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Giosuè Carducci - Odi Barbare

Giosuè Carducci download

ODI BARBARE
di Giosue Carducci


PRELUDIO

      Odio l'usata poesia: concede
      comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
      palpiti sotto i consueti amplessi
4     stendesi e dorme.

      A me la strofe vigile, balzante
      co 'l plauso e 'l piede ritmico ne' cori:
      per l'ala a volo io còlgola, si volge
8     ella e repugna.

      Tal fra le strette d'amator silvano
      torcesi un'evia su 'l nevoso Edone:
      piú belli i vezzi del fiorente petto
12    saltan compressi,

      e baci e strilli su l'accesa bocca
      mesconsi: ride la marmorea fronte
      al sole, effuse in lunga onda le chiome
16    fremono a' venti.



DELLE ODI BARBARE

LIBRO I


IDEALE

      Poi che un sereno vapor d'ambrosia
      da la tua coppa diffuso avvolsemi,
      o Ebe con passo di dea
4     trasvolata sorridendo via;

      non piú del tempo l'ombra o de l'algide
      cure su 'l capo mi sento; sentomi,
      o Ebe, l'ellenica vita
8     tranquilla ne le vene fluire.

      E i ruinati giú pe 'l declivio
      de l'età mesta giorni risursero,
      o Ebe, nel tuo dolce lume
12    agognanti di rinnovellare;

      e i novelli anni da la caligine
      volenterosi la fronte adergono,
      o Ebe, al tuo raggio che sale
16    tremolando e roseo li saluta.

      A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
      stella, da l'alto. Tale ne i gotici
      delúbri, tra candide e nere
20    cuspidi rapide salïenti

      con doppia al cielo fila marmorea,
      sta su l'estremo pinnacol placida
      la dolce fanciulla di Jesse
24    tutta avvolta di faville d'oro.

      Le ville e il verde piano d'argentei
      fiumi rigato contempla aerea,
      le messi ondeggianti ne' campi,
28    le raggianti sopra l'alpe nevi:

      a lei d'intorno le nubi volano;
      fuor de le nubi ride ella fulgida
      a l'albe di maggio fiorenti,
32    a gli occasi di novembre mesti.



ALL'AURORA

      Tu sali e baci, o dea, co 'l rosëo fiato le nubi,
2     baci de' marmorëi templi le fosche cime.

      Ti sente e con gelido fremito destasi il bosco,
4     spiccasi il falco a volo su con rapace gioia;

      mentre ne l'umida foglia pispigliano garruli i nidi,
6     e grigio urla il gabbiano su 'l vïolaceo mare.

      Primi nel pian faticoso di te s'allegrano i fiumi
8     tremuli luccicando tra 'l mormorar de' pioppi:

      corre da i paschi baldo vèr' l'alte fluenti il poledro
10    sauro, dritto il chiomante capo, nitrendo a' venti:

      vigile da i tuguri risponde la forza de i cani
12    e di gagliardi mugghi tutta la valle suona.

      Ma l'uom che tu svegli a oprar consumando la vita,
14    te giovinetta antica, te giovinetta eterna

      ancor pensoso ammira, come già t'adoravan su 'l monte
16    ritti fra i bianchi armenti i nobili Aria padri.

      Ancor sovra l'ali del fresco mattino rivola
18    l'inno che a te su l'aste disser poggiati i padri.

      - Pastorella del cielo, tu, frante a la suora gelosa
20    le stalle, riadduci le rosse vacche in cielo.

      Guidi le rosse vacche, guidi tu il candido armento
22    e le bionde cavalle care a i fratelli Asvini.

      Come giovine donna che va da i lavacri a lo sposo
24    riflettendo ne gli occhi il desïato amore,

      tu sorridendo lasci caderti i veli leggiadri
26    e le virginee forme scuopri serena a i cieli.

      Affocata le guance, ansante dal candido petto,
28    corri al sovran de i mondi, al bel fiammante Suria,

      e il giungi, e in arco distendi le rosee braccia al gagliardo
30    collo; ma tosto fuggi di quel tremendo i rai.

      Allora gli Asvini gemelli, cavalieri del cielo,
32    rosea tremante accolgon te nel bel carro d'oro;

      e volgi verso dove, misurato il cammino di gloria,
34    stanco ti cerchi il nume ne i mister de la sera.

      Deh propizia trasvola - cosí t'invocavano i padri -
36    nel rosseggiante carro sopra le nostre case.

      Arriva da le plaghe d'orïente con la fortuna,
38    con le fiorenti biade, con lo spumante latte;

      ed in mezzo a' vitelli danzando con floride chiome
40    molta prole t'adori, pastorella del cielo. -

      Cosí cantavano gli Aria. Ma piàcqueti meglio l'Imetto
42    fresco di vénti rivi, che al ciel di timi odora:

      piàcquerti su l'Imetto i lesti cacciatori mortali
44    prementi le rugiade co 'l coturnato piede.

      Inchinaronsi i cieli, un dolce chiarore vermiglio
46    ombrò la selva e il colle, quando scendesti, o dea.

      Non tu scendesti, o dea: ma Cefalo attratto al tuo bacio
48    salía per l'aure lieve, bello come un bel dio.

      Su gli amorosi venti salía, tra soavi fragranze,
50    tra le nozze de i fiori, tra gl'imenei de' rivi.

      La chioma d'oro lenta irriga il collo, a l'omero bianco
52    con un cinto vermiglio sta la faretra d'oro.

      Cadde l'arco su l'erbe; e Lèlapo immobil con erto
54    il fido arguto muso mira salire il sire.

      Oh baci d'una dea fragranti tra la rugiada!
56    oh ambrosia de l'amore nel giovinetto mondo!

      Ami tu anche, o dea? Ma il nostro genere è stanco;
58    mesto il tuo viso, o bella, su le cittadi appare.

      Languon fiocchi i fanali; rincase, e né meno ti guarda,
60    una pallida torma che si credé gioire.

      Sbatte l'operaio rabbioso le stridule impòste,
62    e maledice al giorno che rimena il servaggio.

      Solo un amante forse che placida al sonno commise
64    la dolce donna, caldo de' baci suoi le vene,

      alacre affronta e lieto l'aure tue gelide e il viso:
66    - Portami -, dice, - Aurora, su 'l tuo corsier di fiamma!

      ne i campi de le stelle mi porta, ond'io vegga la terra
68    tutta risorridente nel roseo lume tuo,

      e vegga la mia donna davanti al sole che leva
70    sparsa le nere trecce giú pe 'l rorido seno. -



NELL'ANNUALE DELLA FONDAZIONE DI ROMA

      Te redimito di fior purpurei
      april te vide su 'l colle emergere
      da 'l solco di Romolo torva
4     riguardante su i selvaggi piani:

      te dopo tanta forza di secoli
      aprile irraggia, sublime, massima,
      e il sole e l'Italia saluta
8     te, Flora di nostra gente, o Roma.

      Se al Campidoglio non piú la vergine
      tacita sale dietro il pontefice
      né piú per Via Sacra il trionfo
12    piega i quattro candidi cavalli,

      questa del Fòro tua solitudine
      ogni rumore vince, ogni gloria;
      e tutto che al mondo è civile,
16    grande, augusto, egli è romano ancora.

      Salve, dea Roma! Chi disconósceti
      cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
      e a lui nel reo cuore germoglia
20    torpida la selva di barbarie.

      Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
      del Fòro, io seguo con dolci lacrime
      e adoro i tuoi sparsi vestigi,
24    patria, diva, santa genitrice.

      Son cittadino per te d'Italia,
      per te poeta, madre de i popoli,
      che desti il tuo spirito al mondo,
28    che Italia improntasti di tua gloria.

      Ecco, a te questa, che tu di libere
      genti facesti nome uno, Italia,
      ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,
32    affisa ne' tuoi d'aquila occhi.

      E tu dal colle fatal pe 'l tacito
      Fòro le braccia porgi marmoree,
      a la figlia liberatrice
36    additando le colonne e gli archi:

      gli archi che nuovi trionfi aspettano
      non piú di regi, non piú di cesari,
      e non di catene attorcenti
40    braccia umane su gli eburnei carri;

      ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
      su l'età nera, su l'età barbara,
      su i mostri onde tu con serena
44    giustizia farai franche le genti.

      O Italia, o Roma! quel giorno, placido
      tornerà il cielo su 'l Fòro, e cantici
      di gloria, di gloria, di gloria
48    correran per l'infinito azzurro.



DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA

      Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
      le nubi: il vento dal pian tristo move
      umido: in fondo stanno i monti albani
4     bianchi di nevi.

      A le cineree trecce alzato il velo
      verde, nel libro una britanna cerca
      queste minacce di romane mura
8     al cielo e al tempo.

      Continui, densi, neri, crocidanti
      versansi i corvi come fluttuando
      contro i due muri ch'a piú ardua sfida
12    levansi enormi.

      - Vecchi giganti, - par che insista irato
      l'augure stormo - a che tentate il cielo? -
      Grave per l'aure vien da Laterano
16    suon di campane.

      Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
      grave fischiando tra la folta barba,
      passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
20    nume presente.

      Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
      e de le madri le protese braccia
      te deprecanti, o dea, da 'l reclinato
24    capo de i figli:

      se ti fu cara su 'l Palazio eccelso
      l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
      l'evandrio colle, e veleggiando a sera
28    tra 'l Campidoglio

      e l'Aventino il reduce quirite
      guardava in alto la città quadrata
      dal sole arrisa, e mormorava un lento
32    saturnio carme);

      Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
      quinci respingi e lor picciole cose:
      religïoso è questo orror: la dea
36    Roma qui dorme.

      Poggiata il capo al Palatino augusto,
      tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
      per la Capena i forti omeri stende
40    a l'Appia via.



ALLA VITTORIA
TRA LE ROVINE DEL TEMPIO DI VESPASIANO IN BRESCIA

      Scuotesti, vergin divina, l'auspice
      ala su gli elmi chini de i pèltasti,
      poggiasti il ginocchio a lo scudo,
4     aspettanti con l'aste protese?

      o pur volasti davanti l'aquile,
      davanti i flutti de' marsi militi,
      co 'l miro fulgor respingendo
8     gli annitrenti cavalli de i Parti?

      Raccolte or l'ali, sopra la galea
      del vinto insisti fiera co 'l poplite,
      qual nome di vittorïoso
12    capitano su 'l clipeo scrivendo?

      È d'un arconte, che sovra i despoti
      gloriò le sante leggi de' liberi?
      d'un consol, che il nome i confini
16    e il terror de l'impero distese?

      Vorrei vederti su l'Alpi, splendida
      fra le tempeste, bandir ne i secoli:
      "O popoli, Italia qui giunse
20    vendicando il suo nome e il diritto."

      Ma Lidia intanto de i fiori ch'èduca
      mesti l'ottobre da le macerie
      romane t'elegge un pio serto,
24    e, ponendol soave al tuo piede,

      - Che dunque - dice - pensasti, o vergine
      cara, là sotto ne la terra umida
      tanti anni? sentisti i cavalli
28    d'Alemagna su 'l greco tuo capo? -

      - Sentii - risponde la diva, e folgora -
      però ch'io sono la gloria ellenica,
      io sono la forza del Lazio
32    traversante nel bronzo pe' tempi.

      Passâr l'etadi simili a i dodici
      avvoltoi tristi che vide Romolo
      e sursi "O Italia" annunziando
36    "i sepolti son teco e i tuoi numi!"

      Lieta del fato Brescia raccolsemi,
      Brescia la forte, Brescia la ferrea,
      Brescia leonessa d'Italia
40    beverata nel sangue nemico. -



ALLE FONTI DEL CLITUMNO

      Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
      frassini al vento mormoranti e lunge
      per l'aure odora fresco di silvestri
4     salvie e di timi,

      scendon nel vespero umido, o Clitumno,
      a te le greggi: a te l'umbro fanciullo
      la riluttante pecora ne l'onda
8     immerge, mentre

      vèr lui dal seno de la madre adusta,
      che scalza siede al casolare e canta,
      una poppante volgesi e dal viso
12    tondo sorride:

      pensoso il padre, di caprine pelli
      l'anche ravvolto come i fauni antichi,
      regge il dipinto plaustro e la forza
16    de' bei giovenchi,

      de' bei giovenchi dal quadrato petto,
      erti su 'l capo le lunate corna,
      dolci ne gli occhi, nivëi, che il mite
20    Virgilio amava.

      Oscure intanto fumano le nubi
      su l'Apennino: grande, austera, verde
      da le montagne digradanti in cerchio
24    l'Umbrïa guarda.

      Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
      nume Clitumno! Sento in cuor l'antica
      patria e aleggiarmi su l'accesa fronte
28    gl'itali iddii.

      Chi l'ombre indusse del piangente salcio
      su' rivi sacri? ti rapisca il vento
      de l'Apennino, o molle pianta, amore
32    d'umili tempi!

      Qui pugni a' verni e arcane istorie frema
      co 'l palpitante maggio ilice nera,
      a cui d'allegra giovinezza il tronco
36    l'edera veste:

      qui folti a torno l'emergente nume
      stieno, giganti vigili, i cipressi;
      e tu fra l'ombre, tu fatali canta
40    carmi, o Clitumno.

      O testimone di tre imperi, dinne
      come il grave umbro ne' duelli atroce
      cesse a l'astato velite e la forte
44    Etruria crebbe:

      di' come sovra le congiunte ville
      dal superbo Címino a gran passi
      calò Gradivo poi, piantando i segni
48    fieri di Roma.

      Ma tu placavi, indigete comune
      italo nume, i vincitori a i vinti,
      e, quando tonò il punico furore
52    dal Trasimeno,

      per gli antri tuoi salí grido, e la torta
      lo ripercosse buccina da i monti:
      - O tu che pasci i buoi presso Mevania
56    caliginosa,

      e tu che i proni colli ari alla sponda
      del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
      sopra Spoleto verdi o ne la marzia
60    Todi fai nozze,

      lascia il bue grasso tra le canne, lascia
      il torel fulvo a mezzo solco, lascia
      ne l'inclinata quercia il cuneo, lascia
64    la sposa a l'ara;

      e corri, corri, corri! con la scure
      corri e co' dardi, con la clava e l'asta!
      corri! minaccia gl'itali penati
68    Annibal diro. -

      Deh come rise d'alma luce il sole
      per questa chiostra di bei monti, quando
      urlanti vide e ruinanti in fuga
72    l'alta Spoleto

      i Mauri immani e i númidi cavalli
      con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
      di ferro, flutti d'olio ardente, e i canti
76    de la vittoria!

      Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
      la tenue miro salïente vena:
      trema, e d'un lieve pullular lo specchio
80    segna de l'acque.

      Ride sepolta a l'imo una foresta
      breve, e rameggia immobile: il diaspro
      par che si mischi in flessuosi amori
84    con l'ametista.

      E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
      de l'adamante rigido i riflessi,
      e splendon freddi e chiamano a i silenzi
88    del verde fondo.

      A piè de i monti e de le querce a l'ombra
      co' fiumi, o Italia, è de' tuoi carmi il fonte.
      Visser le ninfe, vissero: e un divino
92    talamo è questo.

      Emergean lunghe ne' fluenti veli
      naiadi azzurre, e per la cheta sera
      chiamavan alto le sorelle brune
96    da le montagne,

      e danze sotto l'imminente luna
      guidavan, liete ricantando in coro
      di Giano eterno e quanto amor lo vinse
100   di Camesena.

      Egli dal cielo, autoctona virago
      ella: fu letto l'Apennin fumante:
      velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
104   l'itala gente.

      Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,
      tutto: de' vaghi tuoi delúbri un solo
      t'avanza, e dentro pretestato nume
108   tu non vi siedi.

      Non piú perfusi del tuo fiume sacro
      menano i tori, vittime orgogliose,
      trofei romani a i templi aviti: Roma
112   piú non trionfa.

      Piú non trionfa, poi che un galileo
      di rosse chiome il Campidoglio ascese,
      gittolle in braccio una sua croce, e disse
116   - Portala, e servi. -

      Fuggîr le ninfe a piangere ne' fiumi
      occulte e dentro i cortici materni,
      od ululando dileguaron come
120   nuvole a i monti,

      quando una strana compagnia, tra i bianchi
      templi spogliati e i colonnati infranti,
      procedé lenta, in neri sacchi avvolta,
124   litanïando,

      e sovra i campi del lavoro umano
      sonanti e i clivi memori d'impero
      fece deserto, et il deserto disse
128   regno di Dio.

      Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
      padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
      ovunque il divo sol benedicea,
132   maledicenti.

      Maledicenti a l'opre de la vita
      e de l'amore, ei deliraro atroci
      congiungimenti di dolor con Dio
136   su rupi e in grotte:

      discesero ebri di dissolvimento
      a le cittadi, e in ridde paurose
      al crocefisso supplicaro, empi,
140   d'essere abietti.

      Salve, o serena de l'Ilisso in riva,
      o intera e dritta a i lidi almi del Tebro
      anima umana! i foschi dí passaro,
144   risorgi e regna.

      E tu, pia madre di giovenchi invitti
      a franger glebe e rintegrar maggesi,
      e d'annitrenti in guerra aspri polledri
148   Italia madre,

      madre di biade e viti e leggi eterne
      ed inclite arti a raddolcir la vita,
      salve! a te i canti de l'antica lode
152   io rinnovello.

      Plaudono i monti al carme e i boschi e l'acque
      de l'Umbria verde: in faccia a noi fumando
      ed anelando nuove industrie in corsa
156   fischia il vapore.



ROMA

      Roma, ne l'aer tuo lancio l'anima altera  volante:
2     accogli, o Roma, e avvolgi l'anima mia di luce.

      Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:
4     chi le farfalle cerca sotto l'arco di Tito?

      Che importa a me se l'irto spettral vinattier di Stradella
6     mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?

      e se il lungi operoso tessitor di Biella s'impiglia,
8     ragno attirante in vano, dentro le reti sue?

      Cingimi, o Roma, d'azzurro, di sole m'illumina, o Roma:
10    raggia divino il sole pe' larghi azzurri tuoi.

      Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale,
12    al vecchio Capitolio santo fra le ruine;

      e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia
14    a l'amor che diffuso splende per l'aure chete.

      Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!
16    e tu Soratte grigio, testimone in eterno!

      Monti d'Alba, cantate sorridenti l'epitalamio;
18    Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;

      mentr'io da 'l Gianicolo ammiro l'imagin de l'urbe,
20    nave immensa lanciata vèr' l'impero del mondo.

      O nave che attingi con la poppa l'alto infinito,
22    varca a' misterïosi liti l'anima mia.

      Ne' crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
24    tranquillamente lunghi su la Flaminia via,

      l'ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
26    la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;

      passi a i concilii de l'ombre, rivegga li spiriti magni
28    de i padri conversanti lungh'esso il fiume sacro.



ALESSANDRIA
A GIUSEPPE REGALDI QUANDO PUBBLICÒ "L'EGITTO"

      Ne l'aula immensa di Lussor, su 'l capo
      roggio di Ramse il mistico serpente
      sibilò ritto e 'l vulture a sinistra
4     volò stridendo,

      e da l'immenso serapèo di Memfi,
      cui stanno a guardia sotto il sol candente
      seicento sfingi nel granito argute,
8     Api muggío,

      quando da i verdi immobili papiri
      di Mareoti al livido deserto
      sonò, tacendo l'aure intorno, questo
12    greco peana.

      - Ecco, venimmo a salutarti, Egitto,
      noi figli d'Elle, con le cetre e l'aste.
      Tebe, dischiudi le tue cento porte
16    ad Alessandro.

      Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio
      ch'ei riconosca; questo caro alunno
      de la Tessaglia, questa bella e fiera
20    stirpe d'Achille.

      Come odoroso läureto ondeggia
      a lui la chioma: la sua rosea guancia
      par Tempe in fiore: ha ne' grand'occhi il sole
24    ch' a Olimpia ride:

      ha de l'Egeo la radïante in viso
      pace diffusa; se non quando, bianche
      nuvole, i sogni passanvi di gloria
28    e poesia.

      Ei de la Grecia a la vendetta balza
      leon da l'aspra tessala falange,
      sgomina carri ed elefanti, abbatte
32    satrapi e regi.

      Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio!
      A te la cetra fra le eburnee dita,
      a te d'argento il fulgid'arco in pugno,
36    presente Apollo!

      A te i colloqui di Stagira, i baci
      a te co' serti de le ionie donne,
      a te la coppa di Lieo spumante,
40    a te l'Olimpo.

      Lisippo in bronzo ed in colori Apelle
      ti tragga eterno: ti sollevi Atene,
      chete de' torvi demagoghi l'ire,
44    al Partenone.

      Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta
      i dogmi e il capo a la possanza nostra:
      noi farem pace qui tra i numi e al mondo
48    luce comune.

      E se ti piaccia aggiogar tigri e linci,
      Bacco novello, noi verrem cantando,
      te duce, in riva al sacro Gange i sacri
52    canti d'Omero. -

      Tale il peana de gli achei sonava.
      E il giovin duce, liberato il biondo
      capo da l'elmo, in fronte a la falange
56    guardava il mare.

      Guardava il mare e l'isola di Faro
      innanzi, a torno il libico deserto
      interminato: dal sudato petto
60    l'aurea corazza

      sciolse, e gittolla splendida nel piano:
      - Come la mia macedone corazza
      stia nel deserto e a' barbari ed a gli anni
64    regga Alessandria. -

      Disse; ed i solchi a le nascenti mura
      ei disegnava per ottanta stadi,
      bianco spargendo su le flave arene
68    fior di farina.

      Tale il nipote del Pelíde estrusse
      la sua cittade; e Faro, inclito nome
      di luce al mondo, illuminò le vie
72    d'Africa e d'Asia.

      E non il flutto del deserto urtante
      e non la fuga de i barbarici anni
      valse a domare quella balda figlia
76    del greco eroe.

      Alacre, industre, a la sua terza vita
      ella sorgea, sollecitando i fati,
      qual la vedesti, o pellegrin poeta,
80    ammiratore,

      quando fuggendo la incombente notte
      di tirannia, pien d'inni il caldo ingegno,
      ivi chiedendo libertade e luce
84    a l'orïente,

      e su le tombe di turbanti insculte
      star la colonna di Pompeo vedesti
      come la forza del pensier latino
88    su 'l torbid'evo.

      Deh, le speranze de l'Egitto e i vanti
      nel tuo volume vivano, o poeta!
      Oggi Tifone l'ire del deserto
92    agita e spira.

      Sepolto Osiri, il latratore Anubi
      morde a i calcagni la fuggente Europa,
      e avanti chiama i bestïali numi
96    a le vendette.

      Ahi vecchia Europa, che su 'l mondo spargi
      l'irrequïeta debolezza tua,
      come la triste fisa a l'orïente
100   sfinge sorride!



IN UNA CHIESA GOTICA

      Sorgono e in agili file dilungano
      gl'immani ed ardui steli marmorei,
      e ne la tenebra sacra somigliano
4     di giganti un esercito

      che guerra mediti con l'invisibile:
      le arcate salgono chete, si slanciano
      quindi a vol rapide, poi si rabbracciano
8     prone per l'alto e pendule.

      Ne la discordia cosí de gli uomini
      di fra i barbarici tumuli salgono
      a Dio gli aneliti di solinghe anime
12    che in lui si ricongiungono.

      Io non Dio chieggovi, steli marmorei,
      arcate aeree: tremo, ma vigile
      al suon d'un cognito passo che piccolo
16    i solenni echi suscita.

      È Lidia, e volgesi: lente nel volgersi
      le chiome lucide mi si disegnano,
      e amore e il pallido viso fuggevoli
20    tra il nero velo arridono.

      Anch'ei, tra 'l dubbio giorno d'un gotico
      tempio avvolgendosi, l'Alighier, trepido
      cercò l'imagine di Dio nel gemmeo
24    pallore d'una femina.

      Sott'esso il candido vel, de la vergine
      la fronte limpida fulgea ne l'estasi,
      mentre fra nuvoli d'incenso fervide
28    le litanie salíano;

      salian co' murmuri molli, co' fremiti
      lieti saliano d'un vol di tortore,
      e poi con l'ululo di turbe misere
32    che al ciel le braccia tendono.

      Mandava l'organo pe' cupi spazii
      sospiri e strepiti: da l'arche candide
      parea che l'anime de' consanguinei
36    sotterra rispondessero.

      Ma da le mitiche vette di Fiesole
      tra le pie storie pe' vetri roseo
      guardava Apolline: su l'altar massimo
40    impallidiano i cerei.

      E Dante ascendere tra inni d'angeli
      la tosca vergine transfigurantesi
      vedea, sentiasi sotto i piè ruggere
44    rossi d'inferno i baratri.

      Non io le angeliche glorie né i démoni,
      io veggo un fievole baglior che tremola
      per l'umid'aere: freddo crepuscolo
48    fascia di tedio l'anima.

      Addio, semitico nume! Continua
      ne' tuoi misterii la morte domina.
      O inaccessibile re de gli spiriti,
52    tuoi templi il sole escludono.

      Cruciato martire tu cruci gli uomini,
      tu di tristizia l'aër contamini:
      ma i cieli splendono, ma i campi ridono,
56    ma d'amore lampeggiano

      gli occhi di Lidia. Vederti, o Lidia,
      vorrei tra un candido coro di vergini
      danzando cingere l'ara d'Apolline
60    alta ne' rosei vesperi

      raggiante in pario marmo tra i lauri,
      versare anemoni da le man, gioia
      da gli occhi fulgidi, dal labbro armonico
64    un inno di Bacchilide.



NELLA PIAZZA DI SAN PETRONIO

      Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
2     e il colle sopra bianco di neve ride.

      È l'ora soave che il sol morituro saluta
4     le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo;

      le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe,
6     e del solenne tempio la solitaria cima.

      Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
8     e l'aër come velo d'argento giace

      su 'l foro, lieve sfumando a torno le moli
10    che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.

      Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando
12    con un sorriso languido di vïola,

      che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
14    par che risvegli l'anima de i secoli,

      e un desio mesto pe 'l rigido aëre sveglia
16    di rossi maggi, di calde aulenti sere,

      quando le donne gentili danzavano in piazza
18    e co' i re vinti i consoli tornavano.

      Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
20    un desiderio vano de la bellezza antica.



LE DUE TORRI

                        ASINELLA

      Io d'Italia dal cuor tra impeti d'inni balzai
      quando l'Alpi di barbari snebbiarono
      e su 'l populeo Po pe 'l verde paese i carrocci
4     tutte le trombe reduci suonavano.

                        GARISENDA

      Memore sospirai sorgendo e la fronte io piegai
      su le ruine e su le tombe. Irnerio
      curvo tra i gran volumi sedeva e di Roma la grande
8     lento parlava al palvesato popolo.

                        ASINELLA

      Bello di maggio il dí ch'io vidi su 'l ponte di Reno
      passar la gloria libera del popolo,
      sangue di Svevia, e te chinare la bionda cervice
12    a l'ondeggiante rossa croce italica.

                        GARISENDA

      Triste mese di maggio, che intorno al bel corpo d'Imelda
      cozzâr le spade de i fratelli e corsero
      lunghi quaranta giorni le furie civili crollando
16    tra 'l vasto sangue l'ardue torri in polvere.

                        ASINELLA

      Dante vid'io levar la giovine fronte a guardarci,
      e, come su noi passano le nuvole,
      vidi su lui passar fantasmi e fantasmi ed intorno
20    premergli tutti i secoli d'Italia.

                        GARISENDA

      Sotto vidimi il papa venir con l'imperatore
      l'un a l'altro impalmati; ed oh me misera,
      in suo giudicio Dio non volle che io ruinassi
24    su Carlo quinto e su Clemente settimo!



FUORI ALLA CERTOSA DI BOLOGNA

      Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case
2     de i morti il sole! Giunge come il bacio d'un dio:

      bacio di luce che inonda la terra, mentre alto ed immenso
4     cantano le cicale l'inno di messidoro.

      Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d'onde:
6     ville, città, castelli emergono com'isole.

      Slanciansi lunghe tra 'l verde polveroso e i pioppi le strade:
8     varcano i ponti snelli con fughe d'archi il fiume.

      E tutto è fiamma ed azzurro. Da l'alpe là giú di Verona
10    guardano solitarie due nuvolette bianche.

      Delia, a voi zefiro spira da 'l colle pio de la Guardia
12    che incoronato scende da l'Apennino al piano,

      v'agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti
14    giú con le nere anella per la superba fronte.

      Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando
16    gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore,

      udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella),
18    udite giú sotterra ciò che dicono i morti.

      dormono a piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi
20    a suon di scuri i sacri tuoi silenzi, Apennino:

      dormon gli etruschi discesi co 'l liuto con l'asta con fermi
22    gli occhi ne l'alto a' verdi misterïosi clivi,

      e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage
24    ne le fredde acque alpestri ch'ei salutavan Reno,

      e l'alta stirpe di Roma, e il lungo-chiomato lombardo
26    ch'ultimo accampò sovra le rimboschite cime.

      Dormon con gli ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su 'l colle:
28    udite, o Delia, udite ciò che dicono i morti.

      Dicono i morti - Beati, o voi passeggeri del colle
30    circonfusi da' caldi raggi de l'aureo sole.

      Fresche a voi mormoran l'acque pe 'l florido clivo scendenti,
32    cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento.

      A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra:
34    a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. -

      Dicono i morti - Cogliete i fiori che passano anch'essi,
36    adorate le stelle che non passano mai.

      Putridi squagliansi i serti d'intorno i nostri umidi teschi:
38    ponete rose a torno le chiome bionde e nere.

      Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
40    su la vita che passa l'eternità d'amore. -



SU L'ADDA

      Corri, tra' rosei fuochi del vespero,
      corri, Addua cerulo: Lidia su 'l placido
      fiume, e il tenero amore,
4     al sole occiduo naviga.

      Ecco, ed il memore ponte dilungasi:
      cede l'aereo de gli archi slancio,
      e al liquido s'agguaglia
8     pian che allargasi e mormora.

      Le mura dirute di Lodi fuggono
      arrampicandosi nere al declivio
      verde e al docile colle.
12    Addio, storia de gli uomini.

      Quando il romuleo marte ed il barbaro
      ruggîr ne' ferrei cozzi, e qui vindice
      la rabbia di Milano
16    arse in itali incendii,

      tu ancor dal Lario verso l'Eridano
      scendevi, o Addua, con desio placido,
      con murmure solenne,
20    giú pe' taciti pascoli.

      Quando su 'l dubbio ponte tra i folgori
      passava il pallido còrso, recandosi
      di due secoli il fato
24    ne l'esile man giovine,

      tu il molto celtico sangue ed il teutono
      lavavi, o Addua, via: su le tremule
      acque il nitrico fumo
28    putrido disperdeasi.

      Moriano gli ultimi tuon de la folgore
      franca ne i concavi seni: volgeasi
      da i limpidi lavacri
32    il bue candido, attonito.

      Ov'è or l'aquila di Pompeo? l'aquila
      ov'è de l'ispido sir di Soavia
      e del pallido còrso?
36    Tu corri, o Addua cerulo.

      Corri tra' rosei fuochi del vespero,
      corri, Addua cerulo: Lidia su 'l placido
      fiume, e il tenero amore,
40    al sole occiduo naviga.

      Sotto l'olimpico riso de l'aere
      la terra palpita: ogni onda accendesi
      e trepida risalta
44    di fulgidi amor turgida.

      Molle de' giovani prati l'effluvio
      va sopra l'umido pian: l'acque a' margini
      di gemiti e sorrisi
48    un suon morbido frangono.

      E il legno scivola lieve: tra le uberi
      sponde lo splendido fiume devolvesi:
      trascorrono de' campi
52    i grandi alberi, e accennano,

      e giú da gli alberi, su da le floride
      siepi, per l'auree strisce e le rosee,
      s'inseguono gli augelli
56    e amore ilari mescono.

      Corri tra' rosei fuochi del vespero,
      corri, Addua cerulo: Lidia su 'l placido
      fiume naviga, e amore
60    d'ambrosia irriga l'aure.

      Tra' pingui pascoli sotto il sole aureo
      tu con Eridano scendi a confonderti:
      precipita a l'occaso
64    il sole infaticabile.

      O sole, o Addua corrente, l'anima
      per un elisio dietro voi naviga:
      ove ella e il mutuo amore,
68    o Lidia, perderannosi?

      Non so; ma perdermi lungi da gli uomini
      amo or di Lidia nel guardo languido,
      ove nuotano ignoti
72    desiderii e misterii.



DA DESENZANO
A G. R.

      Gino, che fai sotto i felsinei portici?
      mediti come il gentil fior de l'Ellade
      d'Omero al canto e a lo scalpel di Fidia
4     lieto sorgesse nel mattin de i popoli?

      Da l'Asinella gufi e nibbi stridono
      invidïando e i cari studi rompono.
      Fuggi, deh fuggi da coteste tenebre
8     e al tuo poeta, o dolce amico, vientene.

      Vienne qui dove l'onda ampia del lidio
      lago tra i monti azzurreggiando palpita:
      vieni: con voce di faleuci chiàmati
12    Sirmio che ancor del suo signore allegrasi.

      Vuole Manerba a te rasene istorie,
      vuole Muníga attiche fole intessere,
      mentre su i merli barbari fantasimi
16    armi ed amori con il vento parlano.

      Ascoltiam sotto anacreòntea pergola
      o a la platonia verde ombra de' platani,
      freschi votando gl'innovati calici
20    che la Riviera del suo vino imporpora.

      Dolce tra i vini udir lontane istorie
      d'atavi, mentre il divo sol precipita
      e le pie stelle sopra noi viaggiano
24    e tra l'onde e le fronde l'aura mormora.

      Essi che queste amene rive tennero
      te, come noi, bel sole, un dí goderono,
      o ti gittasser belve umane un fremito
28    da le lacustri palafitte, o agili

      Veneti a l'onda le cavalle dessero
      trepida e fredda nel mattino roseo,
      o co 'l tirreno lituo segnassero
32    nel mezzogiorno le pietrose acropoli.

      Gino, ove inteso a le vittorie retiche
      o da le dacie glorïoso il milite
      in vigil ozio l'aquile romulee
36    su 'l lago affisse ricantando Cesare,

      ivi in fremente selva Desiderio
      agitò a caccia poi cignali e daini,
      fermo il pensiero a la corona ferrea
40    fulgida in Roma per la via de' Cesari.

      Gino, ove il giambo di Catullo rapido
      l'ala aprí sovra la distesa cerula,
      Lesbia chiamando tra l'odor de' lauri
44    con un saliente gemito per l'aere,

      ivi il compianto di lombarde monache
      salmodïando ascese vèr' la candida
      luna e la requie mormorò su i giovani
48    pallidi stesi sotto l'asta francica.

      E calerem noi pur giú tra i fantasimi
      cui né il sol veste di fulgor purpureo
      né le pie stelle sovra il capo ridono
52    né de la vite il frutto i cuor letifica.

      Duci e poeti allor, fronti sideree,
      ne moveranno incontro, e "Di qual secolo
      - dimanderanno - di qual triste secolo
56    a noi venite, pallida progenie?

      A voi tra' cigli torva cura infóscasi
      e da l'angusto petto il cuore fumiga.
      Non ne la vita esercitammo il muscolo,
60    e discendemmo grandi ombre tra gl'inferi".

      Gino, qui sotto anacreòntea pergola
      o a la platonia verde ombra de' platani,
      qui, tra i bicchieri che il vin fresco imporpora,
64    degna risposta meditiamo. Versasi

      cerula notte sovra il piano argenteo,
      move da Sirmio una canora imagine
      giú via per l'onda che soave mormora
68    riscintillando a al curvo lido infrangesi.



SIRMIONE

      Ecco: la verde Sirmio nel lucido lago sorride,
2     fiore de le penisole.

      Il sol la guarda e vezzeggia: somiglia d'intorno il Benaco
4     una gran tazza argentea,

      cui placido olivo per gli orli nitidi corre
6     misto a l'eterno lauro.

      Questa raggiante coppa Italia madre protende,
8     alte le braccia, a i superi;

      ed essi da i cieli cadere vi lasciano Sirmio,
10    gemma de le penisole.

      Baldo, paterno monte, protegge la bella da l'alto
12    co 'l sopracciglio torbido:

      il Gu sembra un titano per lei caduto in battaglia,
14    supino e minaccevole.

      Ma incontro le porge dal seno lunato a sinistra
16    Salò le braccia candide,

      lieta come fanciulla che in danza entrando abbandona
18    le chiome e il velo a l'aure,

      e ride e gitta fiori con le man piene, e di fiori
20    le esulta il capo giovine.

      Guarda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
22    sovra lo specchio liquido,

      cantando una saga d'antiche cittadi sepolte
24    e di regine barbare.

      Ma qui, Lalage, donde per tanta pia gioia d'azzurro
26    tu mandi il guardo e l'anima,

      qui Valerio Catullo, legato giú a' nitidi sassi
28    il fasèlo britinico,

      sedeasi i lunghi giorni, e gli occhi di Lesbia ne l'onda
30    fosforescente e tremula,

      e 'l perfido riso di Lesbia e i multivoli ardori
32    vedea ne l'onda vitrea,

      mentr'ella stancava pe' neri angiporti le reni
34    a i nepoti di Romolo.

      A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava
36    - Vieni, o Quinto Valerio.

      Qui ne le nostre grotte discende anche il sole, ma bianco
38    e mite come Cintia.

      Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano
40    d'api sussurro paiono,

      e nel silenzio freddo le insanie e le trepide cure
42    in lento oblio si sciolgono.

      Qui 'l fresco, qui 'l sonno, qui musiche leni ed i cori
44    de le cerule vergini,

      mentr'Espero allunga la rosea face su l'acque
46    e i flutti al lido gemono. -

      Ahi triste Amore! egli odia le Muse, e lascivo i poeti
48    frange o li spegne tragico.

      Ma chi da gli occhi tuoi, che lunghe intentano guerre,
50    chi ne assecura, o Lalage?

      Cogli a le pure Muse tre rami di lauro e di mirto,
52    e al Sole eterno li agita.

      Non da Peschiera vedi natanti le schiere de' cigni
54    giú per il Mincio argenteo?

      da' verdi paschi dove Bianore dorme non odi
56    la voce di Virgilio?

      Volgiti, Lalage, e adora. Un grande severo s'affaccia
58    a la torre scaligera.

      - Suso in Italia bella - sorridendo ei mormora, e guarda
60    l'acqua la terra e l'aere.



DAVANTI IL CASTEL VECCHIO DI VERONA

      Tal mormoravi possente e rapido
      sotto i romani ponti, o verde Adige,
      brillando dal limpido gorgo,
4     la tua scorrente canzone al sole,

      quando Odoacre dinanzi a l'impeto
      di Teodorico cesse, e tra l'erulo
      eccidio passavan su i carri
8     diritte e bionde le donne amàle

      entro la bella Verona, odinici
      carmi intonando: raccolta al vescovo
      intorno, l'italica plebe
12    sporgea la croce supplice a' Goti.

      Tale da i monti di neve rigidi,
      ne la diffusa letizia argentea
      del placido verno, o fuggente
16    infaticato, mormori e vai

      sotto il merlato ponte scaligero,
      tra nere moli, tra squallidi alberi,
      a i colli sereni, a le torri,
20    onde abbrunate piangon le insegne

      il ritornante giorno funereo
      del primo eletto re da l'Italia
      francata: tu, Adige, canti
24    la tua scorrente canzone al sole.

      Anch'io, bel fiume, canto: e il mio cantico
      nel picciol verso raccoglie i secoli,
      e il cuore al pensiero balzando
28    segue la strofe che sorge e trema.

      Ma la mia strofe vanirà torbida
      ne gli anni: eterno poeta, o Adige,
      tu ancor tra le sparse macerie
32    di questi colli turriti, quando

      su le rovine de la basilica
      di Zeno al sole sibili il còlubro,
      ancor canterai nel deserto
36    i tedi insonni de l'infinito.



PER LA MORTE DI NAPOLEONE EUGENIO

      Questo la inconscia zagaglia barbara
      prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
      vita sorrisi da i fantasmi
4     fluttuanti ne l'azzurro immenso.

      L'altro, di baci sazio in austriache
      piume e sognante su l'albe gelide
      le dïane e il rullo pugnace,
8     piegò come pallido giacinto.

      Ambo a le madri lungi; e le morbide
      chiome fiorenti di puerizia
      pareano aspettare anche il solco
12    de la materna carezza. In vece

      balzâr ne 'l buio, giovinette anime,
      senza conforti; né de la patria
      l'eloquio seguivali al passo
16    co' i suon de l'amore e de la gloria.

      Non questo, o fosco figlio d'Ortensia,
      non questo avevi promesso al parvolo:
      gli pregasti in faccia a Parigi
20    lontani i fati del re di Roma.

      Vittoria e pace da Sebastopoli
      sopían co 'l rombo de l'ali candide
      il piccolo: Europa ammirava:
24    la Colonna splendea come un faro.

      Ma di decembre, ma di brumaio
      cruento è il fango, la nebbia è perfida:
      non crescono arbusti a quell'aure,
28    o dan frutti di cenere e tòsco.

      O solitaria casa d'Aiaccio,
      cui verdi e grandi le querce ombreggiano
      e i poggi coronan sereni
32    e davanti le risuona il mare!

      Ivi Letizia, bel nome italico
      che omai sventura suona ne i secoli,
      fu sposa, fu madre felice,
36    ahi troppo breve stagione! ed ivi,

      lanciata a i troni l'ultima folgore,
      date concordi leggi tra i popoli,
      dovevi, o consol, ritrarti
40    fra il mare e Dio cui tu credevi.

      Domestica ombra Letizia or abita
      la vuota casa; non lei di Cesare
      il raggio precinse: la còrsa
44    madre visse fra le tombe e l'are.

      Il suo fatale da gli occhi d'aquila,
      le figlie come l'aurora splendide,
      frementi speranza i nepoti,
48    tutti giacquer, tutti a lei lontano.

      Sta ne la notte la còrsa Niobe,
      sta sulla porta donde al battesimo
      le uscïano i figli, e le braccia
52    fiera tende su 'l selvaggio mare:

      e chiama, chiama, se da l'Americhe,
      se di Britannia, se da l'arsa Africa
      alcun di sua tragica prole
56    spinto da morte le approdi in seno.



A GIUSEPPE GARIBALDI
III NOVEMBRE MDCCCLXXX

      Il dittatore, solo, a la lugubre
      schiera d'avanti, ravvolto e tacito
      cavalca: la terra ed il cielo
4     squallidi, plumbei, freddi intorno.

      Del suo cavallo la pésta udivasi
      guazzar nel fango: dietro s'udivano
      passi in cadenza, ed i sospiri
8     de' petti eroici ne la notte.

      Ma da le zolle di strage livide,
      ma da i cespugli di sangue roridi,
      dovunque era un povero brano,
12    o madri italiche, de i cuor vostri,

      saliano fiamme ch'astri parevano,
      sorgeano voci ch'inni suonavano:
      splendea Roma olimpica in fondo,
16    correa per l'aëre un peana.

      - Surse in Mentana l'onta de i secoli
      dal triste amplesso di Pietro e Cesare:
      tu hai, Garibaldi, in Mentana
20    su Pietro e Cesare posto il piede.

      O d'Aspromonte ribelle splendido,
      o di Mentana superbo vindice,
      vieni e narra Palermo e Roma
24    in Capitolïo a Camillo. -

      Tale un'arcana voce di spiriti
      correa solenne pe 'l ciel d'Italia
      quel dí che guairono i vili,
28    botoli timidi de la verga.

      Oggi l'Italia t'adora. Invòcati
      la nuova Roma novello Romolo:
      tu ascendi, o divino: di morte
32    lunge i silenzii dal tuo capo.

      Sopra il comune gorgo de l'anime
      te rifulgente chiamano i secoli
      a le altezze, al puro concilio
36    de i numi indigeti su la patria.

      Tu ascendi. E Dante dice a Virgilio
      "Mai non pensammo a forma piú nobile
      d'eroe". Dice Livio, e sorride,
40    "È de la storïa, o poeti.

      De la civile storia d'Italia
      è quest'audacia tenace ligure,
      che posa nel giusto, ed a l'alto
44    mira, e s'irradia ne l'ideale".

      Gloria a te, padre. Nel torvo fremito
      spira de l'Etna, spira ne' turbini
      de l'alpe il tuo cor di leone
48    incontro a' barbari ed a' tiranni.

      Splende il soave tuo cor nel cerulo
      riso del mare del ciel de i floridi
      maggi diffuso su le tombe
52    su' marmi memori de gli eroi.



SCOGLIO DI QUARTO

      Breve ne l'onda placida avanzasi
      striscia di sassi. Boschi di lauro
      frondeggiano dietro spirando
4     effluvi e murmuri ne la sera.

      Davanti, larga, nitida, candida
      splende la luna: l'astro di Venere
      sorridele presso e del suo
8     palpito lucido tinge il cielo.

      Par che da questo nido pacifico
      in picciol legno l'uom debba movere
      secreto a colloqui d'amore
12    leni su zefiri, la sua donna

      fisa guatando l'astro di Venere.
      Italia, Italia, donna de i secoli,
      de' vati e de' martiri donna,
16    inclita vedova dolorosa,

      quindi il tuo fido mosse cercandoti
      pe' mari. Al collo leonino avvoltosi
      il puncio, la spada di Roma
20    alta su l'omero bilanciando,

      stiè Garibaldi. Cheti venivano
      a cinque a dieci, poi dileguavano,
      drappelli oscuri, ne l'ombra,
24    i mille vindici del destino,

      come pirati che a preda gissero;
      ed a te occulti givano, Italia,
      per te mendicando la morte
28    al cielo, al pelago, a i fratelli.

      Superba ardeva di lumi e cantici
      nel mar morenti lontano Genova
      al vespro lunare dal suo
32    arco marmoreo di palagi.

      Oh casa dove presago genio
      a Pisacane segnava il transito
      fatale, oh dimora onde Aroldo
36    sití l'eroico Missolungi!

      Una corona di luce olimpica
      cinse i fastigi bianchi in quel vespero
      del cinque di maggio. Vittoria
40    fu il sacrificio, o poesia.

      E tu ridevi, stella di Venere,
      stella d'Italia, stella di Cesare:
      non mai primavera piú sacra
44    d'animi italici illuminasti,

      da quando ascese tacita il Tevere
      d'Enea la prora d'avvenir gravida
      e cadde Pallante appo i clivi
48    che sorger videro l'alta Roma.



SALUTO ITALICO

      Molosso ringhia, o antichi versi italici,
2     ch'io co 'l batter del dito seguo o richiamo i numeri

      vostri dispersi, come api che al rauco
4     suon del percosso rame ronzando si raccolgono.

      Ma voi volate dal mio cuor, com'aquile
6     giovinette dal nido alpestre a i primi zefiri.

      Volate, e ansiosi interrogate il murmure
8     che giú per l'alpi giulie, che giú per l'alpi retiche

      da i verdi fondi i fiumi a i venti mandano,
10    grave d'epici sdegni, fiero di canti eroici.

      Passa come un sospir su 'l Garda argenteo,
12    è pianto d'Aquileia su per le solitudini.

      Odono i morti di Bezzecca, e attendono:
14    "Quando?" grida Bronzetti, fantasma erto fra i nuvoli.

      "Quando?" i vecchi fra sé mesti ripetono,
16    che un dí con nere chiome l'addio, Trento, ti dissero.

      "Quando?" fremono i giovani che videro
18    pur ieri da San Giusto ridere Glauco l'Adria.

      Oh al bel mar di Trieste, a i poggi, a gli animi
20    volate co 'l nuovo anno, antichi versi italici:

      ne' rai del sol che San Petronio imporpora
22    volate di San Giusto sovra i romani ruderi!

      Salutate nel golfo Giustinopoli,
24    gemma de l'Istria, e il verde porto e il leon di Muggia;

      salutate il divin riso de l'Adria
26    fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare!

      Poi presso l'urna, ove ancor tra' due popoli
28    Winckelmann guarda, araldo de l'arti e de la gloria,

      in faccia a lo stranier, che armato accampasi
30    su 'l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!



A UNA BOTTIGLIA DI VALTELLINA DEL 1848

      E tu pendevi tralcio da i retici
      balzi odorando florido al murmure
      de' fiumi da l'alpe volgenti
4     ceruli in fuga spume d'argento,

      quando l'aprile d'itala gloria
      da 'l Po rideva fino a lo Stelvio
      e il popol latino si cinse
8     su l'Austria cingol di cavaliere.

      E tu nel tino bollivi torbido
      prigione, quando d'italo spasimo
      ottobre fremeva e Chiavenna,
12    oh Rezia forte!, schierò a Vercea

      sessanta ancora di morte libera
      petti assetati: Hainau gli aspri animi
      contenne e i cavalli de l'Istro
16    ispidi in vista dei tre colori.

      Rezia, salute! di padri liberi
      figlia ed a nuove glorie più libera!
      È bello al bel sole de l'alpi
20    mescere il nobil tuo vin cantando:

      cantando i canti de i giorni italici,
      quando a' tuoi passi correano i popoli,
      splendea tra le nevi la nostra
24    bandiera sopra l'austriaca fuga.

      A i noti canti lievi ombre sorgono
      quei che anelando vittoria caddero?
      Sia gloria, o fratelli! Non anche,
28    l'opra del secol non anche è piena.

      Ma nei vegliardi vige il vostro animo,
      il sangue vostro ferve ne i giovani:
      o Italia, daremo il altre alpi
32    inclita a i venti la tua bandiera.



MIRAMAR

      O Miramare, a le tue bianche torri
      attedïate per lo ciel piovorno
      fosche con volo di sinistri augelli
4     vengon le nubi.

      O Miramare, contro i tuoi graniti
      grige dal torvo pelago salendo
      con un rimbrotto d'anime crucciose
8     battono l'onde.

      Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
      stanno guardando le città turrite,
      Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo
12    gemme del mare;

      e tutte il mare spinge le mugghianti
      collere a questo bastïon di scogli
      onde t'affacci a le due viste d'Adria,
16    rocca d'Absburgo;

      e tona il cielo a Nabresina lungo
      la ferrugigna costa, e di baleni
      Trieste in fondo coronata il capo
20    leva tra' nembi.

      Deh come tutto sorridea quel dolce
      mattin d'aprile, quando usciva il biondo
      imperatore, con la bella donna,
24    a navigare!

      A lui dal volto placida raggiava
      la maschia possa de l'impero: l'occhio
      de la sua donna cerulo e superbo
28    iva su 'l mare.

      Addio, castello pe' felici giorni
      nido d'amore costruito in vano!
      Altra su gli ermi oceani rapisce
32    aura gli sposi.

      Lascian le sale con accesa speme
      istorïate di trionfi e incise
      di sapïenza. Dante e Goethe al sire
36    parlano in vano

      de le animose tavole: una sfinge
      l'attrae con vista mobile su l'onde:
      ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro
40    del romanziero.

      Oh non d'amore e d'avventura il canto
      fia che l'accolga e suono di chitarre
      là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
44    lunga su l'aure

      vien da la trista punta di Salvore
      nenia tra 'l roco piangere de' flutti?
      Cantano i morti veneti o le vecchie
48    fate istriane?

      - Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro,
      figlio d'Absburgo, la fatal Novara.
      Teco l'Erinni sale oscura e al vento
52    apre la vela.

      Vedi la sfinge tramutar sembiante
      a te d'avanti perfida arretrando!
      È il viso bianco di Giovanna pazza
56    contro tua moglie.

      È il teschio mózzo contro te ghignante
      d'Antonïetta. Con i putridi occhi
      in te fermati è l'irta faccia gialla
60    di Montezuma.

      Tra boschi immani d'agavi non mai
      mobili ad aura di benigno vento,
      sta ne la sua piramide, vampante
64    livide fiamme

      per la tenèbra tropicale, il dio
      Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
      e navigando il pelago co 'l guardo
68    ulula - Vieni.

      Quant'è che aspetto! La ferocia bianca
      strussemi il regno ed i miei templi infranse;
      vieni, devota vittima, o nepote
72    di Carlo quinto.

      Non io gl'infami avoli tuoi di tabe
      marcenti o arsi di regal furore;
      te io voleva, io colgo te, rinato
76    fiore d'Absburgo;

      e a la grand'alma di Guatimozino
      regnante sotto il padiglion del sole
      ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
80    Massimiliano. -



ALLA REGINA D'ITALIA
XX NOV. MDCCCLXXVIII

      Onde venisti? Quali a noi secoli
      sí mite e bella ti tramandarono?
      fra i canti de' sacri poeti
4     dove un giorno, o regina, ti vidi?

      Ne le ardue rocche, quando tingeasi
      a i latin' soli la fulva e cerula
      Germania, e cozzavan nel verso
8     nuovo l'armi tra lampi d'amore?

      Seguiano il cupo ritmo monotono
      trascolorando le bionde vergini,
      e al ciel co' neri umidi occhi
12    impetravan mercé per la forza.

      O ver ne i brevi dí che l'Italia
      fu tutta un maggio, che tutto il popolo
      era cavaliere? Il trionfo
16    d'Amor gía tra le case merlate

      in su le piazze liete di candidi
      marmi, di fiori, di sole; e "O nuvola
      che in ombra d'amore trapassi, -
20    l'Alighieri cantava - sorridi!"

      Come la bianca stella di Venere
      ne l'april novo surge da' vertici
      de l'alpi, ed il placido raggio
24    su le nevi dorate frangendo

      ride a la sola capanna povera,
      ride a le valli d'ubertà floride,
      e a l'ombra de' pioppi risveglia
28    li usignoli e i colloqui d'amore:

      fulgida e bionda ne l'adamàntina
      luce del serto tu passi, e il popolo
      superbo di te si compiace
32    qual di figlia che vada a l'altare;

      con un sorriso misto di lacrime
      la verginetta ti guarda, e trepida
      le braccia porgendo ti dice
36    come a suora maggior "Margherita!"

      E a te volando la strofe alcaica,
      nata ne' fieri tumulti libera,
      tre volte ti gira la chioma
40    con la penna che sa le tempeste:

      e, Salve, dice cantando, o inclita
      a cui le Grazie corona cinsero,
      a cui sí soave favella
44    la pietà ne la voce gentile!

      Salve, o tu buona, sin che i fantasimi
      di Raffaello ne' puri vesperi
      trasvolin d'Italia e tra' lauri
48    la canzon del Petrarca sospiri!



COURMAYEUR

      Conca in vivo smeraldo tra foschi passaggi dischiusa,
      o pia Courmayeur, ti saluto.
      Te da la gran Giurassa da l'ardüa Grivola bella
4     il sole piú amabile arride.

      Blandi misteri a te su' boschi d'abeti imminente
      la gelida luna diffonde,
      mentre co 'l fiso albor da gli ermi ghiacciaï risveglia
8     fantasime ed ombre moventi.

      Te la vergine Dora, che sa le sorgive de' fonti
      e sa de le genti le cune,
      cerula irriga, e canta; gli arcani ella canta de l'alpi
12    e i carmi de' popoli e l'armi.

      De la valanga il tuon da l'orrida Brenva rintrona
      e rotola giú per neri antri:
      sta su 'l verone in fior la vergine, e tende lo sguardo,
16    e i verni passati ripensa.

      Ma da' pendenti prati di rosso papavero allegri
      tra gli orzi e le segali bionde
      spicca l'alauda il volo trillando l'aerea canzone:
20    io medito i carmi sereni.

      Salve, o pia Courmayeur, che l'ultimo riso d'Italia
      al piè del gigante de l'Alpi
      rechi soave! te, datrice di posa e di canti,
24    io reco nel verso d'Italia.

      Va su' tuoi verdi prati l'ombria de le nubi fuggenti,
      e va su' miei spirti la musa.
      Amo al lucido e freddo mattin da' tuoi sparsi casali
28    il fumo che ascende e s'avvolge

      bigio al bianco vapor da l'are de' monti smarrito
      nel cielo divino. Si perde
      l'anima in lento error: vien da le compiante memorie
32    e attinge l'eterne speranze.



IL LIUTO E LA LIRA
A MARGHERITA REGINA D'ITALIA

      Quando la Donna Sabauda il fulgido
      sguardo al lïuto reca e su 'l memore
      ministro d'eroici lai
4     la mano e l'inclita fronte piega,

      commove un conscio spirito l'agili
      corde, e dal seno concavo mistico
      la musa de' tempi che fûro
8     sale aspersa di faville d'oro;

      e un coro e un canto di forme aeree,
      quali già vide l'Alighier movere
      ne' giri d'armonica stanza,
12    cinge l'italica Margherita.

      "Io - dice l'una, cui la cesarie
      inonda bionda gli omeri nivei
      e gli occhi natanti nel lume
16    de l'estasi chiedono le sfere -

      io son, regina, - dice - la nobile
      Canzone; e a' cieli volai da l'anima
      di Dante, quand'egli nel maggio
20    angeli e spiriti lineava.

      Io del Petrarca sovra le lacrime
      passai tingendo d'azzurro l'aere
      e accesi corone di stelle
24    in su l'aurea treccia d'Avignone.

      Non mai piú alto sospiro d'anime
      surse dal canto. Di te le laudi
      a' due leverò che l'Italia
28    poeti massimi rivelaro".

      "A me la terra piace - nel cantico
      una seconda balzando applaude
      con l'asta e lo scudo, e da l'elmo
32    fosca fugge a' venti la criniera -.

      Piace, se lampi d'acciaio solcano,
      se ferrei nembi rompono l'aere
      e cadon le insegne davanti
36    al flutto e a l'impeto de' cavalli.

      A cui la morte teme non ridono
      le muse in cielo, quaggiú le vergini.
      Avanti, Savoia! non anche
40    tutta desti la bandiera al vento.

      La Sirventese sono. A me l'aquila
      che da Superga rivola al Tevere
      e i folgori stringe severa
44    dritta ne l'iride tricolore"

      "Ed io - la terza dice, di mammole
      vïole un cerchio tessendo, e semplice
      di rose e ligustri il sembiante
48    ombra sotto la castanea chioma -

      la Pastorella sono. Di facili
      amori e sdegni, danze e tripudii,
      non piú rendo gli echi: una nube
52    va di tristizïa su la terra.

      A te da' verdi mugghianti pascoli,
      da' biondi campi, da le pomifere
      colline, da' boschi sonanti
56    di scuri e dal fumo de' tuguri,

      io reco il blando riso de' parvoli,
      di spose e figlie reco le lacrime
      e i cenni de' capi canuti
60    che ti salutano pïa madre".

      Tali, o Signora, forme e fantasimi
      a voi d'intorno cantando volano
      dal vago liuto: a la lira
64    io li do di Roma imperïante,

      qui dove l'Alpi de le virginee
      cime piú al sole diffusa raggiano
      la bianca letizia da immenso
68    circolo, e cerula tra l'argento

      per i tonanti varchi precipita
      la Dora a valle cercando Italia,
      e sceser vostri avi ferrati
72    con la spada e con la bianca croce.

      Dal grande altare nival gli spiriti
      del Montebianco sorgono attoniti,
      a udire l'eloquio di Dante,
76    ne' ritmi fulgidi di Venosa,

      dopo cotanto strazio barbarico
      ponendo verde sempre di gloria
      il lauro di Livia a la fronte
80    de la Sabauda Margherita,

      a voi, traverso l'onde de i secoli,
      di due forti evi ricantar l'anima,
      o figlia e regina del sacro
84    rinnovato popolo latino.





DELLE ODI BARBARE

LIBRO II


CÈRILO

      Non sotto ferrea punta che strida solcando maligna
2     dietro un pensier di noia l'aride carte bianche;

      sotto l'adulto sole, nel palpito mosso da' venti
4     pe' larghi campi aprici, lungo un bel correr d'acque,

      nasce il sospir de' cuori che perdesi ne l'infinito,
6     nasce il dolce e pensoso fior de la melodia.

      Qui brilla il maggio effuso ne l'aere odorato di rose,
8     brillano gli occhi vani, dormon ne' petti i cuori:

      dormono i cuor, si drizzan le orecchie facili quando
10    la variopinta strilla nota de la Gioconda.

      Oh de le Muse l'ara dal verde vertice bianca
12    su 'l mare! Alcmane guida i virginei cori:

      "Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza,
14    come il cèrilo vola tratto da le alcïoni:

      vola con le alcïoni tra l'onde schiumanti in tempesta,
16    cèrilo purpureo nunzio di primavera".



FANTASIA

      Tu parli; e, de la voce a la molle aura
      lenta cedendo, si abbandona l'anima
      del tuo parlar su l'onde carezzevoli,
4     e a strane plaghe naviga.

      Naviga in un tepor di sole occiduo
      ridente a le cerulee solitudini:
      tra cielo e mar candidi augelli volano,
8     isole verdi passano,

      e i templi su le cime ardui lampeggiano
      di candor pario ne l'occaso roseo,
      ed i cipressi de la riva fremono,
12    e i mirti densi odorano.

      Erra lungi l'odor su le salse aure
      e si mesce al cantar lento de' nauti,
      mentre una nave in vista al porto ammàina
16    le rosse vele placida.

      Veggo fanciulle scender da l'acropoli
      in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
      serti hanno al capo, in man rami di lauro,
20    tendon le braccia e cantano.

      Piantata l'asta in su l'arena patria,
      a terra salta un uom ne l'armi splendido:
      è forse Alceo da le battaglie reduce
24    a le vergini lesbie?



RUIT HORA

      O desïata verde solitudine
      lungi al rumor de gli uomini!
      qui due con noi divini amici vengono,
4     vino ed amor, o Lidia.

      Deh, come ride nel cristallo nitido
      Lieo, l'eterno giovine!
      come ne gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
8     trïonfa amore e sbendasi!

      Il sol traguarda basso ne la pergola,
      e si rinfrange roseo
      nel mio bicchiere: aureo scintilla e tremola
12    fra le tue chiome, o Lidia.

      Fra le tue nere chiome, o bianca Lidia,
      langue una rosa pallida;
      e una dolce a me in cuor tristezza súbita
16    tempra d'amor gl'incendii.

      Dimmi: perché sotto il fiammante vespero
      misterïosi gemiti
      manda il mare là giú? quai canti, o Lidia,
20    tra lor quei pini cantano?

      Vedi con che desio quei colli tendono
      le braccia al sole occiduo:
      cresce l'ombra e li fascia: ei par che chiedano
24    il bacio ultimo, o Lidia.

      Io chiedo i baci tuoi, se l'ombra avvolgemi,
      Lieo, dator di gioia:
      io chiedo gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
28    se Iperïon precipita.

      E precipita l'ora. O bocca rosea,
      schiuditi: o fior de l'anima,
      o fior del desiderio, apri i tuoi calici:
32    o care braccia, apritevi.



ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D'AUTUNNO

      Oh quei fanali come s'inseguono
      accidïosi là dietro gli alberi,
      tra i rami stillanti di pioggia
4     sbadigliando la luce su 'l fango!

      Flebile, acuta, stridula fischia
      la vaporiera da presso. Plumbeo
      il cielo e il mattino d'autunno
8     come un grande fantasma n'è intorno.

      Dove e a che move questa, che affrettasi
      a' carri foschi, ravvolta e tacita
      gente? a che ignoti dolori
12    o tormenti di speme lontana?

      Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
      al secco taglio dài de la guardia,
      e al tempo incalzante i begli anni
16    dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.

      Van lungo il nero convoglio e vengono
      incappucciati di nero i vigili,
      com'ombre; una fioca lanterna
20    hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

      freni tentati rendono un lugubre
      rintocco lungo: di fondo a l'anima
      un'eco di tedio risponde
24    doloroso, che spasimo pare.

      E gli sportelli sbattuti al chiudere
      paion oltraggi: scherno par l'ultimo
      appello che rapido suona:
28    grossa scroscia su' vetri la pioggia.

      Già il mostro, conscio di sua metallica
      anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
      occhi sbarra; immane pe 'l buio
32    gitta il fischio che sfida lo spazio.

      Va l'empio mostro; con traino orribile
      sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
      Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
36    salutando scompar ne la tènebra.

      O viso dolce di pallor roseo,
      o stellanti occhi di pace, o candida
      tra' floridi ricci inchinata
40    pura fronte con atto soave!

      Fremea la vita nel tepid'aere,
      fremea l'estate quando mi arrisero;
      e il giovine sole di giugno
44    si piacea di baciar luminoso

      in tra i riflessi del crin castanei
      la molle guancia: come un'aureola
      piú belli del sole i miei sogni
48    ricingean la persona gentile.

      Sotto la pioggia, tra la caligine
      torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
      barcollo com'ebro, e mi tócco,
52    non anch'io fossi dunque un fantasma.

      Oh qual caduta di foglie, gelida,
      continua, muta, greve, su l'anima!
      io credo che solo, che eterno,
56    che per tutto nel mondo è novembre.

      Meglio a chi 'l senso smarrí de l'essere,
      meglio quest'ombra, questa caligine:
      io voglio io voglio adagiarmi
60    in un tedio che duri infinito.



MORS
NELL'EPIDEMIA DIFTERICA

      Quando a le nostre case la diva severa discende,
2     da lungi il rombo de la volante s'ode,

      e l'ombra de l'ala che gelida gelida avanza
4     diffonde intorno lugubre silenzïo.

      Sotto la venïente ripiegano gli uomini il capo,
6     ma i sen feminei rompono in aneliti.

      Tale de gli alti boschi, se luglio il turbine addensa,
8     non corre un fremito per le virenti cime:

      immobili quasi per brivido gli alberi stanno,
10    e solo il rivo roco s'ode gemere.

      Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra
12    gli arbusti lieti di lor rame giovani;

      miete le bionde spiche, strappa anche i grappoli verdi,
14    coglie le spose pie, le verginette vaghe

      ed i fanciulli: rosei tra l'ala nera ei le braccia
16    al sole a i giuochi tendono e sorridono.

      Ahi tristi case dove tu innanzi a' vólti de' padri,
18    pallida muta diva, spegni le vite nuove!

      Ivi non piú le stanza sonanti di risi e di festa
20    o di bisbigli, come nidi d'augelli a maggio:

      ivi non piú il rumore de gli anni lieti crescenti,
22    non de gli amor le cure, non d'Imeneo le danze:

      invecchian ivi ne l'ombra i superstiti, al rombo
24    del tuo ritorno teso l'orecchio, o dea.



UNA SERA DI SAN PIETRO

      Ricordo. Fulvo il sole tra i rossi vapori e le nubi
      calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
      che in barbariche pugne corrusca ondeggiando, poi cade.
      Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
5     da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.
      Ma io languido e triste (da poco avea scosso la febbre
      maremmana, ed i nervi pesavanmi come di piombo)
      guardava a la finestra. Le rondini rapide i voli
      sghembi tessevano e ritessevano intorno le gronde,
10    e le passere brune strepïano al vespro maligno.
      Brevi d'entro la macchia svariavano il piano ed i colli,
      rasi a metà da la falce, in parte ancor mobili e biondi.
      Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:
      or sí or no veniva su per le aure umide il canto
15    de' mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco:
      grave l'afa stringeva l'aër, la marina, le piante.
      Io levai gli occhi al sole - O lume superbo del mondo,
      tu su la vita guardi com'ebro ciclope da l'alto! -
      Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
20    e un vipistrello sperso passommi radendo su 'l capo.



PE 'L CHIARONE DA CIVITAVECCHIA
LEGGENDO IL MARLOWE

      Calvi, aggrondati, ricurvi, sí come becchini a la fossa,
2     stan radi alberi in cerchio de la sucida riva.

      Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema
4     sotto squallido cielo per la lugubre macchia.

      Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
6     piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.

      I poggi sembrano capi di tignosi ne l'ospitale,
8     l'un fastidisce l'altro da' finitimi letti.

      Scattan su da un cespuglio co 'l guizzo di frecce mancate
10    due neri uccelli: cala con pigre ruote un falco.

      Corrono, mentr'io leggo Marlowe, le smunte cavalle
12    de la vettura: il sole scema, la pioggia freme.

      Ed ecco a poco a poco la selva infóscasi orrenda,
14    la selva, o Dante, d'alberi e di spiriti,

      dove tra piante strane tu strane ascoltasti querele,
16    dove troncasti il pruno ch'era Pier de la Vigna.

      Io leggo ancora Marlowe. Dal reo verso bieco, simile
18    a sogno d'uomo cui molta birra gravi,

      d'odii et incèsti e morti balzando tra forme angosciose
20    esala un vapor acre d'orrida tristizia,

      che sale e fuma, e misto a l'aër maligno feconda
22    di mostri intorno le pendenti nuvole,

      crocida in fondo a' fossi, ferrugigno ghigna ne' bronchi,
24    filtra con la pioggia per l'ossa stanche. Io tremo.

      Ah quei pini che il vento che il mare curvaron tanti anni
26    paiono traer guai contro di me: "Che importa

      - dicon - tendere a l'alto? che vale combatter? che giova
28    amare? Il fato passa ed abbassa." Ma tu,

      tu sughero triste che a terra schiacciato rialzi
30    il capo, reo gobbo, bestemmïando Iddio,

      perché mi tendi minaccioso le braccia tue torte?
32    che colpa ho io ne 'l fato che ti danna?

      E voi, lunghe ne 'l mezzo del tetro recinto alberelle,
34    co' rami spioventi, quasi canute chiome,

      siete alberelle voi? siete le tre fiere sorelle
36    che aspettâr Macbeth su la fatale via?

      Odo pauroso carme che voi bisbigliate co' venti,
38    di rospi, di serpi, di sanguinari cuori.

      Guglielmo, re de' poeti da l'ardüa fronte serena,
40    perché mi mandi lugubri messaggi?

      Io non uccisi il sonno, ben gli altri a me spensero il cuore:
42    non cerco un regno, io solo chieggio al mondo l'oblío.

      Oblío? no, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri
44    che tutti una ferita mostrate aperta e tutti

      a tradimento, su! su da 'l cimitero del petto,
46    su date a' venti i vostri veli funebri.

      Qui raduniam consiglio, qui ne l'orribile spazzo,
48    a l'ombre ignave, su le mortifere acque.

      Qui gonfia di serpi tra 'l fior bianco e giallo la terra,
50    pregna di veleni qui primavera ride.

      Ride ubriaco il verso di gioia maligna; com'angue,
52    strisci, si attorca, snodisi tra i sibili.

      Volate, volate, canzoni vampire, cercando
54    i cuor' che amammo: sangue per sangue sia.

      Ma che? Disvelasi lunge superbo a veder l'Argentaro
56    lento scendendo ne 'l Tirreno cerulo.

      Il sole illustra le cime. Là in fondo sono i miei colli,
58    con la serena vista, con le memorie pie.

      Ivi m'arrise fanciullo la diva sembianza d'Omero.
60    Via, tu, Marlowe, a l'acque! tu, selva infame, addio.



ALLA MENSA DELL'AMICO

      Non mai dal cielo ch'io spirai parvolo
      ridesti, o Sole, bel nume, splendido
      a me, sí come oggi ch'effuso
4     t'amo per l'ampie vie di Livorno.

      Non mai fervesti, Bromio, ne i calici
      consolatore saggio e benevolo,
      com'oggi ch'io libo a l'amico
8     pensando i varchi de l'Apennino.

      O Sole, o Bromio, date che integri,
      non senza amore, non senza cetera,
      scendiamo a le placide ombre
12    - là dov'è Orazio - l'amico ed io.

      Ma sorridete gli augurî a i parvoli
      che, dolci fiori, la mensa adornano,
      la pace a le madri, gli amori
16    a i baldi giovani e le glorie.



RAGIONI METRICHE

      Rompeste voi 'l Tevere a nuoto, Clelïa, come
2     l'antica vostra, o a noi nuova Rea Silva uscite?

      Scarso, o nipote di Rea, l'endecasillabo ha il passo
4     a misurare i clivi de le bellezze vostre:

      solo co 'l piè trïonfale l'eroico esametro puote
6     scander la vïa sacra de le lunate spalle.

      Da l'arce capitolina de 'l collo fidiaco molle
8     il pentametro pender, ghirlanda albana, deve.

      Batta ne 'l raggio de gli occhi, che fiero corusca sí come
10    tra i colli prenestini dietro l'aurora il sole,

      batta l'alcaica strofe trepidando l'ali, e si scaldi
12    a i forti amori: indietro, tu settenario vile.

      Oh, su la chioma ondosa che simile a notte discende
14    pe 'l crepuscolo pario de le doriche forme

      (lasciate a le serve, nipote di Rea, gli ottonari)
16    corona aurea di stelle fulga l'asclepiadea.



FIGURINE VECCHIE

      Qual da la madre battuto pargolo
      od in proterva rissa mal domito
      stanco s'addorme con le pugna
4     serrate e i cigli rannuvolati,

      tal ne 'l mio petto l'amore, o candida
      Lalage, dorme: non sogna o invidia,
      s'al roseo maggio erran giocando
8     gli altri felici pargoli al sole.

      Oh no 'l destare! l'udresti, o Lalage,
      di torbid'ire fiedere l'aere
      rompendo i giuochi a' lieti eguali,
12    dio di battaglia per me l'amore.



SOLE D'INVERNO

      Nel solitario verno de l'anima
      spunta la dolce imagine,
      e tocche frangonsi tosto le nuvole
4     de la tristezza e sfumano.

      Già di cerulea gioia rinnovasi
      ogni pensiero: fremere
      sentomi d'intima vita gli spiriti:
8     il gelo inerte fendesi.

      Già de' fantasimi dal mobil vertice
      spiccian gli affetti memori,
      scendon con rivoli freschi di lacrime
12    giú per l'ombra del tedio.

      Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
      echi d'amor superstiti
      e con letizia d'acque che a' margini
16    sonni di fiori svegliano.

      Scendono, e in limpido fiume dilagano,
      ove le rive e gli alberi
      e i colli e il tremulo riso de l'aere
20    specchiasi vasto e placido.

      Tu su la nubila cima de l'essere,
      tu sali, o dolce imagine;
      e sotto il candido raggio devolvere
24    miri il fiume de l'anima.



EGLE

      Stanno nel grigio verno pur d'edra e di lauro vestite
2     ne l'Appia trista le ruinose tombe.

      Passan pe 'l ciel turchino che stilla ancor da la pioggia
4     avanti al sole lucide nubi bianche.

      Egle, levato il capo vèr' quella serena promessa
6     di primavera, guarda le nubi e il sole.

      Guarda; e innanzi a la bella sua fronte piú ancora che al sole
8     ridon le nubi sopra le tombe antiche.



PRIMO VERE

      Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi
      ed ancor trema nuda al rigid'aere
      la primavera: il sol tra le sue lacrime
4     limpido brilla, o Lalage.

      Da lor culle di neve i fior si svegliano
      e curïosi al ciel gli occhietti levano:
      il quelli sguardi vagola una tremula
8     ombra di sogno, o Lalage.

      Nel sonno de l'inverno sotto il candido
      lenzuolo de la neve i fior sognarono;
      sognaron l'albe roride ed i tepidi
12    soli e il tuo viso, o Lalage.

      Ne l'addormito spirito che sognano
      i miei pensieri? A tua bellezza candida
      perché mesta sorride tra le lacrime
16    la primavera, o Lalage?



VERE NOVO

      Rompendo il sole tra i nuvoli bianchi a l'azzurro
2     sorride e chiama - O primavera, vieni! -

      Tra i verzicanti poggi con mormorii placidi il fiume
4     ricanta a l'aura - O primavera, vieni! -

      - O primavera, vieni! - ridice il poeta al suo cuore
6     e guarda gli occhi, Lalage pura, tuoi.



CANTO DI MARZO

      Quale una incinta, su cui scende languida
      languida l'ombra del sopore e l'occupa,
      disciolta giace e palpita su 'l talamo,
      sospiri al labbro e rotti accenti vengono
5     e súbiti rossor la faccia corrono,

      tale è la terra: l'ombra de le nuvole
      passa a sprazzi su 'l verde tra il sol pallido:
      umido vento scuote i pèschi e i mandorli
      bianco e rosso fioriti, ed i fior cadono:
10    spira da i pori de la glebe un cantico.

      - O salïenti da' marini pascoli
      vacche del cielo, grigie e bianche nuvole,
      versate il latte da le mamme tumide
      al piano e al colle che sorride e verzica,
15    a la selva che mette i primi palpiti -.

      Cosí cantano i fior che si risvegliano:
      cosí cantano i germi che si movono
      e le radici che bramose stendonsi:
      cosí da l'ossa dei sepolti cantano
20    i germi de la vita e de gli spiriti.

      Ecco l'acqua che scroscia e il tuon che brontola:
      porge il capo il vitel da la stalla umida,
      la gallina scotendo l'ali strepita,
      profondo nel verzier sospira il cúculo
25    ed i bambini sopra l'aia saltano.

      Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
      schiudetevi a gli amori, o cuori giovani;
      impennatevi a i sogni, ali de l'anime;
      irrompete a la guerra, o desii torbidi:
30    ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.



SALUTO D'AUTUNNO

      Pe' verdi colli, da' cieli splendidi,
      e ne' fiorenti campi de l'anima,
      Delia, a voi tutto è una festa
4     di primavera: lungi le tombe!

      Voi dolce madre chiaman due parvole,
      voi dolce suora le rose chiamano,
      e il sol vi corona di lume,
8     divino amico, la bruna chioma.

      Lungi le tombe! Lontana favola
      per voi la morte! Salite il tramite
      de gli anni, e con citara d'oro
12    Ebe serena v'accenna a l'alto.

      Giú ne la valle, freddi dal turbine,
      noi vi miriamo ridente ascendere;
      e un raggio del vostro sorriso
16    frange le nebbie pigre a l'autunno.



SU MONTE MARIO

      Solenni in vetta a Monte Mario stanno
      nel luminoso cheto aere i cipressi,
      e scorrer muto per i grigi campi
4     mirano il Tebro,

      mirano al basso nel silenzio Roma
      estendersi, e, in atto di pastor gigante
      su grande armento vigile, davanti
8     sorger San Pietro.

      Mescete in vetta al luminoso colle,
      mescete, amici, il biondo vino, e il sole
      vi si rifranga: sorridete, o belle:
12    diman morremo.

      Lalage, intatto a l'odorato bosco
      lascia l'alloro che si gloria eterno,
      o a te passando per la bruna chioma
16    splenda minore.

      A me tra 'l verso che pensoso vola
      venga l'allegra coppa ed il soave
      fior de la rosa che fugace il verno
20    consola e muore.

      Diman morremo, come ier moriro
      quelli che amammo: via da le memorie,
      via da gli affetti, tenui ombre lievi
24    dilegueremo.

      Morremo; e sempre faticosa intorno
      de l'almo sole volgerà la terra,
      mille sprizzando ad ogni istante vite
28    come scintille;

      vite in cui nuovi fremeranno amori,
      vite che a pugne nuove fremeranno,
      e a nuovi numi canteranno gl'inni
32    de l'avvenire.

      E voi non nati, a le cui man' la face
      verrà che scórse da le nostre, e voi
      disparirete, radïose schiere,
36    ne l'infinito.

      Addio, tu madre del pensier mio breve,
      terra, e de l'alma fuggitiva! quanta
      d'intorno al sole aggirerai perenne
40    gloria e dolore!

      fin che ristretta sotto l'equatore
      dietro i richiami del calor fuggente
      l'estenuata prole abbia una sola
44    femina, un uomo,

      che ritti in mezzo a' ruderi de' monti,
      tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
      vitrei te veggan su l'immane ghiaccia,
48    sole, calare.



LA MADRE
(GRUPPO DI ADRIANO CECIONI)

      Lei certo l'alba che affretta rosea
      al campo ancora grigio gli agricoli
      mirava scalza co 'l piè ratto
4     passar tra i roridi odor del fieno.

      Curva su i biondi solchi i larghi omeri
      udivan gli olmi bianchi di polvere
      lei stornellante su 'l meriggio
8     sfidar le rauche cicale a i poggi.

      E quando alzava da l'opra il turgido
      petto e la bruna faccia ed i riccioli
      fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
12    coloraro ignei le balde forme.

      Or forte madre palleggia il pargolo
      forte; da i nudi seni già sazio
      palleggialo alto, e ciancia dolce
16    con lui che a' lucidi occhi materni

      intende gli occhi fissi ed il piccolo
      corpo tremante d'inquïetudine
      e le cercanti dita: ride
20    la madre e slanciasi tutta amore.

      A lei d'intorno ride il domestico
      lavor, le biade tremule accennano
      dal colle verde, il büe mugghia,
24    su l'aia il florido gallo canta.

      Natura a i forti che per lei spregiano
      le care a i vulghi larve di gloria
      cosí di sante visïoni
28    conforta l'anime, o Adrïano:

      onde tu al marmo, severo artefice,
      consegni un'alta speme de i secoli.
      Quando il lavoro sarà lieto?
32    quando securo sarà l'amore?

      quando una forte plebe di liberi
      dirà guardando nel sole - Illumina
      non ozi e guerre a i tiranni,
36    ma la giustizia pia del lavoro -?



PER UN INSTITUTO DI CIECHI

      Quando mirava Omero le fulgide a' dardani campi
2     pugne, con gli occhi spenti ed immoti al cielo;

      quando, levata in fredda caligin la fronte, vedeva
4     Milton passare su' mondi vinti Dio;

      l'alma del tutto in essi rompeva la inerte de' sensi
6     bruma, e ne' grandi spiriti il sole ardea.

      Quando Tobia meschino del can riconobbe il latrato
8     e brancolando porse le bianche mani,

      messa dal ciel sovvenne la santa pietà: Rafaele
10    biondo a' lassi occhi rese il bel figlio e il lume.

      Stanno ne l'ampia terra gli eroi del pensiero in disparte:
12    a Rafaele tende le braccia il mondo.



SOGNO D'ESTATE

      Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
      la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
      in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggí su 'l Tirreno.
      Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
5     Non piú libri: la stanza da 'l sole di luglio affocata,
      rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato
      de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
      cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
      Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
10    pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
      florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
      cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
      Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
      superbo de l'amore materno, percosso nel core
15    da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
      Però che le campane sonavano su dal castello
      annunzïando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
      e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
      correa la melodia spirituale di primavera;
20    ed i pèschi ed i méli tutti eran fior bianchi e vermigli,
      e fior gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
      ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
      e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
      e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori
25    veniva giú da 'l mare; nel mar quattro candide vele
      andavano andavano cullandosi lente nel sole,
      che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
      La giovine madre guardava beata nel sole.
      Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
30    questi che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito,
      quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;
      pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
      o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
      ove tra note forme rivivono gli anni felici.
35    Passâr le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
      Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
      Bice china al telaio seguia cheta l'opra de l'ago.



COLLI TOSCANI

      Colli toscani e voi pacifiche selve d'olivi
      a le cui ombre chete stetti in pensier d'amore,
      tósca vendemmia e tu da' grappi vermigli spumanti
4     in faccia al sole tra giocondi strepiti,

      sole de' giovini anni; ridete a la dolce fanciulla
      che amor mi strappa e rende sposa al toscano cielo;
      voi le ridete, e quella che sempre negaronmi i fati
8     pace d'affetti datele ne l'anima.

      Colli, tacete, e voi non susurratele, olivi,
      non dirle, o sol, per anche, tu onniveggente, pio,
      ch'oltre quel monte giaccion, lei forse aspettando, que' miei
12    che visser tristi, che in dolor morirono.

      Ella ammirando guarda la cima, tremarsi nel cuore
      sente la vita e un lieve spirto sfiorar le chiome,
      mentre l'aura montana, calando già il sole, d'intorno
16    al giovin capo le agita il vel candido.



PER LE NOZZE DI MIA FIGLIA

      O nata quando su la mia povera
      casa passava come uccel profugo
      la speranza, e io disdegnoso
4     battea le porte de l'avvenire;

      or che il piè saldo fermai su 'l termine
      cui combattendo valsi raggiungere
      e rauchi squittiscon da torno
8     i pappagalli lusingatori;

      tu mia colomba t'involi, trepida
      il nuovo nido voli a contessere
      oltre Apennino, nel nativo
12    aëre dolce de' colli tóschi.

      Va' con l'amore, va' con la gioia,
      va' con la fede candida. L'umide
      pupille fise al vel fuggente,
16    la mia Camena tace e ripensa.

      Ripensa i giorni quando tu parvola
      coglievi fiori sotto le acacie,
      ed ella reggendoti a mano
20    fantasmi e forme spïava in cielo.

      Ripensa i giorni quando a la morbida
      tua chioma intorno rogge strisciavano
      le strofe contro a gli oligarchi
24    librate e al vulgo vile d'Italia.

      E tu crescevi pensosa vergine,
      quand'ella prese d'assalto intrepida
      i clivi de l'arte e piantovvi
28    la sua bandiera garibaldina.

      Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
      teco fia dolce forse ritessere,
      e risognare i cari sogni
32    nel blando riso de' figli tuoi?

      O forse meglio giova combattere
      fino a che l'ora sacra richiamine?
      Allora, o mia figlia, - nessuna
36    me Beatrice ne' cieli attende -

      allora al passo che Omero ellenico
      e il cristïano Dante passarono
      mi scorga il tuo sguardo,
40    la nota voce tua m'accompagni.



PRESSO L'URNA DI PERCY BYSSHE SHELLEY

      Lalage, io so qual sogno ti sorge dal cuore profondo,
2     so quai perduti beni l'occhio tuo vago segue.

      L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge;
4     sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero.

      Pone l'ardente Clio su 'l monte de' secoli il piede
6     agile, e canta, ed apre l'ali superbe al cielo.

      Sotto di lei volante si scuopre ed illumina l'ampio
8     cimitero del mondo, ridele in faccia il sole

      de l'età nova. O strofe, pensier de' miei giovini anni,
10    volate omai secure verso gli antichi amori;

      volate pe' cieli, pe' cieli sereni, a la bella
12    isola risplendente di fantasia ne' mari.

      Ivi poggiati a l'aste Sigfrido ed Achille alti e biondi
14    erran cantando lungo il risonante mare:

      dà fiori a quello Ofelia sfuggita al pallido amante,
16    dal sacrificio a questo Ifïanassa viene.

      Sotto una verde quercia Rolando con Ettore parla,
18    sfolgora Durendala d'oro e di gemme al sole:

      mentre al florido petto richiamasi Andromache il figlio;
20    Alda la bella, immota, guarda il feroce sire.

      Conta re Lear chiomato a Edippo errante sue pene,
22    con gli occhi incerti Edippo cerca la sfinge ancora:

      la pia Cordelia chiama - Deh, candida Antigone, vieni!
24    vieni, o greca sorella! Cantiam la pace a i padri. -

      Elena e Isotta vanno pensose per l'ombra de i mirti,
26    il vermiglio tramonto ride a le chiome d'oro:

      Elena guarda l'onde: re Marco ad Isotta le braccia
28    apre, ed il biondo capo su la gran barba cade.

      Con la regina scota su 'l lido nel lume di luna
30    sta Clitennestra: tuffan le bianche braccia in mare,

      e il mar rifugge gonfio di sangue fervido: il pianto
32    de le misere echeggia per lo scoglioso lido.

      O lontana a le vie de i duri mortali travagli
34    isola de le belle, isola de gli eroi,

      isola de' poeti! Biancheggia l'oceano d'intorno,
36    volano uccelli strani per il purpureo cielo.

      Passa crollando i lauri l'immensa sonante epopea
38    come turbin di maggio sopra ondeggianti piani;

      o come quando Wagner possente mille anime intona
40    a i cantanti metalli; trema a gli umani il core.

      Ah, ma non ivi alcuno de' novi poeti mai surse,
42    se non tu forse, Shelley, spirito di titano,

      entro virginee forme: dal divo complesso di Teti
44    Sofocle a volo tolse te fra gli eroici cori.

      O cuor de' cuori, sopra quest'urna che freddo ti chiude
46    odora e tepe e brilla la primavera in fiore.

      O cuor de' cuori, il sole divino padre ti avvolge
48    de' suoi raggianti amori, povero muto cuore.

      Fremono freschi i pini per l'aura grande di Roma:
50    tu dove sei, poeta del liberato mondo?

      Tu dove sei? m'ascolti? Lo sguardo mio umido fugge
52    oltre l'aurelïana cerchia su 'l mesto piano.



AVE
IN MORTE DI G. P.

      Or che le nevi premono,
      lenzuol funereo, le terre e gli animi,
      e de la vita il fremito
4     fioco per l'aura vernal disperdesi,

      tu passi, o dolce spirito:
      forse la nuvola ti accoglie pallida
      là per le solitudini
8     del vespro e tenue teco dileguasi.

      Noi, quando a' soli tepidi
      un desio languido ricerca l'anime
      e co' i fiori che sbocciano
12    torna Persèfone da gli occhi ceruli,

      noi penseremo, o tenero,
      a te non reduce. Sotto la candida
      luna d'april trascorrere
16    vedrem la imagine cara accennandone.



NEVICATA

      Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi,
2     suoni di vita piú non salgon da la città,

      non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
4     non d'amor la canzon ilare e di gioventú.

      Da la torre di piazza roche per l'aere le ore
6     gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí.

      Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
8     spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

      In breve, o cari, in breve - tu càlmati, indomito cuore -
10    giú al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.



CONGEDO

      A' lor cantori diano i re fulgente
      collana d'oro lungo il petto, i volghi
      a' lor giullari dian con roche strida
4     suono di mani.

      Premio del verso che animoso vola
      da le memorie a l'avvenire, io chiedo
      colma una coppa a l'amicizia e il riso
8     de la bellezza.

      Come ricordo d'un mattin d'aprile
      puro è il sorriso de le belle, quando
      l'età fugace chiudere s'affretta
12    il nono lustro;

      e tra i bicchier che l'amistade infiora
      vola serena imagine la morte,
      come a te sotto i platani d'Ilisso,
16    divo Platone.





VERSIONI


TOMBE PRECOCI
DA FR. G. KLOPSTOCK

      Ben vieni, o bell'astro d'argento,
      compagno tacente a la notte.
      Tu fuggi? oh rimanti, splendore pensoso!
4     Vedete? ei rimane: la nuvola va.

      Piú bel d'una notte d'estate
      è solo il mattino di maggio:
      a lui la rugiada gocciando da i ricci
8     riluce, e vermiglio pe 'l colle va su.

      O cari, già il musco severo
      a voi sopra i tumuli crebbe:
      deh come felice vedeva io con voi
12    le notti d'argento, vermigli i bei dí!



NOTTE D'ESTATE
DA FR. G. KLOPSTOCK

      Quando il tremulo splendore de la luna
      si diffonde giú pe' boschi, quando i fiori
      e i molli aliti de i tigli
4     via pe 'l fresco esalano,

      il pensiero de le tombe come un'ombra
      in me scende; né piú i fiori né piú i tigli
      dànno odore; tutto il bosco
8     è per me crepuscolo.

      Queste gioie con voi, morti, m'ebbi un tempo:
      come il fresco era e il profumo dolce intorno!
      come bella eri, o natura,
12    in quell'albor tremulo!



LA TORRE DI NERONE
DA A. VON PLATEN

      Narra la fama, e ancor n'ha orrore il popolo:
      Nerone, indétto a la città l'incendio,
      salí su quella torre a lo spettacolo
4     del rogo, allegro ed avido.

      Correano al cenno suo gl'incendiarii,
      baccanti in festa, e roteavan picei
      serti di fiamma. Dritto su' merli aurei
8     Neron tocca la cetera.

      - Gloria - egli canta - al fuoco: a l'oro ei simile
      ei degno del Titan che al cielo tolselo:
      l'augel di Giove il porta; ed il primo alito
12    egli accolse di Bromio.

      Vieni, splendido nume: al crine i pampini,
      molle danza su 'l mondo anzi che in polvere
      torni: di Roma qui raccogli il cenere
16    e nel tuo vino mescilo.



ERO E LEANDRO
DA A. VON PLATEN

      Ero l'amata muore, ne i flutti cercando la morte:
2     Saffo l'amante muore, morte chiedendo a i flutti.

      Amore, iddio crudele, a te cadon vittime entrambe:
4     scorgile tu nel cheto reame di Persèfone.

      Ma di Leandro al petto conduci la vergin di Sesto,
6     guida al fiume di Lete la deserta di Lesbo.



LA LIRICA
DA A. VON PLATEN

      A la materia l'anima s'appiglia,
      polso del mondo è l'azïone; e a sorde
      orecchie spesso versa i canti l'alta
4     lirica musa.

      A tutti Omero s'apre e svarïati
      gli arazzi de la favola dispiega,
      l'autor del dramma trascinando i volghi
8     le scene eleva.

      Ma il vol del sacro Pindaro, di Flacco
      l'arte e, o Petrarca, il tuo librato verso,
      lento ne i cuori imprimesi, e a la plebe
12    ardüo sfugge.

      Grazia che pensa, non agevol ritmo
      di canzoncine intorno la teletta:
      non lieve sguardo penetra le loro
16    alme possenti.

      Eterno vaga per le genti il nome,
      ma raro ad essi spirito s'aggiunge
      amico e pio che onori le gagliarde
20    menti profonde.
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