
di me: quando si vede una lucerna dar più fumo  che  fuoco,  non  vi  vuol  gran
sincerità a dire che non  arde  come  dovrebbe.  Sì;  senza  avvilimento,  senza
scrupoli  di  pinzochero,  guardandomi  con  tutta  la  tranquillità   possibile
d'intelletto, io mi scorgeva degno dei castighi di  Dio.  Una  voce  interna  mi
diceva: "Simili castighi, se non per questo, ti sono dovuti per quello;  valgano
a ricondurti verso Colui ch'è perfetto, e che i mortali sono  chiamati,  secondo
le finite loro forze, ad imitare". Con qual ragione, mentr'io  era  costretto  a
condannarmi di mille infedeltà a Dio, mi  sarei  lagnato  se  alcuni  uomini  mi
pareano vili ed alcuni altri iniqui; se le prosperità del mondo mi erano rapite;
s'io dovea consumarmi  in  carcere,  o  perire  di  morte  violenta?  Procacciai
d'imprimermi bene nel cuore tali riflessioni sì  giuste  e  sì  sentite:  e  ciò
fatto, io vedeva che bisognava essere conseguente, e che non poteva  esserlo  in
altra guisa se non benedicendo i retti giudizi di Dio, amandoli  ed  estinguendo
in me ogni volontà contraria ad essi. Per viemeglio divenir costante  in  questo
proposito,  pensai  di  svolgere  con  diligenza  d'or  innanzi  tutti  i   miei
sentimenti, scrivendoli. Il male si era che la  Commissione,  permettendo  ch'io
avessi calamaio e carta, mi numerava i  fogli  di  questa,  con  proibizione  di
distruggerne alcuno, e riservandosi ad esaminare in che li avessi adoperati. Per
supplire alla carta, ricorsi all'innocente artifizio di levigare con un pezzo di
vetro un rozzo tavolino ch'io aveva, e su quello  quindi  scriveva  ogni  giorno
lunghe meditazioni intorno ai doveri degli uomini  e  di  me  in  particola  Non
esagero dicendo che le ore così impiegate m'erano talvolta  deliziose,  malgrado
la difficoltà di respiro ch'io  pativa  per  l'enorme  caldo  e  le  morsicature
dolorosissime delle zanzare. Per diminuire la moltiplicità di queste ultime,  io
era obbligato, ad onta del caldo, d'involgermi bene il capo e  le  gambe,  e  di
scrivere, non solo co' guanti, ma fasciato i  polsi,  affinché  le  zanzare  non
entrassero nelle maniche Quelle mie meditazioni avevano un  carattere  piuttosto
biografico. Io faceva la storia di tutto il bene ed il male che  in  me  s'erano
formati dall'infanzia in poi, discutendo meco stesso,  ingegnandomi  di  sciorre
ogni dubbio, ordinando quanto meglio io sapea tutte le mie cognizioni, tutte  le
mie idee sopra ogni cosa. Quando tutta la superficie adoprabile del tavolino era
piena di scrittura, io leggeva e rileggeva, meditava sul già meditato, ed alfine
mi risolveva (sovente con rincrescimento) a raschiar via ogni  cosa  col  vetro,
per riavere atta quella  superficie  a  ricevere  nuovamente  i  miei  pensieri.
Continuava quindi la mia storia, sempre rallentata da digressioni d'ogni specie,
da analisi or di questo or di quel punto di metafisica, di morale, di  politica,
di religione, e quando tutto era pieno, tornava a leggere  e  rileggere,  poi  a
raschiare. Non volendo avere alcuna ragione d'impedimento nel ridire a me stesso
colla più libera fedeltà i fatti ch'io ricordava e le opinioni mie, e prevedendo
possibile  qualche  visita  inquisitoria,  io  scriveva  in  gergo,   cioè   con
trasposizioni di lettere ed abbreviazioni, alle quali io era avvezzatissimo. Non
m'accadde però mai alcuna visita siffatta, e niuno  s'accorgeva  ch'io  passassi
così bene il mio tristissimo tempo. Quand'io udiva il custode o altri aprire  la
porta, copriva il tavolino con una tovaglia, e vi mettea sopra il calamaio ed il
legale quinternetto di carta.

CAPO XXVIII

Quel quinternetto aveva anche alcune delle mie ore a lui consacrate, e  talvolta
un intero giorno od un'intera notte. Ivi scriveva io di cose letterarie. Composi
allora l'Ester d'Engaddi e l'Iginia d'Asti, e le cantiche intitolate:  Tancreda,
Rosilde, Eligi e Valafrido, Adello, oltre parecchi scheletri di  tragedie  e  di
altre produzioni, e fra altri quello d'un poema  sulla  Lega  lombarda,  e  d'un
altro su  Cristoforo  Colombo.  Siccome  l'ottenere  che  mi  si  rinnovasse  il
quinternetto, quand'era finito, non era sempre cosa facile e pronta,  io  faceva
il primo getto d'ogni componimento sul tavolino o su cartaccia in cui  mi  facea
portare fichi secchi o altri frutti. Talvolta dando il mio  pranzo  ad  uno  dei
secondini, e facendogli credere ch'io non aveva punto appetito, io l'induceva  a
regalarmi qualche foglio di carta. Ciò avveniva  solo  in  certi  casi,  che  il
tavolino era già  ingombro  di  scrittura,  e  non  poteva  ancora  decidermi  a
raschiarla. Allora io pativa la fame, e sebbene il custode  avesse  in  deposito
denari miei, non gli chiedea in tutto il giorno da mangiare,  parte  perché  non
sospettasse ch'io avea dato  via  il  pranzo,  parte  perché  il  secondino  non
s'accorgesse ch'io aveva mentito assicurandolo della mia inappetenza. A sera  mi
sosteneva con un potente caffè, e supplicava che  lo  facesse  la  siora  Zanze.
Questa era la figliuola del custode, la quale, se potea farlo di nascosto  della
mamma, lo faceva straordinariamente carico; tale, che, stante la  votezza  dello
stomaco, mi cagionava una specie di convulsione non dolorosa, che teneami  desto
tutta notte. In questo stato di mite ebbrezza io sentiva raddoppiarmisi le forze
intellettuali, e poetava e filosofava e pregava fino all'alba  con  meraviglioso
piacere. Una repentina spossatezza m'assaliva quindi: allora io mi  gettava  sul
letto, e malgrado le  zanzare,  a  cui  riusciva,  bench'io  m'inviluppassi,  di
venirmi a suggere il sangue, io dormiva  profondamente  un'ora  o  due  Siffatte
notti, agitate da forte caffè preso a stomaco  vuoto,  e  passate  in  sì  dolce
esaltazione, mi pareano troppo benefiche, da non  dovermele  procurare  sovente.
Perciò, anche senza aver bisogno di carta dal secondino, prendeva non di rado il
partito di non gustare un boccone a pranzo, per ottenere a  sera  il  desiderato
incanto della magica bevanda. Felice me quand'io conseguiva lo scopo! Più  d'una
volta mi accadde che il caffè non era fatto dalla pietosa Zanze,  ed  era  broda
inefficace. Allora la burla mi metteva un poco di mal umore.  Invece  di  venire
elettrizzato, languiva, sbadigliava, sentiva la fame, mi gettava  sul  letto,  e
non potea dormire. Io poi me ne lagnava colla Zanze, ed ella  mi  compativa.  Un
giorno che ne la sgridai aspramente, quasi che m'avesse ingannato, la  poveretta
pianse, e mi disse: «Signore, io non ho mai ingannato alcuno, e tutti  mi  dànno
dell'ingannatrice». «Tutti? Oh sta a vedere che non sono il solo che  s'arrabbii
per quella broda.» «Non voglio dir questo, signore.  Ah  s'ella  sapesse!...  Se
potessi versare il mio misero cuore nel suo!...»  «Ma  non  piangete  così.  Che
diamine avete? Vi domando perdono, se v'ho sgridata a torto. Credo benissimo che
non sia per vostra colpa che m'ebbi un caffè così cattivo.» «Eh! non piango  per
ciò, signore.» Il mio amor  proprio  restò  alquanto  mortificato,  ma  sorrisi.
«Piangete  adunque  all'occasione  della  mia  sgridata,  ma  per   tutt'altro?»
«Veramente sì.» «Chi v'ha dato dell'ingannatrice?» «Un amante.» E si coperse  il
volto  dal  rossore.  E  nella  sua  ingenua  fiducia  mi  raccontò  un  idillio
comico-serio che mi commosse.

CAPO XXIX

Da quel giorno divenni, non so perché, il confidente della fanciulla, e tornò  a
trattenersi lungamente con me. Mi diceva: «Signore, ella è tanto buona, ch'io la
guardo come potrebbe una figlia guardare suo padre».  «Voi  mi  fate  un  brutto
complimento;» rispondeva io, respingendo la sua mano «ho appena trentadue  anni,
e già mi guardate come vostro padre.» «Via, signore, dirò: come fratello.» E  mi
prendeva per forza la mano, e me la toccava  con  affezione.  E  tutto  ciò  era
innocentissimo. Io  diceva  poi  tra  me:  "Fortuna  che  non  è  una  bellezza!
altrimenti quest'innocente  famigliarità  potrebbe  sconcertarmi".  Altre  volte
diceva: "Fortuna ch'è così immatura! Di ragazze  di  tale  età  non  vi  sarebbe
pericolo ch'io m'innamorassi". Altre volte  mi  veniva  un  po'  d'inquietudine,
parendomi ch'io mi fossi ingannato nel giudicarla bruttina, ed era obbligato  di
convenire che i contorni e le forme non erano irregolari.  "Se  non  fosse  così
pallida," diceva io "e non avesse quelle poche lenti sul volto, potrebbe passare
per bella." Il vero è che non è possibile di non trovare qualche  incanto  nella
presenza, negli sguardi, nella favella d'una giovinetta vivace ed affettuosa. Io
poi non avea fatto nulla per cattivarmi la sua benevolenza, e le era  caro  come
padre o come fratello, a mia scelta. Perché? Perché ella avea letto la Francesca
da Rimini e l'Eufemio, e i miei versi la faceano piangere tanto! e poi  perch'io
era prigioniero, senza avere, diceva ella, né rubato né ammazzato!  Insomma,  io
che m'era affezionato a  Maddalena  senza  vederla,  come  avrei  potuto  essere
indifferente alle sorellevoli premure, alle graziose adulazioncelle, agli ottimi
caffè della

Venezianina adolescente sbirra?

Sarei un impostore se attribuissi a saviezza il non essermene innamorato Non  me
ne innamorai, unicamente perché ella avea un amante, del quale era pazza. Guai a
me, se fosse stato altrimenti! Ma se il  sentimento  ch'ella  mi  destò  non  fu
quello che si chiama amore, confesso che alquanto vi s'avvicinava. Io desiderava
ch'ella fosse felice, ch'ella riuscisse a farsi sposare da colui  che  piaceale;
non avea la minima gelosia, la minima idea che potesse scegliere me per  oggetto
dell'amor suo. Ma quando io udiva aprir la porta, il cuore mi  battea,  sperando
che fosse la Zanze; e se non era ella, io non era contento; e se era,  il  cuore
mi battea più forte e si rallegrava. I suoi genitori, che già avevano  preso  un
buon concetto di me, e sapeano ch'ell'era pazzamente invaghita d'un  altro,  non
si faceano verun riguardo di lasciarla venire quasi sempre a portarmi  il  caffè
del  mattino,  e  talor  quello  della  sera.  Ella  aveva  una  semplicità   ed
un'amorevolezza seducenti. Mi diceva: «Sono tanto innamorata d'un altro,  eppure
sto così  volentieri  con  lei!  Quando  non  vedo  il  mio  amante,  mi  annoio
dappertutto fuorché qui». «Ne sai tu il perché?» «Non lo so.» «Te  lo  dirò  io:
perché ti lascio parlare del tuo amante.» «Sarà  benissimo;  ma  parmi  che  sia
anche perché la stimo tanto tanto!» Povera ragazza!  ella  avea  quel  benedetto
vizio di prendermi sempre la mano, e stringermela, e non s'accorgeva che ciò  ad
un tempo mi piaceva e mi turbava. Sia ringraziato il Cielo che posso rammemorare
quella buona creatura, senza il minimo rimorso!

CAPO XXX

Queste carte sarebbero certamente  più  dilettevoli  se  la  Zanze  fosse  stata
innamorata di me, o s'io almeno  avessi  farneticato  per  essa.  Eppure  quella
qualità di semplice benevolenza che ci univa m'era più cara dell'amore. E se  in
qualche momento io temea che potesse, nello  stolto  mio  cuore,  mutar  natura,
allor seriamente me n'attristava. Una volta,  nel  dubbio  che  ciò  stesse  per
accadere, desolato di trovarla (non sapea per quale  incanto)  cento  volte  più
bella che non m'era sembrata  da  principio,  sorpreso  della  melanconia  ch'io
talvolta provava lontano da lei, e della gioia che  recavami  la  sua  presenza,
presi a fare per due giorni il  burbero,  immaginando  ch'ella  si  divezzerebbe
alquanto dalla famigliarità  contratta  meco.  Il  ripiego  valea  poco:  quella
ragazza era sì paziente, sì compassionevole!  Appoggiava  il  suo  gomito  sulla
finestra, e stava a guardarmi in silenzio. Poi mi  diceva:  «Signore,  ella  par
seccata della mia compagnia; eppure, se potessi  starei  qui  tutto  il  giorno,
appunto perché vedo ch'ella ha  bisogno  di  distrazione.  Quel  cattiv'umore  è
l'effetto naturale della solitudine. Ma si provi  a  ciarlare  alquanto,  ed  il
cattivo umore si dissiperà. E s'ella  non  vuol  ciarlare,  ciarlerò  io.»  «Del
vostro amante, eh?» «Eh no! non sempre di  lui;  so  anche  parlar  d'altro.»  E
cominciava infatti a raccontarmi de' suoi interessucci  di  casa,  dell'asprezza
della madre, della bonarietà del padre, delle ragazzate dei fratelli; ed i  suoi
racconti erano pieni di semplicità e di grazia. Ma, senza avvedersene,  ricadeva
poi sempre nel tema prediletto, il suo sventurato amore. Io  non  volea  cessare
d'esser  burbero,  e  sperava  che  se  ne  indispettisse.   Ella,   fosse   ciò
inavvedutezza od arte, non se ne dava per intesa, e bisognava ch'io finissi  per
rasserenarmi, sorridere, commuovermi, ringraziarla della sua dolce pazienza  con
me. Lasciai andare l'ingrato pensiero di volerla indispettire, ed a poco a  poco
i miei timori si calmarono. Veramente io non  erane  invaghito.  Esaminai  lungo
tempo i miei scrupoli; scrissi le mie  riflessioni  su  questo  soggetto,  e  lo
svolgimento di esse mi giovava. L'uomo talvolta s'atterrisce  di  spauracchi  da
nulla. A fine di non temerli, bisogna considerarli con più attenzione e  più  da
vicino. E che colpa v'era s'io desiderava con tenera inquietudine le sue visite,
s'io ne apprezzava la dolcezza, s'io godea  d'essere  compianto  da  lei,  e  di
retribuirle pietà per pietà, dacché i nostri  pensieri  relativi  uno  all'altro
erano puri come i più puri pensieri dell'infanzia, dacché le sue stesse  toccate
di mano ed i suoi più amorevoli  sguardi,  turbandomi,  m'empieano  di  salutare
riverenza? Una sera, effondendo nel mio cuore una grande afflizione ch'ella avea
provato, l'infelice mi gettò le braccia al collo, e mi coperse  il  volto  delle
sue lagrime. In quest'amplesso non v'era la minima idea profana. Una figlia  non
può abbracciare con più rispetto il suo padre. Se non che, dopo il fatto, la mia
immaginativa ne rimase troppo colpita. Quell'amplesso  mi  tornava  spesso  alla
mente, e allora io non potea  più  pensare  ad  altro.  Un'altra  volta  ch'ella
s'abbandonò a simile slancio di filiale confidenza, io tosto mi svincolai  dalle
sue care braccia, senza stringerla a me, senza baciarla, e le dissi balbettando:
«Vi prego, Zanze, non m'abbracciate mai; ciò non va bene.» M'affissò  gli  occhi
in volto, li abbassò, arrossì; - e certo fu la prima volta che lesse  nell'anima
mia la possibilità di qualche debolezza a suo riguardo. Non cessò  d'esser  meco
famigliare d'allora in poi, ma la sua famigliarità divenne più  rispettosa,  più
conforme al mio desiderio, e gliene fui grato.

CAPO XXXI

Io non posso parlare del male che affligge gli altri uomini; ma quanto a  quello
che toccò in sorte a me dacché vivo, bisogna  ch'io  confessi  che,  esaminatolo
bene,  lo  trovai  sempre  ordinato  a  qualche  mio  giovamento.  Sì,   perfino
quell'orribile calore che m'opprimeva, e  quegli  eserciti  di  zanzare  che  mi
facean guerra sì feroce! Mille volte  vi  ho  riflettuto.  Senza  uno  stato  di
perenne tormento com'era quello, avrei io avuta la costante vigilanza necessaria
per serbarmi invulnerabile  ai  dardi  d'un  amore  che  mi  minacciava,  e  che
difficilmente sarebbe stato un amore abbastanza  rispettoso,  con  un'indole  sì
allegra ed accarezzante qual'era quella della fanciulla? Se io talora tremava di
me in tale stato, come avrei io potuto governare le vanità della mia fantasia in
un  aere  alquanto  piacevole,  alquanto  consentaneo   alla   letizia?   Stante
l'imprudenza de' genitori della Zanze, che cotanto si  fidavano  di  me;  stante
l'imprudenza di lei, che non prevedeva di potermi essere  cagione  di  colpevole
ebbrezza; stante la poca sicurezza della mia  virtù,  non  v'ha  dubbio  che  il
soffocante calore di quel forno e le crudeli zanzare erano salutar cosa.  Questo
pensiero mi riconciliava alquanto con que' flagelli. Ed allora io mi  domandava:
"Vorresti tu esserne libero, e passare in una buona stanza consolata da  qualche
fresco respiro, e non veder più quell'affettuosa creatura?". Debbo dire il vero?
Io non avea coraggio di rispondere al quesito. Quando si vuole un po' di bene  a
qualcheduno, è indicibile il piacere che fanno le cose in apparenza  più  nulle.
Spesso una parola della Zanze, un sorriso,  una  lagrima,  una  grazia  del  suo
dialetto veneziano, l'agilità del suo braccio in parare  col  fazzoletto  o  col
ventaglio le zanzare a sé ed  a  me,  m'infondeano  nell'animo  una  contentezza
fanciullesca che durava tutto il giorno. Principalmente m'era  dolce  il  vedere
che le sue afflizioni scemassero parlandomi, che la mia pietà le fosse cara, che
i miei consigli la persuadessero, e che  il  suo  cuore  s'infiammasse  allorché
ragionavamo di virtù e di Dio. «Quando abbiamo parlato  insieme  di  religione,»
diceva ella «io prego più volentieri e con più fede.» E talvolta troncando ad un
tratto un ragionamento frivolo prendeva la Bibbia, l'apriva, baciava a  caso  un
versetto, e volea quindi ch'io gliel traducessi e commentassi. E dicea:  «Vorrei
che ogni volta che rileggerà  questo  versetto,  ella  si  ricordasse  che  v'ho
impresso un bacio.» Non sempre per verità  i  suoi  baci  cadeano  a  proposito,
massimamente se capitava aprire il Cantico de' Cantici. Allora,  per  non  farla
arrossire, io profittava della sua ignoranza del latino, e mi prevaleva di frasi
in cui, salva la santità di quel volume, salvassi pur l'innocenza di  lei,  ambe
le quali m'ispiravano altissima venerazione. In tali casi non mi permisi mai  di
sorridere. Era tuttavia non picciolo imbarazzo per me, quando alcune volte,  non
intendendo ella bene la mia pseudo-versione, mi pregava di tradurle  il  periodo
parola per parola, e non mi lasciava passare fuggevolmente  ad  altro  soggetto.
Nulla è durevole quaggiù! La Zanze ammalò. Ne' primi giorni della sua  malattia,
veniva a vedermi lagnandosi di  grandi  dolori  di  capo.  Piangeva,  e  non  mi
spiegava il motivo  del  suo  pianto.  Solo  balbettò  qualche  lagnanza  contro
l'amante. «È uno scellerato,» diceva ella «ma Dio gli perdoni!» Per quanto io la
pregassi di sfogare, come soleva, il suo cuore, non potei sapere ciò che  a  tal
segno l'addolorasse. «Tornerò domattina» mi disse una sera. Ma il dì seguente il
caffè mi fu portato da sua madre, gli altri giorni da' secondini, e la Zanze era
gravemente inferma. I secondini mi dicean  cose  ambigue  dell'amore  di  quella
ragazza, le quali mi faceano drizzare i capelli. Una seduzione? Ma  forse  erano
calunnie. Confesso che vi prestai fede, e fui conturbatissimo di tanta sventura.
Mi giova tuttavia sperare che mentissero. Dopo più d'un  mese  di  malattia,  la
poveretta fu condotta in campagna, e non la  vidi  più.  È  indicibile  quant'io
gemessi di questa perdita. Oh, come la mia solitudine divenne  più  orrenda!  Oh
come cento volte più amaro della sua lontananza erami  il  pensiero  che  quella
buona creatura fosse infelice! Ella aveami tanto  colla  sua  dolce  compassione
consolato nelle mie miserie; e la mia compassione era sterile per lei! Ma  certo
sarà stata persuasa ch'io la piangeva; ch'io avrei fatto non lievi sacrifizi per
recarle, se fosse stato possibile, qualche conforto; ch'io non cesserei  mai  di
benedirla e di far voti per la sua  felicità!  A'  tempi  della  Zanze,  le  sue
visite, benché pur sempre troppo brevi, rompendo amabilmente  la  monotonia  del
mio perpetuo meditare e studiare in silenzio, intessendo  alle  mie  idee  altre
idee, eccitandomi qualche affetto soave, abbellivano veramente la mia avversità,
e mi doppiavano la vita. Dopo, tornò la prigione ad essere per me una tomba. Fui
per molti giorni oppresso di mestizia, a segno di non trovar più  nemmeno  alcun
piacere nello scrivere. La mia mestizia era per altro  tranquilla,  in  paragone
delle smanie ch'io aveva per l'addietro provate. Voleva ciò dire ch'io fossi già
più addimesticato coll'infortunio? più filosofo? più cristiano? ovvero solamente
che quel soffocante calore della mia stanza valesse a prostrare persino le forze
del mio dolore? Ah! non le forze  del  dolore!  Mi  sovviene  ch'io  lo  sentiva
potentemente nel fondo dell'anima, - e forse più  potentemente,  perché  io  non
avea voglia d'espanderlo gridando e agitandomi. Certo il lungo tirocinio  m'avea
già fatto più capace di patire nuove afflizioni, rassegnandomi alla  volontà  di
Dio. Io m'era sì spesso detto, essere viltà il lagnarsi,  che  finalmente  sapea
contenere le lagnanze vicine a prorompere, e vergognava che pur fossero vicine a
prorompere.  L'esercizio  di  scrivere  i  miei  pensieri  avea  contribuito   a
rinforzarmi l'animo, a disingannarmi delle vanità, a ridurre la  più  parte  de'
ragionamenti a queste conclusioni: "V'è un Dio:  dunque  infallibile  giustizia:
dunque tutto ciò che avviene  è  ordinato  ad  ottimo  fine:  dunque  il  patire
dell'uomo sulla terra è pel bene dell'uomo". Anche  la  conoscenza  della  Zanze
m'era stata benefica: m'avea raddolcito l'indole. Il suo  soave  applauso  erami
stato impulso a non ismentire per qualche mese il dovere ch'io sentiva incombere
ad ogni uomo d'essere superiore alla fortuna, e quindi paziente. E qualche  mese
di costanza mi piegò alla rassegnazione. La Zanze mi vide due sole volte  andare
in collera. Una fu quella che già notai, pel cattivo caffè; l'altra fu nel  caso
seguente. Ogni due o tre settimane, m'era portata dal custode una lettera  della
mia  famiglia;  lettera  passata  prima  per  le  mani  della   Commissione,   e
rigorosamente mutilata con cassature di nerissimo inchiostro. Un giorno  accadde
che, invece di cassarmi solo alcune frasi, tirarono  l'orribile  riga  su  tutta
quanta la lettera, eccettuate  le  parole:  «Carissimo  Silvio»  che  stavano  a
principio, e il saluto ch'era in fine: «T'abbracciamo tutti di cuore». Fui  così
arrabbiato di ciò, che alla presenza della Zanze proruppi in urla,  e  maledissi
non so chi. La povera fanciulla mi compatì, ma  nello  stesso  tempo  mi  sgridò
d'incoerenza a' miei principii. Vidi ch'ella aveva ragione, e non maledissi  più
alcuno.

CAPO XXXIII

Un giorno, uno de' secondini entrò nel mio carcere con  aria  misteriosa,  e  mi
disse: «Quando v'era la siora Zanze... siccome il caffè  le  veniva  portato  da
essa... e si fermava lungo tempo a discorrere... ed io temeva che  la  furbaccia
esplorasse tutti i suoi secreti, signore...» «Non n'esplorò pur uno»  gli  dissi
in collera «ed io, se ne avessi, non sarei  gonzo  da  lasciarmeli  trar  fuori.
Continuate.» «Perdoni, sa; non dico già ch'ella sia un gonzo, ma io della  siora
Zanze non mi fidava. Ed ora, signore, ch'ella non ha  più  alcuno  che  venga  a
tenerle compagnia... mi fido... di...» «Di che? Spiegatevi una volta.» «Ma giuri
prima di non tradirmi.» «Eh, per giurare di non tradirvi, lo posso: non  ho  mai
tradito alcuno.» «Dice dunque  davvero,  che  giura,  eh?»  «Sì,  giuro  di  non
tradirvi. Ma sappiate, bestia che siete,  che  uno  il  quale  fosse  capace  di
tradire, sarebbe anche capace di violare un giuramento.»  Trasse  di  tasca  una
lettera, e me la consegnò tremando, e scongiurandomi di  distruggerla,  quand'io
l'avessi letta. «Fermatevi;» gli dissi aprendola «appena letta,  la  distruggerò
in vostra presenza.» «Ma, signore, bisognerebbe ch'ella rispondesse, ed  io  non
posso  aspettare.  Faccia  con  suo  comodo.  Soltanto  mettiamoci   in   questa
intelligenza. Quando ella sente venire alcuno, badi che se sono io, canterellerò
sempre l'aria: "Sognai, mi gera un  gato".  Allora  ella  non  ha  a  temere  di
sorpresa, e può  tenersi  in  tasca  qualunque  carta.  Ma  se  non  ode  questa
cantilena, sarà segno che o non sono io, o vengo accompagnato. In tal  caso  non
si  fidi  mai  di  tenere  alcuna   carta   nascosta,   perché   potrebb'esservi
perquisizione, ma se ne avesse una, la stracci sollecitamente e la  getti  dalla
finestra.» «State tranquillo: vedo che siete  accorto,  e  lo  sarò  ancor  io.»
«Eppure ella m'ha dato della bestia.» «Fate bene a  rimproverarmelo»  gli  dissi
stringendogli la mano. «Perdonate.» Se n'andò, e lessi: «Sono...» e  qui  diceva
il nome «uno dei vostri ammiratori: so tutta la vostra  Francesca  da  Rimini  a
memoria. Mi arrestarono per...» e qui diceva la causa della  sua  cattura  e  la
data «e darei non so quante libbre del mio sangue per avere il bene d'essere con
voi, o d'avere almeno un carcere contiguo al vostro, affinché potessimo  parlare
insieme. Dacché intesi da Tremerello» così chiameremo il  confidente  «che  voi,
signore, eravate preso, e per qual  motivo,  arsi  di  desiderio  di  dirvi  che
nessuno vi compiange più di me, che nessuno vi ama più di me. Sareste voi  tanto
buono da accettare la seguente proposizione, cioè che alleggerissimo entrambi il
peso della nostra solitudine, scrivendoci? Vi  prometto  da  uomo  d'onore,  che
anima al mondo da me nol saprebbe mai, persuaso che  la  stessa  secretezza,  se
accettate, mi posso sperare da voi. - Intanto, perchè abbiate qualche conoscenza
di me, vi darò un sunto della mia storia, ecc.» Seguiva il sunto.

CAPO XXXIV

Ogni lettore che abbia un po' d'immaginativa capirà agevolmente quanto un foglio
simile debba essere elettrico per un povero  prigioniero,  massimamente  per  un
prigioniero d'indole niente affatto selvatica, e di cuore amante. Il  mio  primo
sentimento  fu  d'affezionarmi  a  quell'incognito,  di  commuovermi  sulle  sue
sventure, d'esser pieno di gratitudine per la benevolenza ch'ei  mi  dimostrava.
«Sì,» sclamai «accetto la tua proposizione, o generoso. Possano le  mie  lettere
darti egual conforto a quel che mi daranno le tue, a quel che già  traggo  dalla
tua prima!» E lessi e rilessi quella  lettera  con  un  giubilo  da  ragazzo,  e
benedissi cento volte chi l'avea scritta,  e  pareami  ch'ogni  sua  espressione
rivelasse un'anima schietta e nobile. Il sole tramontava; era  l'ora  della  mia
preghiera. Oh come io sentiva Dio! com'io lo ringraziava di trovar sempre  nuovo
modo di non lasciar languire le potenze della mia mente e del mio cuore! Come mi
si ravvivava la memoria di  tutti  i  preziosi  suoi  doni!  Io  era  ritto  sul
finestrone, le braccia tra le sbarre, le mani incrocicchiate: la chiesa  di  San
Marco era sotto di  me,  una  moltitudine  prodigiosa  di  colombi  indipendenti
amoreggiava, svolazzava, nidificava su quel tetto di piombo:  il  più  magnifico
cielo mi stava dinanzi:  io  dominava  tutta  quella  parte  di  Venezia  ch'era
visibile dal mio carcere: un romore lontano di voci umane mi  feriva  dolcemente
l'orecchio. In quel luogo infelice ma stupendo, io  conversava  con  Colui,  gli
occhi soli del quale mi vedeano, gli raccomandava mio padre, mia madre, e ad una
ad una tutte le persone a me care e sembravami ch'ei mi  rispondesse:  «T'affidi
la mia bontà!» ed io esclamava: «Si, la tua bontà m'affida!». E chiudea  la  mia
orazione intenerito, confortato, e poco curante delle morsicature che  frattanto
m'aveano allegramente dato le zanzare. Quella sera, dopo tanta  esaltazione,  la
fantasia  cominciando  a  calmarsi,   le   zanzare   cominciando   a   divenirmi
insoffribili, il bisogno d'avvolgermi faccia e mani tornando a  farmisi  sentire
un pensiero volgare e maligno m'entrò ad un tratto nel capo, mi  fece  ribrezzo,
volli cacciarlo e non potei. Tremerello m'aveva accennato  un  infame  sospetto,
intorno la Zanze: che fosse un'esploratrice de' miei secreti, ella!  quell'anima
candida! che nulla sapeva di politica! che nulla volea  saperne!  Di  lei  m'era
impossibile  dubitare;  ma  mi  chiesi:  "Ho  io  la  stessa  certezza   intorno
Tremerello? E se quel mariuolo fosse stromento d'indagini subdole? Se la lettera
fosse fabbricata da chi sa chi, per indurmi  a  fare  importanti  confidenze  al
novello amico? Forse il preteso prigione che mi scrive, non  esiste  neppure;  -
forse esiste, ed è un perfido che cerca d'acquistare secreti,  per  far  la  sua
salute rivelandoli; - forse è un galantuomo, sì, ma il perfido è Tremerello, che
vuol rovinarci tutti e due per  guadagnare  un'appendice  al  suo  salario".  Oh
brutta cosa, ma troppo naturale a chi geme in  carcere,  il  temere  dappertutto
inimicizia e frode! Tai dubbi m'angustiavano, m'avvilivano. No; per la Zanze  io
non avea  mai  potuto  averli  un  momento!  Tuttavia,  dacché  Tremerello  avea
scagliata quella parola riguardo a lei, un mezzo dubbio pur  mi  crucciava,  non
sovr'essa, ma su coloro che la lasciavano venire nella mia stanza. Le  avessero,
per proprio zelo o per volontà superiore, dato l'incarico di  esploratrice?  Oh,
se ciò fosse stato, come furono mal serviti! Ma circa la lettera dell'incognito,
che fare? Appigliarsi ai severi, gretti  consigli  della  paura  che  s'intitola
prudenza? Rendere la lettera a Tremerello, e dirgli: "Non  voglio  rischiare  la
mia pace"? E se non vi fosse alcuna  frode?  E  se  l'incognito  fosse  un  uomo
degnissimo  della  mia  amicizia,  degnissimo  ch'io  rischiassi  alcunché   per
temprargli le angosce della solitudine? Vile! tu stai forse a  due  passi  dalla
morte, la feral sentenza può pronunciarsi da un giorno all'altro, e  ricuseresti
di fare ancora un atto d'amore? Rispondere, rispondere io debbo! Ma venendo  per
disgrazia a scoprirsi questo carteggio, e  nessuno  potesse  pure  in  coscienza
farcene delitto, non è egli vero tuttavia che  un  fiero  castigo  cadrebbe  sul
povero Tremerello? Questa considerazione non è ella  bastante  ad  impormi  come
assoluto dovere il non imprendere carteggio clandestino?

CAPO XXXV

Fui agitato tutta sera, non chiusi occhio la notte, e fra tante  incertezze  non
sapea che risolvere. Balzai dal letto prima dell'alba, salii sul  finestrone,  e
pregai. Nei casi ardui bisogna consultarsi fiducialmente con Dio,  ascoltare  le
sue ispirazioni, e attenervisi. Così feci,  e  dopo  lunga  preghiera,  discesi,
scossi le zanzare, m'accarezzai colle mani le guance morsicate,  ed  il  partito
era preso: esporre a Tremerello il mio timore che da quel  carteggio  potesse  a
lui tornar danno; rinunciarvi, s'egli ondeggiava; accettare, se  i  terrori  non
vinceano lui. Passeggiai, finché intesi canterellare: «Sognai, mi gera an  gato,
E ti me carezzevi». Tremerello mi portava il caffè. Gli dissi il  mio  scrupolo,
non risparmiai parola per mettergli paura. Lo  trovai  saldo  nella  volontà  di
servire, diceva egli, due così compiti signori. Ciò  era  assai  in  opposizione
colla faccia di coniglio ch'egli aveva e col nome di Tremerello che gli  davamo.
Ebbene, fui saldo anch'io. «Io vi lascerò il mio vino;» gli dissi «fornitemi  la
carta necessaria a questa corrispondenza, e fidatevi che se odo sonare le chiavi
senza la cantilena vostra, distruggerò sempre in  un  attimo  qualunque  oggetto
clandestino.» «Eccole appunto un foglio di carta;  gliene  darò  sempre,  finché
vuole, e riposo perfettamente sulla sua accortezza.» Mi bruciai  il  palato  per
ingoiar presto il caffè, Tremerello se ne andò, e mi posi a scrivere. Faceva  io
bene? Era, la risoluzione ch'io prendeva, ispirata veramente  da  Dio?  Non  era
piuttosto un trionfo del mio naturale ardimento, del mio anteporre  ciò  che  mi
piace a penosi sacrifizi? un misto d'orgogliosa compiacenza  per  la  stima  che
l'incognito m'attestava e di timore di parere un pusillanime, s'io preferissi un
prudente silenzio ad una  corrispondenza  alquanto  rischiosa?  Come  sciogliere
questi  dubbi?  Io  li  esposi  candidamente  al  concaptivo  rispondendogli,  e
soggiunsi nondimeno essere mio avviso, che quando sembra a taluno d'operare  con
buone ragioni e senza manifesta ripugnanza della coscienza,  ei  non  debba  più
paventare di colpa. Egli tuttavia riflettesse parimente  con  tutta  la  serietà
all'assunto  che  imprendevamo,  e  mi  dicesse  schietto  con  qual  grado   di
tranquillità o d'inquietudine vi si determinasse. Che, se per nuove  riflessioni
ei giudicava l'assunto troppo temerario, facessimo lo sforzo  di  rinunciare  al
conforto promessoci dal carteggio, e ci contentassimo d'esserci conosciuti collo
scambio di poche parole ma indelebili e mallevadrici di alta  amicizia.  Scrissi
quattro pagine caldissime  del  più  sincero  affetto,  accennai  brevemente  il
soggetto della mia prigionia, parlai con effusione di cuore della mia famiglia e
d'alcuni altri miei particolari, e mirai a farmi conoscere nel fondo dell'anima.
A sera la mia lettera fu portata. Non avendo dormito la  notte  precedente,  era
stanchissimo; il sonno non si fece invocare, e mi svegliai la  mattina  seguente
ristorato, lieto, palpitante  al  dolce  pensiero  d'aver  forse  a  momenti  la
risposta dell'amico.

CAPO XXXVI

La risposta venne col caffè. Saltai al collo di  Tremerello,  e  gli  dissi  con
tenerezza: «Iddio ti rimuneri di tanta  carità!».  I  miei  sospetti  su  lui  e
sull'incognito s'erano dissipati, non so né anche  dir  perché;  perché  m'erano
odiosi; perché avendo la cautela di  non  parlar  mai  follemente  di  politica,
m'apparivano inutili; perché mentre sono ammiratore dell'ingegno di  Tacito,  ho
tuttavia pochissima fede nella giustezza del taciteggiare, del  veder  molto  le
cose in nero. Giuliano (così piacque allo scrivente di firmarsi)  cominciava  la
lettera con un preambolo di gentilezze, e si diceva  senza  alcuna  inquietudine
sull'impreso carteggio. Indi scherzava dapprima moderatamente sul  mio  esitare,
poi lo scherzo acquistava alcun che  di  pungente.  Alfine,  dopo  un  eloquente
elogio sulla sincerità,  mi  dimandava  perdono  se  non  potea  nascondermi  il
dispiacere che avea provato, ravvisando in me, diceva egli, una certa scrupolosa
titubanza, una certa cristiana sottigliezza di coscienza, che non può accordarsi
con vera filosofia.  «Vi  stimerò  sempre»  soggiungeva  egli  «quand'anche  non
possiamo accordarci su ciò; ma la sincerità che professo mi obbliga a dirvi  che
non ho religione, che le abborro tutte, che  prendo  per  modestia  il  nome  di
Giuliano perché quel buon imperatore era nemico de' Cristiani, ma che  realmente
io vado molto più in là di lui. Il coronato Giuliano credeva in  Dio,  ed  aveva
certe sue bigotterie. Io non ne ho alcuna, non credo in Dio,  pongo  ogni  virtù
nell'amare la verità e chi la cerca, e nell'odiare  chi  non  mi  piace.»  E  di
questa foggia continuando, non recava ragioni di nulla, inveiva  a  dritto  e  a
rovescio contro il Cristianesimo, lodava con  pomposa  energia  l'altezza  della
virtù irreligiosa, e prendeva con istile  parte  serio  e  parte  faceto  a  far
l'elogio dell'imperatore Giuliano  per  la  sua  apostasia  e  pel  filantropico
tentativo di cancellare dalla terra tutte le tracce del Vangelo. Temendo  quindi
d'aver troppo urtate le mie opinioni, tornava a dimandarmi perdono e a declamare
contro la tanto frequente mancanza di sincerità.  Ripeteva  il  suo  grandissimo
desiderio di stare in relazione con me, e mi  salutava.  Una  poscritta  diceva:
«Non ho altri scrupoli, se non di non  essere  schietto  abbastanza.  Non  posso
quindi tacervi di sospettare che il linguaggio cristiano che  teneste  meco  sia
finzione. Lo bramo ardentemente. In tal caso  gettate  la  maschera;  v'ho  dato
l'esempio». Non saprei dire l'effetto strano che  mi  fece  quella  lettera.  Io
palpitava come un innamorato ai primi  periodi:  una  mano  di  ghiaccio  sembrò
quindi stringermi il cuore. Quel sarcasmo sulla mia coscienziosità m'offese.  Mi
pentii d'aver aperta una relazione con siffatt'uomo: io che dispregio  tanto  il
cinismo! io che lo credo la  più  infilosofica,  la  più  villana  di  tutte  le
tendenze! io, a cui l'arroganza impone si poco! Letta l'ultima  parola,  pigliai
la lettera fra il pollice e  l'indice  d'una  mano,  e  il  pollice  e  l'indice
dell'altra, ed alzando  la  mano  sinistra  tirai  giù  rapidamente  la  destra,
cosicché ciascuna delle due mani rimase in possesso d'una mezza lettera.

CAPO XXXVII

Guardai que' due brani, e meditai un istante sull'incostanza delle cose umane  e
sulla falsità delle loro apparenze. "Poc'anzi tanta brama di questa lettera,  ed
ora la straccio per isdegno! Poc'anzi tanto presentimento di futura amicizia con
questo  compagno  di  sventura,  tanta  persuasione  di  mutuo  conforto,  tanta
disposizione a mostrarmi con lui affettuosissimo, ed ora lo  chiamo  insolente!"
Stesi i due brani un sull'altro, e collocato di nuovo come prima l'indice  e  il
pollice di una mano, e l'indice e il pollice dell'altra,  tornai  ad  alzare  la
sinistra ed a tirar giù rapidamente la  destra.  Era  per  replicare  la  stessa
operazione, ma uno dei quarti mi cadde di mano; mi chinai per prenderlo,  e  nel
breve  spazio  di  tempo  del  chinarmi  e  del  rialzarmi,  mutai  proposito  e
m'invogliai di rileggere quella superba scritta. Siedo, fo combaciare i  quattro
pezzi sulla Bibbia e rileggo. Li lascio  in  quello  stato,  passeggio,  rileggo
ancora ed intanto penso:  "S'io  non  gli  rispondo,  ei  giudicherà  ch'io  sia
annichilato di confusione, ch'io  non  osi  ricomparire  al  cospetto  di  tanto
Ercole. Rispondiamogli, facciamogli vedere che non temiamo  il  confronto  delle
dottrine. Dimostriamogli con buona maniera non esservi alcuna viltà nel maturare
i  consigli,  nell'ondeggiare  quando  si  tratta  d'una  risoluzione   alquanto
pericolosa, e più pericolosa per altri che per noi. Impari che il vero  coraggio
non  istà  nel  ridersi  della  coscienza,  che  la  vera   dignità   non   ístà
nell'orgoglio.   Spieghiamogli   la   ragionevolezza   del    Cristianesimo    e
l'insussistenza  dell'incredulità.  -  E  finalmente  se  codesto  Giuliano   si
manifesta d'opinioni così  opposte  alle  mie,  se  non  mi  risparmia  pungenti
sarcasmi, se degna così poco di cattivarmi, non è ciò prova almeno ch'ei  non  è
una spia? - Se non che non potrebb'egli  essere  un  raffinamento  d'arte,  quel
menar ruvidamente la frusta addosso al mio amor proprio? - Eppur no;  non  posso
crederlo. Sono un maligno che, perché mi sento offeso da quei temerarii scherzi,
vorrei persuadermi che chi li scagliò non può essere che il più  abbietto  degli
uomini. Malignità volgare, che condannai mille  volte  in  altri,  via  dal  mio
cuore! No, Giuliano è quel che è, e non più, è un insolente, e non una  spia.  -
Ed ho io veramente il diritto di dare l'odioso nome d'insolenza  a  ciò  ch'egli
reputa sincerità? - Ecco la tua umiltà, o ipocrita! Basta che uno, per errore di
mente, sostenga opinioni false  e  derida  la  tua  fede,  subito  t'arroghi  di
vilipenderlo. - Dio sa se questa umiltà rabbiosa e  questo  zelo  malevolo,  nel
petto di me cristiano, non è peggiore dell'audace sincerità di  quell'incredulo!
- Forse non gli manca se non un raggio della grazia, perchè  quel  suo  energico
amore del vero si muti in religione più solida della mia. - Non farei io  meglio
di pregare per lui, che d'adirarmi e di suppormi migliore? - Chi sa, che  mentre
io  stracciava  furentemente  la  sua  lettera,  ei  non  rileggesse  con  dolce
amorevolezza la mia, e si fidasse tanto della mia  bontà  da  credermi  incapace
d'offendermi delle sue schiette parole? - Qual sarebbe il più  iniquo  dei  due,
uno che ama e dice: 'Non sono cristiano', ovvero uno che dice: 'Son cristiano' e
non ama? - È cosa difficile conoscere un uomo, dopo avere vissuto con lui lunghi
anni; ed io vorrei giudicare costui da una lettera? Fra tante  possibilità,  non
havvi egli quella che, senza  confessarlo  a  sé  medesimo,  ei  non  sia  punto
tranquillo del suo ateismo, e che indi mi stuzzichi a combatterlo, colla secreta
speranza di dover cedere? Oh fosse pure! Oh gran Dio, in mano di cui  tutti  gli
stromenti più indegni possono essere efficaci, sceglimi, sceglimi a quest'opera!
Detta a me tai potenti e sante ragioni che  convincano  quell'infelice!  che  lo
traggano a benedirti e ad imparare che, lungi da te, non v'è virtù la quale  non
sia contraddizione!"

CAPO XXXVIII

Stracciai più minutamente, ma senza residuo  di  collera,  i  quattro  pezzi  di
lettera, andai alla finestra, stesi la mano, e mi fermai a guardare la sorte dei
diversi bocconcini di carta in balia del vento. Alcuni si  posarono  sui  piombi
della chiesa, altri girarono lungamente per aria, e discesero a terra. Vidi  che
andavano tanto dispersi, da non esservi pericolo che alcuno li raccogliesse e ne
capisse il mistero. Scrissi poscia a Giuliano, e presi tutta  la  cura  per  non
essere e per non apparire indispettito. Scherzai sul suo timore  ch'io  portassi
la sottigliezza di coscienza ad un grado  non  accordabile  colla  filosofia,  e
dissi che sospendesse almeno intorno a ciò i suoi giudizi. Lodai la  professione
ch'ei faceva di sincerità, l'assicurai che m'avrebbe  trovato  eguale  a  sé  in
questo riguardo, e soggiunsi che per dargliene prova io m'accingeva a  difendere
il Cristianesimo; «ben persuaso» diceva io «che,  come  sarò  sempre  pronto  ad
udire amichevolmente tutte  le  vostre  opinioni,  così  abbiate  la  liberalità
d'udire in pace le mie». Quella difesa, io mi proponeva di farla a poco a  poco,
ed intanto la incominciava, analizzando con fedeltà l'essenza del Cristianesimo:
- culto di Dio, spoglio di  superstizioni,  -  fratellanza  fra  gli  uomini,  -
aspirazione perpetua alla virtù,  -  umiltà  senza  bassezza,  -  dignità  senza
orgoglio, - tipo, un uomo-Dio! Che di più filosofico e di più grande?  Intendeva
poscia di dimostrare, come tanta sapienza era più o meno debolmente trasparsa  a
tutti coloro che coi lumi della ragione aveano cercato il vero, ma non s'era mai
diffusa nell'universale: e come, venuto il  divin  Maestro  sulla  terra,  diede
segno  stupendo  di  sé,  operando  coi  mezzi  umanamente  più  deboli   quella
diffusione.  Ciò  che  sommi   filosofi   mai   non   poterono,   l'abbattimento
dell'idolatria, e la predicazione generale della  fratellanza,  s'eseguisce  con
pochi rozzi messaggeri. Allora l'emancipazione degli schiavi diviene  ognor  più
frequente, e finalmente appare una civiltà senza schiavi, stato di  società  che
agli antichi filosofi pareva impossibile. Una rassegna  della  storia,  da  Gesù
Cristo in qua, dovea per ultimo dimostrare come la religione  da  lui  stabilita
s'era sempre trovata adattata a tutti i possibili gradi d'incivilimento.  Quindi
essere falso che, l'incivilimento continuando a progredire, il Vangelo  non  sia
più accordabile con esso. Scrissi a minutissimo carattere ed  assai  lungamente,
ma non potei tuttavia andar molto oltre; ché mi mancò la carta. Lessi e  rilessi
quella mia introduzione, e mi parve ben fatta.  Non  v'era  pure  una  frase  di
risentimento  sui  sarcasmi  di  Giuliano,  e  le  espressioni  di   benevolenza
abbondavano, ed aveale dettate il cuore già pienamente ricondotto a  tolleranza.
Spedii la lettera, ed il mattino seguente ne aspettava con ansietà la  risposta.
Tremerello venne, e mi disse: «Quel signore non ha potuto scrivere, ma la  prega
di continuare il suo scherzo.» «Scherzo?»  sclamai.  «Eh,  che  non  avrà  detto
scherzo! avrete capito male.» Tremerello si strinse nelle  spalle  «Avrò  capito
male». «Ma vi par proprio che abbia detto scherzo?» «Come mi pare di sentire  in
questo punto i colpi di San Marco.» (Sonava  appunto  il  campanone.)  Bevvi  il
caffè e tacqui. «Ma ditemi: avea quel signore già letta tutta la  mia  lettera?»
«Mi figuro di sì; perché rideva, rideva come un matto, e facea di quella lettera
una palla, e la gettava per aria, e quando gli dissi che non dimenticasse poi di
distruggerla, la distrusse subito.» «Va benissimo.» E restituii a Tremerello  la
chicchera, dicendogli che si conosceva che il caffè era stato fatto dalla  siora
Bettina. «L'ha trovato cattivo?» «Pessimo.» «Eppur l'ho fatto io,  e  l'assicuro
che l'ho fatto carico, e non v'erano fondi.» «Non avrò forse la bocca buona.»

CAPO XXXIX

Passeggiai tutta mattina fremendo. "Che razza d'uomo è questo  Giuliano?  Perché
chiamare la mia lettera uno scherzo? Perché ridere  e  giocare  alla  palla  con
essa? Perché non  rispondermi  pure  una  riga?  Tutti  gl'increduli  son  così!
Sentendo la debolezza delle loro opinioni, se alcuno s'accinge a confutarle  non
ascoltano, ridono, ostentano una superiorità  d'ingegno  la  quale  non  ha  più
bisogno d'esaminar nulla. Sciagurati! E quando mai vi fu filosofia senza  esame,
senza serietà? Se è vero che Democrito ridesse sempre, egli era un  buffone!  Ma
ben mi sta: perché imprendere questa corrispondenza? Ch'io mi facessi  illusione
un momento, era perdonabile. Ma quando vidi che colui insolentiva,  non  fui  io
uno stolto di scrivergli ancora?" Era risoluto di non più scrivergli. A  pranzo,
Tremerello prese il mio vino, se lo  versò  in  un  fiasco,  e  mettendoselo  in
saccoccia: «Oh, mi accorgo» disse «che ho qui della carta da  darle.»  E  me  la
porse. Se n'andò; ed io guardando quella  carta  bianca  mi  sentiva  venire  la
tentazione di scrivere un'ultima volta a Giuliano, di congedarlo con  una  buona
lezione  sulla  turpitudine  dell'insolenza.  "Bella  tentazione!"   dissi   poi
"rendergli disprezzo per disprezzo!  fargli  odiare  vieppiù  il  Cristianesimo,
mostrandogli in me cristiano impazienza ed orgoglio! - No, ciò non va.  Cessiamo
affatto il carteggio. - E se lo cesso così asciuttamente,  non  dirà  colui  del
pari, che impazienza ed orgoglio mi vinsero? - Conviene  scrivergli  ancora  una
volta, e senza fiele. - Ma se posso scrivere senza fiele, non sarebbe meglio non
darmi per inteso delle sue risate e del nome di scherzo ch'egli  ha  gratificato
alla mia lettera? Non sarebbe meglio continuar buonamente la  mia  apologia  del
Cristianesimo?" Ci pensai un poco, e poi m'attenni a  questo  partito.  La  sera
spedii  il  mio  piego,  ed  il  mattino  seguente  ricevetti  alcune  righe  di
ringraziamento, molto fredde, però senza espressioni mordaci, ma anche senza  il
minimo cenno d'approvazione né d'invito a proseguire. Tal biglietto mi spiacque.
Nondimeno fermai di non desistere sino al fine. La mia tesi non potea  trattarsi
in breve, e fu soggetto di cinque o sei altre lunghe lettere, a  ciascuna  delle
quali mi veniva risposto un laconico  ringraziamento,  accompagnato  da  qualche
declamazione estranea al  tema,  ora  imprecando  i  suoi  nemici,  ora  ridendo
d'averli imprecati, e dicendo esser naturale che i forti opprimano i  deboli,  e
non rincrescergli altro che di non essere forte, ora confidandomi i suoi  amori,
e l'impero che questi esercitavano sulla sua tormentata immaginativa. Nondimeno,
all'ultima mia lettera sul Cristianesimo, ei diceva che mi stava  apparecchiando
una lunga risposta. Aspettai più d'una settimana, ed intanto ei mi scriveva ogni
giorno di tutt'altro, e per lo  più  d'oscenità.  Lo  pregai  di  ricordarsi  la
risposta di cui mi era debitore, e gli raccomandai di  voler  applicare  il  suo
ingegno a pesar veramente tutte le ragioni ch'io gli avea  portate.  Mi  rispose
alquanto rabbiosamente, prodigandosi gli attributi di filosofo,  d'uomo  sicuro,
d'uomo che non avea bisogno di pesare tanto per capire che le lucciole non erano
lanterne. E tornò a parlare allegramente d'avventure scandalose.

CAPO XL

Io pazientava per non farmi dare del bigotto e dell'intollerante, e  perché  non
disperava che, dopo quella febbre di erotiche buffonerie, venisse un periodo  di
serietà. Intanto  gli  andava  manifestando  la  mia  disapprovazione  alla  sua
irriverenza per le donne, al suo profano modo di fare all'amore,  e  compiangeva
quelle infelici ch'ei mi diceva essere state sue vittime. Ei fingeva  di  creder
poco alla mia disapprovazione, e  ripeteva  «Checché  borbottiate  d'immoralità,
sono certo di divertirvi co' miei racconti; - tutti gli uomini amano il  piacere
come io, ma non hanno la franchezza di parlarne senza velo; ve ne dirò tante che
v'incanterò, e  vi  sentirete  obbligato  in  coscienza  d'applaudirmi».  Ma  di
settimana in settimana, ei non desisteva mai da queste infamie, ed io  (sperando
sempre ad ogni lettera di trovare  altro  tema,  e  lasciandomi  attrarre  dalla
curiosità) leggeva tutto, e l'anima mia restava -  non  già  sedotta  -  ma  pur
conturbata, allontanata da pensieri nobili e santi. Il conversare  cogli  uomini
degradati degrada, se non si ha una virtù molto  maggiore  della  comune,  molto
maggiore  della  mia.  "Eccoti  punito"  diceva  io  a  me  stesso  "della   tua
presunzione! Ecco ciò che si guadagna a  voler  fare  il  missionario  senza  la
santità da ciò!" Un giorno mi risolsi  a  scrivergli  queste  parole:  «Mi  sono
sforzato finora di chiamarvi ad altri soggetti, e voi mi mandate sempre  novelle
che vi dissi schiettamente dispiacermi. Se v'aggrada che favelliamo di cose  più
degne continueremo la corrispondenza, altrimenti tocchiamoci la mano, e ciascuno
se ne stia con sé.» Fui per due giorni senza risposta, e dapprima ne gioii.  «Oh
benedetta  solitudine!»  andava  sclamando  «quanto  meno  amara  tu  sei  d'una
conversazione  inarmonica  e  snobilitante!  Invece   di   crucciarmi   leggendo
impudenze, invece di faticarmi invano ad oppor loro l'espressione di aneliti che
onorino l'umanità, tornerò a conversare con Dio, colle care  memorie  della  mia
famiglia e de' miei veri amici. Tornerò a  leggere  maggiormente  la  Bibbia,  a
scrivere i miei pensieri sulla  tavola  studiando  il  fondo  del  mio  cuore  e
procacciando di migliorarlo, a gustare le dolcezze d'una  melanconia  innocente,
mille volte preferibili ad  immagini  liete  ed  inique.»  Tutte  le  volte  che
Tremerello entrava nel mio carcere mi diceva: «Non ho ancor risposta.» «Va bene»
rispondeva io. Il terzo giorno mi disse: «Il signor N.N. è mezzo ammalato.» «Che
ha?» «Non lo dice, ma è sempre steso sul letto, non mangia, non bee, ed è di mal
umore.» Mi  commossi,  pensando  ch'egli  pativa  e  non  aveva  alcuno  che  lo
confortasse. Mi sfuggì dalle labbra, o piuttosto dal cuore:  «Gli  scriverò  due
righe.» «Le porterò stassera» disse Tremerello; e se ne andò.  Io  era  alquanto
imbarazzato, mettendomi al tavolino. "Fo io bene a ripigliare il carteggio?  Non
benediceva io dianzi la solitudine come un tesoro riacquistato? Che incostanza è
dunque la mia! - Eppure quell'infelice  non  mangia,  non  beve;  sicuramente  è
ammalato. È questo il momento d'abbandonarlo? L'ultimo mio viglietto era  aspro:
avrà contribuito ad affliggerlo. Forse, ad  onta  dei  nostri  diversi  modi  di
sentire, ei non avrebbe mai disciolta la nostra amicizia. Il mio  viglietto  gli
sarà sembrato più malevolo  che  non  era:  ei  l'avrà  preso  per  un  assoluto
sprezzante congedo."

CAPO XLI

Scrissi così: «Sento che non istate bene, e me ne  duole  vivamente.  Vorrei  di
tutto cuore esservi vicino, e prestarvi tutti gli uffici d'amico. Spero  che  la
vostra poco buona salute sarà stata l'unico motivo del vostro silenzio,  da  tre
giorni in qua. Non vi sareste già offeso del mio  viglietto  dell'altro  di?  Lo
scrissi, v'assicuro, senza la minima malevolenza, e col solo scopo di  trarvi  a
più serii soggetti di  ragionamento.  Se  lo  scrivere  vi  fa  male,  mandatemi
soltanto  nuove  esatte  della  vostra  salute:  io  vi  scriverò  ogni   giorno
qualcosetta per distrarvi, e perché vi sovvenga che  vi  voglio  bene.»  Non  mi
sarei mai aspettato la lettera ch'ei mi rispose. Cominciava  così:  «Ti  disdico
l'amicizia; se non sai che fare della mia, io non so che  fare  della  tua.  Non
sono uomo che perdoni offese, non sono uomo che, rigettato una  volta,  ritorni.
Perché mi sai infermo, ti riaccosti ipocritamente a me, sperando che la malattia
indebolisca il mio spirito e mi tragga ad ascoltare le tue prediche...» E andava
innanzi di questo modo, vituperandomi con  violenza,  schernendomi,  ponendo  in
caricatura tutto ciò ch'io gli avea detto di religione e di morale,  protestando
di vivere e di morire sempre lo stesso, cioè col più grand'odio e col  più  gran
disprezzo contro tutte le filosofie diverse dalla sua.  Restai  sbalordito!  "Le
belle conversioni ch'io fo!"  dicev'io  con  dolore  ed  inorridendo.  "Dio  m'è
testimonio se le mie intenzioni non erano pure! - No, queste ingiurie non le  ho
meritate! - Ebbene, pazienza; è un disinganno di  più.  Tal  sia  di  colui,  se
s'immagina offese per aver la voluttà di non perdonarle!  Più  di  quel  che  ho
fatto non sono obbligato di fare." Tuttavia, dopo alcuni giorni il mio sdegno si
mitigò, e pensai che una lettera  frenetica  poteva  essere  stato  frutto  d'un
esaltamento non durevole. "Forse ei già se ne vergogna" diceva io "ma  è  troppo
altero da confessare il suo torto. Non sarebbe opera  generosa,  or  ch'egli  ha
avuto tempo di calmarsi, lo scrivergli  ancora?"  Mi  costava  assai  far  tanto
sacrifizio d'amor proprio, ma lo feci. Chi s'umilia senza  bassi  fini,  non  si
degrada, qualunque ingiusto spregio gliene torni. Ebbi per risposta una  lettera
meno violenta, ma non meno insultante. L'implacato mi diceva ch'egli ammirava la
mia evangelica moderazione. «Or dunque  ripigliamo  pure»  proseguiva  egli  «la
nostra corrispondenza; ma parliamo chiaro. Noi non ci amiamo. Ci scriveremo  per
trastullare ciascuno se stesso, mettendo sulla carta liberamente tutto  ciò  che
ci viene in capo: voi le vostre immaginazioni serafiche ed io le mie  bestemmie;
voi le vostre estasi  sulla  dignità  dell'uomo  e  della  donna,  io  l'ingenuo
racconto delle mie  profanazioni;  sperando  io  di  convertir  voi,  e  voi  di
convertir me. Rispondetemi se vi piaccia il patto.» Risposi: «Il vostro non è un
patto, ma uno scherno. Abbondai in buon volere con  voi.  La  coscienza  non  mi
obbliga più ad altro che ad augurarvi tutte le felicità per questa e per l'altra
vita». Così finì la mia clandestina relazione con quell'uomo - chi sa?  -  forse
più inasprito dalla sventura e delirante per disperazione, che malvagio.

CAPO XLII

Benedissi un'altra volta davvero la solitudine, ed i miei  giorni  passarono  di
nuovo per alcun  tempo  senza  vicende.  Finì  la  state;  nell'ultima  metà  di
settembre, il caldo scemava. Ottobre venne; io mi rallegrava allora d'avere  una
stanza che nel verno doveva esser buona. Ecco una mattina il custode che mi dice
avere ordine di mutarmi di carcere. «E dove si  va?»  «A  pochi  passi,  in  una
camera più fresca.» «E perché non pensarci quand'io moriva dal caldo,  e  l'aria
era tutta zanzare, ed il letto era tutto  cimici?»  «Il  comando  non  è  venuto
prima.» «Pazienza, andiamo.» Bench'io avessi assai patito in  quel  carcere,  mi
dolse di lasciarlo; non soltanto perché  nella  fredda  stagione  doveva  essere
ottimo, ma per tanti perché. Io v'avea quelle formiche, ch'io  amava  e  nutriva
con sollecitudine, se non fosse espressione ridicola, direi  quasi  paterna.  Da
pochi giorni quel caro ragno di  cui  parlai,  era,  non  so  per  qual  motivo,
emigrato; ma io diceva: "Chi sa che non si ricordi di me e non  ritorni?  Ed  or
che me ne vado, ritornerà forse, e troverà  la  prigione  vota,  o  se  vi  sarà
qualch'altro ospite, potrebbe essere un nemico de' ragni, e raschiar  giù  colla
pantofola quella bella tela, e schiacciare  la  povera  bestia!  Inoltre  quella
trista prigione non m'era stata abbellita dalla  pietà  della  Zanze?  A  quella
finestra s'appoggiava sì spesso, e lasciava cadere generosamente i bricioli  de'
buzzolai alle mie formiche. Lì solea sedere; qui mi fece il tal racconto; qui il
tal altro; là s'inchinava sul mio tavolino e le sue lagrime vi grondarono! ". Il
luogo ove mi posero era pur sotto i Piombi, ma a tramontana e ponente,  con  due
finestre, una di qua, l'altra  di  là;  soggiorno  di  perpetui  raffreddori,  e
d'orribile ghiaccio ne' mesi rigidi. La  finestra  a  ponente  era  grandissima;
quella a tramontana era piccola ed alta, al disopra del mio  letto.  M'affacciai
prima a quella, e vidi  che  metteva  verso  il  palazzo  del  patriarca.  Altre
prigioni erano presso la mia, in un'ala di poca estensione a destra, ed  in  uno
sporgimento di fabbricato che mi stava dirimpetto. In quello sporgimento stavano
due carceri, una sull'altra. La inferiore aveva un finestrone enorme, pel  quale
io vedea dentro  passeggiare  un  uomo  signorilmente  vestito.  Era  il  signor
Caporali di Cesena. Questi mi vide, mi fece qualche segno, e ci dicemmo i nostri
nomi. Volli quindi esaminare  dove  guardasse  l'altra  mia  finestra.  Posi  il
tavolino sul letto e sul tavolino una sedia, m'arrampicai sopra, e vidi essere a
livello d'una parte del tetto del palazzo. Al di là del palazzo appariva un  bel
tratto della città e della laguna. Mi fermai a considerare quella bella  veduta,
e udendo che s'apriva  la  porta,  non  mi  mossi.  Era  il  custode,  il  quale
scorgendomi lassù arrampicato, dimenticò ch'io non poteva passare come un sorcio
attraverso le sbarre, pensò ch'io tentassi di fuggire, e nel rapido istante  del
suo turbamento saltò sul letto, ad onta di una sciatica  che  lo  tormentava,  e
m'afferrò per le gambe, gridando come un'aquila. «Ma non vedete,» gli  dissi  «o
smemorato, che non si può fuggire per causa di queste  sbarre?  Non  capite  che
salii per sola curiosità?» «Vedo, sior, vedo, capisco, ma la cali giù, le  digo,
la cali, queste le son tentazion  de  scappar.»  E  mi  convenne  discendere,  e
ridere.

CAPO XLIII

Alle finestre delle prigioni  laterali  conobbi  sei  altri  detenuti  per  cose
politiche. Ecco dunque che, mentre io mi disponeva ad  una  solitudine  maggiore
che in passato, io mi trovo in una specie di mondo. A principio m'increbbe,  sia
che il lungo vivere romito avesse già fatto alquanto insocievole  l'indole  mia,
sia che il dispiacente esito della  mia  conoscenza  con  Giuliano  mi  rendesse
diffidente. Nondimeno quel poco di conversazione che prendemmo a fare,  parte  a
voce e parte a segni, parvemi in breve un beneficio,  se  non  come  stimolo  ad
allegrezza, almeno come divagamento. Della mia relazione con Giuliano  non  feci
motto con alcuno. C'eravamo egli ed  io  dato  parola  d'onore  che  il  segreto
resterebbe sepolto in noi. Se ne favello in queste carte, gli  è  perché,  sotto
gli occhi di chiunque andassero, gli  sarebbe  impossibile  indovinare  chi,  di
tanti che giacevano in quelle carceri,  fosse  Giuliano.  Alle  nuove  mentovate
conoscenze di concaptivi s'aggiunse un'altra che mi  fu  pure  dolcissima  Dalla
finestra grande io vedeva, oltre lo sporgimento  di  carceri  che  mi  stava  in
faccia, una estensione di tetti, ornata di camini, d'altane,  di  campanili,  di
cupole, la quale andava a perdersi colla prospettiva del mare e del cielo. Nella
casa più vicina a me, ch'era un'ala del patriarcato, abitava una buona famiglia,
che acquistò diritti alla mia riconoscenza mostrandomi coi suoi saluti la  pietà
ch'io le ispirava. Un saluto,  una  parola  d'amore  agl'infelici,  è  una  gran
carità! Cominciò colà, da una finestra, ad alzare le  sue  manine  verso  me  un
ragazzetto di nove o dieci anni, e l'intesi gridare: «Mamma,  mamma,  han  posto
qualcheduno lassù ne' Piombi. O povero prigioniero, chi sei?»  «Io  sono  Silvio
Pellico»  risposi.  Un  altro  ragazzo  più  grandicello  corse  anch'egli  alla
finestra, e gridò: «Tu sei Silvio Pellico?» «Sì, e voi cari fanciulli?»  «Io  mi
chiamo Antonio S..., e mio  fratello  Giuseppe.»  Poi  si  voltava  indietro,  e
diceva: «Che cos'altro debbo dimandargli?». Ed una donna,  che  suppongo  essere
stata lor madre, e stava mezzo nascosta, suggeriva parole gentili  a  que'  cari
figliuoli, ed essi le diceano, ed io ne li ringraziava colla più viva tenerezza.
Quelle conversazioni erano piccola cosa, e non bisognava abusarne  per  non  far
gridare il custode, ma ogni giorno  ripetevansi  con  mia  grande  consolazione,
all'alba, a mezzodì e a sera. Quando accendevano il lume, quella donna  chiudeva
la finestra, i fanciulli  gridavano:  «Buona  notte,  Silvio!»  ed  ella,  fatta
coraggiosa dall'oscurità, ripetea  con  voce  commossa:  «Buona  notte,  Silvio!
coraggio!». Quando que' fanciulli faceano colezione o merenda, mi  diceano:  «Oh
se potessimo darti del nostro caffè e latte! Oh se potessimo  darti  de'  nostri
buzzolai! Il giorno che andrai in libertà sovvengati di  venirci  a  vedere.  Ti
daremo dei buzzolai belli e caldi, e tanti baci!»

CAPO XLIV

Il mese d'ottobre era la ricorrenza del più brutto de' miei anniversari  Io  era
stato arrestato il 13 di  esso  mese  dell'anno  antecedente.  Parecchie  tristi
memorie mi ricorrevano inoltre in quel mese. Due anni prima, in  ottobre,  s'era
per funesto accidente annegato nel Ticino un valentuomo ch'io molto onorava. Tre
anni prima, in ottobre, s'era involontariamente ucciso con uno schioppo  Odoardo
Briche, giovinetto ch'io amava quasi fosse stato mio figlio. A' tempi della  mia
prima gioventù, in ottobre, un'altra grave afflizione m'avea  colpito.  Bench'io
non sia superstizioso, il rincontrarsi fatalmente in quel mese  ricordanze  così
infelici, mi rendea tristissimo. Favellando dalla finestra con que' fanciulli  e
co' miei concaptivi, io mi fingea lieto, ma appena rientrato nel  mio  antro  un
peso inenarrabile di  dolore  mi  piombava  sull'anima.  Prendea  la  penna  per
comporre qualche verso o per attendere ad altra cosa letteraria,  ed  una  forza
irresistibile parea costringermi a  scrivere  tutt'altro.  Che?  lunghe  lettere
ch'io non poteva mandare; lunghe lettere alla mia cara famiglia, nelle quali  io
versava tutto il mio cuore. Io le scriveva sul tavolino,  e  poi  le  raschiava.
Erano calde espressioni di tenerezza, e rimembranze della felicità  ch'io  aveva
goduto presso genitori, fratelli e sorelle  così  indulgenti,  così  amanti.  Il
desiderio ch'io sentiva di loro m'ispirava  un'infinità  di  cose  appassionate.
Dopo avere scritto ore ed ore, mi restavano sempre altri sentimenti a  svolgere.
Questo era, sotto una nuova forma, un ripetermi la mia biografia,  ed  illudermi
ridipingendo il passato; un forzarmi a tener gli occhi sul tempo felice che  non
era più. Ma, oh Dio! quante volte,  dopo  aver  rappresentato  con  animatissimo
quadro un tratto della mia più bella vita, dopo  avere  inebbriata  la  fantasia
fino  a  parermi  ch'io  fossi  colle  persone  a  cui  parlava,  mi   ricordava
repentinamente del  presente,  e  mi  cadea  la  penna  ed  inorridiva!  Momenti
veramente spaventosi eran quelli! Aveali già provati altre volte, ma non mai con
convulsioni pari a quelle che or mi assalivano. Io attribuiva tali convulsioni e
tali orribili angosce al troppo eccitamento degli affetti, a cagione della forma
epistolare ch'io dava a quegli scritti, e del dirigerli a persone si care. Volli
far altro, e non potea; volli abbandonare almeno  la  forma  epistolare,  e  non
potea. Presa la penna, e messomi a scrivere, ciò che ne risultava era sempre una
lettera piena di tenerezza e di dolore. "Non son io più libero del mio  volere?"
andava dicendo. "Questa necessità di fare ciò che non vorrei fare, è  dessa  uno
stravolgimento del mio cervello? Ciò  per  l'addietro  non  m'accadeva.  Sarebbe
stata cosa spiegabile ne' primi tempi della mia  detenzione;  ma  ora  che  sono
maturato alla vita carceraria, ora che la fantasia dovrebbe essersi  calmata  su
tutto, ora che mi son cotanto nutrito di riflessioni  filosofiche  e  religiose,
come divento io schiavo delle  cieche  brame  del  cuore,  e  pargoleggio  così?
Applichiamoci ad altro." Cercava allora di pregare, o d'opprimermi collo  studio
della lingua tedesca. Vano sforzo! Io m'accorgeva di tornar a scrivere  un'altra
lettera.

CAPO XLV

Simile stato era una vera  malattia;  non  so  se  debba  dire,  una  specie  di
sonnambulismo. Era senza dubbio effetto d'una  grande  stanchezza,  operata  dal
pensare e dal vegliare. Andò più oltre. Le  mie  notti  divennero  costantemente
insonni e per lo più  febbrili.  Indarno  cessai  di  prendere  caffè  la  sera;
l'insonnia era la stessa. Ma pareva che in me fossero due uomini, uno che voleva
sempre scriver lettere, e l'altro che  voleva  far  altro.  "Ebbene"  diceva  io
"transigiamo, scrivi pur lettere, ma scrivile in tedesco; così impareremo quella
lingua. " Quindi in poi scriveva tutto in  un  cattivo  tedesco.  Per  tal  modo
almeno feci qualche progresso in quello studio. Il mattino, dopo  lunga  veglia,
il cervello spossato cadeva in  qualche  sopore.  Allora  sognava,  o  pinttosto
delirava, di vedere il padre, la madre, o altro  mio  caro  disperarsi  sul  mio
destino.  Udiva  di  loro  i  più  miserandi  singhiozzi,  e  tosto  mi  destava
singhiozzando e spaventato. Talvolta in que' brevissimi sogni sembravami  d'udir
la madre consolare gli altri, entrando con essi nel mio carcere, e  volgermi  le
più sante parole sul dovere della rassegnazione; e quand'io più  rallegrava  del
suo coraggio e del coraggio degli  altri,  ella  prorompeva  improvvisamente  in
lagrime, e tutti piangevano. Niuno può dire quali strazii fossero allora  quelli
all'anima mia. Per uscire di tanta miseria, provai di non andare più  affatto  a
letto. Teneva acceso il lume l'intera notte, e stava al  tavolino  a  leggere  e
scrivere. Ma che? Veniva il momento ch'io leggeva, destissimo,  ma  senza  capir
nulla, e che assolutamente la testa più non  mi  reggeva  a  comporre  pensieri.
Allora io copiava qualche cosa, ma copiava ruminando tutt'altro  che  ciò  ch'io
scriveva, ruminando le mie afflizioni. Eppure, s'io andava a letto  era  peggio.
Niuna posizione m'era tollerabile, giacendo:  m'agitava  convulso,  e  conveniva
alzarmi. Ovvero, se alquanto dormiva, que' disperanti sogni mi faceano più  male
del vegliare. Le mie preci erano aride, e nondimeno io le ripeteva sovente;  non
con lungo orare di parole, ma invocando Dio! Dio unito all'uomo ed esperto degli
umani dolori! In quelle orrende notti, l'immaginativa mi  s'esaltava  talora  in
guisa che pareami, sebbene svegliato, or  d'udir  gemiti  nel  mio  carcere,  or
d'udir risa soffocate. Dall'infanzia in poi non era mai stato credulo a  streghe
e folletti, ed or quelle risa e que' gemiti mi atterrivano,  e  non  sapea  come
spiegar ciò, ed era costretto a dubitare s'io  non  fossi  ludibrio  d'incognite
maligne potenze. Più volte presi tremando il lume,  e  gridai  se  v'era  alcuno
sotto il letto che mi beffasse. Più volte mi  venne  il  dubbio  che  m'avessero
tolto dalla prima stanza e  trasportato  in  questa  perché  ivi  fosse  qualche
trabocchello, ovvero nelle pareti qualche secreta apertura, donde i miei sgherri
spiassero tutto ciò ch'io faceva e si divertissero  crudelmente  a  spaventarmi.
Stando al tavolino, or pareami che alcuno mi tirasse pel vestito, or  che  fosse
data una spinta ad un libro, il quale cadeva a terra, or che una persona  dietro
a me soffiasse sul lume per ispegnerlo. Allora io  balzava  in  piedi,  guardava
intorno, passeggiava con diffidenza, e chiedeva a me stesso s'io fossi impazzato
od in senno. Non sapea più che cosa, di ciò ch'io vedeva e sentiva, fosse realtà
od  illusione,  e  sclamava  con  angoscia:  «Deus  meus,  Deus  meus,  ut  quid
dereliquisti me?»

CAPO XLVI

Una volta, andato a letto alquanto prima dell'alba, mi parve d'avere la più gran
certezza d'aver messo il fazzoletto sotto  il  capezzale.  Dopo  un  momento  di
sopore, mi destai al solito, e mi sembrava che mi strangolassero. Sento  d'avere
il collo strettamente avvolto. Cosa strana!  Era  avvolto  col  mio  fazzoletto,
legato forte a più nodi. Avrei giurato di non aver fatto que' nodi, di non  aver
toccato il fazzoletto, dacché l'avea messo sotto il  capezzale.  Convieni  ch'io
avessi operato sognando o delirando, senza più serbarne alcuna memoria;  ma  non
potea crederlo, e  d'allora  in  poi  stava  in  sospetto  ogni  notte  d'essere
strangolato. Capisco quanto simili vaneggiamenti debbano essere ridicoli altrui,
ma a me  che  li  provai  faceano  tal  male  che  ne  raccapriccio  ancora.  Si
dileguavano ogni mattino; e finché durava la luce del dì, io mi sentiva  l'animo
così rinfrancato contro que' terrori, che mi sembrava impossibile di doverli mai
più patire. Ma al tramonto del sole io cominciava  a  rabbrividire,  e  ciascuna
notte riconduceva le brutte stravaganze della precedente. Quanto maggiore era la
mia debolezza nelle tenebre, tanto maggiori  erano  i  miei  sforzi  durante  il
giorno per mostrarmi allegro ne' colloquii co' compagni,  co'  due  ragazzi  del
patriarcato e co' rnici carcerieri. Nessuno, udendomi scherzare  com'io  faceva,
si sarebbe immaginato la misera infermità ch'io  soffriva.  Sperava  con  quegli
sforzi di rinvigorirmi; ed a nulla giovavano. Quelle apparenze notturne, che  il
giorno io chiamava sciocchezze, la  sera  tornavano  ad  essere  per  me  realtà
spaventevoli. Se avessi ardito, avrei supplicato la Commissione  di  mutarmi  di
stanza, ma non seppi mai indurmivi, temendo di far ridere. Essendo vani tutti  i
raziocinii,  tutti  i  proponimenti,  tutti  gli  studii,  tutte  le  preghiere,
l'orribile idea d'essere totalmente e per sempre abbandonato da Dio  s'impadronì
di me. Tutti que' maligni sofismi  contro  la  Provvidenza,  che  in  istato  di
ragione, poche settimane prima, m'apparivano sì stolti, or vennero  a  frullarmi
nel capo  bestialmente,  e  mi  sembrarono  attendibili.  Lottai  contro  questa
tentazione parecchi dì, poi mi vi abbandonai. Sconobbi la bontà della religione;
dissi, come avea udito dire da rabbiosi atei, e come testé  Giuliano  scriveami:
«La religione non vale ad altro  che  ad  indebolire  le  menti».  M'arrogai  di
credere che rinunciando a Dio la mente mi si rinforzerebbe. Forsennata  fiducia!
Io negava Dio, e non sapea negare gl'invisibili  malefici  enti  che  sembravano
circondarmi e pascersi de miei dolori. Come  qualificare  quel  martirio?  Basta
egli il dire ch'era una malattia? od era egli, nello stesso  tempo,  un  castigo
divino per abbattere il mio orgoglio  e  farmi  conoscere  che,  senza  un  lume
particolare, io potea divenire incredulo come Giuliano, e più insensato di  lui?
Checché ne sia, Dio mi liberò di tanto male  quando  meno  me  l'aspettava.  Una
mattina, preso il caffè, mi vennero  vomiti  violenti,  e  coliche.  Pensai  che
m'avessero avvelenato. Dopo la fatica de' vomiti, era tutto in sudore, e  stetti
a letto. Verso mezzogiorno mi addormentai, e dormii placidamente fino a sera. Mi
svegliai, sorpreso di tanta quiete; e, parendomi di non aver più sonno, m'alzai.
"Stando alzato" diss'io "sarò più forte contro i soliti terrori." Ma  i  terrori
non vennero. Giubilai, e nella piena della mia riconoscenza, tornando a  sentire
Iddio, mi gettai a terra ad adorarlo  e  chiedergli  perdono  d'averlo  per  più
giorni negato. Quell'effusione di gioia esaurì le  mie  forze,  e  fermatomi  in
ginocchio alquanto, appoggiato  ad  una  sedia,  fui  ripigliato  dal  sonno,  e
m'addormentai in quella posizione. Di lì non so se ad un'ora o più ore, mi desto
a mezzo, ma appena ho tempo di  buttarmi  vestito  sul  letto,  e  ridormo  sino
all'aurora. Fui sonnolento ancor tutto il giorno; la sera mi coricai  presto,  e
dormii l'intera notte. Qual crisi erasi operata in me?  Lo  ignoro,  ma  io  era
guarito.

CAPO XLVII

Cessarono le nausee che pativa da lungo tempo il mio stomaco, cessarono i dolori
di capo, e mi venne un appetito straordinario. Io  digeriva  eccellentemente,  e
cresceva in  forze.  Mirabile  Provvidenza!  ella  m'avea  tolto  le  forze  per
umiliarmi; ella me le rendea perché appressavasi l'epoca delle sentenze, e volea
ch'io non soccombessi al  loro  annunzio.  Addì  24  novembre,  uno  de'  nostri
compagni, il dottor Foresti, fu tolto dalle carceri de' Piombi e trasportato non
sapevam dove. Il custode, sue moglie ed i secondini erano  atterriti;  niuno  di
loro volea darmi luce su questo mistero «E che cosa vuol ella  sapere,»  diceami
Tremerello «se nulla v'è di buono a sanare? Le ho detto già troppo, le ho  detto
già troppo.» «Su via, che serve il tacere?» gridai raccapricciando «non v'ho  io
capito?  Egli  è  dunque  condannato  a  morte?»  «Chi?...  egli?...  il  dottor
Foresti...» Tremerello esitava; ma la voglia di chiacchierare non  era  l'infima
delle sue virtù. «Non dica poi che son ciarlone;  io  non  volea  proprio  aprir
bocca su queste cose. Si ricordi che m'ha costretto» «Si,  sì,  v'ho  costretto;
ma, animo! ditemi tutto Che n'è del povero Foresti?» «Ah,  signore!  gli  fecero
passare il ponte de' Sospiri! egli è nelle carceri  criminali!  La  sentenza  di
morte è state letta a lui e a due altri.» «E si eseguirà? quando? Oh  miseri!  E
chi sono gli altri due?» «Non so altro, non  so  altro.  Le  sentenze  non  sono
ancora pubblicate. Si dice per Venezia che vi saranno parecchie commutazioni  di
pena. Dio volesse che la morte non s'eseguisse per nessuno di loro! Dio  volesse
che, se non son tutti salvi da morte, ella almeno lo fosse! Io ho  messo  a  lei
tale affezione... perdoni la libertà... come se fosse un  mio  fratello!»  E  se
n'andò commosso. Il lettore può pensare in quale agitazione io mi trovassi tutto
quel dì, e la notte seguente, e tanti altri  giorni,  che  nulla  di  più  potei
sapere. Durò l'incertezza un mese: finalmente  le  sentenze  relative  al  primo
processo furono pubblicate. Colpivano molte  persone,  nove  delle  quali  erano
condannate a morte, e poi per grazia a carcere duro, quali per vent'anni,  quali
per quindici (e  ne'  due  casi  doveano  scontar  la  pena  nella  fortezza  di
Spielberg, presso la città di Brünn in Moravia), quali per dieci anni o meno (ed
allora andavano nella fortezza di Lubiana). L'essere stata commutata la  pena  a
tutti quelli del primo  processo,  era  egli  argomento  che  la  morte  dovesse
risparmiarsi anche a quelli del secondo? Ovvero l'indulgenza sarebbesi usata  ai
soli primi, perché arrestati  prima  delle  notificazioni  che  si  pubblicarono
contro le società secrete, e tutto il rigore cadrebbe sui secondi? "La soluzione
del dubbio non può esser lontana;" diss'io "sia ringraziato  il  Cielo,  che  ho
tempo di prevedere la morte e d'apparecchiarmivi."

CAPO XLVIII

Era mio unico pensiero il morire cristianamente e col debito coraggio.  Ebbi  la
tentazione di sottrarmi al patibolo  col  suicidio,  ma  questa  sgombrò.  "Qual
merito evvi a non lasciarsi  ammazzare  da  un  carnefice,  ma  rendersi  invece
carnefice di sé? Per salvar l'onore? E non è una fanciullaggine il  credere  che
siavi più onore nel fare una burla al carnefice, che nel non  fargliela,  quando
pur sia forza  morire?"  Anche  se  non  fossi  stato  cristiano,  il  suicidio,
riflettendovi, mi sarebbe sembrato un piacere sciocco,  una  inutilità.  "Se  il
termine della mia vita è venuto," m'andava io dicendo "non  sono  io  fortunato,
che sia in guisa da lasciarmi tempo per raccogliermi e purificare  la  coscienza
con desideri e pentimenti degni d'un uomo? Volgarmente giudicando,  l'andare  al
patibolo è la peggiore delle morti: giudicando da savio, non  è  dessa  migliore
delle  tante  morti  che  avvengono  per  malattia,  con  grande   indebolimento
d'intelletto, che non lascia più luogo a rialzar l'anima da pensieri bassi?»  La
giustezza di tal ragionamento mi penetrò sì forte  nello  spirito,  che  l'orror
della morte, e di quella specie  di  morte,  si  dileguava  interamente  da  me.
Meditai molto sui sacramenti che doveano invigorirmi  al  solenne  passo,  e  mi
parea  d'essere  in  grado  di  riceverli  con  tali  disposizioni  da  provarne
l'efficacia.  Quell'altezza  d'animo  ch'io   credea   d'avere,   quella   pace,
quell'indulgente affezione verso coloro che m'odiavano, quella  gioia  di  poter
sacrificare la mia vita alla volontà di Dio, le  avrei  io  serbate  s'io  fossi
stato condotto al supplizio? Ahi! che l'uomo è pieno di contraddizioni, e quando
sembra essere più gagliardo e più santo può cadere fra un istante  in  debolezza
ed in colpa! Se allora io sarei morto degnamente, Dio solo il sa. Non  mi  stimo
abbastanza da affermarlo. Intanto la verisimile vicinanza della morte fermava su
questa idea siffattamente la mia immaginazione, che il morire pareami  non  solo
possibile, ma significato da infallibile presentimento. Niuna speranza d'evitare
questo destino penetrava più nel mio cuore, e ad  ogni  suono  di  pedate  e  di
chiavi, ad ogni aprirsi della mia porta, io mi dicea: "Coraggio! forse vengono a
prenderti per udire la sentenza.  Ascoltiamola  con  dignitosa  tranquillità,  e
benediciamo il Signore». Meditai ciò ch'io dovea  scrivere  per  l'ultima  volta
alla mia famiglia, e partitamente al padre, alla madre, a ciascun dei  fratelli,
e a ciascuna delle sorelle; e volgendo in mente quelle espressioni d'affetti  sì
profondi e sì sacri, io m'inteneriva con molta  dolcezza,  e  piangeva,  e  quel
pianto non infiacchiva la mia rassegnata volontà.  Come  non  sarebbe  ritornata
l'insonnia? Ma quanto era diversa dalla prima! Non udiva né gemiti né risa nella
stanza; non vaneggiava né di spiriti né d'uomini nascosti. La  notte  m'era  più
deliziosa del giorno, perché io mi concentrava di più nella preghiera. Verso  le
quattr'ore io solea mettermi a letto, e  dormiva  placidamente  circa  due  ore.
Svegliatomi, stava in letto tardi per riposare. M'alzava verso  le  undici.  Una
notte, io m'era coricato alquanto prima del solito ed  avea  dormito  appena  un
quarto d'ora, quando, ridesto, m'apparve un'immensa luce nella parete in  faccia
a me. Temetti d'esser ricaduto ne' passati delirii; ma ciò ch'io vedeva non  era
un'illusione. Quella luce veniva dal finestruolo a tramontana, sotto il quale io
giaceva. Balzo a terra, prendo il tavolino, lo metto sul letto,  vi  sovrappongo
una sedia, ascendo; - e veggo uno de' più belli e terribili spettacoli di fuoco,
ch'io potessi immaginarmi. Era un grande incendio, a un tiro di  schioppo  dalle
nostre carceri. Prese alla casa ov'erano i forni  pubblici,  e  la  consumò.  La
notte era oscurissima, e tanto più spiccavano que' vasti globi di  fiamme  e  di
fumo, agitati com'erano da furioso vento. Volavano scintille da tutte le  parti,
e sembrava che il cielo le piovesse. La vicina laguna rifletteva l'incendio. Una
moltitudine di gondole andava e  veniva.  Io  m'immaginava  lo  spavento  ed  il
pericolo di quelli che abitavano nella casa incendiata  e  nelle  vicine,  e  li
compiangeva. Udiva lontane voci d'uomini e donne  che  si  chiamavano:  Tognina!
Momolo! Beppo! Zanze!. Anche il nome di Zanze mi sonò all'orecchio! Ve  ne  sono
migliaia a Venezia; eppure io  temeva  che  potesse  essere  quell'una,  la  cui
memoria m'era sì soave! "Fosse mai là  quella  sciagurata?  e  circondata  forse
dalle fiamme? Oh potessi scagliarmi a liberarla!"  Palpitando,  raccapricciando,
ammirando, stetti sino all'aurora a quella finestra;  poi  discesi  oppresso  da
tristezza mortale, figurandomi molto più danno che non era avvenuto.  Tremerello
mi disse non essere arsi se non i forni e  gli  annessi  magazzini,  con  grande
quantità di sacchi di farina.

CAPO XLIX

La mia fantasia era ancora vivamente colpita  dall'aver  veduto  quell'incendio,
allorché, poche notti appresso - io non era ancora andato a letto,  e  stava  al
tavolino studiando, e tutto intirizzito dal freddo -, ecco  voci  poco  lontane:
erano quelle del custode, di sua moglie, de'  loro  figli,  de'  secondini:  «Il
fogo! il fogo. Oh Beata Vergine! oh noi perdui!».  Il  freddo  mi  cessò  in  un
istante: balzai tutto sudato in piedi, e guardai  intorno  se  già  si  vedevano
fiamme. Non se ne vedevano. L'incendio per altro  era  nel  palazzo  stesso,  in
alcune stanze ufficio vicine alle carceri. Uno de' secondini gridava: «Ma,  sior
paron, cossa faremo de sti siori ingabbiai, se el fogo  s'avanza?».  Il  custode
rispondeva: «Mi no gh'ho cor de lassarli abbrustolar. Eppur no se po averzeri le
preson, senza el permesso de la Commission. Anemo, digo, corrè dunque a dimandar
sto permesso». «Vado de botto, sior, ma la risposta no sarà miga in tempo, sala»
E dov'era quella eroica rassegnazione ch'io teneami così  sicuro  di  possedere,
pensando alla morte? Perché l'idea di bruciar vivo mi mettea la febbre? Quasiché
ci fosse maggior piacere a lasciarsi stringer la gola che a bruciare!  Pensai  a
ciò, e mi vergognai della mia paura; stava per gridare al custode che per carità
m'aprisse, ma mi frenai. Nondimeno io avea paura. "Ecco," diss'io "qual sarà  il
mio coraggio, se  scampato  dal  fuoco  verrò  condotto  a  morte!  Mi  frenerò,
nasconderò altrui la mia viltà, ma tremerò.  Se  non  che...  non  è  egli  pure
coraggio l'operare come se non si sentissero tremiti, e  sentirli?  Non  è  egli
generosità lo sforzarsi di dar volentieri ciò che rincresce di dare? Non è  egli
obbedienza l'obbedire ripugnando?" Il trambusto nella casa del  custode  era  sì
forte, che indicava un pericolo sempre crescente. Ed il secondino ito a chiedere
la permissione di trarci di que' luoghi,  non  ritornava!  Finalmente  sembrommi
d'intendere la sua voce. Ascoltai, e non distinsi le sue parole. Aspetto, spero;
indarno! nessuno viene. Possibile che non  siasi  conceduto  di  traslocarci  in
salvo dal fuoco? E se non ci fosse più modo di scampare? E se il  custode  e  la
sua famiglia stentassero a mettere in salvo se medesimi, e nessuno più  pensasse
ai poveri ingabbiai? "Tant'è," ripigliava io "questa non è filosofia, questa non
è religione! Non farei io meglio d'apparecchiarmi  a  veder  le  fiamme  entrare
nella mia stanza e divorarmi?" Intanto i romori scemavano. A  poco  a  poco  non
udii più nulla. "È questo prova esser cessato l'incendio?  Ovvero  tutti  quelli
che poterono sarann'essi fuggiti, e non rimangono più  qui  se  non  le  vittime
abbandonate a sì crudel fine?" La continuazione del silenzio mi  calmò:  conobbi
che il fuoco doveva essere spento. Andai a letto, e mi  rimproverai  come  viltà
l'affanno sofferto; ed or che non si trattava più di bruciare, m'increbbe di non
esser bruciato, piuttosto che avere fra pochi  giorni  ad  essere  ucciso  dagli
uomini. La mattina seguente intesi da Tremerello qual fosse stato l'incendio,  e
risi della paura ch'ei mi disse aver avuta; quasi che la  mia  non  fosse  stata
eguale o maggiore della sua.

CAPO L

Addì 11 gennaio (1822), verso le 9 del mattino, Tremerello  coglie  un'occasione
per venire da me, e tutto agitato mi  dice:  «Sa  ella  che  nell'isola  di  San
Michele di Murano, qui poco lontano da Venezia, v'è una prigione dove sono forse
più di cento carbonari?» «Me l'avete già detto altre volte. Ebbene... che volete
dire?... Su, parlate. Havvene forse di  condannati?»  «Appunto.»  «Quali?»  «Non
so.» «Vi sarebbe mai il mio infelice Maroncelli?» «Ah signore! non  so,  non  so
chi vi sia.» Ed andossene turbato, e guardandomi con atti di  compassione.  Poco
appresso viene il custode, accompagnato da' secondini e da  un  uomo  ch'io  non
avea mai veduto. Il  custode  parea  confuso.  L'uomo  nuovo  prese  la  parola:
«Signore, la Commissione ha ordinato ch'ella venga con me.» «Andiamo;» dissi  «e
voi dunque chi siete?» «Sono il custode delle carceri di San  Michele,  dov'ella
dev'essere tradotta.» Il custode de' Piombi consegnò a  questo  i  denari  miei,
ch'egli avea nelle mani. Dimandai ed  ottenni  la  permissione  di  far  qualche
regalo a' secondini. Misi in ordine la  mia  roba,  presi  la  Bibbia  sotto  il
braccio, e partii.  Scendendo  quelle  infinite  scale,  Tremerello  mi  strinse
furtivamente la mano; parea voler dirmi: "Sciagurato! tu sei  perduto".  Uscimmo
da una porta che mettea sulla laguna; e quivi era una gondola con due  secondini
del nuovo custode Entrai in gondola, ed opposti sentimenti mi commoveano:  -  un
certo rincrescimento d'abbandonare il  soggiorno  dei  Piombi,  ove  molto  avea
patito, ma ove pure io m'era affezionato ad alcuno, ed alcuno erasi  affezionato
a me, - il piacere di trovarmi, dopo tanti mesi di reclusione, all'aria  aperta,
di vedere il cielo e la città e le  acque,  senza  l'infausta  quadratura  delle
inferriate, - il ricordarmi la lieta gondola che  in  tempo  tanto  migliore  mi
portava per quella laguna medesima, e le gondole del lago di Como e  quelle  del
lago Maggiore, e le barchette del Po, e quelle del Rodano e della  Sonna!...  Oh
ridenti anni svaniti! E chi era stato, al mondo, felice al pari di me? Nato  da'
più  amorevoli  parenti,  in  quella  condizione  che  non  è  povertà,  e   che
avvicinandoti  quasi  egualmente  al  povero  ed  al  ricco  t'agevola  il  vero
conoscimento de' due stati - condizione ch'io  reputo  la  più  vantaggiosa  per
coltivare gli affetti -; io,  dopo  un'infanzia  consolata  da  dolcissime  cure
domestiche, era passato a Lione presso un vecchio cugino materno, ricchissimo  e
degnissimo delle sue ricchezze, ove tutto ciò che può esservi d'incanto  per  un
cuore bisognoso d'eleganza e d'amore avea deliziato il primo fervore  della  mia
gioventù: di lì tornato in Italia, e domiciliato co'  genitori  a  Milano,  avea
proseguito a studiare ed amare la società ed i libri,  non  trovando  che  amici
egregi, e lusinghevole plauso. Monti e Foscolo,  sebbene  avversarli  fra  loro,
m'erano  benevoli  egualmente.  M'affezionai  più  a  quest'ultimo;  e  siffatto
iracondo uomo, che colle sue asprezze provocava tanti a disamarlo,  era  per  me
tutto dolcezza e cordialità, ed io lo riveriva teneramente. Gli altri  letterati
d'onore m'amavano anch'essi, com'io li riamava. Niuna  invidia,  niuna  calunnia
m'assalì mai, od almeno erano di gente sì screditata che non potea nuocere. Alla
caduta del regno d'Italia, mio padre avea riportato il suo domicilio  a  Torino,
col resto della famiglia, ed io, procrastinando di raggiungere sì care  persone,
avea finito per rimanermi a Milano, ove tanta felicità  mi  circondava,  da  non
sapermi indurre ad  abbandonarla.  Fra  altri  ottimi  amici,  tre,  in  Milano,
predominavano sul mio cuore, D. Pietro Borsieri, Monsign. Lodovico di Breme,  ed
il conte Luigi Porro Lambertenghi. Vi s'aggiunse in appresso il  conte  Federigo
Confalonieri. Fattomi educatore di due bambini di Porro, io era a quelli come un
padre, ed al loro padre come un fratello. In quella casa affluiva tutto ciò  non
solo che avea di più colto la città, ma copia di ragguardevoli viaggiatori.  Ivi
conobbi la Stäel, Schlegel, Davis, Byron,  Hobhouse,  Brougham,  e  molti  altri
illustri di varie parti d'Europa.  Oh  quanto  rallegra,  e  quanto  stimola  ad
ingentilirsi, la conoscenza degli uomini di merito! Sì, io era  felice!  io  non
avrei mutata la mia sorte con quella d'un principe! - E  da  sorte  sì  gioconda
balzare tra sgherri,  passare  di  carcere  in  carcere,  e  finire  per  essere
strozzato, o perire nei ceppi!

CAPO LI

Volgendo tai pensieri, giunsi a San Michele, e fui chiuso in una stanza che avea
la vista d'un cortile, della laguna e della belle isola  di  Murano.  Chiesi  di
Maroncelli al custode, alla moglie sua,  a  quattro  secondini.  Ma  mi  faceano
visite brevi e piene di diffidenza, e non voleano dirmi niente  Nondimeno,  dove
son cinque o sei persone egli è difficile che non se ne trovi  una  vogliosa  di
compatire e di parlare. Io trovai tal persona, e seppi quanto segue: Maroncelli,
dopo essere stato lungamente solo, era stato messo col conte  Camillo  Laderchi:
quest'ultimo era uscito di carcere, da pochi giorni, come innocente, ed il primo
tornava ad esser solo. De' nostri compagni erano anche usciti,  come  innocenti,
il professor Gian-Domenico  Romagnosi,  ed  il  conte  Giovanni  Arrivabene.  Il
capitano Rezia ed il signor Canova erano  insieme.  Il  professor  Ressi  giacea
moribondo, in un carcere vicino a quello di questi due. «Di quelli che non  sono
usciti» diss'io «le condanne son dunque venute. E che s'aspetta  a  palesarcele?
Forse che il povero Ressi muoia, o sia in  grado  d'udire  la  sentenza,  non  è
vero?» «Credo di sì.» Tutti i giorni io dimandava dell'infelice. «Ha perduto  la
parola; - l'ha riacquistata, ma vaneggia e non capisce;  -  dà  pochi  segni  di
vita; - sputa sovente sangue, e vaneggia ancora; - sta peggio; - sta meglio; - è
in agonia.» Tali risposte mi  si  diedero  per  più  settimane.  Finalmente  una
mattina mi si disse: «È morto!». Versai una  lagrima  per  lui,  e  mi  consolai
pensando ch'egli aveva ignorata la sua condanna! Il  dì  seguente,  21  febbraio
(1822), il custode viene a prendermi: erano le dieci antimeridiane.  Mi  conduce
nella sale della Commissione, e si ritira. Stavano seduti,  e  si  alzarono,  il
presidente, l'inquisitore e i due giudici assistenti. Il presidente, con atto di
nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e  che  il  giudizio
era stato terribile, ma già  l'Imperatore  l'aveva  mitigato.  L'inquisitore  mi
lesse la sentenza: «Condannato a morte». Poi lesse il rescritto  imperiale:  «La
pena è commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi  nella  fortezza
di Spielberg». Risposi: «Sia fatta là volontà di Dio!».  E  mia  intenzione  era
veramente di ricevere da cristiano questo  orrendo  colpo,  e  non  mostrare  né
nutrire risentimento contro chicchessia. Il presidente lodò la mia tranquillità,
e mi consigliò a serbarla sempre, dicendomi che  da  questa  tranquillità  potea
dipendere l'essere forse, fra due o tre  anni,  creduto  meritevole  di  maggior
grazia. (Invece di due o tre, furono poi molti di più.) Anche gli altri  giudici
mi volsero parole di gentilezza e di speranza. Ma uno di loro che  nel  processo
m'era ognora sembrato molto ostile, mi  disse  alcun  che  di  cortese  che  pur
pareami pungente; e quella cortesia giudicai che fosse smentita  dagli  sguardi,
ne' quali avrei giurato essere un riso di gioia e d'insulto. Or non giurerei più
che fosse così: posso benissimo essermi ingannato. Ma il  sangue  allora  mi  si
rimescolò, e stentai a non prorompere in furore. Dissimulai, e mentre ancora  mi
lodavano della mia cristiana  pazienza,  io  già  l'aveva  in  segreto  perduta.
«Dimani» disse l'inquisitore «ci rincresce di doverle annunciare la sentenza  in
pubblico; ma è formalità impreteribile.» «Sia pure» dissi. «Da quest'istante  le
concediamo» soggiunse «la compagnia del suo amico.» E chiamato  il  custode,  mi
consegnarono di nuovo a lui, dicendogli che fossi messo con Maroncelli.

CAPO LII

Qual dolce istante fu per l'amico e per me il rivederci, dopo un anno e tre mesi
di separazione e di  tanti  dolori!  Le  gioie  dell'amicizia  ci  fecero  quasi
dimenticare per alcuni istanti la condanna. Mi strappai  nondimeno  tosto  dalle
sue braccia,  per  prendere  la  penna  e  scrivere  a  mio  padre.  Io  bramava
ardentemente che l'annuncio della mia triste sorte giungesse  alla  famiglia  da
me, piuttosto che da altri, affinché lo strazio di quegli  amati  cuori  venisse
temperato dal mio linguaggio di pace e di religione. I giudici mi  promisero  di
spedir subito quella lettera. Dopo ciò Maroncelli mi parlò del suo processo,  ed
io del mio, ci confidammo parecchie carcerarie peripezie, andammo alla finestra,
salutammo tre altri amici ch'erano alle finestre loro: due erano Canova e Rezia,
che trovavansi insieme, il primo condannato a sei anni di  carcere  duro  ed  il
secondo a tre; il terzo era il dottor Cesare Armari, che ne' mesi precedenti era
stato mio vicino ne' Piombi. Questi non aveva avuto alcuna condanna, ed uscì poi
dichiarato innocente.  Il  favellare  cogli  uni  e  cogli  altri  fu  piacevole
distrazione per tutto il dì e tutta la sera. Ma andati a letto, spento il  lume,
e fatto silenzio, non mi fu possibile dormire, la testa ardevami,  ed  il  cuore
sanguinava, pensando a casa mia. - Reggerebbero i miei vecchi genitori  a  tanta
sventura? Basterebbero gli altri lor  figli  a  consolarli?  Tutti  erano  amati
quanto io, e valeano più di me; ma un padre ed una madre trovano essi  mai,  ne'
figli che lor restano, un compenso per quello che pèrdono? Avessi  solo  pensato
a' congiunti ed a qualche altra diletta persona! La lor ricordanza mi affliggeva
e m'inteneriva. Ma pensai anche al creduto riso di gioia  e  d'insulto  di  quel
giudice, al processo, al perché delle condanne, alle  passioni  politiche,  alla
sorte di tanti miei amici... e non seppi più giudicare con indulgenza alcuno dei
miei avversarii. Iddio mi metteva in una gran prova! Mio debito sarebbe stato di
sostenerla con virtù. Non potei! non volli! La voluttà dell'odio mi piacque  più
del perdono: passai una notte d'inferno. Il mattino, non pregai.  L'universo  mi
pareva opera d'una potenza nemica del bene.  Altre  volte  era  già  stato  così
calunniatore di Dio; ma non avrei creduto di ridivenirlo, e ridivenirlo in poche
ore! Giuliano ne' suoi massimi  furori  non  poteva  essere  più  empio  di  me.
Ruminando pensieri  di  odio,  principalmente  quand'uno  è  percosso  da  somma
sventura, la quale dovrebbe renderlo vieppiù religioso,  foss'egli  anche  stato
giusto, diventa iniquo. Si, foss'egli anche stato giusto; perocché  non  si  può
odiare senza superbia. E chi sei tu, o misero mortale, per pretendere che  niuno
tuo simile ti giudichi severamente? per pretendere che niuno ti possa  far  male
di buona fede, credendo d'operare con giustizia? per lagnarti, se  Dio  permette
che tu patisca piuttosto in un modo che in un altro? Io mi sentiva  infelice  di
non poter pregare; ma ove  regna  superbia,  non  rinviensi  altro  Dio  che  sé
medesimo. Avrei voluto raccomandare ad un supremo soccorritore i  miei  desolati
parenti, e più in lui non credeva.

CAPO LIII

Alle 9 antimeridiane, Maroncelli ed io fummo fatti  entrare  in  gondola,  e  ci
condussero in città. Approdammo al palazzo del Doge, e salimmo alle carceri.  Ci
misero nella stanza ove pochi giorni prima era il signor  Caporali;  ignoro  ove
questi fosse stato tradotto. Nove o dieci sbirri sedeano a farci guardia, e  noi
passeggiando aspettavamo l'istante di esser tratti in piazza  L'aspettazione  fu
lunga. Comparve soltanto a mezzodì l'inquisitore, ad annunciarci  che  bisognava
andare. Il medico si presentò, suggerendoci di bere un  bicchierino  d'acqua  di
menta; accettammo, e fummo grati, non tanto di  questa,  quanto  della  profonda
compassione che il buon vecchio ci dimostrava. Era  il  dottor  Dosmo.  S'avanzò
quindi il capo-sbirro, e ci pose le manette. Seguimmo  lui,  accompagnati  dagli
altri sbirri. Scendemmo la magnifica scala de' giganti, ci ricordammo  del  doge
Marin Faliero, ivi decapitato, entrammo nel gran portone  che  dal  cortile  del
palazzo mette sulla piazzetta, e qui giunti voltammo verso la  laguna.  A  mezzo
della piazzetta era il palco ove dovemmo salire. Dalla scala de' giganti fino  a
quel palco stavano due file di soldati tedeschi;  passammo  in  mezzo  ad  esse.
Montati là sopra, guardammo  intorno,  e  vedemmo  in  quell'immenso  popolo  il
terrore. Per varie parti in lontananza schieravansi altri armati. Ci  fu  detto,
esservi i cannoni colle micce accese dappertutto. Ed era quella  piazzetta,  ove
nel settembre 1820, un mese prima del mio  arresto,  un  mendico  aveami  detto:
«Questo è luogo di disgrazia!». Sovvènnemi di quel mendico, e pensai:  "Chi  sa,
che in tante migliaia di spettatori non siavi anch'egli, e forse  mi  ravvisi?".
Il capitano tedesco gridò che ci volgessimo verso il palazzo  e  guardassimo  in
alto. Obbedimmo, e vedemmo sulla loggia un curiale con una carta in mano. Era la
sentenza.  La  lesse  con   voce   elevata.   Regnò   profondo   silenzio   sino
all'espressione: condannati a morte.  Allora  s'alzò  un  generale  mormorio  di
compassione. Successe nuovo silenzio per udire il  resto  della  lettura.  Nuovo
mormorio s'alzò all'espressione:  condannati  a  carcere  duro,  Maroncelli  per
vent'anni, e Pellico per  quindici.  Il  capitano  ci  fe'  cenno  di  scendere.
Gettammo un'altra volta lo sguardo intorno, e scendemmo. Rientrammo nel cortile,
risalimmo lo scalone, tornammo nella  stanza  donde  eravamo  stati  tratti,  ci
tolsero le manette, indi fummo ricondotti a San Michele.

CAPO LIV

Quelli ch'erano stati condannati avanti noi, erano già partiti per Lubiana e per
lo Spielberg, accompagnati da un commissario  di  polizia.  Ora  aspettavasi  il
ritorno del medesimo commissario,  perché  conducesse  noi  al  destino  nostro.
Questo intervallo durò un mese. La mia vita era allora  di  molto  favellare  ed
udir favellare, per distrarmi. Inoltre Maroncelli mi leggeva le sue composizioni
letterarie, ed io gli leggeva le mie. Una  sera  lessi  dalla  finestra  l'Ester
d'Engaddi a Canova, Rezia ed Armari; e la sera seguente l'Iginia d'Asti.  Ma  la
notte io fremeva e piangeva, e dormiva poco o nulla. Bramava, e paventava ad  un
tempo, di sapere come la notizia del mio infortunio  fosse  stata  ricevuta  da'
miei parenti. Finalmente venne una lettera di mio padre. Qual fu il mio  dolore,
vedendo che l'ultima da me direttagli non gli era stata spedita subito, come  io
avea tanto pregato l'inquisitore! L'infelice padre, lusingatosi sempre che sarei
uscito senza condanna, presa un giorno la «Gazzetta di Milano», vi trovò la  mia
sentenza! Egli stesso mi narrava questo crudele fatto, e mi lasciava  immaginare
quanto l'anima sua ne rimanesse straziata. Oh come,  insieme  all'immensa  pietà
che sentii di lui, della madre, e di tutta la famiglia, arsi di  sdegno,  perché
la lettera mia non fosse stata sollecitamente spedita! Non vi sarà stata malizia
in questo ritardo, ma io la supposi  infernale;  io  credetti  di  scorgervi  un
raffinamento di barbarie, un desiderio che il flagello avesse tutta la  gravezza
possibile anche per gl'innocenti miei congiunti. Avrei voluto poter  versare  un
mare di sangue, per punire questa sognata inumanità. Or che giudico pacatamente,
non la trovo verisimile. Quel ritardo non nacque, senza dubbio, da altro che  da
noncuranza. Furibondo qual io era,  fremetti  udendo  che  i  miei  compagni  si
proponeano di far la Pasqua prima di partire, e sentii ch'io  non  dovea  farla,
stante la niuna mia volontà di perdonare. Avessi dato questo scandalo!

CAPO LV

Il commissario giunse alfine di Germania, e venne a dirci  che  fra  due  giorni
partiremmo. «Ho il piacere» soggiunse  «di  poter  dar  loro  una  consolazione.
Tornando dallo Spielberg, vidi a Vienna S.M. l'Imperatore, il quale mi disse che
i giorni di pena di lor signori vuol valutarli non di 24  ore,  ma  di  12.  Con
questa  espressione  intende  significare  che  la  pena  è  dimezzata.»  Questo
dimezzamento non ci venne poi mai annunziato officialmente, ma non v'era  alcuna
probabilità che il commissario mentisse; tanto più che non ci diede  già  quella
nuova in segreto, ma conscia la Commissione. Io non seppi neppur  rallegrarmene.
Nella mia mente erano poco  meno  orribili  sett'anni  e  mezzo  di  ferri,  che
quindici anni. Mi pareva impossibile di vivere sì lungamente. La mia salute  era
di nuovo assai misera. Pativa dolori di petto gravi, con tosse, e credea lesi  i
polmoni. Mangiava poco, e quel poco nol digeriva. La partenza fu nella notte tra
il 25 ed il 26 marzo. Ci fu  permesso  d'abbracciare  il  dottor  Cesare  Armari
nostro amico. Uno sbirro c'incatenò trasversalmente la mano destra ed  il  piede
sinistro, affinché ci fosse impossibile fuggire.  Scendemmo  in  gondola,  e  le
guardie remigarono verso Fusina.  Ivi  giunti,  trovammo  allestiti  due  legni.
Montarono Rezia e Canova nell'uno; Maroncelli ed io nell'altro. In uno dei legni
era co' due prigioni il commissario, nell'altro un sottocommissario cogli  altri
due. Compivano il convoglio sei o sette guardie di polizia, armate di schioppo e
sciabola, distribuite parte dentro i legni, parte sulla cassetta del  vetturino.
Essere costretto da sventura ad abbandonare la  patria  è  sempre  doloroso,  ma
abbandonarla incatenato, condotto in climi orrendi,  destinato  a  languire  per
anni fra sgherri, è cosa sì straziante che  non  v'ha  termini  per  accennarla!
Prima di varcare le Alpi, vieppiù mi si facea cara d'ora in ora la mia  nazione,
stante la pietà che dappertutto ci dimostravano quelli che incontravamo. In ogni
città, in ogni villaggio, per ogni sparso  casolare,  la  notizia  della  nostra
condanna essendo già  pubblica  da  qualche  settimana,  eravamo  aspettati.  In
parecchi luoghi, i commissarii e le guardie stentavano a dissipare la folla  che
ne circondava. Era mirabile il benevolo sentimento che veniva palesato a  nostro
riguardo. In Udine ci accadde una commovente sorpresa. Giunti alla  locanda,  il
commissario fece chiudere la porta  del  cortile  e  respingere  il  popolo.  Ci
assegnò  una  stanza,  e  disse  ai  camerieri  che  ci  portassero  da  cena  e
l'occorrente per dormire. Ecco un  istante  appresso  entrare  tre  uomini,  con
materassi sulle spalle. Qual è la nostra meraviglia, accorgendoci che  solo  uno
di loro è al servizio della locanda, e che gli altri sono due nostri conoscenti!
Fingemmo d'aiutarli a por giù i materassi, e toccammo loro furtivamente la mano.
Le lagrime sgorgavano dal cuore ad essi ed a noi. Oh quanto ci fu penoso di  non
poterle versare tra le braccia gli uni degli altri! I commissarii non s'avvidero
di quella pietosa scena, ma dubitai che una delle guardie penetrasse il mistero,
nell'atto che il buon Dario mi stringeva la mano. Quella guardia era un  veneto.
Mirò in volto Dario e me, impallidì, sembrò tentennare se dovesse alzar la voce,
ma tacque, e pose gli occhi altrove, dissimulando. Se non  indovinò  che  quelli
erano amici nostri, pensò almeno che fossero camerieri di nostra conoscenza.

CAPO LVI

Il mattino partivamo d'Udine, ed albeggiava appena: quell'affettuoso  Dario  era
già nella strada, tutto mantellato; ci salutò ancora, e ci  seguì  lungo  tempo.
Vedemmo anche una carrozza  venirci  dietro  per  due  o  tre  miglia.  In  essa
qualcheduno facea sventolare un fazzoletto. Alfine retrocesse. Chi  sarà  stato?
Lo supponemmo. Oh Iddio benedica tutte le  anime  generose  che  non  s'adontano
d'amare gli sventurati! Ah, tanto più le apprezzo, dacché, negli anni della  mia
calamità,  ne  conobbi  pur  di  codarde,  che  mi  rinnegarono   e   credettero
vantaggiarsi ripetendo improperii contro di me. Ma quest'ultime furono poche, ed
il  numero  delle  prime  non  fu  scarso.  M'ingannava,  stimando  che   quella
compassione che trovavamo in Italia dovesse cessare  laddove  fossimo  in  terra
straniera. Ah il buono è sempre compatriota degl'infelici! Quando fummo in paesi
illirici e tedeschi avveniva  lo  stesso  che  ne'  nostri.  Questo  gemito  era
universale: arme Herren! (poveri signori!). Talvolta, entrando in qualche paese,
le nostre carrozze erano obbligate a fermarsi, avanti di decidere ove  s'andasse
ad alloggiare. Allora la popolazione si serrava intorno a noi, ed udivamo parole
di compianto che veramente prorompevano dal cuore. La bontà di quella  gente  mi
commoveva  più  ancora  di  quella  de'  miei  connazionali.  Oh  come  io   era
riconoscente a tutti! Oh quanto è soave la pietà de'  nostri  simili!  Quanto  è
soave l'amarli! La consolazione ch'io  indi  traea,  diminuiva  persino  i  miei
sdegni contro coloro ch'io nomava miei nemici. "Chi sa" pensavo io  "se  vedessi
da vicino i loro volti, e se essi vedessero me, e se potessi leggere nelle anime
loro, ed essi nella mia, chi sa ch'io  non  fossi  costretto  a  confessare  non
esservi alcuna scelleratezza in loro; ed essi, non esservene alcuna in  me!  Chi
sa che non fossimo costretti a compatirci a vicenda e  ad  amarci!"  Pur  troppo
sovente gli uomini s'abborrono, perché reciprocamente non  si  conoscono;  e  se
scambiassero insieme  qualche  parola,  uno  darebbe  fiducialmente  il  braccio
all'altro. Ci fermammo un giorno a Lubiana, ove Canova e Rezia furono divisi  da
noi e condotti nel castello; è  facile  immaginarsi  quanto  questa  separazione
fosse dolorosa per tutti quattro. La sera del nostro  arrivo  a  Lubiana  ed  il
giorno seguente, venne a farci cortese compagnia un signore che ci  dissero,  se
io bene intesi, essere un segretario municipale.  Era  molto  umano,  e  parlava
affettuosamente e dignitosamente di religione. Dubitai che  fosse  un  prete:  i
preti in Germania sogliono vestire affatto come secolari. Era  di  quelle  facce
sincere che ispirano stima: m'increbbe di non poter fare  più  lunga  conoscenza
con lui, e m'incresce d'avere avuto la storditezza di dimenticare il  suo  nome.
Quanto dolce mi sarebbe anche di sapere il tuo nome, o  giovinetta,  che  in  un
villaggio della Stiria ci seguisti in mezzo alla turba; e poi, quando la  nostra
carrozza dovette fermarsi alcuni minuti, ci salutasti con  ambe  le  mani,  indi
partisti col fazzoletto agli occhi, appoggiata al braccio  d'un  garzone  mesto,
che alle chiome biondissime parea tedesco, ma che forse era stato in Italia,  ed
avea preso amore alla nostra infelice nazione! Quanto dolce mi sarebbe di sapere
il nome di ciascuno di voi, o venerandi  padri  e  madri  di  famiglia,  che  in
diversi luoghi vi accostaste a  noi  per  dimandarci  se  avevamo  genitori,  ed
intendendo che sì, impallidivate, esclamando: «Oh, restituiscavi presto Iddio  a
que' miseri vecchi!».

CAPO LVII

Arrivammo al luogo della nostra destinazione il 10 di aprile. La città di  Brünn
è capitale della Moravia, ed ivi risiede il governatore delle due  provincie  di
Moravia e Slesia. È situata in una valle ridente, ed  ha  un  certo  aspetto  di
ricchezza. Molte manifatture di panni prosperavano ivi allora, le  quali  poscia
decaddero; la popolazione era di circa 30 mila anime. Accosto alle sue  mura,  a
ponente, s'alza un monticello, e sovr'esso siede l'infausta rocca di  Spielberg,
altre volte reggia de' signori di Moravia, oggi il più  severo  ergastolo  della
monarchia austriaca. Era cittadella assai forte, ma i Francesi la bombardarono e
presero a' tempi della famosa battaglia d'Austerlitz (il villaggio  d'Austerlitz
è a poca distanza). Non fu più ristaurata da poter servire di  fortezza,  ma  si
rifece una parte della cinta, ch'era diroccata. Circa trecento  condannati,  per
lo più ladri ed assassini, sono ivi custoditi, quali a  carcere  duro,  quali  a
durissimo. Il carcere duro significa essere  obbligati  al  lavoro,  portare  la
catena ai piedi, dormire su nudi  tavolacci,  e  mangiare  il  più  povero  cibo
immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una
cerchia di ferro intorno a' fianchi, e la catena infitta nel muro in  guisa  che
appena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto: il cibo è lo
stesso, quantunque la legge dica: pane ed  acqua.  Noi,  prigionieri  di  Stato,
eravamo condannati al carcere duro.  Salendo  per  l'erta  di  quel  monticello,
volgevamo gli occhi indietro per dire addio al mondo, incerti se il baratro  che
vivi c'ingoiava si sarebbe più schiuso per noi. Io era pacato esteriormente,  ma
dentro di me ruggiva. Indarno volea ricorrere alla filosofia per acquetarmi;  la
filosofia non avea ragioni sufficienti per me. Partito  di  Venezia  in  cattiva
salute, il viaggio m'avea stancato miseramente. La testa e  tutto  il  corpo  mi
dolevano: ardea dalla febbre. Il male fisico contribuiva a tenermi  iracondo,  e
probabilmente l'ira aggravava il male fisico. Fummo consegnati al soprintendente
dello Spielberg, ed i nostri nomi vennero da questo inscritti  fra  i  nomi  de'
ladroni. Il commissario imperiale ripartendo ci abbracciò,  ed  era  intenerito;
«Raccomando a lor signori particolarmente la  docilità:»  diss'egli  «la  minima
infrazione alla disciplina può venir punita dal signor soprintendente  con  pene
severe.» Fatta la consegna, Maroncelli ed io  fummo  condotti  in  un  corridoio
sotterraneo, dove ci s'apersero due tenebrose stanze non contigue.  Ciascuno  di
noi fu chiuso nel suo covile.

CAPO LVIII

Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più
che in due amici, egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa  il  dividersi!
Maroncelli nel lasciarmi vedeami infermo, e compiangeva  in  me  un  uomo  ch'ei
probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore  splendido  di
salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore  infatti
oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in  quale  stato!  Allorché  mi
trovai solo in quell'orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi, al
barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto, ed
una enorme catena al muro, m'assisi fremente su  quel  letto,  e,  presa  quella
catena, ne misurai la lunghezza,  pensando  fosse  destinata  per  me.  Mezz'ora
dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s'apre: il capocarceriere  mi  portava
una brocca d'acqua. «Questo è per bere;» disse con  voce  burbera  «e  domattina
porterò la pagnotta.» «Grazie, buon uomo.» «Non sono buono» riprese. «Peggio per
voi» gli dissi sdegnato. «E questa catena,» soggiunsi «è  forse  per  me?»  «Sì,
signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse  insolenze.  Ma
se sarà ragionevole, non le porremo altro che una catena a' piedi. Il fabbro  la
sta apparecchiando.» Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando  quel  villano
mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca,  magra,
vecchia persona; e, ad onta de' lineamenti non volgari del suo volto,  tutto  in
lui mi sembrava l'espressione odiosissima  d'un  brutale  rigore!  Oh  come  gli
uomini sono ingiusti,  giudicando  dall'apparenza  e  secondo  le  loro  superbe
prevenzioni! Colui ch'io m'immaginava agitasse allegramente le chiavi per  farmi
sentire la  sua  trista  podestà,  colui  ch'io  riputava  impudente  per  lunga
consuetudine d'incrudelire, volgea pensieri di  compassione,  e  certamente  non
parlava a  quel  modo,  con  accento  burbero,  se  non  per  nascondere  questo
sentimento Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole e  per  timore
ch'io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo, supponendo che forse io  era  più
infelice che  iniquo,  avrebbe  desiderato  di  palesarmelo.  Noiato  della  sua
presenza, e più  della  sua  aria  da  padrone,  stimai  opportuno  d'umiliarlo,
dicendogli imperiosamente, quasi a servitore: «Datemi da bere.» Ei mi guardò,  e
parea significare: "Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare". Ma tacque,
chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la  porse.  M'avvidi,
pigliandola, ch'ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua  vecchiezza,  un
misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio. «Quanti anni avete?»  gli
dissi con  voce  amorevole.  «Settantaquattro,  signore:  ho  già  veduto  molte
sventure e mie ed  altrui.»  Questo  cenno  sulle  sventure  sue  ed  altrui  fu
accompagnato da nuovo tremito nell'atto ch'ei ripigliava la  brocca;  e  dubitai
fosse effetto, non della sola età, ma d'un certo nobile perturbamento.  Siffatto
dubbio cancellò dall'anima mia l'odio che il suo primo aspetto m'aveva impresso.
«Come vi chiamate?» gli dissi. «La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi  il
nome d'un grand'uomo. Mi chiamo Schiller.» Indi in poche parole  mi  narrò  qual
fosse il suo paese,  quale  l'origine,  quali  le  guerre  vedute  e  le  ferite
riportate. Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro  a'  Turchi
sotto il general Laudon a' tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte
le guerre dell'Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone.

CAPO LIX

Quando d'un uomo che giudicammo dapprima cattivo, concepiamo migliore  opinione,
allora, badando al suo viso, alla sua voce, a' suoi modi, ci  pare  di  scoprire
evidenti segni d'onestà. È questa scoperta una realtà? Io la sospetto illusione.
Questo stesso viso, quella stessa voce, quegli stessi modi ci pareano, poc'anzi,
evidenti segni di bricconeria. S'è  mutato  il  nostro  giudizio  sulle  qualità
morali, e tosto mutano le conclusioni della nostra scienza  fisionomica.  Quante
facce veneriamo perché sappiamo che appartennero a valentuomini, le quali non ci
sembrerebbero punto atte ad ispirare venerazione se fossero appartenute ad altri
mortali! E  così  viceversa.  Ho  riso  una  volta  d'una  signora  che  vedendo
un'immagine di Catilina, e confondendolo con Collatino, sognava di scorgervi  il
sublime dolore di Collatino per la morte di Lucrezia. Eppure siffatte  illusioni
sono comuni. Non già che non vi sieno facce di buoni le quali portano  benissimo
impresso il carattere di bontà, e non vi sieno  facce  di  ribaldi  che  portano
benissimo impresso quello di ribalderia; ma sostengo che molte havvene di dubbia
espressione. Insomma, entratomi alquanto  in  grazia  il  vecchio  Schiller,  lo
guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel  suo
favellare, in mezzo a certa  rozzezza,  eranvi  anche  tratti  d'anima  gentile.
«Caporale qual sono,» diceva egli «m'è toccato per luogo  di  riposo  il  tristo
ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il
rischiare la vita in battaglia!» Mi pentii di avergli dimandato con alterigia da
bere. «Mio caro Schiller» gli  dissi,  stringendogli  la  mano  «voi  lo  negate
indarno, io conosco che siete buono, e poiché sono  caduto  in  quest'avversità,
ringrazio il Cielo di avermi dato  voi  per  guardiano.»  Egli  ascoltò  le  mie
parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha  un
pensiero molesto: «Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento,
a cui non mancherò mai. Sono obbligato a  trattare  tutti  i  prigionieri  senza
riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza  concessione  d'abusi,  e
tanto più i prigionieri di Stato.  L'Imperatore  sa  quello  che  fa;  io  debbo
obbedirgli.» «Voi siete un brav'uomo, ed io rispetterò ciò che  riputate  debito
di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è  puro  innanzi  a
Dio.» «Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca.  Sarò  ferreo  ne'  miei
doveri, ma il cuore... il cuore è pieno di  rammarico  di  non  poter  sollevare
gl'infelici. Questa è la cosa ch'io volea  dirle.»  Ambi  eravamo  commossi.  Mi
supplicò d'essere  quieto,  di  non  andare  in  furore,  come  fanno  spesso  i
condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente. Prese poscia  un  accento
ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse: «Or bisogna  ch'io
me ne vada.» Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo  io  tossissi  così
miseramente com'io faceva, e scagliò una grossa maledizione  contro  il  medico,
perché non veniva in quella sera stessa a visitarmi.  «Ella  ha  una  febbre  da
cavallo» soggiunse «io me ne intendo. Avrebbe d'uopo almeno  d'un  pagliericcio,
ma finché il medico non l'ha ordinato, non possiamo darglielo.»  Uscì,  richiuse
la porta, ed io mi sdraiai sulle dure tavole,  febbricitante  sì,  e  con  forte
dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli  uomini,  meno  lontano  da
Dio.

CAPO LX

A sera venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e
da due soldati, per fare una perquisizione. Tre perquisizioni  quotidiane  erano
prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni  angolo
della prigione, ogni minuzia; indi gl'inferiori uscivano, ed  il  soprintendente
(che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me. La
prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora
di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro
per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino  per  rompere  la
faccia al primo che mi s'appressasse. «Che fa ella?»  disse  il  soprintendente.
«Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a  tutte  le
carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi  d'irregolare.»  Io  esitava;  ma
quando vidi Schiller avanzarsi verso me e tendermi amicamente la  mano,  il  suo
aspetto paterno mi ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano
fra le mie. «Oh come arde!» diss'egli  al  soprintendente.  «Si  potesse  almeno
dargli un pagliericcio!» Pronunciò queste parole con  espressione  di  sì  vero,
affettuoso cordoglio, che ne fui  intenerito.  Il  soprintendente  mi  tastò  il
polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava  prendersi  alcun
arbitrio. «Qui tutto è rigore anche per me» diss'egli. «Se  non  eseguisco  alla
lettera ciò  ch'è  prescritto,  rischio  d'essere  sbalzato  dal  mio  impiego.»
Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso ch'ei  pensava  tra  sé:  "S'io
fossi soprintendente non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un
arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia,  potrebbe
mai riputarsi gran fallo." Quando fui solo,  il  mio  cuore,  da  qualche  tempo
incapace di profondo sentimento religioso, s'intenerì e pregò. Era una preghiera
di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: "Fa ch'io discerna
pure negli altri qualche dote che loro m'affezioni; io accetto tutti i  tormenti
del carcere, ma deh, ch'io ami! deh,  liberami  dal  tormento  d'odiare  i  miei
simili!". A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le  chiavi  stridono,  la
porta s'apre. È il caporale con due  guardie,  per  la  visita.  «Dov'è  il  mio
vecchio Schiller?» diss'io con desiderio. Ei s'era fermato nel  corridoio.  «Son
qua, son qua» rispose. E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso,
chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo  infermo.
«Ed or che  me  ne  ricordo,  dimani  è  giovedì!»  borbottava  egli  «purtroppo
giovedì!» «E che volete dire con ciò?» «Che il medico non suol venire se non  le
mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì,  e  che  dimani  purtroppo  non
verrà.» «Non v'inquietate per ciò.» «Ch'io non m'inquieti, ch'io non m'inquieti!
In tutta la città non si parla d'altro che dell'arrivo di lor signori: il medico
non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire
una volta di più?» «Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì?» Il vecchio
non disse altro, Ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da  storpiarmi.
Benché mi facesse male,  ne  ebbi  piacere.  Simile  al  piacere  che  prova  un
innamorato se avviene  che  la  sua  diletta,  ballando,  gli  pesti  un  piede:
griderebbe quasi dal dolore, ma invece le sorride, e s'estima beato.

CAPO LXI

La mattina del giovedì, dopo una pessima notte, indebolito, rotte le ossa  dalle
tavole, fui preso da abbondante sudore. Venne la visita. Il  soprintendente  non
v'era: siccome quell'ora gli era incomoda, ei veniva  poi  alquanto  più  tardi.
Dissi a Schiller: «Sentite come sono inzuppato di sudore; ma già mi si raffredda
sulle carni; avrei bisogno subito di mutar camicia». «Non  si  può!»  gridò  con
voce brutale. Ma fecemi secretamente cenno cogli occhi e colla mano.  Usciti  il
caporale e le guardie, ei tornò a farmi  un  cenno  nell'atto  che  chiudeva  la
porta. Poco appresso ricomparve, portandomi una delle  sue  camicie,  lunga  due
volte la mia persona. «Per lei» diss'egli «è un po' lunga, ma or qui non  ne  ho
altre.» «Vi ringrazio, amico, ma siccome ho  portato  allo  Spielberg  un  baule
pieno di biancheria, spero che non mi  si  ricuserà  l'uso  delle  mie  camicie:
abbiate la gentilezza d'andare dal soprintendente a  chiedere  una  di  quelle.»
«Signore, non è permesso di lasciarle nulla della sua biancheria.  Ogni  sabbato
le si darà  una  camicia  della  casa,  come  agli  altri  condannati.»  «Onesto
vecchio,» dissi «voi vedete in che stato sono; è poco verisimile ch'io esca vivo
di qui: non potrò mai  ricompensarvi  di  nulla.»  «Vergogna,  signore!»  sclamò
«vergogna! Parlare di ricompensa a chi non può render servigi! a chi appena  può
imprestare furtivamente ad un infermo di che asciugarsi il  corpo  grondante  di
sudore!» E gettatami sgarbatamente addosso  la  sua  lunga  camicia,  se  n'andò
brontolando, e chiuse la porta con uno strepito da arrabbiato. Circa due ore più
tardi mi portò un tozzo di pan nero. «Questa»  disse  «è  la  porzione  per  due
giorni.» Poi si mise a camminare fremendo. «Che avete?»  gli  dissi.  «Siete  in
collera con me? Ho pure accettata la camicia che mi favoriste.» «Sono in collera
col medico, il quale, benché oggi sia giovedì, potrebbe pur degnarsi di venire!»
«Pazienza!» dissi. Io diceva "pazienza!", ma non trovava  modo  di  giacer  così
sulle tavole, senza neppure un guanciale: tutte le mie ossa doloravano. Alle ore
undici mi fu portato il  pranzo  da  un  condannato  accompagnato  da  Schiller.
Componevano il pranzo due pentolini  di  ferro,  l'uno  contenente  una  pessima
minestra, l'altro legumi conditi con salsa  tale,  che  il  solo  odore  metteva
schifo. Provai d'ingoiare qualche cucchiaio di minestra: non  mi  fu  possibile.
Schiller mi ripeteva: «Si faccia animo;  procuri  d'avvezzarsi  a  questi  cibi;
altrimenti le accadrà, come è già accaduto ad altri, di non mangiucchiare se non
un po' di pane, e di  morir  quindi  di  languore».  Il  venerdì  mattina  venne
finalmente il dottor Bayer.  Mi  trovò  febbre,  m'ordinò  un  pagliericcio,  ed
insisté perch'io fossi  tratto  di  quel  sotterraneo  e  trasportato  al  piano
superiore. Non si poteva,  non  v'era  luogo.  Ma  fattone  relazione  al  conte
Mitrowsky, governatore delle due  provincie,  Moravia  e  Slesia,  residente  in
Brünn, questi rispose che, stante la gravezza del mio male, l'intento del medico
fosse eseguito. Nella stanza che mi  diedero  penetrava  alquanto  di  luce;  ed
arrampicandomi alle sbarre dell'angusto  finestruolo  io  vedeva  la  sottoposta
valle, un pezzo della città di  Brünn,  un  sobborgo  con  molti  orticelli,  il
cimitero, il laghetto della Certosa, ed i selvosi colli  che  ci  divideano  da'
famosi campi d'Austerlitz. Quella  vista  m'incantava.  Oh  quanto  sarei  stato
lieto, se avessi potuto dividerla con Maroncelli!

CAPO LXII

Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero.  Di  lì  a  cinque  giorni,  mi
portarono il mio. Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno,  a  destra
color grigio, e a sinistra  color  cappuccino;  un  giustacuore  di  due  colori
egualmente collocati, ed un giubbettino  di  simili  due  colori,  ma  collocati
oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il  grigio  a  sinistra.  Le  calze
erano di grossa lana; la camicia di tela di stoppa piena di pungenti stecchi,  -
un vero cilicio: al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia.  Gli
stivaletti erano di  cuoio  non  tinto,  allacciati.  Il  cappello  era  bianco.
Compivano questa divisa  i  ferri  a'  piedi,  cioè  una  catena  da  una  gamba
all'altra, i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra
un'incudine. Il fabbro che mi fece  questa  operazione  disse  ad  una  guardia,
credendo  che  io  non  capissi  il  tedesco:  «Malato  com'egli  è,  si  poteva
risparmiargli questo giuoco; non passano due  mesi,  che  l'angelo  della  morte
viene a liberarlo.» «Möchte es sein! (fosse  pure!)»  gli  diss'io,  battendogli
colla mano sulla spalla. Il pover'uomo strabalzò e si confuse; poi disse: «Spero
che non sarò profeta, e desidero ch'ella sia  liberata  da  tutt'altro  angelo.»
«Piuttosto che vivere così, non vi pare» gli risposi «che  sia  benvenuto  anche
quello della morte?» Fece cenno di sì col capo, e se n'andò compassionandomi. Io
avrei veramente volentieri cessato di vivere, ma non era  tentato  di  suicidio.
Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da  sbrigarmi
presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m'avea fatto  assai  male:
il riposo mi diede qualche giovamento. Un istante dopoché il fabbro era  uscito,
intesi sonare il martello sull'incudine nel  sotterraneo.  Schiller  era  ancora
nella mia stanza. «Udite que' colpi» gli dissi. «Certo, si mettono  i  ferri  al
povero Maroncelli.» E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, che  vacillai,
e se il buon vecchio non m'avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più  di  mezz'ora
in uno stato che parea svenimento, eppur non era.  Non  potea  parlare,  i  miei
polsi battevano appena, un sudor freddo m'inondava da capo a piedi,  e  ciò  non
ostante intendeva tutte le parole di Schiller, ed avea vivissima  la  ricordanza
del passato e la cognizione del presente Il  comando  del  soprintendente  e  la
vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora  tutte  le  vicine  carceri  in
silenzio. Tre o quattro  volte  io  aveva  inteso  intonarsi  qualche  cantilena
italiana, ma tosto era  soppressa  dalle  grida  delle  sentinelle.  Ne  avevamo
parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed  una  nel  medesimo
nostro corridoio,  la  quale  andava  continuamente  orecchiando  alle  porte  e
guardando agli sportelli per proibire i romori.  Un  giorno,  verso  sera  (ogni
volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora  mi  si  destarono),  le
sentinelle, per  felice  caso,  furono  meno  attente,  ed  intesi  spiegarsi  e
proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella  prigione
contigua alla  mia.  Oh  qual  gioia,  qual  commozione  m'invase!  M'alzai  dal
pagliericcio, tesi l'orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibile pianto.
«Chi sei, sventurato?» gridai «chi sei?  Dimmi  il  tuo  nome.  Io  sono  Silvio
Pellico.» «Oh Silvio!» gridò il vicino «io non ti conosco di persona,  ma  t'amo
da gran tempo. Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli  sgherri.»
M'aggrappai alla finestra, egli mi disse  il  suo  nome,  e  scambiammo  qualche
parola di tenerezza. Era il conte  Antonio  Oroboni,  nativo  di  Fratta  presso
Rovigo, giovine di ventinove anni. Ahi, fummo  tosto  interrotti  da  minacciose
urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava  forte  col  calcio  dello
schioppo, ora all'uscio d'Oroboni,  ora  al  mio.  Non  volevamo,  non  potevamo
obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie  erano  tali,  che  cessammo,
avvertendoci di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.

CAPO LXIII

Speravamo - e così infatti accadde - che parlando più piano ci potremmo sentire,
e che talvolta capiterebbero sentinelle pietose, le quali  fingerebbero  di  non
accorgersi del nostro cicaleccio.  A  forza  d'esperimenti,  imparammo  un  modo
d'emettere la voce tanto  dimesso,  che  bastava  alle  nostre  orecchie,  ed  o
sfuggiva alle altrui, o si prestava ad  essere  dissimulato.  Bensì  avveniva  a
quando  a  quando  che  avessimo  ascoltatori  d'udito  più  fino,  o   che   ci
dimenticassimo d'essere discreti nella voce. Allora tornavano a toccarci urla, e
picchiamenti agli usci, e, ciò ch'era peggio, la collera del povero  Schiller  e
del soprintendente. A poco a  poco  perfezionammo  tutte  le  cautele,  cioè  di
parlare piuttosto in certi quarti d'ora che in altri, piuttosto  quando  v'erano
le  tali  guardie  che  quando  v'erano  le  tali  altre,  e  sempre  con   voce
moderatissima. Sia eccellenza della nostr'arte, sia in  altrui  un'abitudine  di
condiscendenza che s'andava formando, finimmo per potere ogni giorno  conversare
assai, senza che alcun superiore più avesse quasi mai a garrirci. Ci legammo  di
tenera amicizia. Mi narrò  la  sua  vita,  gli  narrai  la  mia;  le  angosce  e
consolazioni dell'uno divenivano angosce e consolazioni dell'altro. Oh di quanto
conforto ci eravamo a vicenda! Quante volte, dopo una notte insonne, ciascuno di
noi andando il mattino alla finestra, e salutando l'amico, ed udendone  le  care
parole, sentiva in core addolcirsi la mestizia e raddoppiarsi il  coraggio!  Uno
era persuaso d'essere utile all'altro, e questa certezza destava una dolce  gara
d'amabilità ne' pensieri, e quel contento che ha l'uomo,  anche  nella  miseria,
quando può giovare  al  suo  simile.  Ogni  colloquio  lasciava  il  bisogno  di
continuazione,   di   schiarimenti;   era   uno   stimolo    vitale,    perenne,
all'intelligenza,  alla  memoria,  alla  fantasia,  al   cuore.   A   principio,
ricordandomi di Giuliano, io diffidava della costanza di questo nuovo amico.  Io
pensava: "Finora non ci è accaduto di trovarci discordi; da un giorno  all'altro
posso dispiacergli in alcuna cosa, ed ecco che mi manderà alla  malora".  Questo
sospetto ben presto cessò. Le nostre opinioni  concordavano  su  tutti  i  punti
essenziali. Se non che ad un'anima nobile, ardente di generosi  sensi,  indomita
dalla sventura, egli univa la più candida e piena fede nel Cristianesimo, mentre
questa in me da qualche tempo vacillava, e talora pareami  affatto  estinta.  Ei
combatteva i miei dubbi con  giustissime  riflessioni  e  con  molto  amore:  io
sentiva ch'egli avea ragione e gliela dava, ma i dubbi tornavano. Ciò avviene  a
tutti quelli che non hanno il Vangelo nel  cuore,  a  tutti  quelli  che  odiano
altrui ed insuperbiscono di sé. La mente vede un istante  il  vero,  ma  siccome
questo non le piace, lo discrede l'istante  appresso,  sforzandosi  di  guardare
altrove. Oroboni era valentissimo a volgere la mia  attenzione  sui  motivi  che
l'uomo ha, d'essere indulgente verso i nemici. Io non  gli  parlava  di  persona
abborrita, ch'ei non prendesse destramente a difenderla, e non  già  solo  colle
parole, ma anche coll'esempio. Parecchi gli avean  nociuto.  Ei  ne  gemeva,  ma
perdonava a tutti, e se poteva narrarmi  qualche  lodevole  tratto  d'alcuno  di
loro,  lo  faceva  volentieri.  L'irritazione  che  mi  dominava  e  mi   rendea
irreligioso dalla mia condanna in poi, durò ancora alcune settimane; indi  cessò
affatto. La virtù d'Oroboni m'aveva invaghito. Industriandomi  di  raggiungerla,
mi misi almeno sulle sue tracce. Allorché potei di  nuovo  pregare  sinceramente
per tutti e non più odiare nessuno, i dubbi sulla fede sgombrarono: Ubi charitas
et amor, Deus ibi est.

CAPO LXIV

Per dir vero, se la pena era severissima ed  atta  ad  irritare,  avevamo  nello
stesso tempo la rara sorte che buoni fossero tutti coloro che vedevamo. Essi non
potevano alleggerire la nostra condizione  se  non  con  benevole  e  rispettose
maniere; ma queste erano usate da tutti. Se v'era qualche ruvidezza nel  vecchio
Schiller, quanto non era compensata dalla nobiltà  del  suo  cuore!  Persino  il
miserabile Kunda (quel condannato che ci portava  il  pranzo,  e  tre  volte  al
giorno l'acqua) voleva che ci accorgessimo che ci compativa. Ei ci  spazzava  la
stanza due volte la settimana. Una mattina,  spazzando,  colse  il  momento  che
Schiller s'era allontanato due passi dalla porta, e m'offerse un  pezzo  di  pan
bianco. Non l'accettai, ma gli strinsi cordialmente la mano. Quella  stretta  di
mano lo commosse. Ei mi disse in cattivo tedesco (era polacco): «Signore, le  si
dà ora così poco da mangiare, che ella sicuramente patisce la  fame».  Assicurai
di no, ma io assicurava l'incredibile. Il medico, vedendo  che  nessuno  di  noi
potea mangiare quella qualità di cibi che ci aveano dato ne'  primi  giorni,  ci
mise  tutti  a  quello  che  chiamano  quarto  di  porzione,   cioè   al   vitto
dell'ospedale. Erano  tre  minestrine  leggerissime  al  giorno,  un  pezzettino
d'arrosto d'agnello da ingoiarsi in un boccone, e forse tre once di pan  bianco.
Siccome la mia salute s'andava facendo migliore,  l'appetito  cresceva,  e  quel
quarto era veramente troppo poco. Provai di tornare al cibo  dei  sani,  ma  non
v'era guadagno a fare, giacché disgustava  tanto  ch'io  non  poteva  mangiarlo.
Convenne assolutamente ch'io m'attenessi al quarto. Per più  d'un  anno  conobbi
quanto sia il tormento della fame. E questo tormento lo  patirono  con  veemenza
anche maggiore alcuni de' miei compagni, che essendo più  robusti  di  me  erano
avvezzi a nutrirsi più abbondantemente. So d'alcuni di loro che accettarono pane
e da Schiller e da altre due guardie addette al nostro servizio,  e  perfino  da
quel buon uomo di Kunda. «Per la città si dice che a lor signori si dà  poco  da
mangiare» mi disse una volta il barbiere, un giovinotto  praticante  del  nostro
chirurgo. «È verissimo» risposi schiettamente. Il  seguente  sabato  (ei  veniva
ogni sabato) volle darmi di soppiatto una grossa pagnotta bianca. Schiller finse
di non veder l'offerta. Io, se avessi ascoltato lo stomaco,  l'avrei  accettata,
ma stetti saldo a rifiutare, affinché quel povero giovine non fosse  tentato  di
ripetere il dono; il che alla lunga gli sarebbe stato  gravoso.  Per  la  stessa
ragione, io ricusava le offerte di Schiller. Più volte  mi  portò  un  pezzo  di
carne lessa, pregandomi che la mangiassi, e  protestando  che  non  gli  costava
niente, che gli era avanzata, che non sapea che  farne,  che  l'avrebbe  davvero
data ad altri s'io non la prendeva. Mi sarei gettato a  divorarla,  ma  s'io  la
prendeva, non avrebb'egli avuto tutti i giorni il  desiderio  di  darmi  qualche
cosa? Solo due volte, ch'ei mi recò un piatto di ciriege,  e  una  volta  alcune
pere, la vista di quella frutta  mi  affascinò  irresistibilmente.  Fui  pentito
d'averla presa, appunto perché d'allora in poi non cessava più d'offrirmene.

CAPO LXV

Ne' primi giorni  fu  stabilito  che  ciascuno  di  noi  avesse,  due  volte  la
settimana, un'ora di passeggio. In seguito questo sollievo fu dato un giorno sì,
un giorno no; e più tardi ogni giorno, tranne le feste. Ciascuno era condotto  a
passeggio separatamente, fra due guardie aventi schioppo in ispalla. Io, che  mi
trovava alloggiato in capo del corridoio, passava, quando usciva,  innanzi  alle
carceri di tutti i condannati di Stato italiani, eccetto  Maroncelli,  il  quale
unico languiva dabbasso. «Buon passeggio!» mi susurravano tutti dallo  sportello
dei loro usci; ma non mi  era  permesso  di  fermarmi  a  salutare  nessuno.  Si
discendeva una scala, si traversava  un  ampio  cortile,  e  s'andava  sovra  un
terrapieno situato a mezzodì, donde vedeasi la città di Brünn e molto tratto  di
circostante paese. Nel  cortile  suddetto  erano  sempre  molti  dei  condannati
comuni,  che  andavano  o  venivano  dai  lavori,  o  passeggiavano  in   frotta
conversando. Fra essi erano parecchi ladri italiani, che mi salutavano con  gran
rispetto e diceano tra loro: «Non è un birbone come noi, eppure la sua prigionia
è più dura della nostra». Infatti essi aveano molta più libertà di me. Io  udiva
queste ed altre espressioni, e li risalutava con  cordialità.  Uno  di  loro  mi
disse una volta: «Il suo saluto, signore, mi fa bene. Ella forse vede sulla  mia
fisionomia qualche cosa che non è scelleratezza. Una passione infelice mi trasse
a commettere un delitto; ma, o signore, no, non sono scellerato!». E proruppe in
lagrime. Gli porsi la mano, ma egli non me la poté stringere.  Le  mie  guardie,
non per malignità, ma per le istruzioni che aveano, lo respinsero.  Non  doveano
lasciarmi avvicinare  da  chicchesifosse.  Le  parole  che  quei  condannati  mi
dirigevano, fingeano per lo più di dirsele tra loro, e se  i  miei  due  soldati
s'accorgeano che fossero a me rivolte, intimavano silenzio. Passavano anche  per
quel cortile uomini di varie condizioni estranei al castello, i quali venivano a
visitare il soprintendente, o  il  cappellano,  o  il  sergente,  o  alcuno  de'
caporali. «Ecco uno deg'Italiani, ecco uno degl'Italiani!» diceano sottovoce.  E
si fermavano a guardarmi; e più volte li intesi dire in tedesco, credendo  ch'io
non li capissi: «Quel povero signore non invecchierà; ha la morte sul volto». Io
infatti, dopo essere dapprima migliorato di salute, languiva  per  la  scarsezza
del nutrimento, e nuove febbri sovente m'assalivano. Stentava a  strascinare  la
mia catena fino al luogo del passeggio, e là mi gettava sull'erba,  e  vi  stava
ordinariamente finché fosse finita la mia ora. Stavano in piedi o sedeano vicino
a me le guardie, e ciarlavamo. Una d'esse, per nome Kral,  era  un  boemo,  che,
sebbene di famiglia contadina e povera, avea ricevuto una certa educazione, e se
l'era perfezionata quanto più avea potuto, riflettendo con  forte  discernimento
su le cose del mondo e leggendo tutti i libri che gli capitavano alle mani. Avea
cognizione di Klopstock, di Wieland, di Goethe, di Schiller  e  di  molti  altri
buoni scrittori tedeschi. Ne sapea un'infinità di brani a memoria,  e  li  dicea
con intelligenza e con sentimento. L'altra guardia  era  un  polacco,  per  nome
Kubitzky, ignorante, ma rispettoso e cordiale. La loro compagnia  mi  era  assai
cara.

CAPO LXVI

Ad  un'estremità  di  quel  terrapieno,  erano  le  stanze  del  soprintendente;
all'altra estremità  alloggiava  un  caporale  con  moglie  ed  un  figliuolino.
Quand'io vedeva alcuno uscire di quelle abitazioni, io m'alzava  e  m'avvicinava
alla  persona,  o  alle  persone,  che  ivi  comparivano,  ed  era  colmato   di
dimostrazioni di cortesia e di pietà. La moglie del soprintendente era  ammalata
da lungo tempo, e deperiva lentamente. Si facea talvolta portare sopra un canapé
all'aria aperta. È indicibile quanto si commovesse esprimendomi  la  compassione
che provava per tutti noi. Il suo sguardo era dolcissimo e timido, e  quantunque
timido, s'attaccava di quando in quando con intensa  interrogante  fiducia  allo
sguardo di chi le parlava. Io le dissi una volta, ridendo: «Sapete, signora, che
somigliate alquanto a persona che mi fu cara?». Arrossì, e rispose con seria  ed
amabile semplicità: «Non vi dimenticate dunque di me, quando sarò morta; pregate
per la povera anima mia, e pei figliuolini che  lascio  sulla  terra».  Da  quel
giorno in poi, non poté più uscire dal letto; non la  vidi  più.  Languì  ancora
alcuni mesi, poi morì. Ella avea tre figli, belli come  amorini,  ed  uno  ancor
lattante. La sventurata abbracciavali spesso in mia presenza, e diceva: «Chi  sa
qual donna diventerà lor madre dopo di me! Chiunque sia dessa, il Signore le dia
viscere di madre, anche pe' figli non nati da lei!». E piangeva. Mille volte  mi
son ricordato di quel suo prego e di quelle lagrime. Quand'ella non era più,  io
abbracciava talvolta que' fanciulli,  e  m'inteneriva,  e  ripeteva  quel  prego
materno. E pensava alla madre mia, ed agli ardenti voti che il  suo  amantissimo
cuore alzava senza dubbio per me, e con singhiozzi io sclamava: «Oh  più  felice
quella madre che, morendo, abbandona figliuoli  inadulti,  di  quella  che  dopo
averli allevati con infinite  cure  se  li  vede  rapire!».  Due  buone  vecchie
solevano essere con quei fanciulli: una era la madre del soprintendente, l'altra
la zia. Vollero sapere  tutta  la  mia  storia,  ed  io  loro  la  raccontai  in
compendio. «Quanto siamo infelici» diceano coll'espressione del più vero  dolore
«di non potervi giovare in nulla! Ma siate certo che pregheremo per voi,  e  che
se un giorno viene la  vostra  grazia,  sarà  una  festa  per  tutta  la  nostra
famiglia.» La prima di esse, ch'era quella ch'io vedea  più  sovente,  possedeva
una dolce, straordinaria eloquenza nel dar consolazioni.  Io  le  ascoltava  con
filiale gratitudine, e mi si fermavano nel cuore. Dicea cose ch'io sapea già,  e
mi colpivano come cose nuove: - che la sventura non degrada l'uomo, s'ei  non  è
dappoco, ma anzi lo sublima; - che, se potessimo entrare  ne'  giudizi  di  Dio,
vedremmo essere, molte volte, più da compiangersi i vincitori che i  vinti,  gli
esultanti che i mesti, i doviziosi che gli spogliati di tutto; - che  l'amicizia
particolare mostrata dall'uomo-Dio per gli sventurati è un  gran  fatto;  -  che
dobbiamo gloriarci della croce, dopo che fu portata  da  òmeri  divini.  Ebbene,
quelle due buone vecchie, ch'io vedea tanto volentieri, dovettero in breve,  per
ragioni di famiglia, partire dallo Spielberg; i figliuolini cessarono  anche  di
venire sul terrapieno Quanto queste perdite m'afflissero!

CAPO LXVII

L'incomodo  della  catena  a'  piedi,  togliendomi  di  dormire,  contribuiva  a
rovinarmi la salute. Schiller voleva  ch'io  reclamassi,  e  pretendeva  che  il
medico fosse in dovere di farmela  levare.  Per  un  poco  non  l'ascoltai,  poi
cedetti al consiglio, e dissi al medico che per riacquistare  il  beneficio  del
sonno io lo pregava di farmi scatenare, almeno  per  alcuni  giorni.  Il  medico
disse non giungere ancora a tal grado le mie febbri, ch'ei potesse appagarmi; ed
essere necessario ch'io m'avvezzassi ai ferri. La risposta mi  sdegnò,  ed  ebbi
rabbia d'aver fatto quell'inutile dimanda. «Ecco ciò che guadagnai a seguire  il
vostro insistente consiglio» dissi a Schiller. Conviene che gli  dicessi  queste
parole assai sgarbatamente: quel ruvido buon uomo se ne offese. «A  lei  spiace»
gridò «d'essersi esposta ad un rifiuto, e a me spiace ch'ella sia meco superba!»
Poi continuò una lunga predica: «I superbi fanno consistere la loro grandezza in
non esporsi a rifiuti, in non accettare offerte, in vergognarci di mille inezie.
Alle Eseleien! tutte asinate! vana grandezza! ignoranza della vera dignità! E la
vera dignità sta, in gran parte, in vergognare  soltanto  delle  male  azioni!».
Disse, uscì, e fece un  fracasso  infernale  colle  chiavi.  Rimasi  sbalordito.
"Eppure quella rozza schiettezza" dissi "mi piace. Sgorga dal cuore come le  sue
offerte, come i suoi consigli, come il suo compianto. E non mi predicò  egli  il
vero? A quante debolezze non do io il nome di dignità, mentre non sono altro che
superbia?" All'ora di pranzo, Schiller lasciò che il condannato  Kunda  portasse
dentro i pentolini e l'acqua, e si fermò sulla porta. Lo chiamai. «Non ho tempo»
rispose asciutto asciutto. Discesi dal tavolaccio, venni a lui e gli dissi:  «Se
volete che il mangiare mi faccia buon pro, non mi fate quel  brutto  ceffo».  «E
qual ceffo ho  da  fare?»  dimandò  rasserenandosi.  «D'uomo  allegro,  d'amico»
risposi. «Viva l'allegria!» sclamò. «E se, perché il  mangiare  le  faccia  buon
pro, vuole anche vedermi ballare, eccola servita.» E misesi a sgambettare  colle
sue magre e lunghe pertiche sì piacevolmente che scoppiai dalle risa. Io  ridea,
ed avea il cuore commosso.

CAPO LXVIII

Una sera, Oroboni ed io stavamo alla finestra, e ci dolevamo a vicenda  d'essere
affamati.  Alzammo  alquanto  la   voce,   e   le   sentinelle   gridarono.   Il
soprintendente, che per mala ventura passava da quella  parte,  si  credette  in
dovere di far chiamare Schiller e di rampognarlo fieramente, che  non  vigilasse
meglio a tenerci in silenzio. Schiller venne con grand'ira a lagnarsene da me, e
m'intimò di non parlar più mai dalla finestra. Voleva ch'io glielo  promettessi.
«No», risposi «non ve lo voglio promettere.» «Oh der Teufel! der Teufel!»  gridò
«a me s'ha a dire: non voglio! a me che ricevo  una  maledetta  strapazzata  per
causa di lei!» «M'incresce, caro Schiller, della strapazzata che avete ricevuta,
me  n'incresce  davvero;  ma  non  voglio  promettere  ciò  che  sento  che  non
manterrei.» «E perché  non  lo  manterrebbe?»  «Perché  non  potrei;  perché  la
solitudine continua è tormento sì crudele per  me,  che  non  resisterò  mai  al
bisogno di mettere  qualche  voce  da'  polmoni,  d'invitare  il  mio  vicino  a
rispondermi. E se il vicino tacesse, volgerei la parola alle  sbarre  della  mia
finestra, alle colline che mi stanno in faccia, agli uccelli che  volano.»  «Der
Teufel! e non mi vuol promettere?» «No, no,  no!»  sclamai.  Gettò  a  terra  il
romoroso mazzo delle chiavi, e ripeté: «Der Teufel! der Teufel!». Indi  proruppe
abbracciandomi: «Ebbene, ho io a cessare d'essere uomo per  quella  canaglia  di
chiavi? Ella è un signore come va, ed ho gusto che non mi voglia promettere  ciò
che non manterrebbe. Farei lo stesso  anch'io.»  Raccolsi  le  chiavi  e  gliele
diedi. «Queste chiavi» gli dissi  «non  sono  poi  tanto  canaglia,  poiché  non
possono, d'un onesto caporale qual siete,  fare  un  malvagio  sgherro.»  «E  se
credessi che potessero far tanto» rispose «le  porterei  a'  miei  superiori,  e
direi: se non mi vogliono dare altro pane che  quello  del  carnefice,  andrò  a
dimandare l'elemosina.» Trasse di tasca il fazzoletto, s'asciugò gli occhi,  poi
li tenne alzati, giungendo le mani in atto di preghiera. Io  giunsi  le  mie,  e
pregai al pari di lui in silenzio. Ei capiva ch'io faceva voti per esso,  com'io
capiva ch'ei ne faceva per me. Andando via, mi disse sotto  voce:  «Quando  ella
conversa col conte Oroboni, parli sommesso più che può. Farà così due beni:  uno
di risparmiarmi le grida del signor soprintendente, l'altro  di  non  far  forse
capire qualche discorso...  debbo  dirlo?...  qualche  discorso  che,  riferito,
irritasse sempre più chi può punire». L'assicurai che dalle  nostre  labbra  non
usciva mai parola che, riferita a chicchessia, potesse  offendere.  Non  avevamo
infatti d'uopo d'avvertimenti, per esser cauti. Due prigionieri  che  vengono  a
comunicazione tra loro sanno benissimo crearsi un gergo,  col  quale  dir  tutto
senza esser capiti da qualsiasi ascoltatore.

CAPO LXIX

Io tornava un mattino dal passeggio: era il 7 d'agosto.  La  porta  del  carcere
d'Oroboni stava aperta, e dentro eravi Schiller, il quale non  mi  aveva  inteso
venire. Le mie guardie vogliono avanzare il passo per chiudere quella porta.  Io
le prevengo, mi vi slancio, ed  eccomi  nelle  braccia  d'Oroboni.  Schiller  fu
sbalordito; disse: «Der Teufel! der Teufel!» e alzò il dito per minacciarmi.  Ma
gli occhi gli s'empirono di lagrime, e gridò singhiozzando:  «O  mio  Dio,  fate
misericordia a questi poveri giovani ed a me, ed a tutti  gl'infelici,  voi  che
foste  tanto  infelice  sulla  terra!».  Le  due  guardie  piangevano  pure.  La
sentinella del corridoio, ivi accorsa, piangeva anch'essa.  Oroboni  mi  diceva:
«Silvio, Silvio, quest'è uno dei più cari giorni della mia vita!». Io non so che
gli dicessi: era fuori di me dalla gioia e dalla tenerezza. Quando  Schiller  ci
scongiurò di separarci, e  fu  forza  obbedirgli,  Oroboni  proruppe  in  pianto
dirottissimo, e disse: «Ci rivedremo noi mai più sulla terra?» E non  lo  rividi
mai più! Alcuni mesi dopo, la sua stanza era vota, ed Oroboni  giaceva  in  quel
cimitero ch'io aveva  dinanzi  alla  mia  finestra!  Dacché  ci  eravamo  veduti
quell'istante, pareva che ci amassimo anche più dolcemente,  più  fortemente  di
prima; pareva che ci fossimo a vicenda più necessarii. Egli era un bel  giovane,
di nobile aspetto, ma pallido e di misera salute. I soli occhi  erano  pieni  di
vita. Il mio affetto per lui veniva aumentato dalla pietà che la sua magrezza ed
il suo pallore m'ispiravano. La stessa cosa provava egli per me. Ambi  sentivamo
quanto fosse verisimile che ad uno di noi toccasse di essere  presto  superstite
all'altro. Fra  pochi giorni egli ammalò. Io  non  faceva  altro  che  gemere  e
pregare per lui. Dopo alcune febbri racquistò un poco di forza, e  poté  tornare
ai colloqui amicali. Oh come l'udire  di  nuovo  il  suono  della  sua  voce  mi
consolava! «Non ingannarti,» diceami egli «sarà per poco tempo.  Abbi  la  virtù
d'apparecchiarti alla mia perdita; ispirami coraggio col tuo coraggio.» In  que'
giorni si  volle  dare  il  bianco  alle  pareti  delle  nostre  carceri,  e  ci
trasportarono frattanto ne' sotterranei.  Disgraziatamente  in  quell'intervallo
non fummo posti in luoghi vicini. Schiller mi diceva che Oroboni stava  bene  ma
io dubitava che non volesse dirmi il vero, e temeva che la salute già sì  debole
di questo deteriorasse in que'  sotterranei.  Avessi  almeno  avuto  la  fortuna
d'esser vicino in quell'occasione al mio caro Maroncelli! Udii per altro la voce
di questo. Cantando ci salutammo, a dispetto dei garriti delle guardie. Venne in
quel tempo a vederci il protomedico di Brünn, mandato forse in conseguenza delle
relazioni che il soprintendente faceva a Vienna  sull'estrema  debolezza  a  cui
tanta scarsità di cibo ci aveva tutti  ridotti,  ovvero  perché  allora  regnava
nelle carceri uno scorbuto molto epidemico. Non sapendo io il perché  di  questa
visita, m'immaginai che  fosse  per  nuova  malattia  d'Oroboni.  Il  timore  di
perderlo  mi  dava  un'inquietudine  indicibile.  Fui  allora  preso  da   forte
melanconia e da  desiderio  di  morire.  Il  pensiero  del  suicidio  tornava  a
presentarmisi. Io lo combatteva; ma era come un viaggiatore spossato, che mentre
dice a se stesso: "È mio dovere d'andar sino alla  meta"  si  sente  un  bisogno
prepotente di gettarsi a terra e riposare.  M'era  stato  detto  che,  non  avea
guari, in uno di quei tenebrosi covili un vecchio boemo s'era ucciso spaccandosi
la testa alle pareti.  Io  non  potea  cacciare  dalla  fantasia  la  tentazione
d'imitarlo. Non so se il mio delirio non sarebbe giunto a quel  segno,  ove  uno
sbocco di sangue dal petto non m'avesse  fatto  credere  vicina  la  mia  morte.
Ringraziai Dio di volermi esso uccidere in questo modo, risparmiandomi  un  atto
di  disperazione  che  il  mio  intelletto  condannava.  Ma  Dio  invece   volle
conservarmi. Quello  sbocco  di  sangue  alleggerì  i  miei  mali.  Intanto  fui
riportato nel  carcere  superiore,  e  quella  maggior  luce  e  la  racquistata
vicinanza d'Oroboni mi riaffezionarono alla vita.

CAPO LXX

Gli confidai la tremenda melanconia ch'io avea provato, diviso da lui;  ed  egli
mi  disse  aver  dovuto  egualmente  combattere  il   pensiero   del   suicidio.
«Profittiamo» diceva egli «del poco tempo che di nuovo c'è dato, per confortarci
a vicenda colla religione. Parliamo di Dio; eccitiamoci ad amarlo;  ci  sovvenga
ch'egli è la giustizia, la sapienza, la bontà, la bellezza, ch'egli è tutto  ciò
che d'ottimo vagheggiamo sempre. Io ti dico davvero che la morte non  è  lontana
da me. Ti sarò grato eternamente, se contribuirai a rendermi  in  questi  ultimi
giorni tanto religioso quanto avrei dovuto essere tutta la vita.»  Ed  i  nostri
discorsi non volgeano  più  sovr'altro  che  sulla  filosofia  cristiana,  e  su
paragoni di questa colle meschinità  della  sensualistica.  Ambi  esultavamo  di
scorgere tanta consonanza tra il Cristianesimo e la ragione; ambi, nel confronto
delle diverse comunioni evangeliche, vedevamo essere la  sola  cattolica  quella
che può  veramente  resistere  alla  critica,  e  la  dottrina  della  comunione
cattolica consistere in dogmi purissimi ed in purissima morale, e non in  miseri
sovrappiù prodotti dall'umana ignoranza. «E se, per  accidente  poco  sperabile,
ritornassimo nella società» diceva Oroboni «saremmo noi così pusillanimi da  non
confessare il Vangelo? da prenderci soggezione,  se  alcuno  immaginerà  che  la
prigione abbia indebolito i nostri animi, e che per imbecillità  siamo  divenuti
più fermi nella credenza?» «Oroboni mio» gli dissi «la tua dimanda mi  svela  la
tua risposta, e questa è anche la mia. La somma delle viltà  è  d'esser  schiavo
de' giudizi altrui, quando hassi la persuasione che sono falsi.  Non  credo  che
tal viltà né tu né io l'avremmo mai.» In quelle effusioni di cuore  commisi  una
colpa. Io aveva giurato a Giuliano di non confidar mai ad alcuno,  palesando  il
suo vero nome, le relazioni ch'erano  state  fra  noi.  Le  narrai  ad  Oroboni,
dicendogli: «Nel mondo non mi sfuggirebbe mai dal labbro  cosa  simile,  ma  qui
siamo nel sepolcro, e se anche tu ne uscissi,  so  che  posso  fidarmi  di  te».
Quell'onestissim'anima taceva. «Perché non mi rispondi?» gli dissi. Alfine prese
a biasimarmi seriamente della violazione del  secreto.  Il  suo  rimprovero  era
giusto. Niuna amicizia, per quanto intima ella sia, per  quanto  fortificata  da
virtù, non può autorizzare a tal violazione. Ma  poiché  questa  mia  colpa  era
avvenuta, Oroboni me ne derivò un bene. Egli avea conosciuto Giuliano,  e  sapea
parecchi tratti onorevoli della sua vita. Me li raccontò, e  dicea:  «Quell'uomo
ha  operato  sì  spesso  da  cristiano,  che  non  può  portare  il  suo  furore
anti-religioso fino alla tomba. Speriamo, speriamo così! E tu  bada,  Silvio,  a
perdonargli di cuore i suoi mali umori, e prega per lui!». Le sue parole m'erano
sacre.

CAPO LXXI

Le conversazioni di cui parlo, quali con Oroboni, quali con  Schiller  o  altri,
occupavano tuttavia poca parte delle mie lunghe ventiquattr'ore della  giornata,
e non rade erano le volte che niuna conversazione riusciva possibile col  primo.
Che faceva io in tanta solitudine? Ecco tutta quanta la mia vita in que' giorni.
Io m'alzava sempre all'alba, e, salito in capo del tavolaccio, m'aggrappava alle
sbarre della finestra, e diceva le orazioni. Oroboni già era alla sua finestra o
non tardava di venirvi. Ci salutavamo; e l'uno e l'altro continuava  tacitamente
i suoi pensieri a Dio. Quanto erano orribili i nostri  covili,  altrettanto  era
bello lo spettacolo esterno per noi. Quel cielo, quella campagna,  quel  lontano
muoversi di creature nella valle, quelle voci  delle  villanelle,  quelle  risa,
que' canti ci esilaravano, ci facevano più  caramente  sentire  la  presenza  di
Colui ch'è sì magnifico nella sua bontà, e del quale avevamo tanto  di  bisogno.
Veniva la visita mattutina delle guardie. Queste davano un'occhiata alla  stanza
per vedere se tutto era in ordine, ed osservavano  la  mia  catena,  anello  per
anello, a fine  d'assicurarsi  che  qualche  accidente  o  qualche  malizia  non
l'avesse spezzata o piuttosto (dacché spezzar la catena era impossibile) faceasi
questa ispezione per obbedire fedelmente alle prescrizioni di disciplina.  S'era
giorno che venisse il medico, Schiller  dimandava  se  si  voleva  parlargli,  e
prendea  nota.  Finito  il  giro  delle  nostre  carceri,  tornava  Schiller  ed
accompagnava Kunda, il quale aveva l'ufficio di pulire ciascuna stanza. Un breve
intervallo, e ci portavano la colezione. Questa era un mezzo pentolino di  broda
rossiccia, con tre sottilissime fettine di pane; io mangiava  quel  pane  e  non
beveva la broda. Dopo ciò mi poneva a studiare. Maroncelli avea portato d'Italia
molti libri, e tutti i nostri compagni ne aveano pure portati, chi più chi meno.
Tutto insieme formava una buona  bibliotechina.  Speravamo  inoltre  di  poterla
aumentare coll'uso de' nostri denari.  Non  era  ancor  venuta  alcuna  risposta
dall'Imperatore sul permesso che  dimandavamo  di  leggere  i  nostri  libri  ed
acquistarne  altri;  ma  intanto  il   governatore   di   Brünn   ci   concedeva
provvisoriamente di tener ciascun di noi due libri presso di  sé,  da  cangiarsi
ogni volta che volessimo. Verso le nove veniva il soprintendente, e se il medico
era stato chiesto ei l'accompagnava. Un altro tratto di tempo  restavami  quindi
per lo studio, fino alle undici, ch'era l'ora del pranzo. Fino al  tramonto  non
avea più visite, e tornava a studiare. Allora  Schiller  e  Kunda  venivano  per
mutarmi l'acqua, ed un istante appresso  veniva  il  soprintendente  con  alcune
guardie per l'ispezione vespertina a tutta la stanza ed ai miei  ferri.  In  una
delle ore della giornata, or avanti or  dopo  il  pranzo,  a  beneplacito  delle
guardie, eravi il passeggio. Terminata la suddetta visita vespertina, Oroboni ed
io ci mettevamo a conversare, e quelli solevano essere i colloquii  più  lunghi.
Gli straordinari avvenivano la mattina,  od  appena  pranzato,  ma  per  lo  più
brevissimi. Qualche volta le sentinelle erano così pietose che ci  diceano:  «Un
po' più piano, signori, altrimenti il castigo cadrà su noi» Altre volte fingeano
di non  accorgersi  che  parlassimo,  poi,  vedendo  spuntare  il  sergente,  ci
pregavano di tacere  finché  questi  fosse  partito;  ed  appena  partito  esso,
diceano: «Signori patroni, adesso potere, ma  piano  più  che  star  possibile».
Talora alcuni di que' soldati  si  fecero  arditi  sino  a  dialogare  con  noi,
soddisfare alle nostre dimande,  e  darci  qualche  notizia  d'Italia.  A  certi
discorsi non  rispondevamo  se  non  pregandoli  di  tacere.  Era  naturale  che
dubitassimo se fossero tutte espansioni di cuori schietti,  ovvero  artifizii  a
fine di scrutare i nostri animi. Nondimeno  inclino  molto  più  a  credere  che
quella gente parlasse con sincerità.

CAPO LXXII

Una sera avevamo sentinelle benignissime, e quindi Oroboni ed io non  ci  davamo
la pena di comprimere la voce. Maroncelli  nel  suo  sotterraneo,  arrampicatosi
alla finestra, ci udì e distinse la voce  mia.  Non  poté  frenarsi;  mi  salutò
cantando. Mi chiedea com'io stava, e m'esprimea colle più tenere parole  il  suo
rincrescimento di non avere ancora ottenuto che fossimo  messi  insieme.  Questa
grazia l'aveva io pure dimandata, ma né il soprintendente di  Spielberg,  né  il
governatore  di  Brünn,  non  avevano  l'arbitrio  di  concederla.   La   nostra
vicendevole brama era stata significata all'Imperatore, e niuna  risposta  erane
fin'allora venuta. Oltre quella volta che ci salutammo cantando ne' sotterranei,
io aveva inteso parecchie volte dal piano superiore le sue cantilene,  ma  senza
capire le parole, ed appena pochi istanti, perché nol lasciavano proseguire. Ora
alzò molto più la voce, non fu così presto interrotto, e capii tutto.  Non  v'ha
termini per dire l'emozione che provai. Gli risposi, e  continuammo  il  dialogo
circa un quarto d'ora. Finalmente si mutarono le sentinelle  sul  terrapieno,  e
quelle che vennero non furono compiacenti. Ben ci disponevamo  a  ripigliare  il
canto, ma furiose grida s'alzarono a maledirci, e convenne  rispettarle.  Io  mi
rappresentava Maroncelli giacente da  sì  lungo  tempo  in  quel  carcere  tanto
peggiore del mio; m'immaginava la tristezza che ivi dovea sovente opprimerlo  ed
il danno che la sua salute ne patirebbe, e profonda angoscia m'opprimeva.  Potei
alfine piangere, ma il pianto non mi sollevò. Mi prese un grave dolore  di  capo
con febbre violenta. Non mi reggeva in piedi, mi  buttai  sul  pagliericcio.  La
convulsione crebbe; il petto doleami con orribile spasimo. Credetti quella notte
morire. Il dì seguente la febbre era cessata,  e  del  petto  stava  meglio,  ma
pareami d'aver fuoco nel cervello, e appena potea muovere il capo senza  che  vi
si destassero atroci dolori. Dissi ad Oroboni il mio stato. Egli pure si sentiva
più male del solito. «Amico» diss'egli «non è lontano il giorno che uno  di  noi
due non potrà più venire alla finestra. Ogni volta che ci salutiamo  può  essere
l'ultima. Teniamoci dunque pronti l'uno e l'altro sì a morire, sì a sopravvivere
all'amico.» La sua voce era intenerita; io non  potea  rispondergli.  Stemmo  un
istante in silenzio, indi ei riprese: «Te beato,  che  sai  il  tedesco!  Potrai
almeno confessarti! lo ho domandato un prete che sappia l'italiano: mi  dissero,
che non v'è. Ma Dio vede il  mio  desiderio,  e  dacché  mi  sono  confessato  a
Venezia, in verità mi pare di non aver più nulla che  m'aggravi  la  coscienza.»
«Io invece, a Venezia, mi confessai» gli dissi «con animo pieno  di  rancore,  e
feci peggio che se avessi ricusato i sacramenti. Ma se  ora  mi  si  concede  un
prete, t'assicuro che mi confesserò di cuore e perdonando a tutti.» «Il cielo ti
benedica!» sclamò «tu mi dài una grande consolazione. Facciamo, si, facciamo  il
possibile entrambi per essere eternamente uniti nella felicità, come lo fummo in
questi giorni di sventura!» Il giorno appresso l'aspettai alla  finestra  e  non
venne. Seppi da Schiller ch'egli era ammalato gravemente. Otto  o  dieci  giorni
dopo, egli stava meglio, e tornò a  salutarmi.  Io  dolorava,  ma  mi  sostenea.
Parecchi mesi passarono, sì per lui che per me, in queste alternative di  meglio
e di peggio.

CAPO LXXIII

Potei reggere sino al giorno 11 di gennaio 1823. La mattina m'alzai con  mal  di
capo non forte, ma con disposizione  al  deliquio.  Mi  tremavano  le  gambe,  e
stentava a trarre il fiato. Anche Oroboni, da due o tre giorni,  stava  male,  e
non s'alzava. Mi portano la minestra, ne gusto appena  un  cucchiaio,  poi  cado
privo di sensi. Qualche tempo dopo,  la  sentinella  del  corridoio  guardò  per
accidente  dallo  sportello,  e  vedendomi  giacente  a  terra,  col   pentolino
rovesciato accanto a me, mi credette morto, e chiamò Schiller.  Venne  anche  il
soprintendente, fu chiamato subito il medico, mi  misero  a  letto.  Rinvenni  a
stento. Il medico disse ch'io era in pericolo, e mi  fece  levare  i  ferri.  Mi
ordinò non so qual cordiale, ma lo stomaco non poteva ritener nulla. Il dolor di
capo cresceva terribilmente. Fu fatta immediata  relazione  al  governatore,  il
quale spedì un corriere a Vienna, per sapere come io dovessi essere trattato. Si
rispose che non mi ponessero nell'infermeria, ma che mi servissero  nel  carcere
colla stessa diligenza che se fossi nell'infermeria.  Di  più  autorizzavasi  il
soprintendente a fornirmi brodi e minestre della sua cucina,  finché  durava  la
gravezza del male. Quest'ultimo provvedimento mi fu a  principio  inutile:  niun
cibo, niuna bevanda mi passava. Peggiorai per tutta una  settimana,  e  delirava
giorno e notte. Kral e Kubitzky mi furono dati per infermieri; ambi mi servivano
con amore. Ogni volta ch'io era alquanto in  senno,  Kral  mi  ripeteva:  «Abbia
fiducia in Dio; Dio solo è buono.» «Pregate per me» dicevagli  io  «non  che  mi
risani, ma che accetti le mie sventure e la mia morte  in  espiazione  de'  miei
peccati.» Mi suggerì di chiedere  i  sacramenti.  «Se  non  li  chiesi»  risposi
«attributelo alla debolezza della mia testa; ma sarà per me un gran conforto  il
riceverli.» Kral riferì le mie parole al soprintendente, e fu  fatto  venire  il
cappellano delle carceri. Mi confessai, comunicai, e  presi  l'olio  santo.  Fui
contento di quel sacerdote. Si chiamava Sturm. Le riflessioni che mi fece  sulla
giustizia di Dio, sull'ingiustizia degli uomini, sul dovere del  perdono,  sulla
vanità di tutte le cose del mondo, non erano trivialità: aveano l'impronta  d'un
intelletto elevato e cólto, e d'un sentimento caldo di vero amore di Dio  e  del
prossimo.

CAPO LXXIV

Lo sforzo d'attenzione che feci per ricevere i sacramenti sembrò esaurire la mia
vitalità, ma invece giovommi, gettandomi in un letargo di parecchie ore  che  mi
riposò. Mi destai alquanto sollevato, e vedendo Schiller e  Kral  vicini  a  me,
presi le lor mani e li ringraziai delle loro cure. Schiller mi disse:  «L'occhio
mio è esercitato a veder malati: scommetterei ch'ella non muore». «Non parvi  di
farmi un cattivo pronostico?» diss'io. «No,» rispose «le miserie della vita sono
grandi, è vero; ma chi le sopporta con nobiltà d'animo e con umiltà, ci guadagna
sempre vivendo.» Poi soggiunse: «S'ella vive, spero che avrà fra qualche  giorno
una gran consolazione. Ella ha  dimandato  di  vedere  il  signor  Maroncelli?».
«Tante volte ho ciò dimandato, ed invano; non  ardisco  più  sperarlo.»  «Speri,
speri, signore! e ripeta  la  dimanda.»  La  ripetei  infatti  quel  giorno.  Il
soprintendente  disse  parimente  ch'io  dovea  sperare,  e   soggiunse   essere
verisimile che non solo Maroncelli potesse vedermi, ma che  mi  fosse  dato  per
infermiere, ed in appresso per indivisibile compagno.  Siccome,  quanti  eravamo
prigionieri  di  Stato,  avevamo  più  o  meno  tutti  la  salute  rovinata,  il
governatore avea chiesto a Vienna che potessimo esser messi tutti a due  a  due,
affinché uno servisse d'aiuto all'altro. Io aveva anche dimandato la  grazia  di
scrivere un ultimo  addio  alla  mia  famiglia.  Verso  la  fine  della  seconda
settimana la mia malattia ebbe una crisi, ed il pericolo si dileguò.  Cominciava
ad alzarmi, quando un  mattino  s'apre  la  porta,  e  vedo  entrar  festosi  il
soprintendente, Schiller ed il medico. Il primo corre a me, e mi dice:  «Abbiamo
il permesso di darle per  compagno  Maroncelli,  e  di  lasciarle  scrivere  una
lettera ai parenti». La gioia mi tolse il respiro, ed il povero  soprintendente,
che per impeto di buon cuore aveva mancato di  prudenza,  mi  credette  perduto.
Quando riacquistai i sensi, e mi sovvenne dell'annuncio udito, pregai che non mi
si ritardasse un tanto bene. Il medico consentì, e Maroncelli fu condotto  nelle
mie braccia. Oh qual momento fu quello! «Tu vivi?»  sclamavamo  a  vicenda.  «Oh
amico! oh fratello! che giorno felice c'è ancor toccato di vedere!  Dio  ne  sia
benedetto!» Ma la nostra gioia, ch'era  immensa,  congiungeasi  ad  una  immensa
compassione. Maroncelli  doveva  esser  meno  colpito  di  me,  trovandomi  cosl
deperito com'io era: ei sapea qual grave malattia avessi  fatto.  Ma  io,  anche
pensando che avesse patito, non me lo immaginava così diverso da quel di  prima.
Egli era appena riconoscibile. Quelle sembianze, già sì belle, sì floride, erano
consumate dal dolore, dalla fame, dall'aria cattiva del tenebroso  suo  carcere!
Tuttavia il vederci, I'udirci, l'essere finalmente indivisi  ci  confortava.  Oh
quante cose avemmo a comunicarci, a ricordare, a ripeterci! Quanta  soavità  nel
compianto! Quanta armonia  in  tutte  le  idee!  Qual  contentezza  di  trovarci
d'accordo in fat to di religione, d'odiare bensì l'uno e l'altro  l'ignoranza  e
la barbarie, ma di non odiare alcun uomo, e di  commiserare  gl'ignoranti  ed  i
barbari, e pregare per loro!

CAPO LXXV

Mi fu portato un foglio  di  carta  ed  il  calamaio,  affinch'io  scrivessi  a'
parenti. Siccome propriamente la permissione erasi  data  ad  un  moribondo  che
intendea di volgere alla famiglia l'ultimo addio, io temeva che la mia  lettera,
essendo ora d'altro tenore, più non venisse spedita. Mi limitai a pregare  colla
più grande tenerezza genitori, fratelli e sorelle, che si rassegnassero alla mia
sorte,  protestando  loro  d'essere  rassegnato.  Quella  lettera  fu  nondimeno
spedita, come poi seppi allorché  dopo  tanti  anni  rividi  il  tetto  paterno.
L'unica fu dessa che in sì lungo  tempo  della  mia  captività  i  cari  parenti
potessero avere da me.  Io  da  loro  non  n'ebbi  mai  alcuna:  quelle  che  mi
scrivevano furono sempre tenute a Vienna. Egualmente  privati  d'ogni  relazione
colle famiglie erano gli altri compagni di sventura. Dimandammo  infinite  volte
la grazia d'avere almeno carta e calamaio per istudiare, e quella di far uso de'
nostri denari  per  comprar  libri.  Non  fummo  esauditi  mai.  Il  governatore
continuava frattanto a permettere che leggessimo i libri nostri.  Avemmo  anche,
per bontà di lui, qualche miglioramento di cibo, ma ahi! non fu  durevole.  Egli
avea consentito che invece d'esser provveduti dalla cucina  del  trattore  delle
carceri, il fossimo da quella del soprintendente. Qualche fondo di  più  era  da
lui stato assegnato a tal uso. La conferma di queste disposizioni non venne;  ma
intanto che durò il beneficio, io ne provai molto giovamento.  Anche  Maroncelli
racquistò  un  po'  di  vigore.  Per  l'infelice  Oroboni  era   troppo   tardi!
Quest'ultimo era  stato  accompagnato,  prima  coll'avvocato  Solera,  indi  col
sacerdote D. Fortini. Quando fummo appaiati in tutte le carceri, il  divieto  di
parlare alle finestre ci fu  rinnovato,  con  minaccia,  a  chi  contravvenisse,
d'essere riposto in solitudine. Violammo a dir vero qualche volta il divieto per
salutarci, ma lunghe conversazioni più non si fecero. L'indole di  Maroncelli  e
la mia armonizzavano perfettamente. Il coraggio dell'uno sosteneva  il  coraggio
dell'altro. Se un di noi era preso da mestizia  o  da  fremiti  d'ira  contro  i
rigori della nostra condizione, l'altro l'esilarava con qualche  scherzo  o  con
opportuni raziocinii. Un dolce sorriso temperava quasi sempre i nostri  affanni.
Finché avemmo libri, benché omai tanto riletti da saperli a memoria, eran  dolce
pascolo alla mente, perché occasione di sempre nuovi esami, confronti,  giudizi,
rettificazioni, ecc. Leggevamo, ovvero meditavamo gran parte della  giornata  in
silenzio, e davamo al cicaleccio il tempo del pranzo,  quello  del  passeggio  e
tutta la sera. Maroncelli nel suo sotterraneo avea composti  molti  versi  d'una
gran bellezza. Me li  andava  recitando,  e  ne  componeva  altri.  Io  pure  ne
componeva e li recitava. E la nostra memoria esercitavasi a ritenere tutto  ciò.
Mirabile fu la capacità che acquistammo di poetare lunghe produzioni a  memoria,
limarle e tornarle a limare infinite volte, e ridurle a quel segno  medesimo  di
possibile finitezza che avremmo ottenuto scrivendole. Maroncelli compose così, a
poco a poco, e ritenne in mente parecchie migliaia di versi lirici ed epici.  Io
feci la tragedia di Leoniero da Dertona e varie altre cose.

CAPO LXXVI

Oroboni, dopo aver molto dolorato nell'inverno e nella primavera, si trovò assai
peggio la state. Sputò sangue, e andò in idropisia. Lascio pensare qual fosse la
nostra afflizione, quand'ei si stava estinguendo sì presso  di  noi,  senza  che
potessimo  rompere  quella  crudele  parete  che  c'impediva  di  vederlo  e  di
prestargli i nostri amichevoli  servigi!  Schiller  ci  portava  le  sue  nuove.
L'infelice giovane patì atrocemente, ma l'animo suo non  s'avvilì  mai.  Ebbe  i
soccorsi spirituali dal  cappellano  (il  quale,  per  buona  sorte,  sapeva  il
francese). Morì nel suo dì onomastico, il 13 giugno 1823. Qualche ora  prima  di
spirare, parlò dell'ottogenario suo padre, s'intenerì e pianse. Poi si  riprese,
dicendo: «Ma perché piango il più fortunato de' miei  cari,  poich'egli  è  alla
vigilia di raggiungermi all'eterna pace?»  Le  sue  ultime  parole  furono:  «Io
perdono di cuore ai miei nemici». Gli chiuse gli occhi  D.  Fortini,  suo  amico
dall'infanzia, uomo tutto religione e carità. Povero Oroboni! qual gelo ci corse
per le vene, quando ci fu detto ch'ei non era più! Ed udimmo le voci ed i  passi
di chi venne a prendere il cadavere! E vedemmo dalla finestra il  carro  in  cui
veniva portato al cimitero!  Traevano  quel  carro  due  condannati  comuni;  lo
seguivano quattro guardie. Accompagnammo cogli occhi il triste convoglio fino al
cimitero. Entrò nella cinta. Si fermò in un  angolo:  là  era  la  fossa.  Pochi
istanti dopo, il carro, i condannati e le guardie  tornarono  indietro.  Una  di
queste era Kubitzky. Mi disse (gentile pensiero, sorprendente in un uomo rozzo):
«Ho segnato con precisione  il  luogo  della  sepoltura,  affinché,  se  qualche
parente od amico potesse un giorno ottenere di prendere quelle ossa  e  portarle
al suo paese, si sappia dove giacciono». Quante  volte  Oroboni  m'aveva  detto,
guardando dalla finestra il cimitero: «Bisogna ch'io m'avvezzi all'idea d'andare
a marcire là entro: eppur confesso che quest'idea mi fa ribrezzo.  Mi  pare  che
non si debba star così bene sepolto in  questi  paesi  come  nella  nostra  cara
penisola». Poi ridea e sclamava: «Fanciullaggini! Quando un vestito è  logoro  e
bisogna deporlo, che importa dovunque sia gettato?».  Altre  volte  diceva:  «Mi
vado preparando alla morte,  ma  mi  sarei  rassegnato  più  volentieri  ad  una
condizione: rientrare appena nel tetto paterno, abbracciare le ginocchia di  mio
padre, intendere una parola di benedizione, e morire!». Sospirava e soggiungeva:
«Se questo calice non può allontanarsi, o mio Dio, sia fatta la tua volontà!». E
l'ultima mattina della sua vita disse ancora, baciando u n crocefisso  che  Kral
gli porgea: «Tu ch'eri divino, avevi pure  orrore  della  morte,  e  dicevi:  Si
possibile est. transeat a me calix iste! Perdona se lo dico anch'io.  Ma  ripeto
anche le altre tue parole: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu!»

CAPO LXXVII

Dopo la morte  d'Oroboni,  ammalai  di  nuovo.  Credeva  di  raggiungere  presto
l'estinto amico; e  ciò  bramava.  Se  non  che,  mi  sarei  io  separato  senza
rincrescimento da Maroncelli? Più volte,  mentr'ei,  sedendo  sul  pagliericcio,
leggeva o poetava, o forse fingeva al pari di me di distrarsi con tali  studi  e
meditava sulle nostre sventure, io lo guardava con affanno  e  pensava:  "Quanto
più trista non sarà la tua vita quando  il  soffio  della  morte  m'avrà  tocco,
quando mi vedrai portar via di  questa  stanza,  quando,  mirando  il  cimitero,
dirai: 'Anche Silvio è là!"'. E m'inteneriva su quel povero superstite, e faceva
voti che gli dessero un altro compagno, capace d'apprezzarlo come lo  apprezzava
io, - ovvero che il Signore prolungasse i miei martirii, e mi lasciasse il dolce
uffizio di temperare quelli di quest'infelice, dividendoli. Io non  noto  quante
volte le mie malattie sgombrarono  e  ricomparvero.  L'assistenza  che  in  esse
faceami Maroncelli era quella del più tenero fratello. Ei s'accorgea  quando  il
parlare non mi convenisse, ed allora stava in silenzio; ei s'accorgea  quando  i
suoi detti potessero sollevarmi, ed allora trovava sempre soggetti  confacentisi
alla disposizione del mio animo, talora secondandola, talora mirando grado grado
a mutarla. Spiriti più nobili del suo, io non ne avea mai  conosciuti;  pari  al
suo, pochi. Un grande amore per la giustizia, una grande  tolleranza,  una  gran
fiducia nella virtù  umana  e  negli  aiuti  della  Provvidenza,  un  sentimento
vivissimo del bello in tutte le arti, una fantasia ricca di poesia, tutte le più
amabili doti di mente e  di  cuore  si  univano  per  rendermelo  caro.  Io  non
dimenticava Oroboni, ed ogni dì gemea della sua morte,  ma  gioivami  spesso  il
cuore immaginando che quel diletto, libero di tutti  i  mali  ed  in  seno  alla
Divinità, dovesse pure annoverare fra le sue contentezze quella di  vedermi  con
un amico non meno affettuoso di lui. Una voce pareva assicurarmi nell'anima  che
Oroboni non fosse più in luogo di espiazione; nondimeno io  pregava  sempre  per
lui. Molte volte sognai di vederlo che pregasse per me; e que' sogni io amava di
persuadermi che non fossero  accidentali,  ma  bensì  vere  manifestazioni  sue,
permesse da Dio per consolarmi. Sarebbe cosa ridicola s'io riferissi la  vivezza
di tali sogni, e la soavità che realmente in me lasciavano per intere  giornate.
Ma i sentimenti religiosi e l'amicizia mia per Maroncelli  alleggerivano  sempre
più le mie afflizioni. L'unica idea che mi spaventasse era  la  possibilità  che
questo infelice, di salute già assai rovinata, sebbene  meno  minacciante  della
mia, mi precedesse nel sepolcro. Ogni volta ch'egli ammalava  io  tremava;  ogni
volta che vedealo star meglio, era una festa per me. Queste  paure  di  perderlo
davano al mio affetto per lui una forza sempre maggiore; ed in lui la  paura  di
perder me operava lo stesso effetto.  Ah!  v'è  pur  molta  dolcezza  in  quelle
alternazioni d'affanni e di speranze per  una  persona  che  è  l'unica  che  ti
rimanga! La nostra sorte era sicuramente una delle più misere che si dieno sulla
terra; eppure lo stimarci e l'amarci così pienamente formava in mezzo a'  nostri
dolori una specie di felicità; e davvero la sentivamo.

CAPO LXXVIII

Avrei bramato che il cappellano (del quale io era stato così contento  al  tempo
della mia prima malattia)  ci  fosse  stato  conceduto  per  confessore,  e  che
potessimo vederlo a quando a quando, anche senza  trovarci  gravemente  infermi.
Invece di dare questo incarico a lui, il governatore ci destinò un  agostiniano,
per nome P. Battista, intantoché venisse da Vienna o la conferma di questo, o la
nomina d'un altro. Io temea di perderci nel cambio; m'ingannava. Il P.  Battista
era un angiolo di carità; i suoi  modi  erano  educatissimi  ed  anzi  eleganti;
ragionava profondamente de' doveri dell'uomo. Lo pregammo di  visitarci  spesso.
Veniva ogni mese, e più frequentemente se poteva. Ci portava anche, col permesso
del governatore, qualche libro, e ci diceva, a nome del suo abate, che tutta  la
biblioteca del convento stava a  nostra  disposizione.  Sarebbe  stato  un  gran
guadagno questo per noi, se fosse durato. Tuttavia ne profittammo  per  parecchi
mesi. Dopo la confessione, ei si fermava lungamente a conversare, e da  tutti  i
suoi discorsi appariva un'anima retta, dignitosa, innamorata della  grandezza  e
della santità dell'uomo. Avemmo la fortuna di godere circa un anno de' suoi lumi
e della sua affezione, e non si smentì mai. Non mai una sillaba che potesse  far
sospettare intenzioni di servire, non al suo ministero, ma  alla  politica.  Non
mai una mancanza di qualsiasi delicato riguardo. A principio, per dir  vero,  io
diffidava di lui, io m'aspettava di vederlo volgere la finezza del  suo  ingegno
ad indagini sconvenienti. In un prigioniero di Stato, simile  diffidenza  è  pur
troppo naturale; ma oh quanto si resta sollevato allorché svanisce, allorché  si
scopre nell'interprete di Dio niun altro zelo che quello della causa  di  Dio  e
dell'umanità! Egli aveva un modo a lui  particolare  ed  efficacissimo  di  dare
consolazioni. Io m'accusava, per esempio, di  fremiti  d'ira  pei  rigori  della
nostra carceraria disciplina. Ei moralizzava alquanto sulla  virtù  di  soffrire
con  serenità  e   perdonando;   poi   passava   a   dipingere   con   vivissima
rappresentazione le miserie di condizione diverse della mia. Avea molto  vissuto
in città ed in campagna, conosciuto grandi e piccoli,  e  meditato  sulle  umane
ingiustizie; sapea descrivere bene le passioni ed i costumi delle  varie  classi
sociali. Dappertutto ei mi mostrava forti e deboli,  calpestanti  e  calpestati;
dappertutto la necessità o d'odiare i nostri simili,  o  d'amarli  per  generosa
indulgenza  e  per  compassione.  I  casi  ch'ei  raccontava  per   rammemorarmi
l'universalità della sventura, ed i buoni  effetti  che  si  possono  trarre  da
questa, nulla aveano di singolare; erano anzi  affatto  ovvii;  ma  diceali  con
parole così giuste, così potenti, che mi faceano fortemente sentire le deduzioni
da ricavarne. Ah sì! ogni volta ch'io aveva udito quegli amorevoli rimproveri  e
que' nobili consigli, io ardeva  d'amore  della  virtù,  io  non  abborriva  più
alcuno, io avrei data la vita pel minimo de'  miei  simili,  io  benediceva  Dio
d'avermi fatto uomo. Ah! infelice chi ignora  la  sublimità  della  confessione!
infelice chi, per non  parer  volgare,  si  crede  obbligato  di  guardarla  con
ischerno! Non è vero che, ognuno  sapendo  già  che  bisogna  esser  buono,  sia
inutile di sentirselo a dire; che bastino le proprie  riflessioni  ed  opportune
letture; no! la favella viva d'un uomo ha una possanza che né le letture, né  le
proprie riflessioni non hanno! L'anima n'è più scossa; le impressioni che vi  si
fanno, sono più profonde. Nel fratello che parla, v'è una vita ed un'opportunità
che sovente indarno si cercherebbero ne' libri e ne' nostri proprii pensieri.

CAPO LXXIX

Nel principio del 1824, il soprintendente, il quale aveva la sua cancelleria  ad
uno de' capi  del  nostro  corridoio,  trasportossi  altrove,  e  le  stanze  di
cancelleria con altre annesse furono ridotte a carceri. Ahi! capimmo  che  nuovi
prigionieri di Stato doveano aspettarsi  d'Italia.  Giunsero  infatti  in  breve
quelli d'un terzo processo: tutti amici e conoscenti miei! Oh,  quando  seppi  i
loro nomi qual fu la mia tristezza! Borsieri era uno de' più antichi miei amici!
A Confalonieri io era affezionato da men lungo tempo, ma pur con tutto il cuore!
Se avessi potuto, passando al carcere  durissimo  od  a  qualunque  immaginabile
tormento, scontare la loro pena e liberarli, Dio sa se non  l'avrei  fatto!  Non
dico solo dar la vita per essi: ah che cos'è il dar la vita? soffrire è ben più!
Avrei avuto allora tanto d'uopo delle consolazioni  del  P.  Battista;  non  gli
permisero più di venire. Nuovi ordini vennero pel mantenimento della più  severa
disciplina. Quel terrapieno che ci serviva di passeggio  fu  dapprima  cinto  di
steccato, sicché nessuno, nemmeno in  lontananza  con  telescopii,  potesse  più
vederci; e così noi perdemmo lo spettacolo bellissimo delle circostanti  colline
e della sottoposta città. Ciò non bastò. Per andare a quel terrapieno, conveniva
attraversare, come dissi, il  cortile,  ed  in  questo  molti  aveano  campo  di
scorgerci. A fine di occultarci a tutti gli sguardi, ci fu tolto quel  luogo  di
passeggio e ce ne venne assegnato uno  piccolissimo,  situato  contiguamente  al
nostro corridoio, ed a pretta tramontana,  come  le  nostre  stanze.  Non  posso
esprimere quanto questo cambiamento di passeggio ci affliggesse. Non  ho  notato
tutti i conforti che avevamo nel  luogo  che  ci  veniva  tolto.  La  vista  de'
figliuoli del soprintendente, i loro cari amplessi, dove avevamo veduta  inferma
ne' suoi ultimi giorni la loro madre; qualche chiacchiera col fabbro, che  aveva
pur ivi il suo alloggio; le liete canzoncine e  le  armonie  d'un  caporale  che
sonava la chitarra; e per ultimo un innocente amore - un amore non mio,  né  del
mio compagno, ma d'una buona caporalina ungherese, venditrice  di  frutta.  Ella
erasi invaghita di Maroncelli. Già prima che fosse  posto  con  me,  esso  e  la
donna, vedendosi ivi quasi ogni giorno, aveano fatto un  poco  d'amicizia.  Egli
era anima sì onesta, sì dignitosa, sì semplice nelle  sue  viste,  che  ignorava
affatto d'avere innamorato la pietosa creatura. Ne lo feci accorto io. Esitò  di
prestarmi fede, e nel dubbio solo che avessi ragione,  impose  a  se  stesso  di
mostrarsi più freddo con essa. La maggior riserva di  lui,  invece  di  spegnere
l'amore della donna, pareva aumentarlo. Siccome la finestra della stanza di  lei
era alta appena un braccio dal suolo del terrapieno,  ella  balzava  dal  nostro
lato per l'apparente motivo  di  stendere  al  sole  qualche  pannolino  o  fare
alcun'altra faccenduola,  e  stava  lì  a  guardarci;  e  se  poteva,  attaccava
discorso. Le povere nostre guardie, sempre stanche di aver poco o niente dormito
la notte, coglievano volentieri  l'occasione  d'essere  in  quell'angolo,  dove,
senz'essere vedute da'  superiori,  poteano  sedere  sull'erba  e  sonnecchiare.
Maroncelli era allora in un grande imbarazzo, tanto appariva l'amore  di  quella
sciagurata. Maggiore era l'imbarazzo mio. Nondimeno simili scene, che  sarebbero
state assai risibili se la donna ci avesse ispirato poco rispetto, erano per noi
serie, e potrei  dire  patetiche.  L'infelice  ungherese  aveva  una  di  quelle
fisionomie, le quali annunciano indubitabilmente l'abitudine della virtù  ed  il
bisogno di stima. Non era bella, ma dotata di tale  espressione  di  gentilezza,
che i contorni alquanto irregolari del suo volto sembravano abbellirsi  ad  ogni
sorriso, ad ogni moto de' muscoli. Se fosse mio proposito di  scrivere  d'amore,
mi resterebbero non brevi cose a dire di quella misera e virtuosa  donna,  -  or
morta Ma basti l'avere accennato uno de' pochi avvenimenti del nostro carcere.

CAPO LXXX

I cresciuti rigori rendevano sempre più monotona la nostra vita. Tutto il  1824,
tutto il 25, tutto il 26, tutto il 27, in che ii passarono per noi? Ci fu  tolto
quell'uso  de'  nostri  libri  che  per  interim  ci  era  stato  conceduto  dal
governatore. Il carcere  divenneci  una  vera  tomba,  nella  quale  neppure  la
tranquillità  della  tomba  c'era  lasciata.  Ogni  mese   veniva,   in   giorno
indeterminato, a farvi una diligente  perquisizione  il  direttore  di  polizia,
accompagnato d'un luogotenente e di guardie. Ci  spogliavano  nudi,  esaminavano
tutte le cuciture de' vestiti, nel dubbio che vi si tenesse celata qualche carta
o altro, si scucivano  i  pagliericci  per  frugarvi  dentro.  Benché  nulla  di
clandestino potessero trovarci, questa visita ostile  e  di  sorpresa,  ripetuta
senza fine, aveva non so che, che m'irritava,  e  che  ogni  volta  metteami  la
febbre. Gli anni precedenti m'erano sembrati sì infelici, ed ora io  pensava  ad
essi con desiderio, come ad un tempo di care dolcezze. Dov'erano  le  ore  ch'io
m'ingolfava nello studio della Bibbia, o d'Omero? A forza di leggere  Omero  nel
testo, quella poca cognizione di greco ch'io aveva si era  aumentata,  ed  erami
appassionato per quella lingua. Quanto incresceami di non poterne continuare  lo
studio! Dante, Petrarca, Shakespeare, Byron,  Walter  Scott,  Schiller,  Goethe,
ecc., quanti amici m'erano involati! Fra  siffatti  io  annoverava  pure  alcuni
libri di cristiana sapienza, come il Bourdaloue, il Pascal, l'Imitazione di Gesù
Cristo, la Filotea, ecc., libri che se  si  leggono  con  critica  ristretta  ed
illiberale, esultando ad ogni reperibile difetto di gusto, ad ogni pensiero  non
valido, si gettano là e non si ripigliano; ma che, letti senza malignare e senza
scandalezzarsi dei lati deboli, scoprono  una  filosofia  alta  e  vigorosamente
nutritiva pel cuore e per l'intelletto. Alcuni di siffatti libri di religione ci
furono poscia mandati in dono dall'Imperatore, ma  con  esclusione  assoluta  di
libri  d'altra  specie  servienti  a  studio  letterario.  Questo  dono  d'opere
ascetiche venneci impetrato nel 1825  da  un  confessore  dalmata  inviatoci  da
Vienna, il P. Stefano Paulowich, fatto, due anni appresso, vescovo di Cattaro. A
lui fummo pur debitori d'aver finalmente la messa, che prima ci  si  era  sempre
negata dicendoci che non poteano condurci in chiesa e tenerci separati a  due  a
due siccome era prescritto. Tanta separazione non potendo  mantenersi,  andavamo
alla messa divisi in tre gruppi; un gruppo sulla tribuna dell'organo,  un  altro
sotto la tribuna, in guisa da non esser veduto, ed il terzo  in  un  oratorietto
guardante in chiesa per mezzo d'una grata. Maroncelli ed io avevamo  allora  per
compagni, ma con divieto che una coppia parlasse coll'altra, sei condannati,  di
sentenza anteriore alla nostra. Due di essi erano stati miei vicini  nei  Piombi
di Venezia. Eravamo condotti da guardie al posto assegnato, e  ricondotti,  dopo
la messa,  ciascuna  coppia  nel  suo  carcere.  Veniva  a  dirci  la  messa  un
cappuccino. Questo buon uomo finiva sempre il suo rito con un Oremus  implorante
la nostra liberazione dai vincoli, e la sua voce si commovea. Quando veniva  via
dall'altare, dava una pietosa occhiata a ciascuno de' tre gruppi,  ed  inchinava
mestamente il capo pregando.

CAPO LXXXI

Nel 1825 Schiller fu riputato  omai  troppo  indebolito  dagli  acciacchi  della
vecchiaia, e gli diedero la custodia d'altri condannati pei quali sembrasse  non
richiedersi tanta vigilanza. Oh quanto c'increbbe ch'ei si allontanasse da  noi,
ed a lui pure increbbe di lasciarci! Per successore ebb'egli dapprima Kral, uomo
non inferiore a lui in bontà. Ma anche a questo venne  data  in  breve  un'altra
destinazione, e ce ne capitò uno, non cattivo, ma burbero ed  estraneo  ad  ogni
dimostrazione  d'affetto.   Questi   mutamenti   m'affliggevano   profondamente.
Schiller, Kral e Kubitzky, ma  in  particolar  modo  i  due  primi,  ci  avevano
assistiti nelle nostre malattie come un padre ed un  fratello  avrebbero  potuto
fare. Incapaci di mancare al loro dovere, sapeano  eseguirlo  senza  durezza  di
cuore. Se v'era un po' di durezza nelle forme, era quasi sempre involontaria,  e
riscattavanla pienamente i tratti amorevoli che ci  usavano.  M'adirai  talvolta
contr'essi,  ma  oh  come  mi  perdonavano  cordialmente!  come   anelavano   di
persuaderci che non erano senza affezione per noi, e come gioivano  vedendo  che
n'eravamo persuasi e li stimavamo uomini dabbene! Dacché fu lontano da noi,  più
volte Schiller s'ammalò, e si riebbe. Domandavamo contezza di  lui  con  ansietà
filiale. Quand'egli era convalescente, veniva talvolta a  passeggiare  sotto  le
nostre finestre. Noi tossivamo per salutarlo, ed egli  guardava  in  su  con  un
sorriso melanconico, e diceva alla sentinella, in guisa che udissimo:  «Da  sind
meine Söhne! (là sono i miei figli!)». Povero vecchio! che  pena  mi  mettea  il
vederti trascinare stentatamente l'egro fianco, e non poterti sostenere col  mio
braccio! Talvolta ei sedeva lì sull'erba, e leggea.  Erano  libri  ch'ei  m'avea
prestati.  Ed  affinché  io  li  riconoscessi,  ei  ne  diceva  il  titolo  alla
sentinella, o ne ripeteva qualche squarcio. Per lo più tai libri  erano  novelle
da calendari, od altri romanzi di poco valore letterario, ma morali. Dopo  varie
ricadute d'apoplessia, si fece portare all'ospedale de'  militari.  Era  già  in
pessimo stato, e colà in breve morì.  Possedeva  alcune  centinaia  di  fiorini,
frutto de' suoi lunghi risparmii: queste erano da lui state date in prestito  ad
alcuni suoi commilitoni. Allorché si vide presso  il  suo  fine,  appellò  a  sè
quegli amici, e disse: «Non ho più congiunti; ciascuno di voi si tenga  ciò  che
ha nelle mani. Vi domando solo di pregare per me». Uno di tali amici  aveva  una
figlia di diciotto anni, la quale era figlioccia di Schiller. Poche ore prima di
morire, il buon vecchio la mandò a chiamare. Ei non potea più  proferire  parole
distinte; si cavò di dito un anello d'argento, ultima sua ricchezza, e  lo  mise
in dito a lei. Poi la baciò, e pianse baciandola.  La  fanciulla  urlava,  e  lo
inondava di lagrime. Ei gliele asciugava col fazzoletto. Prese le mani di lei  e
se le pose sugli occhi. - Quegli occhi erano chiusi per sempre.

CAPO LXXXII

Le consolazioni umane ci andavano mancando una dopo l'altra; gli  affanni  erano
sempre maggiori. Io mi rassegnava al voler di Dio, ma mi rassegnava  gemendo;  e
l'anima  mia,  invece  d'indurirsi  al  male,  sembrava  sentirlo   sempre   più
dolorosamente. Una volta mi fu clandestinamente recato un foglio della  Gazzetta
d'Augsburgo, nel quale spacciavasi stranissima cosa di  me,  a  proposito  della
monacazione d'una delle mie sorelle. Diceva: «La signora Maria Angiola  Pellico,
figlia ecc. ecc., prese addì ecc. il velo nel  monastero  della  Visitazione  in
Torino ecc. È dessa  sorella  dell'autore  della  Francesca  da  Rimini,  Silvio
Pellico, il quale usci recentemente dalla fortezza  di  Spielberg,  graziato  da
S.M. l'Imperatore; tratto di clemenza degnissimo di sì magnanimo Sovrano, e  che
rallegrò tutta Italia, stanteché, ecc. ecc.». E qui seguivano le  mie  lodi.  La
frottola della grazia non sapeva immaginarmi perché fosse  stata  inventata.  Un
puro divertimento del  giornalista  non  parea  verisimile;  era  forse  qualche
astuzia delle polizie tedesche? Chi lo sa? Ma i  nomi  di  Maria  Angiola  erano
precisamente quelli di mia sorella minore. Doveano, senza dubbio, esser  passati
dalla gazzetta di Torino ad altre gazzette. Dunque quell'ottima fanciulla  s'era
veramente fatta monaca? Ah, forse ella prese quello stato perché  ha  perduto  i
genitori! Povera fanciulla! non ha voluto ch'io solo  patissi  le  angustie  del
carcere: anch'ella ha voluto recludersi! Il Signore le dia più che non dà a  me,
le virtù della pazienza e della abnegazione!  Quante  volte,  nella  sua  cella,
quell'angiolo penserà a me! quanto spesso farà dure penitenze per ottener da Dio
che alleggerisca  i  mali  del  fratello!  Questi  pensieri  m'intenerivano,  mi
straziavano il cuore. Pur troppo le  mie  sventure  potevano  aver  influito  ad
abbreviare i giorni del padre o della madre, o d'entrambi! Più ci pensava, e più
mi pareva  impossibile  che  senza  siffatta  perdita  la  mia  Marietta  avesse
abbandonato il tetto paterno. Questa idea mi opprimeva  quasi  certezza,  ed  io
caddi quindi nel più angoscioso lutto. Maroncelli n'era commosso non meno di me.
Qualche giorno appresso ei diedesi a comporre un lamento poetico  sulla  sorella
del prigioniero. Riuscì un bellissimo poemetto spirante melanconia e  compianto.
Quando l'ebbe terminato,  me  lo  recitò.  Oh  come  gli  fui  grato  della  sua
gentilezza! Fra tanti milioni  di  versi  che  fino  allora  s'erano  fatti  per
monache, probabilmente quelli erano i soli che si componessero in  carcere,  pel
fratello della monaca, da un compagno di ferri. Qual concorso d'idee patetiche e
religiose! Così l'amicizia addolciva i miei dolori. Ah, da quel tempo non  volse
più giorno ch'io non m'aggirassi lungamente  col  pensiero  in  un  convento  di
vergini; che fra quelle vergini io non ne considerassi con più tenera pietà una:
ch'io non pregassi ardentemente il Cielo d'abbellirle la solitudine,  e  di  non
lasciare che la fantasia le dipingesse troppo orrendamente la mia prigione!

CAPO LXXXIII

L'essermi venuta clandestinamente  quella  gazzetta  non  faccia  immaginare  al
lettore che frequenti fossero le notizie del mondo ch'io riuscissi a procurarmi.
No: tutti erano buoni intorno a me, ma tutti legati da somma paura.  Se  avvenne
qualche lieve clandestinità, non fu se non quando il  pericolo  potea  veramente
parer nullo. Ed era difficil cosa che potesse  parer  nullo  in  mezzo  a  tante
perquisizioni  ordinarie  e  straordinarie.  Non  mi   fu   mai   dato   d'avere
nascostamente notizie  dei  miei  cari  lontani,  tranne  il  surriferito  cenno
relativo a mia sorella. Il timore ch'io aveva, che i miei genitori  non  fossero
più in vita, venne di lì a qualche tempo piuttosto aumentato che  diminuito  dal
modo con cui una volta il direttore di polizia venne ad annunciarmi che  a  casa
mia stavano bene. «S.M. l'Imperatore comanda» diss'egli  «che  io  le  partecipi
buone nuove di que' congiunti ch'ella ha a  Torino.»  Trabalzai  dal  piacere  e
dalla sorpresa a questa non mai prima avvenuta partecipazione, e chiesi maggiori
particolarità. «Lasciai» gli diss'io «genitori, fratelli  e  sorelle  a  Torino.
Vivono tutti? Deh, s'ella ha  una  lettera  d'alcun  di  loro,  la  supplico  di
mostrarmela!» «Non posso mostrar niente. Ella deve contentarsi di ciò. È  sempre
una prova di benignità dell'Imperatore il farle dire queste  consolanti  parole.
Ciò  non  s'è  ancor  fatto  a  nessuno.»  «Concedo  esser  prova  di  benignità
dell'Imperatore; ma ella sentirà che  m'è  impossibile  trarre  consolazione  da
parole così indeterminate. Quali sono que' miei congiunti che stanno  bene?  Non
ne ho io perduto alcuno?» «Signore, mi rincresce di non poterle dire di  più  di
quel che m'è stato imposto.» E così se n'andò. L'intenzione era certamente stata
di recarmi un sollievo con quella notizia. Ma io mi persuasi che,  nello  stesso
tempo  che  l'Imperatore  aveva  voluto  cedere  alle  istanze  di  qualche  mio
congiunto, e consentire che mi fosse portato quel cenno, ei non volea che mi  si
mostrasse alcuna lettera, affinch'io non vedessi quali de' miei cari mi  fossero
mancati. Indi a parecchi mesi, un annuncio simile  al  suddetto  mi  fu  recato.
Niuna lettera, niuna spiegazione di più. Videro ch'io non mi contentava di tanto
e che rimaneane vieppiù afflitto, e nulla mai più mi dissero della mia famiglia.
L'immaginarmi che i genitori  fossero  morti,  che  il  fossero  forse  anche  i
fratelli, e Giuseppina altra mia amatissima sorella; che  forse  Marietta  unica
superstite s'estinguerebbe presto nell'angoscia della solitudine e negli  stenti
della penitenza, mi distaccava sempre più dalla  vita.  Alcune  volte,  assalito
fortemente dalle solite infermità o da infermità nuove, come coliche orrende con
sintomi dolorosissimi e simili a quelli del morbo-colera, io sperai  di  morire.
Si; l'espressione è esatta: sperai. E nondimeno,  oh  contraddizioni  dell'uomo!
dando un'occhiata al languente mio compagno mi si straziava il cuore al pensiero
di lasciarlo solo, e desiderava di nuovo la vita!

CAPO LXXXIV

Tre volte vennero di  Vienna  personaggi  d'alto  grado  a  visitare  le  nostre
carceri, per assicurarsi che non ci fossero abusi di disciplina. La prima fu del
barone von Münch, e questi, impietosito della poca luce che avevamo,  disse  che
avrebbe implorato di poter prolungare la nostra giornata facendoci  mettere  per
qualche ora della sera una lanterna alla parte esteriore dello sportello. La sua
visita fu nel 1825. Un anno dopo fu eseguito il suo pio intento. E così  a  quel
lume sepolcrale potevamo indi in poi vedere le pareti, e non  romperci  il  capo
passeggiando. La seconda visita fu del  barone  von  Vogel.  Egli  mi  trovò  in
pessimo stato di salute, ed  udendo  che,  sebbene  il  medico  riputasse  a  me
giovevole il caffè, non s'attentava d'ordinarmelo perché oggetto di lusso, disse
una parola di consenso a mio favore; ed il caffè mi  venne  ordinato.  La  terza
visita fu di non so qual altro signore della Corte, uomo tra i  cinquanta  ed  i
sessanta, che ci dimostrò co' modi e colle parole la più nobile compassione. Non
potea far nulla  per  noi,  ma  l'espressione  soave  della  sua  bontà  era  un
beneficio, e gli fummo grati. Oh qual brama ha il prigioniero di veder  creature
della sua specie! La religione cristiana, che  è  sì  ricca  d'umanità,  non  ha
dimenticato di annoverare fra le opere di misericordia il visitare i  carcerati.
L'aspetto degli uomini cui duole della tua  sventura,  quand'anche  non  abbiano
modo di sollevartene più efficacemente, te l'addolcisce. La somma solitudine può
tornar vantaggiosa all'ammendamento d'alcune anime; ma credo che in generale  lo
sia assai più se non ispinta all'estremo, se mescolata di qualche contatto colla
società. Io almeno son così fatto. Se non vedo i miei simili, concentro  il  mio
amore su troppo picciolo numero di essi, e disamo gli altri; se  posso  vederne,
non dirò molti, ma un numero discreto, amo con tenerezza tutto il genere  umano.
Mille volte mi son trovato col cuore sì unicamente amante di pochissimi, e pieno
d'odio per gli altri, ch'io  me  ne  spaventava.  Allora  andava  alla  finestra
sospirando di vedere qualche faccia nuova, e m'estimava felice se la  sentinella
non passeggiava troppo rasente il muro; se si scostava sì che  potessi  vederla;
se alzava il capo udendomi tossire, se la sua fisionomia era  buona.  Quando  mi
parea scorgervi sensi di pietà,  un  dolce  palpito  prendeami  come  se  quello
sconosciuto soldato fosse un intimo amico. S'ei s'allontanava, io aspettava  con
innamorata inquietudine ch'ei ritornasse, e s'ei ritornava  guardandomi,  io  ne
gioiva come d'una grande carità. Se non passava più in guisa ch'io  lo  vedessi,
io restava mortificato come uomo che ama, e conosce che altri nol cura.

CAPO LXXXV

Nel carcere contiguo, già d'Oroboni, stavano ora D. Marco Fortini  e  il  signor
Antonio Villa. Quest'ultimo, altre volte robusto come un Ercole, patì  molto  la
fame il primo anno, e quando ebbe più cibo si trovò senza  forze  per  digerire.
Languì lungamente, e poi, ridotto quasi all'estremità, ottenne che  gli  dessero
un carcere più arioso. L'atmosfera mefitica d'un angusto sepolcro gli era, senza
dubbio, nocivissima, siccome lo era a tutti gli altri.  Ma  il  rimedio  da  lui
invocato non fu sufficiente. In quella stanza grande campò qualche mese  ancora,
poi dopo varii sbocchi di sangue morì. Fu assistito dal concaptivo D. Fortini  e
dall'abate Paulowich,  venuto  in  fretta  di  Vienna  quando  si  seppe  ch'era
moribondo. Bench'io non mi fossi vincolato con lui così  strettamente  come  con
Oroboni, pur la sua morte mi afflisse molto. Io sapeva ch'egli era  amato  colla
più viva tenerezza da' genitori e da una sposa! Per lui, era più  da  invidiarsi
che da compiangersi; ma que' superstiti!... Egli  era  anche  stato  mio  vicino
sotto i Piombi; Tremerello m'avea portato parecchi versi  di  lui,  e  gli  avea
portati de' miei. Talvolta regnava in que' suoi versi  un  profondo  sentimento.
Dopo la sua morte mi parve d'essergli più affezionato che in vita, udendo  dalle
guardie quanto miseramente avesse patito. L'infelice non  poteva  rassegnarsi  a
morire, sebbene religiosissimo.  Provò  al  più  alto  grado  l'orrore  di  quel
terribile passo, benedicendo però sempre il Signore, e gridandogli con  lagrime:
«Non so conformare la mia volontà alla tua, eppur voglio conformarla;  opera  tu
in me questo miracolo!» Ei  non  aveva  il  coraggio  d'Oroboni,  ma  lo  imitò,
protestando di perdonare a' nemici. Alla fine di quell'anno (era il 1826) udimmo
una sera nel corridoio il romore mal compresso di parecchi camminanti. I  nostri
orecchi erano divenuti sapientissimi a discernere mille generi  di  romori.  Una
porta viene aperta; conosciamo essere quella ov'era l'avvocato Solera. Se n'apre
un'altra: è quella di Fortini. Fra alcune voci dimesse, distinguiamo quella  del
direttore di polizia. «Che sarà? Una perquisizione ad ora sì tarda?  e  perché?»
Ma in breve escono di nuovo nel corridoio. Quand'ecco  la  cara  voce  del  buon
Fortini: «Oh povereto mi! la scusi, sala; ho desmentegà un tomo del  breviario».
E lesto lesto ei correva indietro a prendersi  quel  tomo,  poi  raggiungeva  il
drappello. La porta della scala s'aperse, intendemmo i loro passi fino al fondo:
capimmo che i due felici aveano ricevuto la grazia; e, sebbene c'increscesse  di
non seguirli, ne esultammo.

CAPO LXXXVI

Era la liberazione di que' due compagni senza alcuna conseguenza per  noi?  Come
uscivano essi, i quali erano stati condannati al pari di noi, uno  a  vent'anni,
l'altro a quindici, e su noi e su molt'altri non risplendeva  grazia?  Contro  i
non liberati esistevano dunque  prevenzioni  più  ostili?  Ovvero  sarebbevi  la
disposizione di graziarci tutti, ma a brevi intervalli  di  distanza,  due  alla
volta? forse ogni mese? forse  ogni  due  o  tre  mesi?  Così  per  alcun  tempo
dubbiammo. E più di tre mesi volsero né altra liberazione faceasi. Verso la fine
del 1827, pensammo che il dicembre potesse essere determinato  per  anniversario
delle grazie. Ma il dicembre passò e  nulla  accadde.  Protraemmo  l'aspettativa
sino alla state del 1828, terminando allora per me i sett'anni e mezzo di  pena,
equivalenti, secondo il detto dell'Imperatore, ai quindici, ove pure la pena  si
volesse contare dall'arresto. Ché  se  non  voleasi  comprendere  il  tempo  del
processo (e questa supposizione era la  più  verisimile),  ma  bensì  cominciare
dalla pubblicazione della condanna, i sett'anni e mezzo non sarebbero finiti che
nel 1829. Tutti i termini calcolabili passarono, e grazia non rifulse.  Intanto,
già prima dell'uscita di Solera e Fortini, era venuto al mio  povero  Maroncelli
un tumore al  ginocchio  sinistro.  In  principio  il  dolore  era  mite,  e  lo
costringea soltanto a zoppicare. Poi stentava a trascinare i ferri,  e  di  rado
usciva a passeggio. Un mattino d'autunno gli piacque d'uscir meco per  respirare
un poco d'aria: v'era già neve; ed in un fatale  momento  ch'io  nol  sosteneva,
inciampò e cadde. La percossa fece immantinente divenire  acuto  il  dolore  del
ginocchio. Lo portammo sul suo letto; ei non  era  più  in  grado  di  reggersi.
Quando il medico lo vide, si decise finalmente  a  fargli  levare  i  ferri.  Il
tumore peggiorò di giorno in giorno, e divenne enorme  e  sempre  più  doloroso.
Tali erano i martirii del povero infermo, che non potea aver requie né in  letto
né fuor di letto. Quando gli era necessità muoversi, alzarsi, porsi  a  giacere,
io dovea prendere  colla  maggior  delicatezza  possibile  la  gamba  malata,  e
trasportarla lentissimamente nella guisa che occorreva. Talvolta,  per  fare  il
più piccolo passaggio da una posizione all'altra ci volevano  quarti   d'ora  di
spasimo. Sanguisughe, fontanelle, pietre caustiche,  fomenti  ora  asciutti,  or
umidi, tutto fu tentato dal medico. Erano accrescimenti  di  strazio,  e  niente
più. Dopo i bruciamenti colle pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era
tutto piaghe; ma non mai diminuiva, non mai lo sfogo delle piaghe  recava  alcun
lenimento al dolore. Maroncelli era mille volte più infelice di  me;  nondimeno,
oh quanto io pativa con lui! Le cure d'infermiere mi erano dolci, perché usate a
sì degno amico. Ma vederlo così deperire, fra sì lunghi atroci tormenti,  e  non
potergli recar salute! E presagire  che  quel  ginocchio  non  sarebbe  mai  più
risanato! E scorgere  che  l'infermo  tenea  più  verisimile  la  morte  che  la
guarigione! E doverlo continuamente ammirare pel  suo  coraggio  e  per  la  sue
serenità! ah, ciò m'angosciava in modo indicibile!

CAPO LXXXVII

In quel deplorabile stato, ei poetava ancora,  ei  cantava,  ei  discorreva;  ei
tutto facea per illudermi, per nascondermi una parte de' suoi  mali.  Non  potea
più digerire, né dormire; dimagrava spaventosamente;  andava  frequentemente  in
deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti raccoglieva la  sua  vitalità  e  faceva
animo a me. Ciò ch'egli patì per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente
fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne  il  protomedico,  approvò  tutto
quello che  il  medico  avea  tentato,  e  senza  pronunciare  la  sue  opinione
sull'infermità, e su ciò che restasse a fare, se n'andò.  Un  momento  appresso,
viene  il  sottintendente,  e  dice  a  Maroncelli:  «Il  protomedico  non   s'è
avventurato di spiegarsi qui in sua presenza; temeva ch'ella non avesse la forza
d'udirsi annunziare una dura necessità. Io l'ho assicurato che a lei  non  manca
il coraggio». «Spero» disse Maroncelli «d'averne dato qualche prova, in soffrire
senza urli questi strazi. Mi si proporrebbe mai?..» «Si, signore, l'amputazione.
Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, èsita  a  consigliarla.
In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l'amputazione? Vuol ella
esporsi al pericolo?...» «Di morire? E non morrei in breve egualmente se non  si
mette termine a questo male?» «Dunque faremo subito relazione  a  Vienna  d'ogni
cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla...» «Che? ci vuole un permesso?»
«Sì, signore.» Di lì a otto giorni, l'aspettato consentimento giunse. Il  malato
fu portato in una stanza più grande;  ei  dimandò  ch'io  lo  seguissi.  «Potrei
spirare sotto l'operazione;» diss'egli «ch'io mi trovi  almeno  fra  le  braccia
dell'amico.» La mia compagnia gli fu conceduta. L'abate Wrba, nostro  confessore
(succeduto a  Paulowich),  venne  ad  amministrare  i  sacramenti  all'infelice.
Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, e  non  comparivano.
Maroncelli si mise ancora a cantare un inno. I chirurgi  vennero  alfine:  erano
due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli,  quando
occorrevano operazioni, aveva il diritto di  farle  di  sua  mano  e  non  volea
cederne l'onore ad altri. L'altro era un giovane chirurgo, allievo della  scuola
di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal  governatore
per assistere all'operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli  stesso,  ma
gli convenne contentarsi di vegliare all'esecuzione. Il malato fu  seduto  sulla
sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia.  Al  di  sopra
del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un  legaccio,
segno del giro che dovea fare il coltello.  Il  vecchio  chirurgo  tagliò  tutto
intorno, la profondità d'un dito; poi tirò in su la pelle tagliata,  e  continuò
il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie,  ma
queste vennero tosto legate con filo  di  seta.  Per  ultimo,  si  segò  l'osso.
Maroncelli non mise un grido.  Quando  vide  che  gli  portavano  via  la  gamba
tagliata,  le  diede  un'occhiata  di  compassione,  poi,  voltosi  al  chirurgo
operatore, gli disse: «Ella  m'ha  liberato  d'un  nemico,  e  non  ho  modo  di
rimunerarnela.» V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa. «Ti  prego  di
portarmi quella rosa» mi disse.  Gliela  portai.  Ed  ei  l'offerse  al  vecchio
chirurgo, dicendogli: «Non ho altro a presentarle  in  testimonianza  della  mia
gratitudine.» Quegli prese la rosa, e pianse.

CAPO LXXXVIII

I chirurgi aveano  creduto  che  l'infermeria  di  Spielberg  provvedesse  tutto
l'occorrente,  eccetto  i  ferri  ch'essi  portarono.  Ma  fatta  l'amputazione,
s'accorsero che mancavano diverse  cose  necessarie:  tela  incerata,  ghiaccio,
bende, ecc. Il misero mutilato dovette aspettare due ore, che tutto questo fosse
portato dalla città. Finalmente poté stendersi sul letto; ed il ghiaccio gli  fu
posto sul tronco. Il dì seguente, liberarono  il  tronco  dai  grumi  di  sangue
formativisi, lo lavarono, tirarono in giù la pelle, e fasciarono.  Per  parecchi
giorni non si diede al malato se non qualche mezza chicchera di brodo con  torlo
d'uovo sbattuto. E quando  fu  passato  il  pericolo  della  febbre  vulneraria,
cominciarono gradatamente a ristorarlo con cibo più nutritivo. L'Imperatore avea
ordinato che, finché le forze fossero ristabilite, gli si desse buon cibo, della
cucina del soprintendente. La guarigione si operò in  quaranta  giorni.  Dopo  i
quali fummo ricondotti nel nostro carcere; questo per altro ci  venne  ampliato,
facendo cioè un'apertura al muro ed unendo la nostra antica tanai a  quella  già
abitata da Oroboni e poi da Villa. Io trasportai il mio letto al luogo  medesimo
ov'era stato quello d'Oroboni, ov'egli era morto. Quest'identità di luogo  m'era
cara; pareami di essermi avvicinato a lui. Sognava spesso di lui, e pareami  che
il  suo  spirito  veramente  mi  visitasse  e  mi   rasserenasse   con   celesti
consolazioni. Lo spettacolo orribile di tanti tormenti sofferti da Maroncelli, e
prima del taglio della gamba, e durante quell'operazione, e dappoi, mi fortificò
l'animo. Iddio, che m'avea dato sufficiente salute nel tempo della  malattia  di
quello, perché le mie cure gli erano necessarie, me la tolse  allorch'egli  poté
reggersi  sulle  grucce.  Ebbi  parecchi  tumori  glandulari  dolorosissimi.  Ne
risanai, ed a questi successero affanni di petto, già provati altre volte ma ora
più soffocanti che mai, vertigini e dissenterie spasmodiche. «È  venuta  la  mia
volta" diceva tra me. "Sarò io  meno  paziente  del  mio  compagno?"  M'applicai
quindi ad imitare, quant'io sapea,  la  sua  virtù.  Non  v'è  dubbio  che  ogni
condizione umana ha i suoi doveri. Quelli d'un  infermo  sono  la  pazienza,  il
coraggio e tutti gli sforzi per non essere  inamabile  a  coloro  che  gli  sono
vicini. Maroncelli, sulle sue povere grucce,  non  avea  più  l'agilità  d'altre
volte, e rincresceagli, temendo di servirmi meno bene. Ei  temeva  inoltre  che,
per risparmiargli i movimenti e la fatica, io non mi prevalessi de' suoi servigi
quanto mi abbisognava. E questo veramente talora accadeva, ma io procacciava che
non se n'accorgesse. Quantunque egli avesse ripigliato forza, non era però senza
incomodi. Ei pativa, come tutti gli amputati,  sensazioni  dolorose  ne'  nervi,
quasiché la parte tagliata vivesse ancora. Gli doleano il piede, la gamba ed  il
ginocchio ch'ei più non avea. Aggiugneasi che l'osso era  stato  mal  segato,  e
sporgeva nelle nuove carni, e facea frequenti piaghe.  Soltanto  dopo  circa  un
anno il tronco fu abbastanza indurito e più non s'aperse.

CAPO LXXXIX

Ma nuovi mali assalirono l'infelice, e  quasi  senza  intervallo.  Dapprima  una
artritide, che cominciò per le giunture delle mani e poi gli  martirò  più  mesi
tutta la persona; indi lo scorbuto. Questo gli coperse  in  breve  il  corpo  di
macchie livide, e mettea spavento. Io cercava di consolarmi,  pensando  tra  me:
"Poiché convien morir qua dentro, è meglio che sia venuto  ad  uno  dei  due  lo
scorbuto; è male attaccaticcio, e ne  condurrà  nella  tomba,  se  non  insieme,
almeno a poca distanza di tempo" Ci preparavamo entrambi alla morte, ed  eravamo
tranquilli. Nove anni di prigione e di  gravi  patimenti  ci  aveano  finalmente
addimesticati coll'idea del totale disfacimento di due  corpi  così  rovinati  e
bisognosi di pace. E le anime  fidavano  nella  bontà  di  Dio,  e  credeano  di
riunirsi entrambe in luogo ove  tutte  le  ire  degli  uomini  cessano,  ed  ove
pregavamo che a noi si riunissero anche, un giorno, placati, coloro che  non  ci
amavano. Lo scorbuto, negli anni precedenti, aveva fatto molta strage in  quelle
prigioni. Il governo, quando seppe che Maroncelli era affetto da quel  terribile
male, paventò nuova epidemia scorbutica e consentì all'inchiesta del medico,  il
quale diceva non esservi rimedio efficace per Maroncelli se non l'aria aperta, e
consigliava di tenerlo il meno possibile entro la stanza. Io, come  contubernale
di questo, ed anche infermo di discrasia, godetti lo stesso vantaggio. In  tutte
quelle ore che il passeggio non era occupato da altri, cioè da  mezz'ora  avanti
l'alba per un paio d'ore, poi durante il pranzo, se così ci  piaceva,  indi  per
tre ore della sera sin dopo il tramonto, stavamo fuori. Ciò pei giorni  feriali.
Ne' festivi, non essendovi il passeggio consueto degli altri, stavamo  fuori  da
mattina  a  sera,  eccettuato  il  pranzo.  Un   altro   infelice,   di   salute
danneggiatissima, e di circa settant'anni, fu aggregato a noi,  reputandosi  che
l'ossigeno potessegli pur giovare. Era  il  signor  Costantino  Munari,  amabile
vecchio, dilettante di studi letterari e filosofici, e  la  cui  società  ci  fu
assai piacevole. Volendo computare la mia pena non dall'epoca dell'arresto ma da
quella della condanna, i sette anni e  mezzo  finivano  nel  1829  ai  primi  di
luglio, secondo la firma  imperiale  della  sentenza,  ovvero  ai  22  d'agosto,
secondo la pubblicazione. Ma anche questo termine passò, e morì  ogni  speranza.
Fino allora Maroncelli, Munari  ed  io  facevamo  talvolta  la  supposizione  di
rivedere ancora il mondo, la nostra  Italia,  i  nostri  congiunti;  e  ciò  era
materia di ragionamenti pieni di desiderio, di pietà e d'amore. Passato l'agosto
e poi il settembre, e poi tutto quell'anno, ci avvezzammo  a  non  isperare  più
nulla sopra la terra, tranne l'inalterabile continuazione della reciproca nostra
amicizia, e l'assistenza di Dio, per consumare degnamente il  resto  del  nostro
lungo sacrifizio. Ah l'amicizia e  la  religione  sono  due  beni  inestimabili!
Abbelliscono  anche  le  ore  de'  prigionieri,  a   cui   più   non   risplende
verisimiglianza di grazia! Dio è veramente cogli sventurati; - cogli  sventurati
che amano!

CAPO XC

Dopo la morte di Villa, all'abate Paulowich, che fu  fatto  vescovo,  segui  per
nostro confessore l'abate Wrba, moravo, professore di Testamento Nuovo a  Brünn,
valente  allievo  dell'Istituto  Sublime  di  Vienna.   Quest'istituto   è   una
congregazione fondata dal celebre Frint, allora parroco di corte.  I  membri  di
tal congregazione sono tutti sacerdoti,  i  quali,  già  laureati  in  teologia,
proseguono ivi sotto severa disciplina i loro studi, per  giungere  al  possesso
del massimo sapere conseguibile. L'intento del fondatore è stato egregio: quello
cioè di produrre un perenne disseminamento di vera e  forte  scienza  nel  clero
cattolico di Germania. E simile intento viene,  in  generale,  adempiuto.  Wrba,
stando a Brünn, potea darci molta più parte del  suo  tempo  che  Paulowich.  Ei
divenne per noi ciò ch'era il P. Battista, tranne che  non  gli  era  lecito  di
prestarci alcun libro. Facevamo spesso  insieme  lunghe  conferenze;  e  la  mia
religiosità ne traeva grande profitto; o, se questo è dir troppo, a me pareva di
trarnelo, e sommo era il conforto che indi sentiva. Nell'anno 1829 ammalò;  poi,
dovendo assumere altri impegni, non poté più  venire  da  noi.  Ce  ne  spiacque
altamente; ma avemmo la buona sorte che a lui seguisse altro  dotto  ed  egregio
uomo, l'abate Ziak, vicecurato. Di  que'  parecchi  sacerdoti  tedeschi  che  ci
furono destinati, non capitarne uno cattivo! non  uno  che  scoprissimo  volersi
fare stromento della politica (e questo è si  facile  a  scoprirsi!),  non  uno,
anzi, che non avesse i riuniti meriti di molta dottrina, di dichiaratissima fede
cattolica e di filosofia profonda! Oh quanto ministri della Chiesa siffatti sono
rispettabili! Que' pochi ch'io conobbi mi  fecero  concepire  un'opinione  assai
vantaggiosa del clero  cattolico  tedesco.  Anche  l'abate  Ziak  teneva  lunghe
conferenze con noi. Egli pure mi serviva d'esempio per sopportare con serenità i
miei  dolori.  Incessanti  flussioni  ai  denti,  alla  gola,  agli  orecchi  lo
tormentavano, ed era nondimeno sempre sorridente. Intanto  la  molt'aria  aperta
fece scomparire a poco a poco le macchie scorbutiche di Maroncelli; e  parimenti
Munari ed io stavamo meglio.

CAPO XCI

Spuntò il 1° d'agosto del 1830.  Volgeano  dieci  anni  ch'io  avea  perduta  la
libertà; ott'anni e  mezzo  ch'io  scontava  il  carcere  duro.  Era  giorno  di
domenica. Andammo, come le altre feste, nel solito recinto. Guardammo ancora dal
muricciuolo la sottoposta valle, ed il cimitero ove giaceano  Oroboni  e  Villa;
parlammo ancora del riposo che un dì v'avrebbero le nostre  ossa.  Ci  assidemmo
ancora sulla solita panca ad aspettare che le povere condannate  venissero  alla
messa, che si diceva prima della nostra.  Queste  erano  condotte  nel  medesimo
oratorietto dove per la messa  seguente  andavamo  noi.  Esso  era  contiguo  al
passeggio. È uso in tutta la Germania che durante la messa il popolo canti  inni
in lingua viva. Siccome l'impero d'Austria è paese misto di tedeschi e di slavi,
e nelle prigioni di Spielberg il maggior numero de' condannati comuni appartiene
all'uno o all'altro di que' popoli, gl'inni vi si cantano una festa in tedesco e
l'altra in islavo. Così ogni festa si fanno due prediche, e s'alternano  le  due
lingue. Dolcissimo piacere era  per  noi  l'udire  quei  canti  e  l'organo  che
l'accompagnava. Fra le donne ve n'avea, la cui voce andava al  cuore.  Infelici!
Alcune erano giovanissime. Un  amore,  una  gelosia,  un  mal  esempio  le  avea
trascinate al delitto! - Mi suona ancora nell'anima il loro religiosissimo canto
del Sanctus: «heilig! heilig! heilig!». Versai ancora una lagrima udendolo. Alle
ore dieci le donne si ritirarono, e andammo alla messa noi. Vidi  ancora  quelli
de' miei compagni di sventura che udivano la messa  sulla  tribuna  dell'organo,
da' quali una sola grata ci separava, tutti pallidi, smunti, traenti con  fatica
i loro ferri! Dopo la messa tornammo ne' nostri covili. Un quarto di ora dopo ci
portarono il pranzo. Apparecchiavamo la nostra tavola,  il  che  consisteva  nel
mettere un'assicella sul tavolaccio e  prendere  i  nostri  cucchiai  di  legno,
quando il signor Wegrath, sottintendente,  entrò  nel  carcere.  «M'incresce  di
disturbare il loro pranzo» disse «ma si compiacciano di seguirmi; v'è di  là  il
signor direttore di polizia.» Siccome questi solea venire per cose moleste, come
perquisizioni  od  inquisizioni,  seguimmo  assai   di   mal   umore   il   buon
sottintendente fino alla camera d'udienza. Là trovammo il direttore  di  polizia
ed il soprintendente; ed il primo ci fece un inchino, gentile più del  consueto.
Prese una carta in mano, e disse con voci tronche,  forse  temendo  di  produrci
troppo forte  sorpresa  se  si  esprimeva  più  nettamente:  «Signori...  ho  il
piacere... ho l'onore... di significar loro... che S.M.  l'Imperatore  ha  fatto
ancora... una grazia...» Ed esitava a dirci qual grazia fosse. Noi pensavamo che
fosse qualche minoramento di pena, come d'essere esenti dalla noia  del  lavoro,
d'aver  qualche  libro  di  più,  d'avere  alimenti  men  disgustosi.  «Ma   non
capiscono?» disse. «No, signore. Abbia la bontà di  spiegarci  quale  specie  di
grazia sia questa.» «È la libertà per loro due, e per  un  terzo  che  fra  poco
abbracceranno.» Parrebbe che quest'annuncio avesse dovuto  farci  prorompere  in
giubilo. Il nostro pensiero corse subito ai parenti, de' quali  da  tanto  tempo
non avevamo notizia, ed il dubbio che forse non li  avremmo  più  trovati  sulla
terra ci accorò tanto, che annullò il piacere  suscitabile  dall'annuncio  della
libertà. «Ammutoliscono?...» disse il direttore di polizia. «Io  m'aspettava  di
vederli esultanti.» «La prego» risposi «di far  nota  all'Imperatore  la  nostra
gratitudine; ma, se  non  abbiamo  notizia  delle  nostre  famiglie,  non  ci  è
possibile di non paventare che a noi sieno  mancate  persone  carissime.  Questa
incertezza ci opprime, anche in un  istante  che  dovrebbe  esser  quello  della
massima gioia.» Diede allora a Maroncelli una lettera di suo  fratello,  che  lo
consolò. A me disse che nulla c'era della mia famiglia; e ciò  mi  fece  vieppiù
temere che qualche disgrazia fosse in essa avvenuta.  «Vadano»  proseguì  «nella
loro stanza; e fra poco manderò loro quel terzo  che  pure  è  stato  graziato.»
Andammo ed apettavamo con ansietà quel terzo. Avremmo voluto che fossero  tutti,
eppure non poteva essere che uno. «Fosse il povero vecchio Munari! fosse quello!
fosse quell'altro!» Niuno era per cui non facessimo voti.  Finalmente  la  porta
s'apre, e vediamo quel compagno essere il signor Andrea Tonelli da  Brescia.  Ci
abbracciammo. Non potevamo più pranzare. Favellammo sino  a  sera,  compiangendo
gli amici che restavano. Al tramonto ritornò il direttore di polizia per  trarci
di quello sciagurato soggiorno. I nostri cuori gemevano, passando  innanzi  alle
carceri de' tanti amati, e non potendo condurli con noi! Chi sa quanto tempo  vi
languirebbero ancora? chi sa quanti di essi  doveano  quivi  esser  preda  lenta
della morte? Fu messo a ciascuno di noi un tabarro da soldato sulle spalle ed un
berretto in capo, e così,  coi  medesimi  vestiti  da  galeotto,  ma  scatenati,
scendemmo il funesto monte, e fummo  condotti  in  città,  nelle  carceri  della
polizia. Era un bellissimo lume di luna.  Le  strade,  le  case,  la  gente  che
incontravamo, tutto mi pareva sì gradevole e sì strano, dopo tanti anni che  non
avea più veduto simile spettacolo!

CAPO XCII

Aspettammo nelle carceri di polizia un commissario imperiale che dovea venire da
Vienna per accompagnarci sino ai confini. Intanto, siccome i nostri bauli  erano
stati venduti, ci provvedemmo di biancheria e vestiti,  e  deponemmo  la  divisa
carceraria. Dopo cinque giorni il commissario arrivò, ed il direttore di polizia
ci consegnò a lui, rimettendogli  nello  stesso  tempo  il  denaro  che  avevamo
portato sullo Spielberg e quello che si era ricavato dalla vendita dei  bauli  e
de' libri; danaro che poi ci venne a' confini restituito. La  spesa  del  nostro
viaggio fu fatta dall'Imperatore, e  senza  risparmio.  Il  commissario  era  il
signor von  Noe,  gentiluomo  impiegato  nella  segreteria  del  ministro  della
polizia. Non poteva esserci destinata persona  di  più  compita  educazione.  Ci
trattò sempre con tutti i riguardi. Ma io partii da Brünn con una difficoltà  di
respiro penosissima, ed il moto della carrozza tanto crebbe il male, che a  sera
ansava in guisa spaventosa, e temeasi da un  istante  all'altro  ch'io  restassi
soffocato. Ebbi inoltre ardente  febbre  tutta  notte,  ed  il  commissario  era
incerto il mattino seguente s'io potessi continuare il viaggio  sino  a  Vienna.
Dissi di sì, partimmo: la  violenza  dell'affanno  era  estrema;  non  potea  né
mangiare, né bere, né parlare. Giunsi a Vienna  semivivo.  Ci  diedero  un  buon
alloggio nella direzione generale di polizia. Mi posero a letto;  si  chiamò  un
medico; questi mi ordinò una cavata di sangue, e ne sentii giovamento.  Perfetta
dieta e molta digitale fu per otto giorni la mia cura, e risanai. Il medico  era
il signor Singer; m'usò attenzioni veramente amichevoli. Io aveva la più  grande
ansietà di partire, tanto più ch'era  a  noi  penetrata  la  notizia  delle  tre
giornate  di  Parigi.  Nello  stesso  giorno  che  scoppiava   la   rivoluzione,
l'Imperatore avea firmato il decreto della nostra libertà! Certo non lo  avrebbe
ora rivocato. Ma era pur cosa non inverisimile, che i tempi tornando  ad  essere
critici per tutta Europa si temessero movimenti popolari anche in Italia, e  non
si volesse dall'Austria, in quel  momento,  lasciarci  ripatriare.  Eravamo  ben
persuasi di non ritornare sullo Spielberg; ma paventavamo che alcuno  suggerisse
all'Imperatore di deportarci in qualche città dell'impero lungi dalla  penisola.
Mi mostrai anche più risanato che non era,  e  pregai  che  si  sollecitasse  la
partenza. Intanto era mio desiderio ardentissimo di presentarmi a S.E. il signor
conte di Pralormo, Inviato della Corte di  Torino  alla  Corte  austriaca,  alla
bontà del quale io sapeva di quanto andassi debitore. Egli erasi adoperato colla
più generosa e costante premura ad ottenere la mia liberazione.  Ma  il  divieto
ch'io  non  vedessi  chi  che  si  fosse  non  ammise  eccezione.   Appena   fui
convalescente, ci si fece la  gentilezza  di  mandarci  per  qualche  giorno  la
carrozza perché girassimo un poco per  Vienna.  Il  commissario  avea  l'obbligo
d'accompagnarci e di non lasciarci parlare con nessuno. Vedemmo la bella  chiesa
di  Santo  Stefano,  i  deliziosi  passeggi  della  città,   la   vicina   villa
Liechtenstein, e per ultimo la villa imperiale di Schonbrünn. Mentre eravamo ne'
magnifici viali di Schonbrünn passò l'Imperatore,  ed  il  commissario  ci  fece
ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone non l'attristasse.

CAPO XCIII

Partimmo finalmente da Vienna, e potei reggere fino a Bruck. Ivi l'asma  tornava
ad essere violenta. Chiamammo il medico: era un certo signor  Jüdmann,  uomo  di
molto garbo. Mi fece cavar sangue, star a letto, e continuare la digitale.  Dopo
due  giorni  feci  istanza  perché  il  viaggio  fosse  proseguito.  Traversammo
l'Austria e la Stiria, ed entrammo in Carintia senza novità; ma,  giunti  ad  un
villaggio per nome Feldkirchen poco distante da  Klagenfurt,  ecco  giungere  un
contr'ordine. Dovevamo ivi fermarci  sino  a  nuovo  avviso.  Lascio  immaginare
quanto spiacevole ci fosse quest'evento. Io inoltre aveva il rammarico di  esser
quello che portava  tanto  danno  a'  miei  due  compagni:  s'essi  non  poteano
ripatriare, la  mia  fatal  malattia  n'era  cagione.  Stemmo  cinque  giorni  a
Feldkirchen, ed ivi pure il commissario fece il possibile per  ricrearci.  V'era
un teatrino di commedianti, e vi ci condusse. Ci diede un giorno il divertimento
d'una caccia. Il nostro oste e parecchi  giovani  del  paese,  col  proprietario
d'una bella foresta, erano i cacciatori; e noi collocati in posizione  opportuna
godevamo lo spettacolo. Finalmente venne un corriere da Vienna,  con  ordine  al
commissario che ci conducesse pure al nostro destino. Esultai co' miei  compagni
di questa felice notizia, ma nello stesso tempo tremava che s'avvicinasse per me
il giorno d'una scoperta fatale: ch'io non avessi più né padre, né madre, né chi
sa quali altri  de'  miei  cari!  E  la  mia  mestizia  cresceva  a  misura  che
c'inoltravamo verso Italia. Da quella parte l'entrata in Italia non è  dilettosa
all'occhio ed anzi si scende da bellissime montagne del paese tedesco a  pianura
itala per lungo tratto sterile  ed  inamena;  cosicché  i  viaggiatori  che  non
conoscono ancora la nostra penisola, ed ivi passano, ridono della magnifica idea
che se n'erano fatta,  e  sospettano  d'essere  stati  burlati  da  coloro  onde
l'intesero tanto vantare. La bruttezza di quel suolo contribuiva a rendermi  più
tristo. Il rivedere il nostro cielo,  l'incontrare  facce  umane  di  forma  non
settentrionale, l'udire da ogni labbro voci del nostro idioma, m'inteneriva;  ma
era un'emozione che m'invitava più al pianto che alla  gioia.  Quante  volte  in
carrozza mi copriva colle mani il viso, fingendo di dormire, e piangeva!  Quante
volte la notte non chiudeva occhio, e  ardea  di  febbre,  or  dando  con  tutta
l'anima le più calde benedizioni alla mia dolce Italia, e ringraziando il  Cielo
d'essere a lei renduto;  or  tormentandomi  di  non  aver  notizie  di  casa,  e
fantasticando sciagure; or pensando che fra poco sarebbe stato forza  separarmi,
e forse per sempre, da un amico che tanto avea meco patito,  e  tante  prove  di
affetto fraterno aveami dato! Ah! sì lunghi anni di sepoltura non avevano spenta
l'energia del mio sentire! ma questa energia era sì poca per la gioia,  e  tanta
pel dolore! Come avrei voluto rivedere Udine e quella locanda ove quei  generosi
aveano finto di essere camerieri, e ci  aveano  stretto  furtivamente  la  mano!
Lasciammo quella città a nostra sinistra, e oltrepassammo.

CAPO XCIV

Pordenone, Conegliano, Ospedaletto,  Vicenza,  Verona,  Mantova  mi  ricordavano
tante cose! Del primo luogo era nativo un  valente  giovane,  stàtomi  amico,  e
perito nelle stragi di Russia; Conegliano era  il  paese  ove  i  secondini  de'
Piombi m'aveano detto essere stata condotta la Zanze; in Ospedaletto  era  stata
maritata, ma or non viveavi più, una creatura angelica ed infelice, ch'io  aveva
già tempo venerato, e ch'io venerava ancora. In tutti  que'  luoghi  insomma  mi
sorgeano rimembranze più o meno care; ed in Mantova più che in niun'altra città.
Mi parea ieri che io v'era venuto con Lodovico nel 1815! Mi parea  ieri  che  io
v'era venuto con Porro nel 1820! - Le  stesse  strade,  le  stesse  piazze,  gli
stessi palazzi, e tante differenze sociali! Tanti miei  conoscenti  involati  da
morte!  tanti  esuli!  una  generazione  d'adulti  i  quali  io   aveva   veduti
nell'infanzia! E non poter correre a questa o quella casa! non poter parlare del
tale o del tal altro con alcuno! E per colmo d'affanno, Mantova era il punto  di
separazione per Maroncelli e per me. Vi pernottammo tristissimi entrambi. Io era
agitato come un uomo alla vigilia d'udire la sua condanna. La mattina  mi  lavai
la faccia, e guardai nello specchio se si conoscesse ancora ch'io avessi pianto.
Presi, quanto meglio potei, l'aria tranquilla e  sorridente;  dissi  a  Dio  una
picciola preghiera, ma per verità molto distratto, ed udendo che già  Maroncelli
movea le sue grucce e parlava col cameriere, andai ad abbracciarlo. Tutti e  due
sembravamo pieni di  coraggio  per  questa  separazione;  ci  parlavano  un  po'
commossi, ma con voce forte. L'uffiziale di  gendarmeria  che  dee  condurlo  a'
confini di Romagna, è giunto; bisogna partire; non sappiamo quasi che dirci;  un
amplesso, un bacio, un amplesso ancora. - Montò in carrozza, disparve; io restai
come annichilato. Tornai nella mia stanza, mi gettai in ginocchio, e pregai  per
quel misero mutilato, diviso  dal  suo  amico,  e  proruppi  in  lagrime  ed  in
singhiozzi.  Conobbi  molti  uomini  egregi,  ma  nessuno  più   affettuosamente
socievole  di  Maroncelli,  nessuno  più  educato  a  tutti  i  riguardi   della
gentilezza, più esente da accessi di selvaticume, più costantemente  memore  che
la virtù si compone di continui esercizi  di  tolleranza,  di  generosità  e  di
senno. Oh mio socio di tanti anni di dolore, il Cielo  ti  benedica  ovunque  tu
respiri, e ti dia amici che m'agguaglino in amore e mi superino in bontà!

CAPO XCV

Partimmo la stessa mattina da  Mantova  per  Brescia.  Qui  fu  lasciato  libero
l'altro concaptivo, Andrea Tonelli. Quest'infelice seppe ivi d'aver  perduta  la
madre, e le desolate sue lagrime mi straziarono il cuore. Benché angosciatissimo
qual io m'era per tante cagioni, il seguente caso mi fece alquanto ridere. Sopra
una tavola della locanda v'era un annuncio teatrale. Prendo, e leggo: «Francesca
da Rimini, opera per musica, ecc.». «Di chi è quest'opera?» dico  al  cameriere.
«Chi l'abbia messa in versi e chi in musica, nol so,» risponde.  «Ma  insomma  è
sempre quella Francesca da Rimini, che tutti conoscono.» «Tutti? V'ingannate. Io
che vengo di Germania, che cosa  ho  da  sapere  delle  vostre  Francesche?»  Il
cameriere (era un giovinotto di  faccia  sdegnosetta,  veramente  bresciana)  mi
guardò con disprezzante pietà. «Che cosa ha da sapere? Signore, non si tratta di
Francesche. Si tratta d'una Francesca da Rimini unica. Voglio dire  la  tragedia
del signor Silvio Pellico. Qui l'hanno messa in opera, guastandola  un  pochino,
ma tutt'uno è sempre quella.» «Ah! Silvio  Pellico?  Mi  pare  d'aver  inteso  a
nominarlo. Non è quel cattivo mobile che fu condannato a morte e poi  a  carcere
duro, otto o nove anni sono?» Non avessi mai detto  questo  scherzo!  Si  guardò
intorno, poi guardò me, digrignò trentadue bellissimi denti,  e  se  non  avesse
udito rumore, credo m'accoppava. Se n'andò borbottando:  «Cattivo  mobile?».  Ma
prima ch'io partissi, scoperse chi mi fossi. Ei non sapeva più  né  interrogare,
né rispondere, né servire, né camminare. Non sapea più altro che pormi gli occhi
addosso, fregarsi le mani, e dire a tutti senza proposito: «Sior sì,  sior  sì!»
che parea che sternutasse.  Due  giorni  dopo,  addì  9  settembre,  giunsi  col
commissario a Milano. All'avvicinarmi a questa città, al rivedere la cupola  del
Duomo, al ripassare in quel viale di Loreto già mia passeggiata sì  frequente  e
si cara, al rientrare per Porta Orientale, e ritrovarmi  al  Corso,  e  rivedere
quelle case, quei templi, quelle vie, provai i più dolci  ed  i  più  tormentosi
sentimenti:  uno  smanioso  desiderio  di  fermarmi  alcun  tempo  in  Milano  e
riabbracciarvi  quegli  amici  ch'io  v'avrei  rinvenuti  ancora:  un   infinito
rincrescimento pensando a quelli ch'io aveva lasciato sullo Spielberg, a  quelli
che  ramingavano  in  terre  straniere,  a  quelli  ch'erano  morti:  una   viva
gratitudine rammentando l'amore che m'avevano dimostrato in generale i Milanesi:
qualche fremito di sdegno contro alcuni che mi avevano calunniato, mentre  erano
sempre stati l'oggetto della mia benevolenza  e  della  mia  stima.  Andammo  ad
alloggiare alla Bella Venezia. Qui io era stato  tante  volte  a  lieti  amicali
conviti:  qui  avea  visitato  tanti  degni  forestieri:  qui  una  rispettabile
attempata signora mi sollecitava, ed indarno, a seguirla in Toscana, prevedendo,
s'io restava a Milano, le sventure che m'accaddero. Oh  commoventi  memorie!  Oh
passato sì cosparso di  piaceri  e  di  dolori,  e  sì  rapidamente  fuggito!  I
camerieri dell'albergo scopersero subito chi foss'io.  La  voce  si  diffuse,  e
verso sera vidi molti fermarsi  sulla  piazza  e  guardare  alle  finestre.  Uno
(ignoro chi foss'egli) parve riconoscermi, e mi salutò alzando ambe la  braccia.
Ah, dov'erano i figli di Porro, i miei figli? Perché non li vid'io?

CAPO XCVI

Il commissario mi condusse alla polizia,  per  presentarmi  al  direttore.  Qual
sensazione nel rivedere quella  casa,  mio  primo  carcere!  Quanti  affanni  mi
ricorsero alla mente! Ah! mi sovvenne con tenerezza di te, o Melchiorre Gioia, e
dei passi precipitati ch'io ti vedea muovere su e giù fra quelle strette pareti,
e delle ore che stavi immobile al tavolino scrivendo i tuoi nobili  pensieri,  e
dei cenni che mi facevi col fazzoletto, e della mestizia con  cui  mi  guardavi,
quando il farmi cenni ti fu vietato! Ed immaginai la tua tomba,  forse  ignorata
dal maggior numero di coloro che ti amarono, siccom'era ignorata  da  me!  -  ed
implorai pace al tuo spirito! Mi sovvenne anche  del  mutolino,  della  patetica
voce di Maddalena, de' miei palpiti di compassione  per  essa,  de'  ladri  miei
vicini, del preteso Luigi XVII, del povero condannato che si lasciò cogliere  il
viglietto e sembrommi avere urlato sotto  il  bastone.  Tutte  queste  ed  altre
memorie m'opprimeano come un sogno angoscioso, ma più  m'opprimea  quella  delle
due visite fattemi ivi dal mio povero padre, dieci anni addietro. Come  il  buon
vecchio  s'illudeva,  sperando  ch'io  presto  potessi  raggiungerlo  a  Torino!
Avrebb'egli sostenuto l'idea di dieci anni di prigionia ad un figlio, e  di  tal
prigionia? Ma quando le sue illusioni svanirono, avrà egli, avrà la madre  avuto
forza di reggere a sì  lacerante  cordoglio?  Erami  dato  ancora  di  rivederli
entrambi? o forse uno solo dei due? e quale? Oh dubbio tormentosissimo e  sempre
rinascente! Io era, per così dire, alle porte di casa, e non sapeva ancora se  i
genitori fossero in vita; se fosse in  vita  pur  uno  della  mia  famiglia.  Il
direttore della polizia m'accolse gentilmente, e permise ch'io mi fermassi  alla
Bella Venezia col commissario imperiale, invece di farmi custodire altrove.  Non
mi si concesse per altro di mostrarmi ad alcuno, ed io quindi  mi  determinai  a
partire il mattino seguente. Ottenni soltanto di vedere il  Console  piemontese,
per chiedergli contezza de' miei congiunti. Sarei  andato  da  lui,  ma  essendo
preso da febbre e dovendo pormi in letto, lo feci pregare di venire da me.  Ebbe
la compiacenza di non farsi aspettare, ed oh quanto  gliene  fui  grato!  Ei  mi
diede buone nuove di mio padre e di mio fratello primogenito.  Circa  la  madre,
l'altro fratello e le due  sorelle,  rimasi  in  crudele  incertezza.  In  parte
confortato,  ma  non  abbastanza,  avrei  voluto,  per  sollevare  l'anima  mia,
prolungare molto la conversazione col signor Console. Ei non fu scarso della sua
gentilezza, ma dovette pure lasciarmi. Restato  solo,  avrei  avuto  bisogno  di
lagrime, e non ne avea. Perché talvolta mi fa il dolore prorompere in pianto, ed
altre volte, anzi il più spesso, quando parmi che  il  piangere  mi  sarebbe  si
dolce ristoro, lo invoco inutilmente? Questa impossibilità  di  sfogare  la  mia
afflizione accresceami la febbre: il  capo  doleami  forte.  Chiesi  da  bere  a
Stundberger. Questo buon uomo era un sergente della polizia di Vienna,  faciente
funzione di cameriere del commissario. Non era vecchio, ma diedesi il  caso  che
mi porse da bere con mano tremante. Quel tremito mi  ricordò  Schiller,  il  mio
amato Schiller, quando, il primo giorno del mio arrivo a Spielberg, gli dimandai
con imperioso orgoglio la brocca dell'acqua, e me la  porse.  Cosa  strana!  Tal
rimembranza, aggiunta alle altre, ruppe la selce del mio  cuore,  e  le  lagrime
scaturirono.

CAPO XCVII

La mattina del 10 settembre abbracciai il mio eccellente commissario, e  partii.
Ci conoscevamo solamente da un mese, e mi pareva un amico di molti anni. L'anima
sua, piena di sentimento del bello e dell'onesto, non  era  investigatrice,  non
era artifiziosa; non perché non potesse  avere  l'ingegno  di  esserlo,  ma  per
quell'amore di nobile semplicità ch'è negli uomini  retti.  Taluno,  durante  il
viaggio, in un luogo dove c'eravamo fermati, mi disse  ascosamente:  «Guardatevi
di quell'angelo custode; se non fosse di quei neri  non  ve  l'avrebbero  dato».
«Eppur v'ingannate» gli dissi «ho la più intima persuasione che v'ingannate.» «I
più astuti» riprese quegli «sono coloro che appaiono  più  semplici.»  «Se  così
fosse, non bisognerebbe mai credere alla virtù d'alcuno.» «Vi  son  certi  posti
sociali ove può esservi molta elevata educazione per le maniere, ma  non  virtù!
non virtù! non virtù!» Non potei rispondergli altro, se non che:  «Esagerazione,
signor mio!  esagerazione!»  «Io  sono  conseguente»  insisté  colui.  Ma  fummo
interrotti. E mi sovvenne il cave a consequentiariis di Leibnizio. Pur troppo la
più parte degli uomini ragiona con questa falsa e terribile logica: "Io seguo lo
stendardo A, che son  certo  essere  quello  della  giustizia;  colui  segue  lo
stendardo B, che son certo essere quello  dell'ingiustizia:  dunque  egli  è  un
malvagio". Ah no, o logici furibondi! di  qualunque  stendardo  voi  siate,  non
ragionate così disumanamente! Pensate  che  partendo  da  un  lato  svantaggioso
qualunque (e dov'è una società od un individuo  che  non  abbiane  di  tali?)  e
procedendo con rabbioso  rigore  di  conseguenza  in  conseguenza,  è  facile  a
chicchessia il giungere a questa conclusione: "Fuori di  noi  quattro,  tutti  i
mortali meritano d'essere arsi vivi". E se si fa più sagace  scrutinio,  ciascun
de' quattro dirà: "Tutti i mortali meritano d'essere arsi vivi,  fuori  di  me".
Questo volgare rigorismo è sommamente antifilosofico.  Una  diffidenza  moderata
può esser savia: una diffidenza oltrespinta, non mai. Dopo il  cenno  che  m'era
stato fatto su quell'angelo custode, io posi più mente di prima a studiarlo,  ed
ogni giorno più mi convinsi della innocua e generosa sua natura. Quando  v'è  un
ordine di società stabilito, molto o poco buono ch'ei sia, tutti i posti sociali
che non vengono per universale coscienza  riconosciuti  infami,  tutti  i  posti
sociali che promettono di cooperare nobilmente al ben pubblico e le cui promesse
sono credute da gran numero di gente, tutti i posti sociali  in  cui  è  assurdo
negare che vi sieno stati uomini onesti, possono sempre da uomini onesti  essere
occupati. Lessi d'un quacchero che aveva orrore dei soldati. Vide una  volta  un
soldato gettarsi nel Tamigi e salvare un  infelice  che  s'annegava;  ei  disse:
«Sarò sempre quacchero, ma anche i soldati son buone creature».

CAPO XCVIII

Stundberger m'accompagnò  sino  alla  vettura,  ove  montai  col  brigadiere  di
gendarmeria al quale io era stato affidato.  Pioveva,  e  spirava  aria  fredda.
«S'avvolga bene nel mantello» diceami Stundberger  «si  copra  meglio  il  capo,
procuri di  non  arrivare  a  casa  ammalato;  ci  vuol  così  poco  per  lei  a
raffreddarsi! Quanto m'incresce di non poterle prestare i miei  servigi  fino  a
Torino!» E tutto ciò diceami egli sì cordialmente e  con  voce  commossa!  «D'or
innanzi, ella non avrà forse più mai alcun Tedesco vicino  a  sé»  soggiuns'egli
«non udrà forse più mai parlare questa lingua che gl'Italiani trovano sì dura. E
poco le importerà probabilmente. Fra i Tedeschi ebbe tante  sventure  a  patire,
che non avrà troppa voglia di ricordarsi di noi. E nondimeno  io,  di  cui  ella
dimenticherà presto il nome, io, signore, pregherò sempre per lei.» «Ed  io  per
te» gli dissi, toccandogli l'ultima volta la mano. Il pover'uomo  gridò  ancora:
«Guten Morgen! gute Reise! leben Sie wohl!  (buon  giorno!  buon  viaggio!  stia
bene!)». Furono le ultime parole tedesche che udii pronunciare,  e  mi  sonarono
care come se fossero state della mia lingua. Io  amo  appassionatamente  la  mia
patria, ma non odio alcun'altra nazione. La civiltà, la ricchezza,  la  potenza,
la gloria sono diverse nelle diverse nazioni; ma in tutte havvi anime obbedienti
alla gran vocazione dell'uomo, di amare e compiangere e giovare.  Il  brigadiere
che m'accompagnava mi raccontò essere stato uno di quelli che arrestarono il mio
infelicissimo Confalonieri. Mi disse come questi avea tentato di  fuggire,  come
il  colpo  gli  era  fallito,  come,  strappato  dalle  braccia  di  sua  sposa,
Confalonieri ed essa  fossero  inteneriti  e  sostenessero  con  dignità  quella
sventura. Io ardeva di febbre udendo questa misera storia, ed una mano di  ferro
parea stringermi il cuore. Il narratore, uomo  alla  buona,  e  conversante  per
fiduciale socievolezza, non s'accorgeva che, sebbene io non avessi nulla  contro
di lui, pur non poteva a  meno  di  raccapricciare  guardando  quelle  mani  che
s'erano scagliate sul mio amico. A Buffalora ei fece colazione:  io  era  troppo
angosciato, non presi niente. Una volta, in anni già lontani, quando villeggiava
in Arluno co' figli del conte Porro, veniva talora  a  passeggiare  a  Buffalora
lungo il Ticino. Esultai di vedere terminato il bel ponte, i  cui  materiali  io
aveva veduti sparsi sulla riva lombarda, con  opinione  allora  comune  che  tal
lavoro non si facesse più. Esultai di ritraversare quel fiume, e di ritoccare la
terra piemontese. Ah, benché io ami tutte le nazioni, Dio sa quanto io prediliga
l'Italia, e bench'io sia così invaghito dell'Italia, Dio  sa  quanto  più  dolce
d'ogni altro nome d'italico paese mi sia il nome del  Piemonte,  del  paese  de'
miei padri!

CAPO XCIX

Dirimpetto a Buffalora è San  Martino.  Qui  il  brigadiere  lombardo  parlò  a'
carabinieri piemontesi, indi mi salutò e ripassò il ponte.  «Andiamo  a  Novara»
dissi  al  vetturino.  «Abbia  la  bontà  d'aspettare  un  momento»   disse   un
carabiniere. Vidi ch'io non era ancor  libero,  e  me  n'afflissi,  temendo  che
avesse ad esser ritardato il mio arrivo alla casa paterna. Dopo più d'un  quarto
d'ora comparve un signore che mi chiese il permesso di venire a Novara  con  me.
Un'altra occasione gli era mancata; or non v'era altro legno che  il  mio,  egli
era ben felice ch'io gli concedessi di profittarne, ecc. ecc. Questo carabiniere
travestito era d'amabile umore, e mi tenne buona compagnia sino a Novara. Giunti
in questa città, fingendo di voler che smontassimo ad un albergo fece andare  il
legno nella caserma dei carabinieri, e qui mi fu detto esservi un letto  per  me
nella camera di un brigadiere,  e  dover  aspettare  gli  ordini  superiori.  Io
pensava di poter  partire  il  dì  seguente;  mi  posi  a  letto,  e  dopo  aver
chiacchierato alquanto coll'ospite brigadiere  m'addormentai  profondamente.  Da
lungo tempo non avea più dormito  così  bene.  Mi  svegliai  verso  il  mattino,
m'alzai  presto,  e  le  prime  ore  mi  sembrarono  lunghe.   Feci   colezione,
chiacchierai, passeggiai in istanza e sulla loggia, diedi un'occhiata  ai  libri
dell'ospite; finalmente mi s'annuncia una visita. Un gentile uffiziale mi  viene
a dar nuove di mio padre, e a dirmi esservi di esso in  Novara  una  lettera  la
quale mi sarà in breve portata.  Gli  fui  sommamente  tenuto  di  quest'amabile
cortesia. Volsero alcune ore che pur mi sembrarono eterne, e  la  lettera  alfin
comparve. Oh  qual  gioia  nel  rivedere  quegli  amati  caratteri!  qual  gioia
nell'intendere che mia madre, l'ottima mia madre viveva! e vivevano i  miei  due
fratelli, e la sorella maggiore! Ahi! la minore, quella Marietta fattasi  monaca
della Visitazione, e della  quale  erami  clandestinamente  giunto  notizia  nel
carcere, avea cessato di vivere  nove  mesi  prima!  M'è  dolce  credere  essere
debitore della mia libertà a tutti coloro  che  m'amavano  e  che  intercedevano
incessantemente presso Dio per me, ed in particolar guisa  ad  una  sorella  che
morì con indizii di somma pietà. Dio la compensi di tutte le angosce che il  suo
cuore  sofferse  a  cagione  delle  mie  sventure!  I  giorni  passavano,  e  la
permissione di partire di Novara non  veniva.  Alla  mattina  del  16  settembre
questa permissione finalmente mi fu data, e ogni tutela di carabinieri cessò. Oh
da  quanti  anni  non  m'era  più  avvenuto  d'andare  ove  mi   piaceva   senza
accompagnamento di guardie! Riscossi qualche danaro, ricevetti le gentilezze  di
persona conoscente di mio padre, e partii verso le  tre  pomeridiane.  Avea  per
compagni di viaggio una signora, un  negoziante,  un  incisore,  e  due  giovani
pittori, uno de' quali era sordo e muto. Questi pittori venivano da Roma;  e  mi
fece piacere l'intendere che conoscessero la famiglia di Maroncelli. È sì  soave
cosa  il  poter  parlare  di  coloro  che  amiamo  con  alcuno  che  non   siavi
indifferente! Pernottammo a Vercelli. Il felice giorno 17 settembre  spuntò.  Si
proseguì il viaggio. Oh come le vetture sono lente! non si giunse a Torino che a
sera. Chi mai, chi mai potrebbe descrivere la consolazione del mio cuore  e  de'
cuori a me diletti, quando rividi e riabbracciai padre, madre, fratelli?...  Non
v'era la mia cara sorella Giuseppina, che il dover suo teneva a Chieri; ma udita
la mia felicità, s'affrettò a venire per alcuni giorni in  famiglia.  Renduto  a
que' cinque carissimi oggetti della mia  tenerezza,  io  era,  io  sono  il  più
invidiabile  de'  mortali!  Ah!  delle  passate  sciagure  e  della  contentezza
presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la
Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si  voglia,  sono
mirabili stromenti ch'ella sa adoprare a fini degni di sé.

FINE

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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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