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Giosuè Carducci - Della Canzone di Legnano

Giosuè Carducci download
Della Canzone di Legnano
di Giosue Carducci



PARTE I [1879]


IL PARLAMENTO

I.

      Sta Federico imperatore in Como.
      Ed ecco un messaggero entra in Milano
      Da Porta Nova a briglie abbandonate.
      «Popolo di Milano,» ei passa e chiede,
5     «Fatemi scorta al console Gherardo.»
      Il consolo era in mezzo de la piazza,
      E il messagger piegato in su l'arcione
      Parlò brevi parole e spronò via.
      Allor fe' cenno il console Gherardo,
10    E squillaron le trombe a parlamento.


II.

      Squillarono le trombe a parlamento:
      Ché non anche risurto era il palagio
      Su' gran pilastri, né l'arengo v'era,
      Né torre v'era, né a la torre in cima
15    La campana. Fra i ruderi che neri
      Verdeggiavan di spine, fra le basse
      Case di legno, ne la breve piazza
      I milanesi tenner parlamento
      Al sol di maggio. Da finestre e porte
20    Le donne riguardavano e i fanciulli.


III.

      «Signori milanesi,» il consol dice,
      «La primavera in fior mena tedeschi
      Pur come d'uso. Fanno pasqua i lurchi
      Ne le lor tane, e poi calano a valle.
25    Per l'Engadina due scomunicati
      Arcivescovi trassero lo sforzo.
      Trasse la bionda imperatrice al sire
      Il cuor fido e un esercito novello.
      Como è co' i forti, e abbandonò la lega.»
30    Il popol grida: «L'esterminio a Como.»


IV.

      «Signori milanesi,» il consol dice,
      «L'imperator, fatto lo stuolo in Como,
      Move l'oste a raggiungere il marchese
      Di Monferrato ed i pavesi. Quale
35    Volete, milanesi? od aspettare
      Da l'argin novo riguardando in arme,
      O mandar messi a Cesare, o affrontare
      A lancia e spada il Barbarossa in campo?»
      «A lancia e spada,» tona il parlamento,
40    «A lancia e spada, il Barbarossa, in campo.»


V.

      Or si fa innanzi Alberto di Giussano.
      Di ben tutta la spalla egli soverchia
      Gli accolti in piedi al console d'intorno.
      Ne la gran possa de la sua persona.
45    Torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano
      La barbuta: la bruna capelliera
      Il lato collo e l'ampie spalle inonda.
      Batte il sol ne la chiara onesta faccia,
      Ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.
50    È la sua voce come tuon di maggio.


VI.

      «Milanesi, fratelli, popol mio!
      Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
      «Calen di marzo? I consoli sparuti
      Cavalcarono a Lodi, e con le spade
55    Nude in mano gli giurâr l'obedïenza.
      Cavalcammo trecento al quarto giorno,
      Ed a i piedi, baciando, gli ponemmo
      I nostri belli trentasei stendardi.
      Mastro Guitelmo gli offerí le chiavi
60    Di Milano affamata. E non fu nulla.»


VII.

      «Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
      «Il dí sesto di marzo? Ai piedi ei volle
      Tutti i fanti ed il popolo e le insegne.
      Gli abitanti venian de le tre porte,
65    Il carroccio venía parato a guerra;
      Gran tratta poi di popolo, e le croci
      Teneano in mano. Innanzi a lui le trombe
      Del carroccio mandâr gli ultimi squilli,
      Innanzi a lui l'antenna del carroccio
70    Inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi.»


VIII.

      «Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:
      «Vestiti i sacchi de la penitenza,
      Co' piedi scalzi, con le corde al collo,
      Sparsi i capi di cenere, nel fango
75    C'inginocchiammo, e tendevam le braccia,
      E chiamavam misericordia. Tutti
      Lacrimavan, signori e cavalieri,
      A lui d'intorno. Ei, dritto, in piedi, presso
      Lo scudo imperïal, ci riguardava.
80    Muto, col suo dïamantino sguardo.»


IX.

      «Vi sovvien,» dice Alberto di Giussano,
      «Che tornando a l'obbrobrio la dimane
      Scorgemmo da la via l'imperatrice
      Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli
85    Noi gittammo le croci a lei gridando
      - O bionda, o bella imperatrice, o fida,
      O pia, mercé, mercé di nostre donne! -
      Ella trassesi indietro. Egli c'impose
      Porte e muro atterrar de le due cinte
90    Tanto ch'ei con schierata oste passasse.»


X.

      «Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:
      «Nove giorni aspettammo; e si partiro
      L'arcivescovo i conti e i valvassori.
      Venne al decimo il bando - Uscite, o tristi,
95    Con le donne co i figli e con le robe:
      Otto giorni vi dà l'imperatore -.
      E noi corremmo urlando a Sant'Ambrogio,
      Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
      Via da la chiesa, con le donne e i figli,
100   Via ci cacciaron come can tignosi.»


XI.

      «Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
      «La domenica triste de gli ulivi?
      Ahi passïon di Cristo e di Milano!
      Da i quattro Corpi santi ad una ad una
105   Crosciar vedemmo le trecento torri
      De la cerchia; ed al fin per la ruina
      Polverosa ci apparvero le case
      Spezzate, smozzicate, sgretolate:
      Parean file di scheltri in cimitero.
110   Di sotto, l'ossa ardean de' nostri morti.»


XII.

      Cosí dicendo Alberto di Giussano
      Con tutt'e due le man copriasi gli occhi,
      E singhiozzava: in mezzo al parlamento
      Singhiozzava e piangea come un fanciullo.
115   Ed allora per tutto il parlamento
      Trascorse quasi un fremito di belve.
      Da le porte le donne e da i veroni,
      Pallide, scarmigliate, con le braccia
      Tese e gli occhi sbarrati al parlamento,
120   Urlavano - Uccidete il Barbarossa -.


XIII.

      «Or ecco,» dice Alberto di Giussano,
      «Ecco, io non piango piú. Venne il dí nostro,
      O milanesi, e vincere bisogna.
      Ecco: io m'asciugo gli occhi, e a te guardando,
125   O bel sole di Dio, fo sacramento:
      Diman la sera i nostri morti avranno
      Una dolce novella in purgatorio:
      E la rechi pur io!» Ma il popol dice:
      «Fia meglio i messi imperïali.» Il sole
130   Ridea calando dietro il Resegone.
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