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Vincenzo Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799

Vincenzo Cuoco download

SAGGIO STORICO  SULLA  RIVOLUZIONE  DI  NAPOLI  SECONDA  EDIZIONE  CON  AGGIUNTE
DELL'AUTORE 1806



Caedo cur vestram rempublicam tantam  perdidistis  tam  cito?  POMPONIO  ATTICO,
presso CICERONE, De senectute.






PREFAZIONE

ALLA SECONDA EDIZIONE


Quando questo Saggio fu pubblicato per la prima volta, i giudizi pronunziati sul
medesimo furon molti e diversi, siccome suole inevitabilmente avvenire  ad  ogni
libro, del quale l'autore ha professata imparzialitá, ma non sono  imparziali  i
lettori. Il tempo però ed il maggior numero  han  resa  giustizia,  non  al  mio
ingegno né alla mia dottrina (ché  né  quello  né  questa  abbondavano  nel  mio
libro), ma alla imparzialitá ed alla sinceritá  colla  quale  io  avea  in  esso
narrati avvenimenti che per me non eran stati al certo indifferenti. Della prima
edizione da lungo tempo non rimaneva piú un esemplare; e, ad  onta  delle  molte
richieste che ne avea, io avrei ancora differita  per  qualche  altro  tempo  la
seconda, se alcuni, che han tentato ristamparla senza il mio  assentimento,  non
mi avessero costretto ad accelerarla. Dopo la  prima  edizione,  ho  raccolti  i
giudizi che il pubblico ha pronunziati, ed ho cercato, per quanto era in me,  di
usarne per rendere il mio libro quanto piú si potesse migliore. Alcuni avrebbero
desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in veritá io non nego che nella prima
edizione alcuni fatti ho omessi, perché li ignorava; altri ho taciuti, perché ho
creduto prudente il tacerli;  altri  ho  trasandati,  perché  li  reputava  poco
importanti; altri finalmente ho appena accennati. Ho composto il mio libro senza
aver altra guida che la mia memoria: era  impossibile  saper  tutti  gl'infiniti
accidenti di una rivoluzione, e tutti rammentarli. Molti de' medesimi ho  saputi
posteriormente, e, di essi, i piú importanti ho aggiunti a quelli che  giá  avea
narrati. Ad onta però di tutte le aggiunzioni  fatte,  io  ben  mi  avveggo  che
coloro, i quali desideravano maggior numero di fatti nella  prima  edizione,  ne
desidereranno ancora in questa seconda. Ma il mio disegno non è stato mai quello
di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, molto meno una  leggenda.  Gli
avvenimenti di una rivoluzione sono infiniti di numero; e come  no,  se  in  una
rivoluzione agiscono contemporaneamente infiniti uomini? Ma, per  questa  stessa
ragione, è impossibile che  tra  tanti  avvenimenti  non  vi  sieno  molti  poco
importanti e molti altri che si rassomiglian tra loro. I primi li ho trascurati,
i secondi li ho riuniti sotto le rispettive loro classi. Piú che delle  persone,
mi sono occupato delle cose e delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti,  che  forse
desideravano esser nominati;  è  piaciuto  a  moltissimi,  che  amavano  di  non
esserlo. I nomi nella storia servon piú  alla  vanitá  di  chi  è  nominato  che
all'istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere
e dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime; è  tale,  quale  i
tempi, le idee, i costumi, gli accidenti  voglion  che  sia:  quando  avete  ben
descritti questi, a che giova nominar gli uomini? Io  sono  fermamente  convinto
che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di sostituire ai nomi
propri delle lettere dell'alfabeto, l'istruzione, che se ne ritrarrebbe, sarebbe
la  medesima.  Finalmente,  nella  considerazione  e  nella   narrazione   degli
avvenimenti, mi sono piú occupato degli effetti e delle cagioni delle  cose  che
di que' piccioli accidenti che non sono né effetti né cagioni di  nulla,  e  che
piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli  forniscono  il  modo  di  poter
usare di  quel  tempo  che  non  saprebbe  impiegare  a  riflettere.  Dopo  tali
osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano  ad  aggiugnere  eran  in
minor numero di quello che si crede. Ragionando con  molti  di  coloro  i  quali
avrebbero desiderati piú fatti,  spesso  mi  sono  avveduto  che  ciò  che  essi
desideravano nel mio libro giá vi era:  ma  essi  desideravano  nomi,  dettagli,
ripetizioni; e queste non vi  dovean  essere.  Per  qual  ragione  distrarrò  io
l'attenzione del lettore tra un numero infinito d'inezie  e  lo  distoglierò  da
quello ch'io reputo vero scopo di ogni istoria, dalla osservazione del corso che
hanno, non gli uomini, che brillano un momento solo, ma le idee e le  cose,  che
sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il  nome  di  «storia»;  ed  io
risponderò  che  non  mi  sono  giammai  proposto  di  scriverne.  Ma  è   forse
indispensabile che un libro, perché sia utile, sia una storia? Una censura mi fu
fatta, appena uscí alla luce  il  primo  volume.  Siccome  essa  nasceva  da  un
equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci  con  quell'avvertimento  che,
nella prima edizione, leggesi  al  principio  del  secondo  volume,  e  che  ora
inserisco qui:

Tutte le volte che in quest'opera si parla di «nome», di «opinione», di «grado»,
s'intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono
sul popolo,  che  è  il  grande,  il  solo  agente  delle  rivoluzioni  e  delle
controrivoluzioni. Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno  creduto
che,  quando  nel  primo  tomo,  pagina  34,  io  parlo  di  coloro  che  furono
perseguitati dall'inquisizione di Stato, e li  chiamo  «giovinetti  senza  nome,
senza grado, senza fortuna», abbia voluto dichiararli persone  di  niun  merito,
quasi della feccia del popolo, che desideravano  una  rivoluzione  per  far  una
fortuna. Questo era contrario a tutto il resto dell'opera, in cui mille volte si
ripete che in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e  fortuna;
che niuna nazione conta tanti che bramassero una riforma  per  solo  amor  della
patria; che in Napoli la repubblica è  caduta  quasi  per  soverchia  virtú  de'
repubblicani... Nell'istesso luogo si dice che  i  lumi  della  filosofia  erano
sparsi in Napoli piú che altrove, e che i  saggi  travagliavano  a  diffonderli,
sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.  I  primi  repubblicani  furono
tutti delle migliori famiglie della capitale e  delle  province:  molti  nobili,
tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché l'eccesso istesso de' lumi,
che superava l'esperienza dell'etá, faceva lor credere facile ciò che  realmente
era  impossibile  per  lo  stato  in  cui  il  popolaccio  si  ritrovava.   Essi
desideravano il bene, ma non potevano produrre senza il popolo una  rivoluzione;
e questo appunto è quello  che  rende  inescusabile  la  tirannica  persecuzione
destata contro di loro. Chi legge con attenzione  vede  chiaramente  che  questo
appunto ivi si vuol dire. Io altro non ho fatto che riferire quello  che  allora
disse in difesa de' repubblicani il rispettabile presidente del Consiglio, Cito;
e Cito era molto lontano dall'ignorare  le  persone  o  dal  volerle  offendere.
Sarebbe  stoltezza  dire  che  le  famiglie  Carafa,  Riari,   Serra,   Colonna,
Pignatelli... fossero povere; ma, per produrre una rivoluzione  nello  stato  in
cui allora era il popolo napoletano, si richiedevano almeno  trenta  milioni  di
ducati, e questa somma si può dir, senza far loro  alcun  torto,  che  essi  non
l'aveano. La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende:  un  uomo  che
abbia trecentomila scudi di rendita è un  ricchissimo  privato,  ma  sarebbe  un
miserabile sovrano. Si può occupare nella societá un grado eminentissimo, e  non
essere intanto atto a produrre una  rivoluzione.  Il  presidente  del  Consiglio
occupava la prima magistratura del Regno, e non potea farlo: ad un  reggente  di
Vicaria, molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del  popolo,  moltissimo
inferiore al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.  Lo  stesso  si
dice del nome. Chi può  dire  che  le  famiglie  Serra,  Colonna,  Pignatelli...
fossero famiglie oscure? Che Pagano,  Cirillo,  Conforti  fossero  uomini  senza
nome?... Ma essi aveano un nome tra i saggi, i quali  a  produr  la  rivoluzione
sono inutili, e non ne aveano tra il  popolo,  che  era  necessario,  ed  a  cui
intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de' lazzaroni  del
Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi;  ma  intanto  Paggio,  e  non
Pagano, era l'uomo del popolo, il quale bestemmia sempre tutto ciò  che  ignora.
Credo superfluo poi avvertire che i giudizi del popolo non sono  i  miei;  ma  è
necessario ricordare che, in un'opera destinata alla veritá ed all'istruzione, è
necessario riferire tanto i giudizi miei quanto quelli del popolo. Ciascuno sará
al suo luogo: è  necessario  saperli  distinguere  e  riconoscere;  e  perciò  è
necessario aver la pazienza di leggere  l'opera  intera,  e  non  giudicarne  da
tratti separati.

Questo Saggio è stato tradotto in tedesco. Son molto grato al signor Kellert, il
quale, senza che ne conoscesse l'autore credette  il  libro  degno  degli  studi
suoi: piú grato gli sono, perché lo ha tradotto in modo da farlo  apparir  degno
dell'approvazione de' letterati di Germania; de' favorevoli giudizi de' quali io
andrei superbo, se non sapessi che si debbono  in  grandissima  parte  ai  nuovi
pregi che al mio libro ha saputo dare l'elegante traduttore. Pure, tra gli elogi
che il libro ha ottenuti, non è mancata qualche censura, ed una, tra  le  altre,
scritta collo stile di un cavalier errante che unisce  la  ragione  alla  spada,
leggesi nel giornale del signor Archenholz, intitolato: La Minerva. L'articolo è
sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io non conosco, ma che  ho  ragion  di
credere essere al tempo istesso valentissimo scrittore e  guerriero,  poiché  si
mostra pronto egualmente a sostener contro di me colla penna e colla  spada  che
il signor barone di Mack sia un eccellente condottiero di armata,  ad  onta  che
nel mio libro io avessi tentato di far  credere  il  contrario.  In  veritá,  io
dichiaro che valuto pochissimo i talenti militari del generale Mack.  Quando  io
scriveva il mio Saggio, avea presenti al mio pensiero la campagna di Napoli e la
seconda campagna delle Fiandre, ambedue  dirette  da  Mack:  vedeva  nell'una  e
nell'altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di  rovesci;  e  credei  poter
ragionevolmente conchiudere che la colpa fosse del generale. Ciò che  è  effetto
di sola fortuna non si ripete  con  tanta  simiglianza  due  volte.  Quando  poi
pervenne in Milano l'articolo del signor Dietrikstein, era giá  aperta  l'ultima
campagna. L'amico, che mi comunicò l'articolo, avrebbe desiderato che io  avessi
fatta qualche risposta.  Ma,  due  giorni  appresso,  il  cannone  della  piazza
annunziò la vittoria di Ulma, ed io rimandai all'amico l'articolo, e vi  scrissi
a' piè della pagina: «La risposta è fatta». Questo  mio  libro  non  deve  esser
considerato come una storia, ma bensí come una raccolta  di  osservazioni  sulla
storia. Gli avvenimenti posteriori  han  dimostrato  che  io  ho  osservato  con
imparzialitá e non senza qualche acume.  Gran  parte  delle  cose  che  io  avea
previste si sono avverate; l'esperimento delle cose posteriori ha  confermati  i
giudizi che avea pronunziati sulle  antecedenti.  Mentre  quasi  tutta  l'Europa
teneva Mack in conto di gran generale, io solo, io il primo, ho vendicato l'onor
della mia nazione, ed ho asserito che le disgrazie da  lui  sofferte  nelle  sue
campagne non eran tanto effetto di fortuna quanto d'ignoranza. Fin dal  1800  io
ho indicato il  vizio  fondamentale  che  vi  era  in  tutte  le  leghe  che  si
concertavano contro la Francia, e  pel  quale  tutt'i  tentativi  de'  collegati
dovean sempre avere un esito infelice, ad onta di tutte le vittorie che avessero
potuto ottenere; e tutto ciò perché le vittorie consumano le  forze  al  pari  o
poco meno delle disfatte, e le forze si perdono  inutilmente  se  son  prive  di
consiglio, né vi è consiglio ove o non vi è scopo o lo  scopo  è  tale  che  non
possa  ottenersi.  Desidero  che  chiunque  legge  questo  libro  paragoni   gli
avvenimenti de' quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua
pubblicazione. Troverá che spesso il giudizio da me pronunziato sopra  quelli  è
stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha  confermate  le
antecedenti mie osservazioni. Il gabinetto di Napoli ha continuato negli  stessi
errori: sempre lo stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa  alternativa
di speranze e di timore, e quella sempre temeraria, questo  sempre  precipitoso;
moltissima fiducia negli aiuti stranieri, nessuna fiducia e perciò nessuna  cura
delle forze proprie; non mai un'operazione ben concertata; nella prima lega,  il
trattato di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di  ogni
ragione e di ogni opportunitá; nella seconda, l'invasione dello Stato pontificio
fatta prima che l'Austria pensasse a mover le  sue  armate,  le  operazioni  del
picciolo corpo che Damas  comandava  in  Arezzo  incominciate  quando  le  forze
austriache non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato segnato colla
Francia, mentre forse non era necessario poiché si  pensava  di  infrangerlo;  i
russi e gl'inglesi chiamati quando giá la somma delle cose era stata  decisa  in
Austerlitz; l'inutile macchia di traditore, e l'inopportunitá del tradimento,  e
l'obbrobrio di vedere un re che comanda a sette milioni di uomini divenire,  per
colpa de' suoi ministri, quasi il fattore degl'inglesi e cedere il comando delle
sue proprie truppe entro il suo proprio regno ad un generale russo. Ricercate le
cagioni di tutti questi avvenimenti,  e  trovate  esser  sempre  le  stesse:  un
ministro che traeva gran parte del suo potere dall'Inghilterra, ove  avea  messe
in serbo le sue ricchezze; l'ignoranza delle forze  della  propria  nazione,  la
nessuna cura di migliorare la di lei  sorte,  di  ridestare  negli  animi  degli
abitanti l'amor della patria, della milizia e della gloria; lo stato di violenza
che naturalmente dovea sorgere da quella specie di lotta,  che  era  inevitabile
tra un popolo naturalmente pieno di energia ed un ministro straniero  che  volea
tenerlo nella miseria  e  nell'oppressione;  la  diffidenza  che  questo  stesso
ministro avea ispirata nell'animo de'  sovrani  contro  la  sua  nazione;  tutto
insomma quello che io avea predetto, dicendo che la condotta di  quel  gabinetto
avrebbe finalmente perduto un'altra volta, ed irreparabilmente, il Regno.  Avrei
potuto aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella  degli  avvenimenti
posteriori fino ai nostri giorni. Riserbo questa occupazione a' tempi ne'  quali
avrò piú ozio e maggior facilitá di istruirmene io stesso,  ritornato  che  sarò
nella mia patria. Ne formerò  un  altro  volume  dello  stesso  sesto,  carta  e
caratteri del presente. Intanto nulla ho  voluto  cangiare  al  libro  che  avea
pubblicato nel 1800. Quando io componeva  quel  libro,  il  gran  Napoleone  era
appena ritornato dall'Egitto; quando si stampava,  egli  avea  appena  prese  le
redini delle cose, appena avea incominciata la magnanima impresa  di  ricomporre
le idee e gli ordini della Francia e dell'Europa. Ma io  ho  il  vanto  di  aver
desiderate non poche di quelle grandi cose che egli posteriormente ha fatte; ed,
in tempi ne' quali  tutt'i  princípi  erano  esagerati,  ho  il  vanto  di  aver
raccomandata,  per  quanto  era  in  me,  quella  moderazione  che  è   compagna
inseparabile della sapienza e della giustizia, e che  si  può  dire  la  massima
direttrice di tutte le operazioni che  ha  fatte  l'uomo  grandissimo.  Egli  ha
verificato l'adagio greco per cui si  dice  che  gl'iddii  han  data  una  forza
infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine,  di
giustizia. Le stesse lettere, che  io  avea  scritte  al  mio  amico  Russo  sul
progetto di costituzione composto dall'illustre  e  sventurato  Pagano,  sebbene
oggi superflue, pure le ho conservate e come un monumento di storia e  come  una
dimostrazione che tutti quegli ordini che allora credevansi  costituzionali  non
eran che anarchici. La Francia non ha incominciato ad aver ordine, l'Italia  non
ha incominciato ad aver vita, se non dopo Napoleone; e, tra  li  tanti  benefíci
che egli all'Italia ha fatti, non è l'ultimo certamente quello di aver donato  a
Milano Eugenio ed alla mia patria Giuseppe.


Lettera dell'autore a N.Q.


Quando io incominciai ad occuparmi della storia della rivoluzione di Napoli, non
ebbi altro scopo che quello di raddolcire l'ozio e la noia  dell'emigrazione.  È
dolce cosa rammentar nel porto le tempeste passate.  Io  avea  ottenuto  il  mio
intento; né avrei pensato ad altro, se tu e gli altri amici, ai quali  io  lessi
il manoscritto, non aveste creduto che esso potesse esser utile a qualche  altro
oggetto. Come va il mondo! Il re di Napoli dichiara la guerra ai francesi  ed  è
vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna
e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva piú  a
lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la  minima  parte,  senza
che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha  fatto  sí  che  io  sia
stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per  certo,  seguendo  il  corso
ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non  aver
altro che fare, sia diventato autore. «Tutto è concatenato  nel  mondo»,  diceva
Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio! In altri tempi  non  avrei  permesso
certamente che l'opera mia vedesse la  luce.  Fino  a  ier  l'altro,  invece  di
princípi, non abbiamo avuto che l'esaltazione de' princípi; cercavamo la libertá
e non avevamo che sètte. Uomini, non tanto amici  della  libertá  quanto  nemici
dell'ordine inventavano una parola per fondare una setta, e si proclamavan  capi
di una setta per  aver  diritto  di  distruggere  chiunque  seguisse  una  setta
diversa. Quegli uomini, ai quali l'Europa rimprovererá eternamente la  morte  di
Vergniaud, di Condorcet, di Lavoisier e di Bailly; quegli uomini, che  riunirono
entro lo stesso tempio alle ceneri di Rousseau e di Voltaire quelle di  Marat  e
ricusarono di raccogliervi quelle  di  Montesquieu,  non  erano  certamente  gli
uomini da' quali l'Europa sperar poteva la sua felicitá. Un nuovo ordine di cose
ci promette maggiori e piú durevoli beni. Ma credi tu che l'oscuro autore di  un
libro possa mai produrre la felicitá umana? In qualunque ordine di cose, le idee
del vero rimangono sempre sterili o generan solo qualche inutile desiderio negli
animi degli uomini dabbene, se accolte e protette non vengano da coloro ai quali
è affidato il freno delle cose mortali. Se io potessi  parlare  a  colui  a  cui
questo nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblio ed il disprezzo  appunto  di
tali idee fece sí che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean  data
all'Italia, quasi divenisse per  costei,  nella  di  lui  lontananza,  sorte  di
desolazione, di ruina e di morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. -  Un
uomo - gli direi, - che ha liberata due volte l'Italia, che ha  fatto  conoscere
all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ali de' venti, simile
alla folgore, ha dissipati,  dispersi,  atterriti  coloro  che  eransi  uniti  a
perdere quello Stato che egli avea creato  ed  illustrato  colle  sue  vittorie,
molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare  per  il
bene dell'umanitá. Dopo aver infrante le catene all'Italia, ti rimane  ancora  a
renderle la libertá cara e sicura, onde né per negligenza perda né per forza  le
sia rapito il tuo dono. Che se la mia patria, come piccolissima  parte  di  quel
grande insieme di cui si occupano i tuoi  pensieri,  è  destino  che  debba  pur
servire all'ordine generale delle cose, e se è scritto ne'  fati  di  non  poter
avere tutti quei beni che essa spera, abbia almeno per te  alleviamento  a  quei
tanti mali onde ora è oppressa! Tu vedi, sotto il piú  dolce  cielo  e  nel  piú
fertile suolo dell'Europa, la giustizia divenuta istrumento dell'ambizione di un
ministro  scellerato,  il  dritto  delle  genti  conculcato,  il  nome  francese
vilipeso, un'orribile carneficina  d'innocenti  ch'espiano  colla  morte  e  tra
tormenti le colpe non loro; e, nel momento istesso in cui  ti  parlo,  diecimila
gemono ancora ed invocano, se non un liberatore, almeno un intercessore potente.
Un grande uomo dell'antichitá che tu eguagli per cuore e vinci  per  mente,  uno
che, come te, prima vinse i nemici della patria e poscia riordinò quella  patria
per la quale avea vinto, Gerone di Siracusa, per prezzo della vittoria riportata
sopra i cartaginesi, impose loro l'obbligo di non ammazzare piú i propri  figli.
Egli allora stipulò per lo genere umano. Se tu ti contenti della sola gloria  di
conquistatore, mille altri troverai, i quali han fatto, al pari di te, tacere la
terra al loro cospetto; ma, se a questa gloria vorrai aggiungere anche quella di
fondatore  di  saggi  governi  e  di  ordinatore  di  popoli,  allora  l'umanitá
riconoscente ti assegnerá, nella memoria de' posteri, un luogo nel  quale  avrai
pochissimi rivali o nessuno. L'adulazione rammenta ai potenti quelle  virtú  de'
loro maggiori, che essi non sanno piú imitare; la filosofia rammenta  ai  grandi
uomini le virtú proprie, perché proseguano sempre piú costanti  nella  magnanima
loro impresa...










NB. Ogni volta che si parlerá di moneta di Napoli, il conto s'intenda sempre  in
ducati: ogni ducato corrisponde a quattro lire di Francia.

I

INTRODUZIONE

Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá
di una nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina(1). Si vedrá in  meno  di
un anno un gran regno rovesciato, mentre minacciava conquistar  tutta  l'Italia;
un'armata di ottantamila uomini battuta, dissipata, distrutta  da  un  pugno  di
soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare  i  suoi  Stati
senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi quando meno si sperava; il
fato  istesso  combattere  per  la  buona  causa,  e  gli  errori  degli  uomini
distruggere l'opera del fato e far risorgere dal seno  della  libertá  un  nuovo
dispotismo e piú feroce. Le grandi rivoluzioni politiche occupano  nella  storia
dell'uomo quel luogo istesso che tengono i fenomeni  straordinari  nella  storia
della natura. Per molti secoli le generazioni si succedono tranquillamente  come
i giorni dell'anno: esse non hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce  una  le
conosce tutte. Un avvenimento straordinario sembra  dar  loro  una  nuova  vita;
nuovi oggetti si presentano ai nostri sguardi; ed  in  mezzo  a  quel  disordine
generale,  che  sembra  voler  distruggere  una  nazione,  si  scoprono  il  suo
carattere, i suoi costumi e  le  leggi  di  quell'ordine,  del  quale  prima  si
vedevano solamente gli effetti. Ma una catastrofe fisica è, per l'ordinario, piú
esattamente osservata e piú veracemente descritta di una catastrofe politica. La
mente, in osservar questa, segue sempre i moti irresistibili del cuore; e  degli
avvenimenti che piú interessano il genere umano, invece di aversene  la  storia,
non se ne ha per lo piú che l'elogio o la satira. Troppo  vicini  ai  fatti  de'
quali vogliam fare il racconto, noi siamo oppressi dal loro numero istesso;  non
ne vediamo l'insieme; ne ignoriamo  le  cagioni  e  gli  effetti;  non  possiamo
distinguere gli utili dagl'inutili, i frivoli dagl'importanti, finché  il  tempo
non li abbia separati l'uno dall'altro, e, facendo cader nell'obblio ciò che non
merita di esser conservato, trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno  della
memoria ed utile all'istruzione di tutt'i secoli.  La  posteritá,  che  ci  deve
giudicare, scriverá la nostra storia. Ma, siccome a noi spetta di prepararle  il
materiale de'  fatti,  cosí  sia  permesso  di  prevenirne  il  giudizio.  Senza
pretendere di scriver la storia della rivoluzione di  Napoli,  mi  sia  permesso
trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che  in  essa  mi  sembrano  piú
importanti, ed indicare ciò che ne' medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da
biasimare. La posteritá, esente da passioni, non è sempre libera  da  pregiudizi
in favor di colui che rimane ultimo vincitore; e  le  nostre  azioni  potrebbero
esser calunniate sol perché sono state infelici. Dichiaro che non  sono  addetto
ad alcun partito, a meno che la ragione e l'umanitá non ne abbiano uno. Narro le
vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso  ho  veduto  e  de'
quali sono stato  io  stesso  un  giorno  non  ultima  parte;  scrivo  pei  miei
concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare.  Coloro  i
quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente zelo per la buona causa,  per
mancanza di lumi o di coraggio l'han fatta rovinare; coloro i quali o son  morti
gloriosamente o gemono tuttavia vittime del buon partito  oppresso,  mi  debbono
perdonare se nemmen per amicizia offendo quella veritá  che  deve  esser  sempre
cara a chiunque ama la patria, e debbono  esser  lieti  se,  non  avendo  potuto
giovare ai posteri colle loro  operazioni,  possano  almeno  esser  utili  cogli
esempi de' loro errori e delle sventure loro. Di qualunque partito io mi sia, di
qualunque partito  sia  il  lettore,  sempre  gioverá  osservare  come  i  falsi
consigli, i capricci del momento, l'ambizione  de'  privati,  la  debolezza  de'
magistrati, l'ignoranza  de'  propri  doveri  e  della  propria  nazione,  sieno
egualmente funesti alle repubbliche ed ai  regni;  ed  i  nostri  posteri  dagli
esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza non fa che  distrugger
se stessa, e che non vi è vera saviezza senza quella virtú che tutto consacra al
bene universale.

II

STATO DELL'EUROPA DOPO IL 1793

Ma, prima di trattar della nostra rivoluzione, convien risalire un poco piú alto
e trattenersi un momento sugli avvenimenti che la precedettero; veder  qual  era
lo stato della nazione, quali cagioni la  involsero  nella  guerra,  quali  mali
soffriva, quali beni sperava: cosí il lettore sará in istato di meglio conoscere
le sue cause e giudicar piú sanamente de' suoi  effetti.  La  Francia,  fin  dal
1789, avea fatta la piú gran rivoluzione di cui ci parli la storia. Non  vi  era
esempio di rivoluzione, che, volendo tutto riformare, avea tutto  distrutto.  Le
altre aveano combattuto  e  vinto  un  pregiudizio  con  un  altro  pregiudizio,
un'opinione con un'altra opinione, un costume con un altro costume: questa  avea
nel tempo istesso attaccato e rovesciato l'altare, il  trono,  i  diritti  e  le
proprietá delle  famiglie,  e  finanche  i  nomi  che  nove  secoli  avean  resi
rispettabili agli occhi de' popoli. La rivoluzione francese, sebbene prevista da
alcuni pochi saggi, ai quali il volgo non suole prestar fede, scoppiò improvvisa
e sbalordí tutta l'Europa. Tutti gli altri sovrani, parte per parentela  che  li
univa a Luigi decimosesto, parte per proprio interesse, temettero un esempio che
potea divenir contagioso. Si credette  facile  impresa  estinguere  un  incendio
nascente. Si sperò molto sui torbidi  interni  che  agitavano  la  Francia,  non
tornando in mente ad alcuno che all'avvicinar  dell'inimico  esterno  l'orgoglio
nazionale avrebbe riuniti tutt'i partiti divisi. Si sperò molto nella  decadenza
delle arti e del commercio, nella mancanza assoluta di tutto, in cui era  caduta
la Francia; si sperò a buon  conto  vincerla  per  miseria  e  per  fame,  senza
ricordarsi che il periglio rende gli entusiasti guerrieri, e  la  fame  rende  i
guerrieri eroi. Una guerra esterna, mossa con eguale ingiustizia ed  imprudenza,
assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile.
L'Inghilterra meditava conquiste immense e vantaggi infiniti nel  suo  commercio
sulla ruina di una nazione che sola allora  era  la  sua  rivale.  La  corte  di
Londra, piú che ogni altra corte di Europa, temer dovea il contagio delle  nuove
opinioni, che si potean dire  quasi  nate  nel  seno  dell'Inghilterra;  e,  per
renderle odiose al popolo inglese, mezzo migliore non  ritrovò  che  risvegliare
l'antica rivalitá nazionale, onde farle odiare, se non come irragionevoli, almen
come francesi. Pitt vedeva che gli abitanti della Gran Brettagna, e specialmente
gl'irlandesi e scozzesi,  eran  disposti  a  fare  altrettanto:  la  rivoluzione
sarebbe scoppiata in Inghilterra, se  gl'inglesi  quasi  non  avessero  sdegnato
d'imitare i francesi(2). L'Inghilterra, sebbene  non  fosse  stata  la  prima  a
dichiarar la guerra, fu però la prima  a  soffiare  il  fuoco  della  discordia.
L'Austria seguí l'invito della sua antica e naturale alleata. Le corti di Europa
non  conoscevano  le  repubbliche.  Dalla  perdita  inevitabile  della   Francia
speravano un guadagno sicuro. La Prussia l'avea giá ottenuto  nel  congresso  di
Pilnitz colla divisione della Polonia. L'Inghilterra e  la  Prussia  mossero  lo
statolder, il quale volea distrarre con una guerra esterna gli animi non  troppo
tranquilli de' batavi, resi da poco  suoi  sudditi,  ed  amava  veder  distrutti
coloro che potevan essere un giorno  non  deboli  protettori  de'  medesimi.  La
Prussia e l'Austria strascinarono i piccoli principi dell'impero, i  quali,  piú
che dalla perdita di pochi, incerti,  inutili  dritti,  che  la  rivoluzione  di
Francia  avea  lor  tolti  in  Alsazia  ed  in  Lorena,  erano  mossi   dall'oro
degl'inglesi, ai quali da lungo tempo erano avvezzi  a  vendere  il  sangue  de'
propri sudditi. Il re di Sardegna seguí  le  vie  di  sua  antica  politica,  ed
avvezzo ad ingrandirsi tra le dissensioni della  Francia  e  dell'Austria,  alle
quali vendeva alternativamente i suoi soccorsi, tenne  sulle  prime  il  partito
della lega, che gli parve  il  piú  forte.  Finalmente  anche  la  Spagna  seguí
l'impulso generale; e la guerra fu risoluta. Si aprí la campagna con grandissime
vittorie degli alleati; ma ben presto furono seguite dai piú terribili  rovesci.
I francesi seppero distaccar la Prussia dalla lega; la quale,  ottenuta  la  sua
porzione di Polonia, comprese  che,  tra  due  potenze  di  prim'ordine  che  si
laceravano e distruggevano a vicenda, suo meglio era quello di rimaner neutrale.
La corte di Spagna s'ingelosí  ben  presto  dell'Inghilterra,  che  sola  voleva
ritrar profitto dalla guerra comune. La condotta  degl'inglesi  in  Tolone  fece
scoppiare il malumore che da lungo tempo covava nel suo seno, e Carlo quarto non
volle piú impiegar le sue forze ad accrescere una nazione che egli dovea  temere
piú della francese. Mentre i suoi eserciti  erano  battuti  per  terra,  le  sue
flotte rimanevano inoperose per mare; mentre i francesi guadagnavano in  Europa,
egli avrebbe potuto aver un compenso in America e dar fine cosí alla guerra  con
una vicendevole restituzione, senza quelle perdite che fu costretto  a  soffrire
per ottenere la pace. Il desiderio de' francesi era appunto quello che molti lor
dichiarassero la guerra e niuno la facesse con tutte le  sue  forze;  cosí  ogni
nuovo nemico dava ai francesi una nuova  vittoria,  e  quella  lega,  che  dovea
abbassarli,  serviva  ad  ingrandirli.  La  guerra  era  ormai  divenuta,   come
nell'antica Roma, indispensabile alla Francia, tra perché teneva luogo di  tutte
le arti e di tutto il commercio, che prima formavano la sussistenza del  popolo,
tra perché un governo quasi sempre fazioso  la  considerava  come  un  mezzo  di
occupare e distrarre gli animi troppo attivi degli  abitanti  ed  allontanare  i
torbidi che soglion fermentar nella pace. Quindi si  sviluppò  quel  sistema  di
democratizzazione universale, di cui i politici si servivan per interesse, a cui
i filosofi applaudivano per soverchia buona fede; sistema che alla  forza  delle
armi riunisce quella dell'opinione, che suol produrre,  e  talora  ha  prodotti,
quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale.

III

STATO D'ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO

In breve tempo  li  francesi  si  videro  vincitori  e  padroni  delle  Fiandre,
dell'Olanda, della Savoia e di tutto l'immenso tratto  ch'è  lungo  la  sinistra
sponda del Reno. Non ebbero però in Italia sí rapidi successi; e le loro  armate
stettero tre anni a' piedi delle Alpi, che non potettero superare, e  che  forse
non avrebbero superate giammai, se il genio di  Bonaparte  non  avesse  chiamata
anche in questi luoghi la vittoria. Quando  l'impresa  d'Italia  fu  affidata  a
Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si trovò alla testa di  un'armata  alla
quale mancava tutto, ma che  era  uscita  dalla  Francia  nel  momento  del  suo
maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza ai disagi ed alle fatiche;  si
trovò alla testa di coraggiosi avventurieri, risoluti di vincere o morire.  Egli
avea tutti i talenti, e quello specialmente di farsi amare  dai  soldati,  senza
del quale ogni altro talento non val nulla.  Se  le  campagne  di  Bonaparte  in
Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani fecero in  paesi  stranieri,
si potranno dir simili solo a quelle colle  quali  conquistarono  la  Macedonia.
Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea  nazione;  molti
altri non ebbero a fronte né generali né nazioni guerriere: solo nella Macedonia
i romani trovarono potenza bene  ordinata,  nazione  agguerrita  ed  audace  per
freschi trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio, sapevano almeno  la
pratica dell'arte. Bonaparte cangiò la tattica, cangiò la pratica  dell'arte;  e
le pesanti evoluzioni  de'  tedeschi  divennero  inutili  come  le  falangi  de'
macedoni in faccia ai romani. Supera le Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il
re di Sardegna, stanco forsi da una guerra di  cinque  anni,  privato  di  buona
porzione de' suoi domini, abbandonato dagli austriaci, ridotti  a  difendere  il
loro paese, a sottoscrivere un armistizio, forse necessario,  ma  al  certo  non
onorevole, ed a cedere a titolo di deposito fino alla  pace  quelle  piazze  che
ancora potea e che difender dovea fino alla morte. Dopo ciò, la campagna non  fu
che una serie continua di vittorie. L'Italia era divisa in tanti piccoli  Stati,
i quali però, riuniti, pur potevano opporre qualche resistenza. Bonaparte fu  sí
destro da dividere i loro interessi. Questa è la  sorte,  dice  Machiavelli,  di
quelle nazioni le quali han giá guadagnata la riputazione delle  armi:  ciascuno
brama la loro amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme. Cosí  i
romani han combattuto sempre i loro nemici ad uno ad uno e li han  vinti  tutti.
Il papa tentò di stringere una lega italica. Concorrevano  volentieri  a  questa
alleanza le corti di Napoli e di  Sardegna,  la  prima  delle  quali  s'incaricò
d'invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i «savi» di  questa  repubblica  alle
proposizioni del residente napolitano risposero che nel senato  veneto  era  giá
quasi un  secolo  che  non  parlavasi  di  alleanza,  che  si  sarebbe  proposta
inutilmente; ma che, se mai la lega fosse stata stretta tra gli altri  principi,
non era difficile che la repubblica vi accedesse. Ma,  quando  il  gabinetto  di
Vienna ebbe cognizione di tali trattative, vi si oppose acremente e  mostrò  con
parole e con fatti che piú della rivoluzione francese temeva l'unione  italiana!
Allora si vide quanto lo stato politico degl'italiani fosse infelice,  non  solo
perché divisi in tanti piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il
piú grave de' mali), ma perché da duecento anni o  conquistati  o,  quel  che  è
peggio, protetti dagli stranieri, all'ombra  del  sistema  generale  di  Europa,
senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli esteri,  tra  la  servitú  e  la
protezione, avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtú  militare.  Noi,  in
questi ultimi tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi  de'
nostri  avi  antichissimi,  i  quali,   riuniti,   conquistarono   tanta   parte
dell'universo, ma neanche quei meno illustri dei tempi a noi piú vicini, quando,
divisi tra noi, ma indipendenti  da  tutto  il  rimanente  dell'Europa,  eravamo
italiani, liberi ed armati. Gli austriaci, rimasti soli, non  poterono  sostener
l'impeto nemico: tutta la Lombardia fu invasa, Mantova  cadde,  ed  essi  furono
respinti fino al Tirolo. Bonaparte era giá  poco  lontano  da  Vienna,  l'Europa
aspettava da momento a momento azioni piú strepitose; quando si vide la  Francia
condiscendere ad una  pace,  colla  quale  essa  acquistava  il  possesso  della
sinistra sponda del Reno  e  dell'importante  piazza  di  Magonza,  e  l'Austria
riconosceva l'indipendenza della repubblica cisalpina, in compenso  della  quale
le si davano i domíni della repubblica veneta.  Questa,  col  risolversi  troppo
tardi alla guerra, altro non avea fatto che dare ai piú  potenti  un  plausibile
motivo di accelerare la sua ruina. Per qual  forza  di  destino  avrebbe  potuto
sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtú ed  ogni
valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e  poscia
avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali,  sentendosi  deboli  a
tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra  sicurezza  che
la debolezza de' sudditi e, piú che ogni nemico esterno, temer doveano la  virtú
de' propri sudditi? Non so che  avverrá  dell'Italia;  ma  il  compimento  della
profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella  vecchia  imbecille
oligarchia veneta, sará sempre per l'Italia un gran bene. Ed io che, tra i  beni
che posson ricevere i popoli, il primo luogo do a quelli della  mente,  cioè  al
giudicar retto, onde vien poi l'oprar virtuoso e  nobile;  io  credo  esser  giá
sommo vantaggio il veder tolto l'antico errore per cui i gentiluomini  veneziani
godevan nelle menti del volgo fama di sapienti reggitori di Stato.  Il  trattato
di Campoformio era vantaggioso a tutt'e due le  potenze  contraenti.  L'Austria,
sopra tutto, vi avea guadagnato massimo; e, se  rimaneva  ancora  qualche  altro
oggetto a determinarsi, era  facile  prevedere  che  a  spese  de'  piú  piccoli
principi di Germania  essa  avrebbe  guadagnato  anche  dippiú.  Ma  era  facile
egualmente prevedere che l'Inghilterra, avendo sola tra gli alleati colla guerra
guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai pensieri di  pace.
Il governo che allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per
poco, rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al  modo
come l'aveano i francesi immaginato,  era  solo  eseguibile  in  un  momento  di
entusiasmo. I romani  mostravan  di  rendere  ai  popoli  gli  ordini  che  essi
bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto  gli  ordini  di  Roma.
Quindi i romani conservarono meglio e piú lungamente l'apparenza  di  liberatori
de' popoli. Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio  per
vendere a piú caro prezzo le sue promesse e le sue  minacce:  eravi  sempre  una
contraddizione tra i proclami de' generali e le negoziazioni de'  ministri,  tra
le parole  date  ai  popoli  e  quelle  date  ai  re;  e,  tra  queste  continue
contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un  traffico  continuo  di
speranze e di timori.  Giá  da  questo  ognuno  prevedeva  che  il  trattato  di
Campoformio avea sol per poco sospesa la democratizzazione di tutta l'Italia. Il
re di Sardegna non era che il ministro della repubblica francese in  Torino;  il
duca di Toscana ed il papa non erano nulla. Berthier finalmente occupò Roma;  la
distruzione di un vecchio governo teocratico non costò che il volerla; tale è lo
stato dell'Italia, che chiunque vuole o salvarla o occuparla  deve  riunirla,  e
non si può riunire senza cangiare il governo di Roma. L'indifferenza colla quale
l'Italia riguardò tale avvenimento mostrò bene qual progresso le nuove  opinioni
avean fatto negli animi degl'italiani.

IV

NAPOLI - REGINA

Rimaneva il regno di Napoli; e forse, almen  per  quel  tempo,  i  francesi  non
aveano né interesse né forza né volontá  di  attaccarlo.  Ma  la  parentela  coi
sovrani  di  Francia,  l'influenza  preponderante  del  gabinetto  inglese,   il
carattere della regina, tutto contribuiva a  fomentare  nella  corte  di  Napoli
l'odio che fin da principio, piú caldo che ogni  altra  corte  di  Europa,  avea
spiegato contro la rivoluzione francese. La regina, nel viaggio che  avea  fatto
per la Germania e per l'Italia in occasione del matrimonio delle sue figlie, era
stata la prima motrice di quella lega  che  poi  si  vide  scoppiare  contro  la
Francia. La forza costrinse la corte di Napoli a sottoscrivere  una  neutralitá,
quando Latouche venne con una squadra in  faccia  alla  stessa  capitale.  Forse
allora temette piú di quel che dovea: se avesse prolungate per due altri  giorni
le trattative, la stagione ed i venti avrebbero fatta vendetta di una flotta che
troppo imprudentemente si era avventurata  entro  un  golfo  pericoloso  in  una
stagione  pericolosissima.  La  presa  di  Tolone  fece  rompere  di  nuovo   la
neutralitá. Al pari delle altre corti, quella di Napoli  inviò  delle  truppe  a
sostenere una sciagurata impresa piú mercantile che  guerriera,  la  quale,  nel
modo in cui fu immaginata e diretta, potea esser utile solo  agl'inglesi.  Nella
primavera seguente inviò due brigate di cavalleria nella Cisalpina  in  soccorso
dell'imperatore: esse si condussero molto bene. Ma le vittorie di  Bonaparte  in
Italia fecero ricadere la corte ne' suoi timori, e si affrettò a conchiudere una
pace nel tempo appunto in cui l'imperatore avea maggior bisogno de' suoi  aiuti;
nel tempo in cui, non presa ancora Mantova, non distrutte ancora tutte le  forze
imperiali in Italia, poteva, facendo avanzar le sue truppe, produrre un  potente
e forse pericoloso diversivo. Il governo francese ad una corte  che  non  sapeva
far la guerra seppe vendere quella pace, che esso avrebbe dovuto e che forse era
pronto a comprare. Perché si ebbe tanta paura della flotta di  Latouche?  Perché
si credeva che in Napoli vi fossero cinquantamila pronti a prender l'armi in  di
lui favore. Non vi era nessuno, nessuno... Qual fu nella  trattativa  di  questa
pace il grande oggetto del quale si occupò la corte di Napoli? La liberazione di
circa duecento scolaretti, che teneva arrestati nelle sue fortezze. Che  non  si
fece, che non si pagò per far sí che il Direttorio non insistesse,  come  allora
era di moda, per la liberazione de' «rei di opinione»? La regina  non  approvava
quella pace, e forse avea ragione;  ma  credette  aver  ottenuto  molto,  avendo
ottenuto il diritto di poter incrudelire inutilmente contro pochi giovinetti che
conveniva disprezzare... Non si perdano mai di vista questi fatti. La  corte  di
Napoli non sapeva né che temere né che sperare: come si  poteva  pretendere  che
agisse saviamente? La corte di Napoli era la corte  delle  irresoluzioni,  della
viltá ed, in conseguenza, delle perfidie. La regina ed il re eran concordi  solo
nell'odiare i francesi; ma l'odio del re  era  indolente,  quello  della  regina
attivissimo: il primo si sarebbe contentato di tenerli lontani, la seconda volea
vederli distrutti. Ne' momenti di pericolo, il re ascoltava i suoi timori e, piú
de' timori, la sua indolenza; al primo favore di fortuna,  al  primo  raggio  di
nuove e liete speranze, per cagione della stessa indolenza, abbandonava di nuovo
gli affari alla regina. Acton  fomentava  nel  re  un'indolenza  che  accresceva
l'imperio suo e della regina; e questa,  per  desiderio  di  comandare,  non  si
avvedeva che Acton turbava tutte le cose e spingeva ad inevitabile rovina il re,
il Regno e lei stessa. La regina era ambiziosa; ma l'ambizione è un vizio o  una
virtú, secondo le vie che sceglie, secondo il bene o il male che  produce.  Ella
venne la prima volta da Germania col disegno d'invadere il trono, né si ristette
finché, per mezzo degl'intrighi e dell'ascendente che una  colta  educazione  le
dava sull'animo del marito, non giunse a  cangiar  tutt'i  rapporti  interni  ed
esterni dello Stato. Il marchese Tanucci  previde  le  funeste  conseguenze  del
genio novatore della giovine regina, e volle opporvisi fin da  quel  momento  in
cui pretese di aver entrata e voto nel Consiglio di Stato. Era questa una novitá
inudita nel regno di Napoli, e molto piú nella famiglia di Borbone, ma la regina
vinse e giurò vendicarsi di Tanucci: né la sua etá, né il suo merito, né li suoi
lunghi e fedeli servizi poterono salvar questo vecchio amico di Carlo  terzo  ed
aio, per cosí dire, di suo figlio dalla umiliazione e dalla disgrazia. Sotto  un
re, debole inimico ed infedele amico, tutti compresero non  esservi  da  temere,
non da sperare, se non dalla regina; e tutti furono a  lei  venduti.  Ella  creò
anche al di fuori nuovi sostegni all'impero. Tutti gl'interessi politici univano
il regno di Napoli a quello di Francia e di Spagna,  e  questi  legami  potevano
formar la felicitá della nazione coi vantaggi del commercio  e  della  pace.  Ma
gl'interessi della nazione poteano bene essere  quelli  del  re,  non  mai  però
quelli della regina: ella volea nuovi rapporti politici, che la sostenessero, se
bisognasse, contro il re e, se fosse possibile, anche  contro  la  nazione.  Noi
diventammo ligi dell'Austria, potenza lontana, dalla  quale  la  nazione  nostra
nulla potea sperare e tutto dovea temere; potenza, la quale, involta in continue
guerre, ci strascinava ogni momento a prender parte negl'interessi altrui, senza
poter mai sperare di veder difesi li  nostri.  La  preponderanza  che  l'Austria
andava acquistando sulle nostre coste offese la Spagna; ma la regina, lungi  dal
temere il suo sdegno, lo fomentò, lo spinse agli estremi, onde  togliere  al  re
ogni via di ravvedimento. I ministri del  re  doveano  esser  i  favoriti  della
regina; ma questa sacrificava sempre i suoi favoriti ai disegni suoi. L'ultimo è
stato il piú fortunato di tutti, non perché avesse piú merito,  ma  perché  avea
piú audacia degli altri, li quali non  combattevano  con  lui  ad  armi  eguali,
perché non si permettevano tutto ciò ch'egli ardiva  fare.  Conservavano  ancora
costoro qualche vecchio sentimento di giustizia, di amicizia, di pubblico  bene:
come contrastare con uno che tutto sacrificava alla distruzione de' suoi  nemici
ed al favore della sua sovrana?(3). Giovanni Acton venne dalla Toscana, cioè  da
uno Stato che non avea marina, a crearne una in Napoli. Avea due  titoli,  oltre
un terzo che gli attribuisce la fama, a meritare il favore  della  regina:  era,
tra' ministri del re, il solo straniero e seppe prima  degli  altri  comprendere
che in Napoli la regina era tutto ed il re era un nulla. Giunse nel tempo in cui
ardevano piú che mai i disgusti colla corte di Spagna. Sambuca, che  allora  era
primo ministro, prese il partito spagnuolo: fu male accorto e vile; perdette  la
grazia della regina e poco dipoi, come era inevitabile, anche quella del re.  Si
vide per poco suo successore Caracciolo: ma  costui,  rotto  dagli  anni  e  per
natura portato all'indolenza, in una corte ove non  si  voleva  il  bene  né  si
soffriva il vero, non fu che l'ombra di un gran nome e serví,  senza  saperlo  o
almeno senza curarlo, a far risplendere Acton, che la regina voleva esaltare, ma
che ancora non poteva vincere  la  riputazione  de'  piú  vecchi.  La  morte  di
Caracciolo diede luogo finalmente ai suoi disegni: Acton  fu  posto  alla  testa
degli affari, il vecchio De Marco confinato ai minuti dettagli  di  casa  reale,
tutti gli altri ministri non  furono  che  creature  di  Acton.  La  sola  parte
d'ingegno, che Acton veramente possedeva, era quella di conoscer gli uomini. Non
vi era alcuno che meglio di lui sapesse definire il carattere  morale  de'  suoi
favoriti.  Riputava  Castelcicala  vile  e  crudele  nella  sua   viltá;   Vanni
entusiasta, ambizioso e crudele  per  furore  quanto  lo  era  Castelcicala  per
riflessione;  Simonetti  e  Corradini  ambedue  uomini  dabbene,  ma  il   primo
indolente, il secondo pedante, ed incapaci ambedue di opporsi a lui. Si serví di
Castelcicala fin da che era ministro in Londra.

V

STATO DEL REGNO - AVVILIMENTO DELLA NAZIONE

Acton e la regina quasi congiurarono insieme per perdere  il  Regno.  La  regina
spiegò il piú alto disprezzo per tutto ciò ch'era nazionale. Si voleva un genio?
Dovea darcisi dall'Arno. Si voleva un uomo dabbene? Dovea venirci dall'Istro. Ci
vedemmo inondati da una folla di stranieri, i quali occuparono tutte le cariche,
assorbirono  tutte  le  rendite  senz'avere  verun  talento  e  verun   costume,
insultarono coloro ai quali rapivano la  sussistenza.  Il  merito  nazionale  fu
obbliato, fu depresso e poté credersi felice quando non fu perseguitato(4). Quel
nobile sentimento di orgoglio, che solo ispira  le  grandi  azioni,  facendocene
credere capaci; quel sentimento, che solo ispira lo spirito  pubblico  e  l'amor
della patria; quel sentimento, che in altri tempi ci fece  esser  grandi  e  che
oggi fa grandi tante altre nazioni di Europa,  delle  quali  fummo  un  tempo  e
maestri e signori, era interamente estinto  presso  di  noi.  Noi  diventammo  a
vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo  piú  nulla.  Tante
volte e sí altamente per venti anni ci era ripetuto che noi non valevamo  nulla,
che quasi si era giunto a farcelo credere. La nazione napoletana sviluppò  prima
una frivola mania per le mode degli esteri. Questo produceva un male  al  nostro
commercio ed alle nostre manifatture: in Napoli un sartore non sapeva cucire  un
abito, se il disegno non fosse venuto da Londra  o  da  Parigi.  Dall'imitazione
delle vesti si passò a quella del costume e delle maniere,  indi  all'imitazione
delle lingue: si apprendeva il francese e l'inglese, mentre era  piú  vergognoso
il non sapere l'italiano(5). L'imitazione delle  lingue  portò  seco  finalmente
quella delle opinioni. La mania per le  nazioni  estere  prima  avvilisce,  indi
ammiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni  amore  per  le
cose sue. La regina fu la prima ad aprir la porta  a  quelle  novitá,  che  ella
stessa poi con tanto furore ha perseguitate. Una nazione, che troppo  ammira  le
cose straniere, alle cagioni di rivoluzione che porta seco il corso politico  di
ogni popolo aggiunge anche quelle degli  altri  popoli.  Quanti  tra  noi  erano
democratici solo perché lo erano  i  francesi?  Sopra  cento  teste  voi  dovete
contare, in ogni nazione, cinquanta donne e quarantotto uomini piú frivoli delle
donne: essi non ragionano in altro modo  che  in  questo:  -  In...  si  pettina
meglio, si veste meglio, si cucina meglio, si parla meglio: la prova n'è che noi
ci pettiniamo, mangiamo, ci vestiamo com'essi fanno. Come è possibile che quella
nazione non pensi e non operi meglio di noi?(6).

VI

INQUISIZIONE DI STATO

I nostri affetti, preso che abbiano un corso, piú non si arrestano. L'odio segue
il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore. La  regina,  che
non amava la nazione, temeva  di  esserne  odiata;  e  questo  affetto,  sebbene
penoso, ha bisogno, al pari di ogni altro,  di  essere  fomentato.  Chiunque  le
parlò male della nazione fu  da  lei  ben  accolto.  Le  novitá  delle  opinioni
politiche accrebbero i suoi sospetti e diedero nuovi  mezzi  ai  cortigiani  per
guadagnare il suo cuore. Acton non mancò  di  servirsene  per  perder  Medici  e
qualche altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il  freno  e  si  portò  la
desolazione nel seno di tutte le famiglie. Un esempio. I  nostri  giovinetti  in
quegli anni aveano per moda di far delle  corse  a  cavallo  per  Chiaia  ed  ai
Bagnuoli. Si dette a credere ad Acton, o piuttosto Acton  volle  dar  a  credere
alla corte, che essi volessero rinnovare le corse olimpiche. Qual  rapporto  tra
le corse de' nostri giovani napolitani e  quelle  de'  greci?  E,  quando  anche
quelle fossero state un'imitazione di queste, qual male?  qual  pericolo?  Acton
intanto incaricò la polizia di vegliare  su  queste  corse,  come  se  si  fosse
trattato della marcia di venti squadroni nemici che piombassero sulla  capitale.
Alcuni giovani entusiasti, ripieni la testa delle nuove  teorie,  leggevano  ne'
fogli periodici gli avvenimenti della rivoluzione francese e ne parlavano tra di
loro o, ciocché val molto meno, ne parlavano alle loro  innamorate  ad  ai  loro
parrucchieri. Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza  grado,
senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu eretto un tribunale di
sangue col nome di «Giunta di Stato» per giudicarli, come se avessero giá ucciso
il re e rovesciata la costituzione. Pochi magistrati, tra coloro che componevano
la Giunta, amanti veracemente del re e della patria, vedendo che  il  primo,  il
vero, il solo delitto di Stato era quello di seminar diffidenze tra il sovrano e
la nazione, ardirono prendere la difesa dell'innocenza e proporre al re  che  la
pena de' rei di Stato mal si applicava a pochi giovani inesperti, i quali non di
altro delitto eran rei che di aver parlato di ciò che era meglio tacere, di aver
approvato ciò che era meglio esaminare; delitto di giovani, i quali si sarebbero
corretti coll'etá e  coll'esperienza,  che  avrebbe  smentite  le  brillanti  ma
fallaci teorie onde erano  le  loro  menti  invasate.  I  mali  di  opinione  si
guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai
i  filosofi.  Ma,  se  voi  perseguitate  le  opinioni,  allora  esse  diventano
sentimenti; il sentimento produce l'entusiasmo;  l'entusiasmo  si  comunica;  vi
inimicate chi soffre la persecuzione, vi inimicate chi  la  teme,  vi  inimicate
anche l'uomo indifferente che la condanna; e finalmente l'opinione  perseguitata
diventa generale e trionfa. Ma, ove si  tratta  di  delitto  di  Stato,  le  piú
evidenti ragioni rimangono inefficaci.  Imperciocché  di  rado  un  tal  delitto
esiste, e di rado avviene che  un  uomo  attenti  con  atto  non  equivoco  alla
costituzione o al sovrano di una nazione: il piú delle volte si tratta di parole
che vaglion meno delle minacce, o di pensieri  che  vagliono  anche  meno  delle
parole. Tali cose vagliono quanto le fa valere il timore di chi regna(7). Guai a
chi ha ascoltato una volta le voci del timore! Quanto piú ha temuto,  piú  dovrá
temere. Molto temeva la regina di Napoli, ed Acton voleva che temesse di piú. Le
frequenti impressioni di sospetti e di timori, che aveva sofferte, avevano quasi
alterato il di lei fisico e turbata interamente la serie e l'associazione  delle
sue idee. Persone degne di fede mi narrano che non senza pericolo di dispiacerle
taluno le attestava la fedeltá de' sudditi suoi.  Si  volle  del  sangue,  e  se
n'ebbe. Furono condannati a morte tre infelici, tra' quali il virtuoso Emmanuele
de Deo, a cui si fece offrire la vita purché rivelasse i suoi complici, e che in
faccia all'istessa morte seppe preferirla all'infamia. Ecco un  esempio  di  ciò
che possa e che produca il timore negli animi, una  volta  turbati.  Nel  giorno
dell'esecuzione della sentenza si presero quelle precauzioni che altre volte  si
erano trascurate e che anche allora erano superflue. Si  temeva  che  il  popolo
volesse salvare tre sciagurati, che appena conosceva; si temeva una sedizione di
circa cinquantamila rivoluzionari, che per lo meno  si  diceva  dover  esser  in
Napoli.  Intanto,  le  truppe  che  quasi  assediavano  la  cittá,  gli   ordini
minaccevoli del governo, tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque  moto
piú leggiero, che in altri tempi sarebbe stato  indifferente,  doveva  turbarlo;
temeva i sollevatori, temeva gli ordini del governo, temeva tutto; ed il  minimo
timore dovea produrre, come difatti  produsse,  in  una  gran  massa  di  popolo
un'agitazione tumultuosa. Cosí i sospetti del governo rendono piú sospettoso  il
popolo. Da quell'epoca il popolo napolitano, che prima quasi si conteneva da  se
stesso senza veruna polizia, fu piú difficile a maneggiarsi; tutte le  pubbliche
feste  furono  fatte  con  maggiori  precauzioni,  ma  non  furono  perciò   piú
tranquille. Si sciolse la prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da
tanti orrori; ma, pochi mesi dopo, si vide in campo una nuova  congiura  ed  una
Giunta piú terribile della prima. Si vollero allontanati tutti  que'  magistrati
che conservavano ancora qualche sentimento di giustizia e di umanitá. Si  mostrò
di volere i scellerati, ed i scellerati corsero in folla.  Castelcicala,  Vanni,
Guidobaldi si misero alla loro testa. La  nazione  fu  assediata  da  un  numero
infinito di spie e di delatori, che contavano i passi, registravano  le  parole,
notavano il colore del volto, osservavano finanche i  sospiri.  Non  vi  fu  piú
sicurezza. Gli odii privati trovarono una strada sicura per ottener la vendetta,
e coloro che non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro  medesimi,  che
la sete dell'oro e l'ambizione aveva venduti ad Acton ed a  Vanni.  Che  si  può
difatti conservare di buono in una nazione, dove chi regna non dá le  ricchezze,
le cariche, gli onori se non ai delatori? dove, se si presenta un uomo onesto  a
chiedere il premio delle sue fatiche o delle sue virtú, gli si risponde che  «si
faccia prima del merito»? Per «farsi del merito» s'intendeva  divenir  delatore,
cioè formar la ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito aveano tanti,
i nomi de' quali la giusta vendetta della  posteritá  non  deve  permettere  che
cadano nell'obblio. La regina, indispettita contro un sentimento di virtú che la
massima parte della nazione ancora conservava, diceva  pubblicamente  che  «ella
sarebbe un giorno giunta a  distruggere  quell'antico  pregiudizio  per  cui  si
reputava infame il mestiere di delatore». Tutte queste e molte altre simili cose
si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in picciola parte vere,  pel
maggior numero false e finte per odio. Ma queste cose, o vere o false che sieno,
sono sempre dannose quando e si dicono da molti e da molti  si  credono,  perché
rendono piú audaci gli scellerati e piú timidi i buoni. Che se esse  son  false,
meritano doppiamente la pubblica esecrazione que' ministri i  quali  colla  loro
condotta dánno occasione a dirle e ragione a crederle. Per  cagioni  intanto  di
queste voci, una parte della nazione si armò contro l'altra; non vi  furono  piú
che spie ed uomini onesti, e chi era onesto era in conseguenza  un  «giacobino».
Vanni avea detto mille volte alla regina che il Regno era  pieno  di  giacobini:
Vanni volle apparir veridico, e colla sua condotta  li  creò.  Tutt'i  castelli,
tutte le carceri furono ripiene d'infelici. Si gittarono in  orribili  prigioni,
privi di luce e di tutto ciò ch'era necessario alla vita, e  vi  languirono  per
anni, senza poter ottenere né la loro assoluzione né  la  loro  condanna,  senza
neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi tutti, dopo  quattro
anni, uscirono liberi, come innocenti; e  sarebbero  usciti  tutti,  se  non  si
fossero loro tolti i legittimi mezzi di difesa. Vanni, che era allor il direttor
supremo di tali affari, non si curava piú di chi era giá in carcere; non pensava
che a carcerarne degli  altri:  ardí  dire  che  «almeno  dovevano  arrestarsene
ventimila». Se il fratello, se il figlio, se il padre, se la moglie  di  qualche
infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione della di lui sorte,  un
tal atto di umanitá si ascriveva a delitto. Se si ricorreva al re e  che  il  re
qualche volta ne chiedeva conto a Vanni, ciò anche era inutile, perché per Vanni
rispondeva la regina, la quale credeva che Vanni  operasse  bene.  Vanni  diceva
sempre che vi erano  altre  fila  della  congiura  da  scoprire,  altri  rei  da
arrestare; e la regina tutto approvava, perché temeva sempre altri rei ed  altre
congiure. Vanni, il quale meglio di ogni altro sapeva  con  quali  arti  si  era
ordita un'inquisizione, diretta piú a fomentare i  timori  della  regina  che  a
calmarli, tremava ogni volta che gli si parlava di esame e di sentenza. Ei volea
trovare il reo, e temea che si fosse ricercata la veritá(8).  Sembrerá  a  molti
inverisimile tutto ciò che io narro di Vanni. E difatti il carattere  morale  di
quell'uomo era singolare. Egli riuniva  un'estrema  ambizione  ad  una  crudeltá
estrema e, per colmo delle sciagure dell'umanitá, era un entusiasta. Ogni affare
che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva sempre apparir  piú  grande
di tutti gli affari. Uomini tali sono sempre funesti, perché, non potendo o  non
sapendo soddisfare l'ambizione loro con azioni veramente grandi, si sforzano  di
fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare,  e  le  corrompono.
Vanni incominciò ad acquistar  fama  di  giudice  integro  e  severissimo  colla
condotta che tenne col principe di Tarsia, il quale era stato per  qualche  anno
direttore della fabbrica di seterie che il re avea stabilita in San  Leucio.  Il
primo errore forse lo commise il re,  affidando  tale  impresa  al  principe  di
Tarsia anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu  di  Tarsia,  il  quale,  non
essendo fabbricante, non dovea accettar tale commissione. Ne avvenne quello  che
ne dovea avvenire. Tarsia era un  onestissimo  cavaliere,  cioè  un  onestissimo
spensierato, incapace di malversare un  soldo,  ma  incapace  al  tempo  istesso
d'impedir che gli altri malversassero. Si trovò ne' conti una mancanza di  circa
cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di liquidare  i  conti.  Non
eravi affare piú semplice, perché Tarsia era un uomo che poteva e voleva pagare.
Pure Vanni prolungò l'affare non so per quanti anni: cadde il trono, e  l'affare
di Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto non eravi genere di  vessazioni  e
d'insulti ai quali non sottoponesse la famiglia di Tarsia, perché, dicesi,  tale
era l'intenzione di Acton. Gli uomini di buon  senso,  alcuni  dicevano:  -  Che
imbecille! - altri: - Che impostore! - Ma nella corte  si  faceva  dire:  -  Che
giudice integro! Con quanto zelo, con quanta fermezza affronta  il  principe  di
Tarsia, un grande di  Spagna,  un  grande  officiale  del  palazzo!  -  Come  se
l'ingiustizia che si commette contro i grandi non  possa  derivar  dalle  stesse
cagioni ed essere egualmente vile che quella che si commette contro i  piccioli.
Si avea bisogno d'un inquisitor di Stato, e  si  scelse  Vanni  per  la  ragione
istessa per la quale non si avrebbe dovuto scegliere. La prima volta  che  Vanni
entrò nell'assemblea de'  magistrati  che  dovean  giudicare,  si  mostrò  tutto
affannato,  cogli  occhi  mezzo  stralunati,  e,  raccomandando  ai  giudici  la
giustizia, soggiunse: - Son due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli che
ha corsi il mio re. - «Il mio re»: questo era  il  modo  col  quale  egli  usava
chiamarlo dopo che gli fu affidata l'inquisizione di Stato. - Il  vostro  re!  -
gli disse un giorno il presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile  e  per
la carica e per cento anni di vita irreprensibile - il  vostro  re!  Che  volete
intender mai con questa parola, che, sotto apparenza  di  zelo,  nasconde  tanta
superbia? E perché non dite «il nostro re»? Egli è re  di  tutti  noi,  e  tutti
l'amiamo egualmente. - Queste poche parole bastano  per  far  giudicare  di  due
uomini; ma, in un governo debole, colui che pronunzia piú alto «il mio re» suole
vincere chi si contenta di dire «il nostro re». Lo sguardo di Vanni  era  sempre
riconcentrato in se stesso; il colore  del  volto  pallido-cinereo,  come  suole
essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi  a  salti,
il passo insomma della tigre: tutte le sue  azioni  tendevano  a  sbalordire  ed
atterrire gli altri; tutt'i suoi affetti atterrivano e sbalordivano lui  stesso.
Non ha potuto abitar di piú di un anno in una  stessa  casa,  ed  in  ogni  casa
abitava al modo che narrasi de' signorotti di Fera e di Agrigento.  Ecco  l'uomo
che dovea salvare il Regno! Ma la macchina  di  quattro  anni  dovea  finalmente
sciogliersi. Gl'interessati fremevano; gli uomini di buon senso ridevano di  una
nuova specie di delitto di Stato che in quattro anni d'inquisizione non  si  era
ancora scoperto; nel popolaccio istesso andava raffreddandosi quel caldo che nei
primi tempi avea mostrato contro i rei, e quasi incominciava a sentir  pietá  di
tanti  infelici,  i  quali  non  vedendo  condannati,  incominciava  a   credere
innocenti.  Acton,  che   da   principio   era   stato   il   principal   autore
dell'inquisizione, dopo averne usato quanto bastava ai suoi  disegni,  vedendola
innoltrar piú di quel che conveniva e non volendo e non potendo arrestarla, avea
ceduto il suo luogo a Castelcicala. Costui,  il  piú  vile  degli  uomini,  avea
bisogno, per guadagnare il favore della regina, di quel  mezzo  che  Acton  avea
adoperato solo per atterrare i suoi rivali, ed in  conseguenza  dovea  spingerne
l'abuso piú oltre, e lo spinse. Fece di tutto perché la cabala non si scoprisse:
giunse ad imputare a delitto la religiositá di coloro che diedero il voto per la
veritá; giunse a minacciare un castigo agli avvocati da  lui  stesso  destinati,
perché difendevano i rei con zelo. Ma la nazione era oppressa e non corrotta, e,
se diede grandi esempi di pazienza, ne diede  anche  moltissimi,  ed  egualmente
splendidi, di virtú. Nulla potette smuovere la costanza de' giudici  e  lo  zelo
degli avvocati. Quando si vide la veritá trionfare, ed uscir liberi quei che  si
volevano morti, Castelcicala, per giustificarsi agli occhi del  pubblico  e  del
re, il quale finalmente si era occupato di un tal affare, immolò Vanni, e  tutta
la colpa ricadde sopra costui. Vanni avea accusati al re  tutti  i  giudici,  il
presidente del Consiglio Mazzocchi, Ferreri, Chinigò, gli  uomini  forse  i  piú
rispettabili che Napoli avesse e per dottrina e per integritá e per attaccamento
al proprio sovrano; e un momento forse  si  dubitò  se  dovessero  esser  puniti
questi tali o Vanni. Se Vanni rimaneva vincitore, avrebbe compíta l'opera  della
perdita del Regno  e  della  rovina  del  trono.  Per  buona  sorte  era  giunto
all'estremo, e rovinò se stesso per  aver  voluto  troppo.  Ma,  prima  che  ciò
avvenisse, di quanti altri uomini utili  avrebbe  privato  lo  Stato,  e  quanti
fedeli servitori avrebbe tolti al re? Quando anche  il  rovescio  del  trono  di
Napoli non fosse avvenuto per effetto della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a
cagionarlo, e lo avrebbe fatto. Vanni fu deposto ed esiliato dalla capitale:  si
tentò di raddolcire in segreto il suo esilio, ma invano.  L'anima  ambiziosa  di
Vanni cadde in un furore melanconico, il quale finalmente lo spinse a  darsi  da
se stesso  una  morte,  che,  per  soddisfazione  della  giustizia  e  per  bene
dell'umanitá, avrebbe meritato da altra mano e molto tempo prima. La  sua  morte
precedette di poco l'entrata de' francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta
alla corte un asilo in Sicilia, e gli  era  stato  negato.  Prima  di  uccidersi
scrisse un biglietto, in cui diceva:  «L'ingratitudine  di  una  corte  perfida,
l'avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di asilo mi han  determinato
a togliermi una vita che ormai mi è di peso. Non  s'incolpi  nessuno  della  mia
morte; ed il mio esempio serva a render saggi gli altri inquisitori  di  Stato».
Ma gli altri inquisitori di Stato risero della sua morte, ne rise  Castelcicala;
e l'inquisizione continuò collo stesso furore, finché i francesi  non  furono  a
Capua.

VII

CAGIONI ED EFFETTI DELLA PERSECUZIONE

Io mi arresto; la mia mente inorridisce alla memoria di tanti orrori.  Ma  donde
mai è nato tanto furore negli animi de' sovrani d'Europa contro  la  rivoluzione
francese? Molte altre nazioni aveano cangiata forma di governo; non vi  è  quasi
secolo che  non  conti  un  cangiamento:  ma  né  quei  cangiamenti  aveano  mai
interessati altri che le corti direttamente offese,  né  aveano  prodotto  nelle
altre nazioni alcun sospetto ed alcuna persecuzione. Pochi anni prima,  i  saggi
americani avean fatta una rivoluzione poco diversa dalla francese, e la corte di
Napoli vi avea pubblicamente  applaudito:  nessuno  avea  temuto  allora  che  i
napolitani volessero imitare i rivoluzionari della  Virginia.  Il  pericolo  de'
sovrani è forse cresciuto in proporzione de' loro timori?  I  francesi  illusero
loro stessi sulla natura della loro  rivoluzione,  e  credettero  effetto  della
filosofia quello  che  era  effetto  delle  circostanze  politiche  nelle  quali
trovavasi la loro nazione. Quella Francia, che ci si presentava come un  modello
di  governo  monarchico,  era  una  monarchia  che  conteneva  piú  abusi,   piú
contraddizioni: la rivoluzione non  aspettava  che  una  causa  occasionale  per
iscoppiare. Grandi cause occasionali furono la debolezza del re, l'alterigia, or
prepotente or debole anch'essa, della regina  e  di  Artois,  l'ambizione  dello
scellerato ed inetto Orléans, il debito delle finanze, Necker,  l'Assemblea  de'
notabili e, molto  piú,  gli  Stati  generali.  Ma,  prima  che  queste  cagioni
esistessero, eravi giá antica infinita  materia  di  rivoluzione  accumulata  da
molti secoli: la Francia riposava sopra  una  cenere  fallace,  che  copriva  un
incendio devastatore. Tra tanti che hanno scritta la  storia  della  rivoluzione
francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento,
ricercandole, non giá ne' fatti degli uomini, i quali possono modificare solo le
apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel  corso  che  solo  ne
determina la natura? La leggenda  delle  mosse  popolari,  degli  eccidi,  delle
ruine, delle varie opinioni, de' vari partiti,  forma  la  storia  di  tutte  le
rivoluzioni, e non giá di quella di Francia, perché nulla ci dice di quello  per
cui la rivoluzione di Francia differisce  da  tutte  le  altre.  Nessuno  ci  ha
descritto una monarchia assoluta, creata da  Richelieu  e  rinforzata  da  Luigi
decimoquarto in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte  le  altre  di
Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talché, mentre tutti
gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni,  quello
di Francia avea nel tempo istesso nemici ed i feudatari,  ivi  piú  potenti  che
altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse  costituzioni  che  ogni
provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti  del  regno;  una
nobiltá singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella  delle  altre
nazioni, era piú numerosa, ed a cui apparteneva  chiunque  voleva,  talché  ogni
uomo, appena che fosse ricco, diventava nobile, ed il popolo perdea cosí financo
la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa  e  che  non
credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col  re  e  col  papa;  i
gradi militari di privativa de' nobili, i civili venali ed  ereditari,  in  modo
che all'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a  sperare;  le  dispute  che
tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva
e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non  ne
avevano altro, e che erano moltissimi; la discussione delle opinioni  a  cui  le
dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, poiché  su
di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima persecuzione
e la massima intolleranza per parte del clero e della corte,  nell'atto  che  si
predicava la massima tolleranza dai filosofi; quindi la  massima  contraddizione
tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra
una parte della nazione ed un'altra; contraddizione che  dovea  produrre  l'urto
vicendevole di tutte le parti, uno stato di violenza nella nazione intera, ed in
séguito o il languore della distruzione o lo scoppio di una rivoluzione.  Questa
sarebbe stata la storia degna di Polibio(9). La Francia avea nel  tempo  istesso
infiniti abusi da riformare. Quanto maggiore è il numero degli abusi, tanto  piú
astratti debbono essere i princípi della riforma ai  quali  si  deve  rimontare,
come quelli che debbono comprendere maggior numero di idee speciali. I  francesi
furono costretti a dedurre i princípi  loro  dalla  piú  astrusa  metafisica,  e
caddero nell'errore nel qual cadono per l'ordinario gli uomini che seguono  idee
soverchiamente astratte, che è quello di confonder le proprie idee  colle  leggi
della natura. Tutto ciò che avean fatto o volean fare credettero esser dovere  e
diritto di tutti gli uomini. Chi paragona la Dichiarazione de' diritti dell'uomo
fatta in America a quella fatta in Francia, troverá che la prima parla ai sensi,
la seconda vuol parlare alla  ragione:  la  francese  è  la  formola  algebraica
dell'americana. Forse quell'altra Dichiarazione che  avea  progettata  Lafayette
era molto migliore. Idee tanto astratte portano  seco  loro  due  inconvenienti:
sono piú facili ad eludersi dai scellerati,  sono  piú  facili  ad  adattarsi  a
tutt'i capricci de' potenti; i turbolenti e faziosi vi  trovano  sempre  di  che
sostenere le loro pretensioni le  piú  strane,  e  gli  uomini  dabbene  non  ne
ricevono veruna protezione. Chi guarda il corso della  rivoluzione  francese  ne
sará convinto. I sovrani credettero, come i francesi, che  la  loro  rivoluzione
fosse  un  affare  di  opinione,  un'opera  di  ragione,  e  la  perseguitarono.
Ignorarono le cagioni vere della rivoluzione francese e ne temettero gli effetti
per quello stesso motivo per il quale non avrebbero  dovuto  temerli.  Quando  e
dove mai la ragione ha avuto una setta? Quanto piú astratte sono le  idee  della
riforma, quanto piú rimote dalla fantasia e da' sensi, tanto meno  sono  atte  a
muovere un popolo. Non l'abbiamo noi veduto in Italia, in Francia  istessa?  Nel
modo in cui i francesi aveano esposti i santi princípi dell'umanitá,  tanto  era
sperabile che gli altri popoli si rivoluzionassero, quanto sarebbe credibile che
le nostre pitture di  ruote  di  carozze  si  perfezionino  per  i  princípi  di
prospettiva dimostrati col calcolo differenziale  ed  integrale.  Se  il  re  di
Napoli avesse conosciuto lo stato della sua nazione, avrebbe capito che non  mai
avrebbe essa né potuto né voluto imitar gli esempi della Francia. La rivoluzione
di Francia s'intendeva da pochi, da pochissimi si approvava,  quasi  nessuno  la
desiderava; e, se vi era taluno che la desiderasse, la desiderava invano, perché
una rivoluzione non si può fare senza il popolo, ed il popolo non  si  move  per
raziocinio, ma per bisogno. I bisogni della nazione napolitana eran  diversi  da
quelli della francese: i raziocini de' rivoluzionari eran divenuti tanto astrusi
e tanto furenti, che non li potea piú comprendere. Questo pel popolo. Per quella
classe poi che era superiore al popolo, io credo, e  fermamente  credo,  che  il
maggior  numero  de'  medesimi  non  avrebbe  mai  approvate   le   teorie   dei
rivoluzionari di Francia. La scuola delle scienze morali  e  politiche  italiane
seguiva altri princípi. Chiunque  avea  ripiena  la  sua  mente  delle  idee  di
Machiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva né prestar fede  alle  promesse  né
applaudire alle operazioni de' rivoluzionari di Francia, tostoché  abbandonarono
le idee della monarchia costituzionale. Allo stesso modo  la  scuola  antica  di
Francia, quella per esempio di Montesquieu,  non  avrebbe  applaudito  mai  alla
rivoluzione. Essa  rassomigliava  all'italiana,  perché  ambedue  rassomigliavan
molto alla greca e  latina.  In  una  rivoluzione  è  necessitá  distinguere  le
operazioni dalle massime. Quelle sono figlie delle  circostanze,  le  quali  non
sono mai simili presso due popoli; queste sono sempre  piú  diverse  di  quelle,
perché il numero delle idee è sempre molto maggiore di quello  delle  operazioni
ed, in conseguenza, piú facile la diversitá, piú  difficile  la  rassomiglianza.
Non vi è popolo il quale non conti nella sua storia molte rivoluzioni: quando se
ne paragonano le operazioni, esse si trovan somiglianti: paragonate le idee e le
massime, si trovano sempre diversissime. Chiunque vede una  rivoluzione  in  uno
Stato vicino deve temere o delle operazioni o delle idee. I  mezzi  per  opporsi
alle operazioni sono tutti militari: qualunque sieno  le  idee  che  due  popoli
seguono, vincerá quello che saprá meglio far la guerra; e quello la fará meglio,
che avrá migliori ordini, piú amor di patria, piú valore e  piú  disciplina.  Il
mezzo per opporsi al contagio delle idee (lo  dirò  io?)  non  è  che  un  solo:
lasciarle conoscere e discutere quanto piú sia possibile.  La  discussione  fará
nascere le idee contrarie: è effetto dell'amor proprio: due uomini  sono  sempre
piú concordi al principio della discussione che alla fine. Nate una volta queste
massime contrarie, prenderanno il carattere di massime nazionali;  accresceranno
l'amor della patria, perché quelle nazioni piú ne  hanno  che  piú  differiscono
dalle altre: accresceranno l'odio contro le nazioni straniere, la fiducia  nelle
proprie forze, l'energia nazionale; non solamente si eviterá il  contagio  delle
opinioni, ma si riparerá anche alla forza delle operazioni. Mi si  dice  che  il
marchese del  Gallo,  quando  ebbe  letto  l'elenco  di  coloro  che  trovavansi
arrestati per cospiratori, ridendone al pari di tutti i buoni, propose al re  di
mandarli viaggiando. - Se son giacobini - egli diceva, - mandateli  in  Francia:
ne ritorneranno realisti.- Questo consiglio è pieno di ragione e di buon  senso,
e fa onore al cuore ed alla mente del marchese del Gallo. Vince una  rivoluzione
colui che meno la teme. I sovrani colla persecuzione fanno  diventar  sentimenti
le idee, ed i sentimenti si cangiano in sètte: il loro  timore  li  tradisce,  e
cadono talora vittime delle stesse loro precauzioni eccessive. Si proibirono  in
Napoli tutti i fogli periodici: si voleva  che  il  popolo  non  avesse  neanche
novella de' francesi. Cosí un oggetto, che, osservato da vicino, avrebbe destato
pietá o riso, fu come il  fascio  di  sarmenti  di  Esopo,  che  dall'alto  mare
sembrava un vascello. Un'indomabile curiositá ne spinge a  voler  conoscere  ciò
che ci si nasconde, e l'uomo suppone sempre piú belle e piú  buone  quelle  cose
che sono coperte da un velo. Ma io immagino talora, invece de' nostri re,  nelle
crisi attuali dell'Europa, Filippo di Macedonia. La Grecia a' di lui  tempi  era
divisa tra i spartani ed ateniesi, i quali facevano la guerra  per  opinioni  di
governo ed uniti ai filosofi, che in  quell'epoca  discutevano  le  costituzioni
greche, come appunto oggi li nostri filosofi discutono le nostre,  stancavano  i
greci con  guerre  sanguinose  e  con  cavillose  dottrine.  Cosí  sempre  suole
avvenire: tra le varie rivoluzioni si obbliano le antiche  idee,  si  perdono  i
costumi e, ridotte una volta le cose a tale stato, gli intriganti, tra' quali  i
potenti tengono il primo luogo, guadagnano sempre, perché alla fine i popoli  si
riducono a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento; e  cosí  il
massimo amore della libertá, producendo l'esaltazione de' princípi, ne  accelera
la distruzione e rimena una piú dura servitú. Filippo con  tali  mezzi  acquistò
l'impero della Grecia. È una disgrazia pel genere umano quando la  guerra  porta
seco il cambiamento o della forma di governo o della religione: allora perde  il
suo oggetto vero, che è la difesa di  una  nazione,  ed  ai  mali  della  guerra
esterna si aggiungono i mali anche piú terribili dell'interna. Allora lo spirito
di partito rende la persecuzione necessaria, e  la  persecuzione  fomenta  nuovo
spirito di partito; allora sono que' tempi  crudeli  anche  nella  pace.  L'alta
Italia ci ha rinnovati gli stessi esempi di  Sparta  ed  Atene,  quando  le  sue
repubbliche, invece di restringersi a difender la loro  costituzione,  sotto  il
nome or di guelfi or di ghibellini, vollero riformare  l'altrui;  e  gli  stessi
errori ebbero nell'Italia gli stessi effetti. Scala, Visconti,  Baglioni,  ecc.,
rinnovarono gli esempi di Filippo. Tali epoche politiche sono meno contrarie  di
quello che si crede ai sovrani che sanno regnare. Ma in tali epoche vince sempre
il piú umano, ed io oso dire  il  piú  giusto.  Oggi  i  repubblicani  sono  piú
generosi e perdonano ai realisti; i re con una stolta crudeltá non dánno  veruna
tregua ai repubblicani: questo fará sí che essi avranno in breve freddi amici ed
accaniti nemici. Quando l'armata del pretendente scese  in  Inghilterra,  faceva
impiccare tutt'i prigionieri di Hannover; Giorgio  liberava  tutt'i  prigionieri
del pretendente: questo solo fatto,  dice  molto  bene  Voltaire,  basta  a  far
decidere della giustizia de' due partiti, pronosticare la loro sorte futura(10).

VIII

AMMINISTRAZIONE

Mentre da una parte con tali  arti  si  avviliva  e  si  opprimeva  la  nazione,
dall'altra si  ammiseriva  col  disordine  in  tutt'i  rami  di  amministrazione
pubblica. La nazione napolitana dalla  venuta  di  Carlo  terzo  incominciava  a
respirare dai mali incredibili che per due secoli di  governo  viceregnale  avea
sofferti. Fu abbassata l'autoritá  de'  baroni,  che  prima  non  lasciava  agli
abitanti né proprietá  reale  né  personale.  Si  resero  certe  le  imposizioni
ordinarie con un nuovo catasto, il quale, se non era il migliore che si  potesse
avere, era però il migliore che fino a quel tempo si fosse  avuto,  e  si  abolí
l'uso delle imposizioni straordinarie che, sotto il nome  di  «donativi»,  avean
tolte somme immense alla nazione, passate senza ritorno nella Spagna(11). Libera
la nazione dalle oppressioni de' baroni, dalle avanie del fisco,  dalla  perenne
estrazione di denaro, incominciò a sviluppare la sua attivitá: si vide risorgere
l'agricoltura, animarsi il commercio;  la  sussistenza  divenne  piú  agiata,  i
spiriti piú colti, gli animi piú dolci. L'esserci noi separati dalla  Spagna,  e
l'essersi la Spagna tolta alla famiglia di Austria e data a quella  di  Borbone,
ed il patto di famiglia avean reso  alla  nostra  nazione  quella  pace  di  cui
avevamo bisogno per ristorarci dai mali sofferti; e la  neutralitá,  che  ci  fu
permessa di serbare nell'ultima guerra tra la Spagna, la Francia e l'Inghilterra
per le  colonie  americane,  prodotto  avea  nella  nostra  nazione  un  aumento
considerabile  di  ricchezze.   In   cinquant'anni   avevamo   fatti   progressi
rapidissimi, e vi era ragione di sperare di doverne fare anche di piú. La nostra
nazione passava, per cosí dire, dalla fanciullezza alla sua gioventú. Ma  questo
stato di adolescenza politica è appunto lo stato piú pericoloso e quello da  cui
piú facilmente si ricade nel languore e nella  desolazione.  Le  nazioni  escono
dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo cosí la sussistenza  sicura:
non passano alla coltura se non accrescendo i loro  bisogni.  Ma  i  bisogni  si
sviluppano piú rapidamente delle forze, tra perché  essi  dipendono  dalle  sole
nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci le  loro  forze,  ci
comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli ordini ed i vizi loro, il che
per noi diventa sorgente di nuovi bisogni; e, se allora, crescendo  questi,  non
si pensa anche ad accrescer le nostre forze, noi non avremo mai quell'equilibrio
di forze e di bisogni, nel che solo  consiste  la  sanitá  degl'individui  e  la
prosperitá delle nazioni: i passi che faremo verso la coltura  non  faranno  che
renderci servi degli stranieri, ed una coltura precoce e sterile  diventerá  per
noi piú nociva della barbarie. Uno Stato che non fa tutto ciò  che  può  fare  è
ammalato. Tale era lo stato di tutta l'Italia; e questo stato era piú pericoloso
per Napoli, perché piú risorse avea dalla natura e piú estesa era la sfera della
sua attivitá. Ma il governo di Napoli avea perduto gran parte delle  sue  forze,
sopprimendo lo sviluppo delle facoltá individuali coll'avvilimento dello spirito
pubblico: tutto rimaneva a fare al governo, ed il governo non sapea  far  nulla,
né potea far tutto. Le nazioni ancora  barbare  amano  di  essere  sgravate  dai
tributi, perché non hanno desidèri superflui; le nazioni colte si contentano  di
pagar molto, purché quest'aumento di tributo accresca la  forza  e  migliori  la
sussistenza nazionale. Il segreto di una buona amministrazione è di far crescere
la riproduzione in proporzione dell'esazione: non è tanto la somma de'  tributi,
quanto l'uso de' medesimi per rapporto alla nazione,  quello  che  determina  lo
stato delle sue finanze(12). Un governo savio ed  attivo  avrebbe  corretti  gli
antichi abusi di amministrazione, avrebbe  sviluppata  l'energia  nazionale,  ci
avrebbe esentati dai vettigali che pagavamo agli esteri per le loro manifatture,
avrebbe protette le nostre arti, migliorate  le  nostre  produzioni,  esteso  il
nostro commercio: il governo sarebbe divenuto piú ricco  e  piú  potente,  e  la
nazione piú felice. Questo  era  appunto  quello  che  la  nazione  bramava(13).
L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual «progettista»
egli  si  spacciò  e  qual  «progettista»  fu  accolto;  ma  i  suoi   progetti,
ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di  nuove  ruine,
perché cagioni di nuove inutili spese. Acton  ci  voleva  dare  una  marina.  La
natura avea formata la nazione per la marina, ma non aveva formato Acton per  la
nazione. La marina dovea prima di tutto proteggere  quel  commercio  che  allora
avevamo, il quale, essendo di derrate e quasi tutte privative del Regno, o  poca
o niuna gelosia dar potea alle altre nazioni, le quali per lo piú  un  commercio
aveano di manifatture. I nostri nemici erano i barbareschi, contro i  quali  non
valeva tanto la marina grande  quanto  la  piccola  marina  corsara,  che  Acton
distrusse(14). La marina armata  dovea  crescere  in  proporzione  della  marina
mercantile e del commercio, senza di cui la marina guerriera è inutile e non  si
può sostenere. Acton, invece di estendere il nostro commercio, lo restrinse  coi
suoi errori diplomatici, col suo genio dispotico, colla  sua  mala  fede,  colla
viltá con cui sposò gl'interessi degli  stranieri  in  pregiudizio  de'  nostri.
Acton non conosceva né la nazione né le cose. Voleva la marina, ed  intanto  non
avevamo porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare  quei
di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che  un  tempo  erano
stati celebri e che poteano divenirlo  di  nuovo  con  piccolissima  spesa,  se,
invece di seguire il piano delle creature di Acton, si, fosse seguíto  il  piano
dei  romani,  che  era  quello  della  natura.  La  marina,  come  Acton  l'avea
immaginata, era un gigante coi piedi di creta. Era troppo piccola per farci  del
bene, troppo grande per farci  del  male:  eccitava  la  rivalitá  delle  grandi
potenze, senza darci la forza necessaria, non dico per vincere,  ma  almeno  per
poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una  pace  profonda:  con  una
marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una marina piccola,  dovevamo,  o
presto o tardi, siccome poi è  avvenuto,  esser  trascinati  nel  vortice  delle
grandi potenze, soffrendo tutt'i mali della guerra, senza poter  mai  sperare  i
vantaggi della vittoria. Lo stesso piano Acton seguí nella riforma delle  truppe
di terra. Carlo terzo ne avea fissato il numero a circa trentamila  uomini;  ma,
come sempre suole avvenire nei piccoli Stati, i quali godono  lunghissima  pace,
gli ordini di guerra si erano rilasciati, e di truppe effettive  non  esistevano
piú di quindicimila uomini. Noi mancavamo assolutamente di  artiglieria.  Questa
fu organizzata in modo da non lasciarci nulla da invidiare agli  esteri.  Ma  il
numero delle altre truppe  fu  accresciuto  solo  in  apparenza,  per  ricoprire
un'alta malversazione ed una profusione la quale non avea né  leggi  né  limiti.
Acton piú degli altri ministri vi si era prestato;  e  questa  non  fu  l'ultima
delle ragioni per cui meritò tanta protezione sí potente e sí lunga. Dalla morte
di Iaci(15) incominciarono le riforme di abiti e di tattica.  Veniva  ogni  anno
dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera un  nuovo  generale,
il quale ora rialzava di due pollici il cappello, ora raccorciava  di  due  dita
l'uniforme, ora... Il soldato fremeva, vedendosi sottoposto a tante novitá,  che
un anno dopo sapeva doversi dichiarare inutili(16). Questi  generali  conducevan
sempre seco loro degli stranieri, i quali occupavano i primi gradi della truppa.
Gli altri erano accordati agli allievi del collegio militare, dove  la  gioventú
era invero bene istruita nelle cognizioni militari, ma non acquistava certamente
né quel coraggio né quella  sofferenza  delle  fatiche,  che  si  acquista  solo
coll'etá e coi lunghi servigi. Il  genio  e  le  cognizioni  debbono  formare  i
generali: ma il coraggio e l'amor della fatica formano gli  uffiziali.  Il  gran
principio: che  in  tempo  di  pace  l'anzianitá  debba  esser  la  norma  delle
promozioni, non era confacente al genio di Acton, il quale,  quando  non  avesse
avuto il dispotismo nel cuore, l'avea nella testa. Si  videro  vecchi  capitani,
abbandonati alla loro miseria, dover ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i
quali non sapevano altro che la teoria, ed a  molti  altri  (poiché,  tolta  una
volta la norma sensibile del giusto, si apre il campo al favore ed all'intrigo),
i quali non sapevano neanche la teoria, ma che, a forza di danaro, di spionaggio
e di qualche titolo anche piú infame dello spionaggio,  erano  stati  elevati  a
quel grado. I gradi, che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti,  e
si videro de' reggimenti interi  mancare  della  metá  degli  officiali,  mentre
coloro che dovevan esser  promossi  domandavano  invano  il  premio  delle  loro
fatiche. Acton rispondeva a costoro che «aspettassero la pubblicazione del  loro
piano»; piano ammirabile, che costò ad Acton venti anni di  meditazione  e  che,
senza esser mai stato pubblicato, ha disorganizzata  la  truppa,  disgustata  la
nazione,  dissipato  l'erario  dello  Stato!  Tutto  nel  regno  di  Napoli  era
malversazione o progetti chimerici piú nocivi della  malversazione;  ed  intanto
ciò che era necessario non si faceva. Noi avevamo bisogno di strade: il marchese
della  Sambuca  ne  vide  la  necessitá,  fu  posta  una  imposizione  di  circa
trecentomila ducati all'anno: l'opera  fu  incominciata,  se  ne  fecero  taluni
spezzoni; ma poco di poi l'opera fu sospesa e la contribuzione convertita ad  un
altro uso. Province intere chiesero il permesso di costruirsi le strade  a  loro
spese, promettendo intanto di  continuare  a  pagare  alla  corte,  sebbene  giá
convertita ad altro uso, l'imposizione che era addetta alle strade;  promettendo
pagarla per sempre, ancorché, quando s'impose, si fosse promesso di dover finire
colla costruzione delle strade. Si crederebbe che questo  progetto  fosse  stato
rifiutato? Si può immaginare nazione piú ragionevole e piú buona e ministero piú
stolidamente scellerato? Vi erano  nel  regno  di  Napoli  alcuni  errori  nelle
massime ed alcuni vizi nell'organizzazione, i quali impedivano i progressi della
pubblica  felicitá.  Avean  data  origine  ai  medesimi  altri  tempi  ed  altre
circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma gli errori ed  i  vizi
sussistevano ancora. Simile a tutt'i governi i quali hanno un  impero  superiore
alle proprie forze, il governo di Spagna, ne' tempi  della  dinastia  austriaca,
avea procurato di distruggere ciò che non poteva conservare. Si era estinto ogni
valor militare. A contenere una nobiltá generosa e potente, il primo de'  viceré
spagnuoli, Pietro di Toledo, credette opportuno invilupparla tra i lacci di  una
giurisprudenza cavillosa la quale, nel  tempo  istesso  che  offriva  facili  ed
abbondanti ricchezze a coloro che  non  ne  avevano,  spogliava  quegli  che  ne
abbondavano e moltiplicava oltre il dovere una classe di persone  pericolose  in
ogni Stato, perché potevano divenir ricche senza esser industriose  o,  ciò  che
val lo stesso, senza che la loro industria producesse nulla.  Tutti  gli  affari
del Regno si discussero nel fòro, e nel fòro si disputò sopra tutti gli  affari.
Derivaron da ciò molti mali. Tutto ciò che non era materia di disputa forense fu
trascurato:  agricoltura,  arti,  commercio,  scienze  utili,   tutto   ciò   fu
considerato piuttosto come oggetto di sterile o voluttuosa  curiositá  che  come
studi utili alla prosperitá pubblica e privata. Si è letto  per  qualche  secolo
sulla porta delle nostre scuole un distico latino, nel quale la goffaggine dello
stile eguagliava la  stoltezza  del  pensiero,  e  che  diceva:  «Galeno  dá  le
ricchezze, Giustiniano dá gli onori; tutti gli altri non dánno che  paglia».  E,
se mai taluno, ad onta della mancanza di istruzione, concepiva qualche  idea  di
pubblica utilitá, non poteva eseguirla senza prima soggettarsi ad un  esame,  il
quale, perché fatto innanzi a  giudici  e  con  tutte  le  formole  giudiziarie,
diventava litigio. Si voleva fare un ponte? si dovea litigare.  Si  voleva  fare
una strada? si dovea litigare. Ciascuno del popolo ha in Napoli  il  diritto  di
opporsi al bene che voi volete fare. Carlo terzo fece grandissimi beni al Regno:
egli  riordinò  l'amministrazione  della  giustizia,  tolse  gli   abusi   della
giurisdizione ecclesiastica, frenò quelli della  feudale,  protesse  le  arti  e
l'industria; e piú bene avrebbe fatto, se il suo regno fosse stato piú  lungo  e
se molti de' ministri, che lo servivano, non avessero  ancora  seguite  in  gran
parte le massime dell'antica politica spagnuola. Tanucci, per esempio, il di lui
amico, quello tra' suoi ministri a cui piú deve il Regno, errava credendo che il
regno di Napoli non dovesse esser mai un regno militare. È nota la risposta  che
egli soleva dare a chiunque gli  parlava  di  guerra:  -  Principoni,  armate  e
cannoni; principini, ville e casini. - La sua massima era falsa, perché né il re
di Napoli poteva chiamarsi «principino», né i principini sono  dispensati  della
cura della propria difesa. Tanucci, piú diplomatico che militare, confidava  piú
ne' trattati che nella propria forza; ignorava che la sola forza è quella che fa
ottener vantaggiosi trattati; ignorava la forza del Regno che  amministrava  ed,
invece  di  un'esistenza  propria  e  sicura,   gliene   dava   una   dipendente
dall'arbitrio altrui  ed  incerta.  Continuò  Tanucci  a  confondere  il  potere
amministrativo ed il giudiziario, ed il fòro continuò  ad  esser  il  centro  di
tutti gli affari. Il potere giudiziario tende,  per  sua  intrinseca  natura,  a
conservar le cose nello stato nel quale si  trovano;  l'amministrativo  tende  a
sempre cangiarle, perché tende sempre a migliorarle: il primo  pronunzia  sempre
sentenze irrevocabili; il secondo non fa che tentativi, i  quali  si  possono  e
talora si debbono cangiare ogni giorno. Se questi due poteri,  per  loro  natura
tanto diversi, li riunite, corrompete l'uno e l'altro. Tutto in Napoli si  dovea
fare dai giudici e per vie giudiziarie; e da  questo  ne  veniva  che  tutte  le
operazioni amministrative eran lente e riuscivan  male.  Il  governo  era  tanto
lontano dalle vere idee di amministrazione, che i vari oggetti della medesima  o
non erano affidati a nessuno  o  erano  commessi  agli  stessi  giudici;  quindi
l'utile  amministrazione  o  non  avea  chi  la  promovesse   o   era   promossa
languidissimamente da coloro  che  avean  tante  altre  cose  da  fare.  L'altro
difetto, che vi era nell'organizzazione del governo di Napoli, era  la  mancanza
di un centro comune, al quale, come tanti raggi, andassero a finir tutti i  rami
dell'amministrazione. Questo centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di Stato.
Ma Consiglio di Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun ministro  era
indipendente. I  regolamenti  generali,  i  quali  avrebbero  dovuto  essere  il
risultato della deliberazione comune di tutt'i  ministri,  ciascun  ministro  li
faceva da sé:  in  conseguenza,  ciascun  ministro  li  faceva  a  suo  modo;  i
regolamenti di un ministro eran  contrari  a  quelli  di  un  altro,  perché  la
principal cura di ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto  piú  poteva
l'autoritá de' suoi colleghi e distruggere le operazioni  del  suo  antecessore.
Cosí non vi era nelle operazioni del governo né unitá né costanza:  il  ministro
della guerra distruggeva ciò che faceva il  ministro  delle  finanze,  e  quello
delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro  della  guerra.  Tra  tanti
ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno piú innanzi  di  tutti  gli
altri nel favor del sovrano, e questo ministro era quegli che  dava,  come  suol
dirsi, il «tono» ed il «carattere» a tutti gli affari; tono e carattere  che  un
momento di poi cangiava, perché cangiava il favore. Né valeva, ad  assicurar  la
durata di un regolamento o di una legge, la ragionevolezza della medesima. Vi fu
mai legge piú giusta di quella che  obbligava  i  giudici  a  ragionar  le  loro
sentenze, onde esse fossero veramente sentenze  e  non  capricci?  Tanucci  avea
imposta questa obbligazione ai giudici: Simonetti ne li sciolse. Si può  credere
che Simonetti pensasse di buona fede che  i  giudici  non  fossero  obbligati  a
ragionare e ad ubbidire alla  legge?  Simonetti  dunque  tradí  la  sua  propria
coscienza, tradí il re, perché la legge, che egli abolí, non era opera  sua,  ma
bensí di Tanucci. Gli esempi di simili cose sarebbero infiniti di numero, ma  io
mi son limitato a questo solo, perché, siccome esso urta evidentemente il  senso
comune, basta a dimostrare che i difetti di organizzazione  de'  quali  parliamo
erano spinti tanto innanzi, da non rispettar piú neanche  il  senso  comune.  Si
aggiunga a ciò che tutt'i ministri erano  ministri  di  giustizia,  imperciocché
l'amministrazione della giustizia non era  ordinata  in  modo  che  seguisse  la
natura delle cose o delle azioni, ma seguiva  ancora,  come  avveniva  presso  i
barbari del Settentrione, nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia
era diversa pel militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una  greggia,  per
l'uomo che non ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in Napoli  le  corti
giudicatrici piú che non furono  moltiplicati  in  Roma  gl'iddii  ai  tempi  di
Cicerone, per cui questo grand'uomo si doleva di non potersi fare un passo senza
timore  di  urtare  qualche  divinitá;  e,  nel  contrasto  continuo  tra  tanti
tribunali, spesso era ben difficile sapere da qual di  essi  uno  dovesse  esser
giudicato. Io ho degli esempi di «quistioni di tribunale», le quali  han  durato
diciotto anni. Nuovi disordini, e maggiori. In una monarchia, quello  che  nella
giurisprudenza romana chiamavasi «rescritto del principe» deve avere  vigore  di
legge; ma i principi saggi fanno pochissimi rescritti e non mai  per  altro  che
per alcuni casi particolari, onde è che in tutte le monarchie trovasi, per legge
quasi fondamentale dello  Stato,  stabilito  che  il  rescritto  non  debba  mai
trasportarsi da un caso all'altro.  Nel  regno  di  Napoli  i  rescritti  eransi
moltiplicati all'infinito: ciascun ministro ne faceva, e ciascun ministro faceva
rescritti invece di leggi. Come sempre suole avvenire, i rescritti eran  l'opera
de' commessi, e vi è stato tra essi taluno il quale per molti anni  è  stato  il
vero, il solo legislatore di tutto il Regno. Io mi trattengo molto sopra  queste
che sembran picciole cose, perché da  esse  dipendono  le  grandi.  Cambiate  le
prime, ed imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la potenza del Regno e  vi
avesse stabiliti ordini ed educazione militare;  che  il  potere  amministrativo
fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello  piú  attivo,  questo  piú
regolare; che tutte le  parti  dell'amministrazione  avessero  avuto  un  centro
comune, un Consiglio permanente, alla testa del quale fosse stato il re; e che i
ministri, non piú indipendenti l'uno dall'altro e tutti  rivali,  fossero  stati
costretti ad operare dietro un piano uniforme e  costante;  imaginate,  insomma,
che il re, invece di lasciar preponderare or  questo  or  quell'altro  ministro,
avesse voluto esser veramente re; e tutto allora sarebbe cambiato.  Imperciocché
io son persuaso che, nello stato presente delle idee e de' costumi  dell'Europa,
rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il quale non voglia  il  bene
del suo regno: ma questo  bene  non  si  fa  produrre,  perché  deve  farsi  dai
ministri, i quali amano piú il posto che il regno e piú la persona  propria  che
il posto. È necessitá dunque costringerveli colla forza degli  ordini  pubblici,
il vero fine de' quali, per chi intende, non è altro che garantire il re  contro
la negligenza e la mala volontá de'  ministri.  Con  picciolissime  riforme  voi
producete un grandissimo bene, e tutte le riforme di uno Stato tendono ad un sol
fine, cioè che il re sia veramente re. Ma, per questa ragione, a tali riforme  i
ministri si oppongono sempre; onde poi i mali diventano maggiori, ed inevitabili
quelle grandissime crisi, per le quali spesso s'immolano dieci  generazioni  per
rendere forse felice l'undecima. Veritá funesta e per i principi e per i popoli!
Le rovine di quelli e di questi per l'ordinario sono l'effetto de' ministri e di
coloro che si millantano amici dei re(17).

IX

FINANZE

Chi paragona la somma de' tributi che noi pagavamo con quella  che  pagavano  le
altre nazioni di Europa, crederá  che  noi  non  eravamo  i  piú  oppressi.  Chi
paragona la somma delle imposizioni che noi pagavamo ai tempi di Carlo terzo con
quella che poscia pagammo ai tempi di Ferdinando, vedrá forse che la  differenza
tra quella e questa non era grandissima. Ma intanto i bisogni della nazione eran
cresciuti, erano cresciuti i bisogni della corte: quella veniva  a  pagare  piú,
perché in realtá avea meno superfluo; questa veniva ad esiger meno. Il poco  che
esigeva era malversato; non si pensava a restituire alla nazione ciocché da  lei
si prendeva; era facile il prevedere che tra poco le rendite non erano bastanti,
ed il bisogno delle nuove imposizioni sarebbe stato tanto maggiore  nella  corte
quanto maggiore sarebbe stata nel popolo l'impotenza  di  pagarle.  S'incominciò
dal cangiare per specolazione taluni dazi indiretti, i quali sembravano  gravosi
(tali erano, per esempio, quelli sul tabacco e sulla manna), e furono  commutati
in dazi diretti, che rendevano quasi il doppio. S'impose un dazio sulla  caccia,
che fino a quell'epoca era stata libera; ma non si pensò a regolarla, perché  il
dazio interessava la corte ed il regolamento interessava la nazione. S'impose un
dazio sull'estrazione de'  nostri  generi,  mentre  se  ne  doveva  imporre  uno
sull'introduzione de' generi esteri. Si  ricorse  finanche  alla  risorsa  della
«crociata», di cui non credo che vi possa essere risorsa  piú  vile,  o  che  il
governo creda o che non creda esser dell'onore della divinitá de' cattolici  che
in taluni giorni dell'anno si mangino solo alcuni cattivi cibi  che  ci  vendono
gli eretici. Si ricercarono per tutto il Regno i fondi che  due,  tre,  quattro,
dieci secoli prima erano stati posseduti dal fisco, e si aprí  una  persecuzione
contro le cose non meno crudele di  quella  contro  le  persone.  Finché  questa
persecuzione fu contro i soli feudatari ed ecclesiastici, fu tollerabile; ma gli
agenti del fisco, dopo che ebbero assicurato il dominio, come essi dicevano, del
re, annullarono spietatamente tutt'i contratti e, beffandosi di ogni buona fede,
turbarono il povero colono, il quale fu costretto a ricomprarsi con una  lite  o
col danaro quel terreno che era stato innaffiato dal sudore de' suoi maggiori  e
che formar dovea l'unica sussistenza de' figli suoi.  Forse  un  giorno  non  si
crederá che il furore delle revindiche  era  giunto  a  segno  che  i  cavalieri
dell'ordine costantiniano, immaginando non  so  qual  parentela  tra  Ferdinando
quarto, gran maestro dell'ordine, e sant'Antonio abate, diedero a credere al  re
che tutt'i beni, i quali nel Regno fossero sotto l'invocazione di questo  santo,
si appartenessero a lui; ed egli, in ricompensa del consiglio e delle  cure  che
mettevano i cavalieri in ricercare tali beni  ovunque  fossero,  credette  utile
allo Stato, ed in conseguenza giusto, toglier tali beni a coloro  che  utilmente
li coltivavano, e darli ad altri,  i  quali,  essendo  cavalieri  costantiniani,
avevano il diritto di vivere oziosi. Le municipalitá presso di noi avevano molti
fondi pubblici, che le stesse popolazioni amministravano, la rendita  de'  quali
serviva a pagare i pubblici pesi. Molti altri ve n'erano, sotto nome di  «luoghi
pii», addetti alla pubblica beneficenza, fin da que' tempi  ne'  quali  la  sola
religione, sotto nome di «caritá», potea indurre gli uomini a far un'opera utile
a' loro simili ed il solo nome di un santo potea raffrenar  gli  europei  ancora
barbari   dall'usurparli.   Mille   abusi   ivi   erano,   e   nell'oggetto    e
nell'amministrazione di tali  fondi;  ma  essi  intanto  formavano  parte  della
ricchezza nazionale, ed il privarne la nazione, senza che altronde avesse  avuto
niun accrescimento di arti e di commercio onde  supplirvi,  era  lo  stesso  che
impoverirla. Il  tempo,  che  tutt'i  mali  riforma  meglio  dell'uomo,  avrebbe
corretto anche questo. Una parte di questi  fondi  pubblici  fu  occupata  dalla
corte, e questo non fu il maggior male; l'altra, sotto pretesto di  essere  male
amministrata dalle popolazioni, fu fatta amministrare dalla Camera de'  conti  e
da un tribunale chiamato «misto», ma che, nella  miscela  de'  suoi  subalterni,
tutt'altro avea che gente onesta.  L'amministrazione  dalle  mani  delle  comuni
passò in quelle de' commessi di questi tribunali, i quali continuarono a  rubare
impunemente, e tutto il vantaggio, che dalle nuove riforme si ritrasse,  fu  che
si rubò da pochi, dove prima si rubava da molti;  si  rubò  dagli  oziosi,  dove
prima si rubava dagl'industriosi; il danaro fu dissipato tra i vizi ed il  lusso
della capitale, dove che prima s'impiegava nelle province;  la  nazione  divenne
piú povera, e lo Stato non divenne piú ricco. Lo stesso era avvenuto per i fondi
allodiali e gesuitici(18). Tutto nel regno di Napoli tendeva alla concentrazione
di tutt'i rami di amministrazione in una sola mano. Ma questa mano, non  potendo
tutto fare da sé, dovea per necessitá  servirsi  di  agenti  non  fedeli,  e  la
nazione allora cade in quel deplorabile stato, in cui dagl'impieghi sperasi  non
tanto l'onore di servir la patria quanto il diritto  di  spogliarla.  Allora  la
nazione è inondata da quelle «vespe» giudicatrici, che  tanto  ci  fanno  ridere
sulle scene di Aristofane. La nostra capitale incominciava ad  essere  affollata
da quest'insetti, i quali, colla speranza di un miserabile  impiego  subalterno,
trascurano ogni fatica: intanto i vizi ed i capricci crescono coll'ozio, ed,  il
miserabile soldo che hanno non crescendo in proporzione, sono costretti a tenere
nell'esercizio del loro impiego una condotta la quale accresca la loro fortuna a
spese della fortuna dello Stato e del costume della nazione.  Io  giudico  della
corruzione di un governo dal numero di  coloro  che  domandano  un  impiego  per
vivere: l'onesto cittadino non dovrebbe pensare a servir la patria se  non  dopo
di avere giá onde sussistere. Roma, nell'antica santitá de'  suoi  costumi,  non
concedeva ad altri quest'onore. Cosí il disordine dell'amministrazione è la  piú
grande cagione di pubblica corruzione. Sul principio il disordine nelle  finanze
attaccò i piú ricchi; ma,  siccome  la  loro  classe  formava  anche  la  classe
degl'industriosi, e da questi il rimanente del popolo viveva, cosí il  disordine
attaccò l'anima dello Stato, e tra poco tutte  le  membra  doveano  risentirsene
egualmente. Nulla bastava alla corte di Napoli. Non  bastò  il  danaro  ritratto
dallo spoglio delle Calabrie; si rimisero in uso i «donativi»;  non  passò  anno
senza che ve ne fosse uno. Finalmente neanche i «donativi»  furono  sufficienti,
ed incominciaron le operazioni de' banchi. I banchi di Napoli erano depositi  di
danaro di privati, ai quali il governo non prestava altro che la sua protezione.
Erano sette corpi morali, che tutti insieme possedevano circa tredici milioni di
ducati ed ai quali la nazione ne  avea  affidati  ventiquattro.  Le  loro  carte
godevano il massimo credito, tra  perché  ipotecate  sopra  fondi  immensi,  tra
perché un corpo morale si crede superiore a quegli accidenti  a  cui  talora  va
soggetto un privato, tra perché tenevano sempre i banchi il  danaro  di  cui  si
dichiaravano per depositari e che non potevano convertire in altro uso. Fino  al
1793 essi furono riputati  sacri.  La  regina  pensò  da  banchi  privati  farli
diventar banchi di corte. Il primo uso che ne fece fu  di  gravarli  di  qualche
pensione in beneficio di qualche favorito; il secondo fu di costringerli  a  far
degl'imprestiti a qualche altro favorito meno vile o piú intrigante;  il  terzo,
di far contribuire grosse somme per i  progetti  di  Acton,  che  si  chiamavano
«bisogni dello Stato», quasi che il  danaro  dei  banchi  non  fosse  danaro  di
quegl'istessi  privati  ch'erano  stati  giá  tassati.  Indi  incominciarono  le
operazioni segrete. Si fecero estrazioni immense di danaro: quando non vi fu piú
danaro,  si  fecero  fabbricar  carte,  onde  venderle  come  danaro.  Le  carte
circolanti giungevano a circa trentacinque milioni  di  ducati,  de'  quali  non
esisteva un soldo. Allora incominciò un agio  fino  a  quel  tempo  ignoto  alla
nazione, e che in breve crebbe a segno di assorbire due terzi del  valore  della
carta.  La  corte,  lungi  dal  riparare  al  male  allorché  era  sul  nascere,
l'accrebbe, continuando  tutto  giorno  a  metter  fuori  delle  carte  vuote  e
facendole convertire in contanti per mezzo de' suoi agenti a qualunque  agio  ne
venisse richiesto. Si vide lo  stesso  sovrano  divenir  agiotatore:  se  avesse
voluto far fallire una nazione nemica, non potea  fare  altrimenti.  L'agio  era
tanto piú pesante quanto che non si trattava di  biglietti  di  azione,  non  di
biglietti di corte, la sorte de' quali avesse interessati soli pochi renditieri;
si trattava di attaccare in un colpo solo tutto  il  numerario  e  di  rovesciar
tutte le proprietá, tutto il commercio, tutta la  circolazione  di  una  nazione
agricola, la quale di sua natura ha sempre la circolazione  piú  languida  delle
altre. La corte si  scosse  quando  il  male  era  irreparabile.  Diede  i  suoi
allodiali per ipoteca delle carte vuote; ma né que' fondi potean ritrovare  cosí
facilmente compratori, né, venduti, riparato avrebbero alla mala fede. Conveniva
persuadere al popolo che di carte vuote non se  ne  sarebbero  piú  fatte,  cioè
conveniva persuadere o che la corte non avrebbe avuto piú bisogno o che,  avendo
bisogno, non avrebbe adoperato l'espediente di far nuove carte. Lo  stato  delle
cose avrebbe fatto temere il bisogno, la condotta  della  corte  faceva  dubitar
della sua fede. Come fidarsi di una corte, la quale, avendo giá incominciata  la
vendita de' beni ecclesiastici, invece di lacerar due milioni e mezzo  di  carte
ritratte dalla vendita, li rimise di nuovo in circolazione? Cosí questa porzione
di debito pubblico venne a duplicarsi, poiché rimasero a peso della  nazione  le
carte e si alienò l'equivalente de' fondi. Non manca taluno, il quale ha creduto
la vendita de' beni ecclesiastici essere stata effetto, non giá di cura  che  si
avesse di riempire il vuoto de' banchi, ma bensí di timore che  essi  servissero
di pretesto e di stimolo ad una rivoluzione. Quanto meno vi sará da  guadagnare,
dicevasi, tanto minore sará il numero di coloro che desiderano una  rivoluzione.
L'uomo che si dice autor di questo consiglio conosceva egli la rivoluzione,  gli
uomini, la sua patria?

X

Continuazione. - COMMERCIO

Il disordine de' banchi, quindici anni prima, forse o non  vi  sarebbe  stato  o
sarebbe  stato  piú  tollerabile,  perché  la  nazione  avea  allora  un  erario
sufficiente a riempire il vuoto che ne' banchi si faceva, o almeno a  mantenervi
sempre tanto danaro quanto era necessario per  la  circolazione.  È  una  veritá
riconosciuta da tutti, che ne' pubblici depositi può mancare  una  porzione  del
contante senza che perciò la carta perda il suo  credito;  ma  conviene  che  la
circolazione sia in piena  attivitá  e  che,  mentre  una  parte  della  nazione
restituisce le sue carte, un'altra depositi nuovi effetti.  Ora,  in  Napoli  da
alcuni anni era cessata del tutto  l'introduzione  delle  nuove  specie,  poiché
estinta era ogni industria nazionale, e quei rapporti di commercio che  soli  ci
eran rimasti colle altre nazioni erano tutti passivi. I tremuoti del 1783 e, piú
de' tremuoti, l'economia distruttiva della corte avean desolate le Calabrie; due
delle piú fertili province eran divenute deserte. Il disseccamento delle  paludi
Pontine e la coltura che Pio sesto vi aveva introdotta ci avean tolto  o  almeno
diminuito un ramo utilissimo di esportazione de' nostri grani. Noi avevamo altre
volte un commercio lucrosissimo  colla  Francia,  e  quello  che  sulla  Francia
guadagnavamo compensava ciò che perdevamo cogli inglesi, cogli  olandesi  e  coi
tedeschi. La rivoluzione di Francia, distruggendo le manifatture di Marsiglia  e
di Lione, fece decadere il nostro commercio d'olio e  di  sete.  Conveniva  dare
maggiore attivitá alle nostre manifatture di seta ed istituir delle fabbriche di
sapone: esse sarebbero divenute quasi privative per  noi,  ed  avremmo  ritratto
almeno questo vantaggio dalla rivoluzione  francese(19).  Ma  quest'oggetto  non
importava ad Acton. Conveniva serbare un'esatta neutralitá, la quale, ne'  primi
anni della rivoluzione francese, avrebbe dato  un  immenso  smercio  de'  nostri
grani. Ma Acton e la regina credevano poter  far  morire  i  francesi  di  fame.
Intanto i francesi destarono i ragusei ed  i  levantini,  dai  quali  ebbero  il
grano, e non morirono di fame: noi perdemmo allora tutto il lucro  che  potevamo
ragionevolmente sperare, ed oggi ci troviamo di aver acquistati in  questo  ramo
di commercio de' concorrenti, tanto piú pericolosi  in  quanto  che  abitano  un
suolo egualmente fertile e sono piú  poveri  di  noi.  Ci  si  permise  il  solo
commercio cogl'inglesi, poiché il commercio  di  Olanda  era  anche  nelle  mani
dell'Inghilterra, cioè ci si permise quel  solo  commercio  che  ci  si  avrebbe
dovuto vietare: anzi, siccome l'opinione della corte  era  venduta  agl'inglesi,
cosí l'opinione della nazione lo fu egualmente; e non mai le brillanti bagatelle
del Tamigi hanno avuta tanta voga sul Sebeto, non mai noi siamo stati  di  tanto
debitori agl'inglesi, quanto nel tempo appunto  in  cui  meno  potevamo  pagare.
Questo disquilibrio di commercio ha tolto in  otto  o  nove  anni  alla  nazione
napolitana quasi dieci milioni di suo danaro effettivo,  oltre  tanto,  e  forse
anche piú, che avrebbe dovuto e  che  avrebbe  potuto  guadagnare,  se  il  vero
interesse della nazione si fosse preferito al capriccio di chi la  governava.  A
tutti questi mali erasi aggiunto quello di una guerra immaginata e  condotta  in
modo che distruggeva il Regno, senza poterci far sperare giammai né la  vittoria
né la pace. Si manteneva da quattro anni  un  esercito  di  sessantamila  uomini
ozioso nelle  frontiere,  ed  il  suo  mantenimento  costava  quanto  quello  di
qualunque esercito attivo in campagna. Per conservar, come si dicea, la pace del
Regno, la quale si dovea fondar solo sulla buona  fede  del  re,  si  richiesero
nuovi soccorsi al popolo; e si ottennero. Si richiese non solo  l'argento  delle
chiese, ma anche quello de' privati, dando loro in prezzo delle  carte  che  non
avevano alcun valore; e si ottenne(20). S'impose una decima su tutti i fondi del
Regno, la quale produceva quasi il quarto di tutti gli altri tributi che giá  si
pagavano. Ma tutte queste risorse, che non furono piccole,  si  dissiparono,  si
perdettero, passando per mani negligenti o infedeli. Si spogliarono le  campagne
di cavalli, di muli, di bovi, che parte morirono per mancanza di cibo, parte  si
rivendettero da quegl'istessi che ne avean fatta  la  requisizione.  Si  tolsero
nella prima leva le migliori braccia all'agricoltura, allo Stato  la  piú  utile
gioventú, che, strappata dal seno delle loro famiglie, fu condotta a  morire  in
San Germano, Sessa e Teano: l'aria pestilenziale di que' luoghi e la mancanza di
tutte le cose necessarie alla vita, in una sola estate, ne  distrussero  piú  di
trentamila. Una disfatta non ne avrebbe fatto  perdere  tanti.  Allora  si  vide
quanto la nazione napolitana era ragionevole, amante della sua  patria,  ma  nel
tempo istesso nemica di opressioni e d'ingiustizie. Erano due anni da che si era
ordinata una leva di sedicimila uomini,  ma  questa  leva,  commessa  ad  agenti
venali, non era stata eseguita: la nazione vi aveva opposti tanti ostacoli,  che
pochissime popolazioni appena aveano inviato il contingente delle loro  reclute.
Gli abitanti delle province del regno di Napoli non amavano di fare  il  soldato
mercenario, servo de' capricci di un generale tedesco,  che  non  conosce  altra
ordinanza che il suo bastone. La corte vide il male; la nuova leva  fu  commessa
alle municipalitá o sia alle stesse popolazioni,  ed  i  nuovi  coscritti  furon
dichiarati «volontari», da dover servire alla  difesa  della  patria  fino  alla
pace. Al nome di «patria», al nome di «volontari», tutti corsero, e si  ebbe  in
pochissimi giorni quasi il doppio del numero  ordinato  colla  leva.  Ma  questi
stessi, un anno dopo, disgustati dai cattivi  trattamenti  della  corte,  e  piú
dalla sua mala fede, per la maggior parte disertarono. Essi erano  volontari  da
servir fino alla pace; la pace si  era  conchiusa,  ed  essi  chiesero  il  loro
congedo. Un governo savio l'avrebbe volentieri accordato, sicuro di riaverli  al
nuovo bisogno; ma il governo di Napoli non conosceva il potere della buona  fede
e della giustizia: anziché esserne amato, credeva piú sicuro  esser  temuto  dai
suoi popoli, e ne fu odiato.  Tanti  disertori,  per  evitare  il  rigore  delle
persecuzioni, si dispersero per le campagne: il Regno fu pieno  di  ladri  e  le
frontiere rimasero prive di soldati. I  cortigiani  diedero  torto  ai  soldati,
perché volevano adular la corte(21); gli esteri diedero torto ai soldati, perché
volevano avvilir la nazione; e  molti  tra'  nostri,  che  pure  hanno  fama  di
pensatori, diedero torto ai  soldati,  perché  non  conoscevano  la  nazione  ed
adulavano gli esteri. Questi  piccoli  tratti  caratterizzano  le  nazioni,  gli
uomini che le governano e quelli che le giudicano.

XI

GUERRA

Tale era lo stato del Regno sul cadere dell'estate del 1798, quando la  vittoria
di Nelson ne' mari di Alessandria(22), lo scarso numero della truppa francese in
Italia, le promesse venali di qualche francese, la nuova alleanza  colla  Russia
e, piú di tutto, gl'intrighi del gabinetto inglese,  fecero  credere  al  re  di
Napoli esser venuto il momento opportuno a ristabilire le cose d'Italia. Da  una
parte, la repubblica romana, teatro delle prime operazioni militari, piú che  di
uno Stato, presentava l'apparenza di un deserto, i pochi  uomini  abitatori  del
quale, invece di opporsi all'invasore, dovean ricevere  chiunque  loro  portasse
del pane. Dall'altra, l'imperatore di Germania rivolgeva di  nuovo  pensieri  di
guerra: né egli né il Direttorio volevan piú la pace; e si osservava che, mentre
i plenipotenziari delle due potenze stavano inutilmente in Rastadt,  i  francesi
occupavano la Svizzera ed i russi marciavano verso il Reno. Il re di Napoli, per
completare il suo esercito, ordinò una leva di quarantamila uomini, la quale  fu
eseguita in tutto il Regno in un giorno solo. In tal modo  sulle  frontiere,  al
cader di ottobre, trovaronsi riuniti circa settantamila uomini. Mancava a queste
truppe un generale, e, credendosi che non  si  potesse  trovare  in  Napoli,  si
chiese alla Germania. Mack giunse come un genio tutelare  del  Regno.  Il  piano
della guerra era che il re di Napoli avrebbe fatto avanzar  le  sue  truppe  nel
tempo stesso che l'imperatore avrebbe aperta la campagna  dalla  sua  parte.  Il
duca  di  Toscana  ed  il  re  di  Sardegna  doveano   avere   anch'essi   parte
nell'operazione, ed a tale oggetto facevano delle leve segrete ne' loro Stati; e
si erano inviati dalla corte di Napoli settemila uomini  sotto  il  comando  del
general Naselli, il quale occupò Livorno ed a tempo  opportuno  doveva,  insieme
colle truppe toscane, marciar sopra Bologna e riunirsi alla  grande  armata.  Si
era creduto necessario, sotto apparenza  di  difesa,  occupare  militarmente  la
Toscana, perché  quel  governo  era,  tra  tutti  i  governi  italiani,  il  piú
sinceramente alieno dai pensieri di guerra; e  questo  avea  reso  il  ministero
toscano tanto odioso al governo di Napoli, che poco mancò che non  si  vedessero
dei corpi di truppa spedirsi da Napoli in Livorno a solo fine  di  obbligare  il
granduca a deporre Manfredini. In tal modo i francesi, circondati  ed  attaccati
in tutti i punti, dovevano sloggiar dall'Italia. Ma l'imperatore intanto non  si
movea, tra perché forse  opportuna  non  era  ancora  la  stagione,  tra  perché
aspettava i russi che non erano giunti  ancora.  Il  Consiglio  di  Vienna  avea
risoluto di non aprir la campagna prima del mese di aprile. Non si sa  come,  si
ottennero lettere piú autorevoli  delle  risoluzioni  del  Consiglio,  le  quali
permettevano all'esercito napolitano di muoversi prima; e queste  lettere  erano
state chieste ed ottenute con tanta segretezza,  che  il  ministero  istesso  di
Vienna non le seppe se non nello stesso giorno nel quale seppe e la marcia delle
truppe e la disfatta. Amarissimi rimproveri  ne  ebbe  chi  allora  risedeva  in
Vienna per la corte di Napoli. Il ministro Thugut diceva che questa  corte  avea
tradita la causa di tutta l'Europa e che meritava di esser  abbandonata  al  suo
destino. La protezione dell'imperatore Paolo primo, presso  il  quale  principal
mediatrice fu la granduchessa  Elena  Paolowna,  allora  arciduchessa  palatina,
salvò la corte dagli effetti di questa minaccia.  L'ambasciatore  napolitano  si
giustificò, mostrando ordini in faccia ai  quali  quelli  del  Consiglio  dovean
tacere. Ma rimase e rimarrá sempre incerto e disputabile perché mai, contro  gli
stessi propri interessi, da Napoli si chiedevano e da Vienna  si  davano  ordini
segreti, contrari al piano pubblicamente risoluto, da tutti accettato, da  tutti
riconosciuto per piú vantaggioso. Intendevasi, con ciò, ingannar l'inimico o  se
stesso? È probabile che la corte di Napoli ardesse di  soverchia  impazienza  di
discacciar i francesi dall'Italia. È probabile ancora che tanta  impazienza  non
nascesse da solo odio, ma anche da desiderio di trarre da una vittoria, la quale
credevasi sicura, un  profitto,  che  forse  l'Austria  non  avrebbe  volentieri
conceduto, ma, trovandolo giá preso, lo avrebbe tollerato. Siccome  nelle  leghe
non si dá mai piú di quello che uno si prende, cosí de'  collegati  ciascuno  si
affretta a prendere  quanto  piú  può  e  quanto  piú  presto  è  possibile;  la
vicendevole gelosia genera la comune mala fede e, mentre ciascuno pensa a sé, si
obbliano gl'interessi di tutti.  Ma,  in  tale  ipotesi,  perché  mai  l'Austria
acconsentí alla dimanda di Napoli? Non è neanche inverosimile che  Mack,  sempre
fertile in progetti, credesse facile discacciar i francesi; e, sicuro de'  primi
successi (e chi non l'avrebbe creduto, quando Mack non  si  conosceva  ancora?),
amava piú d'invitare l'imperatore a goderne i frutti che  dividerne  la  gloria.
Sopra ogni altra congettura però è verosimile che la corte  di  Napoli  operasse
spesso senza l'intelligenza dell'imperatore di Germania, perché, mentre  da  una
parte prestava il suo nome alla lega che si era stretta nel Nord e  della  quale
era il centro principale in Vienna, dall'altra manteneva un suo ambasciatore  in
Parigi, il quale, quando la pace fu giá rotta, potette ottenere  dal  Direttorio
ordini  tali  al  generale  in  capo  dell'armata  d'Italia,  che  gl'impedivano
d'invadere il regno  di  Napoli  e  limitavano  le  sue  operazioni  militari  a
respingere solamente l'aggressione. Il corriere che portava tali ordini fu,  non
si sa bene per quale accidente, assassinato nel Piemonte. Ora,  ordini  di  tale
natura, quando anche s'ignorino le trattative precedenti, è  certo  che  non  si
possono ottenere senza supporre o che  il  Direttorio  ignorasse  interamente  i
disegni ed i movimenti del gabinetto di Napoli, il  che  è  incredibile,  o  che
avesse risoluto d'abbandonar l'Italia, talché la corte di Napoli, piú che  sugli
aiuti degli alleati, fondasse le speranze de' suoi vantaggi  sull'abbandono  del
governo francese, e volesse perciò procurarseli  da  sé  sola,  onde  non  esser
costretta a dividerli cogli altri. È certo che la guerra  con  Napoli  fu  fatta
contro gli ordini  del  Direttorio;  che  Championnet  non  ebbe  altri  che  lo
autorizzasse a farla se non il generale in capo Joubert,  e  che  in  faccia  al
Direttorio dovette scusarsi colla ragione di quella necessitá, che spesso spinge
un generale oltre i limiti delle istruzioni superiori;  e  fu  assoluto,  perché
facilmente si giustifica ogni audacia che abbia ottenuto prospero  successo.  Ma
tutte queste cose agitavansi nel segreto del gabinetto, né a  tutti  i  ministri
del re erano confidate. Miserabile condizione di tempi, ne' quali la  sorte  de'
popoli dipende piú dall'intrigo che dal valor vero,  e  vedesi  un  governo,  il
quale   poteva   tutto   ragionevolmente   sperare   dalle   forze   proprie   e
dall'opportunitá delle circostanze, avvilirsi a cercar la vittoria dai  capricci
e dalle promesse degli uomini, meno stabili della stessa fortuna! Se la corte di
Napoli, consultando le proprie forze e la propria ragione,  anziché  la  guerra,
l'avesse guerreggiata,  ne  avrebbe  ottenuti  successi  o  piú  felici  o  meno
disastrosi.  Difatti  il  maggior  numero  de'  consiglieri  del  re,  sia   che
ignorassero le segrete ragioni sulle quali si fondavano tutte  le  speranze  del
buon successo, sia che non vi mettessero molta fede, rimasero fermi  nel  parere
della pace. Ma Acton ebbe cura di allontanarli. Quando si decise la guerra,  non
intervennero molti degli antichi consiglieri. Il marchese De Marco, il  generale
Pignatelli, il marchese del Gallo eran per  la  pace.  Per  la  pace  furono  il
maresciallo Parisi ed il general  Colli,  chiamati  in  Consiglio,  sebbene  non
consiglieri. Ma la regina, Mack, Acton, Castelcicala formarono  la  pluralitá  e
strascinarono l'animo del re. - Che vi pare di questa  guerra  giá  risoluta?  -
domandò molti giorni dipoi la regina ad Ariola, che era ministro di guerra e che
intanto non ne sapeva ancor nulla. Ariola, che avrebbe voluto tacere, spronato a
parlare, le disse che da tal guerra vi era piú da temere che da sperare. - Il re
potrebbe - disse Ariola - sostener con vantaggio una guerra difensiva, ma  tutto
gli manca per l'offensiva. Egli non combatte ad armi eguali. I  francesi,  pochi
di numero, son tutti soldati avvezzi alla  guerra  ed  alla  fatica;  l'esercito
nostro è per metá composto di reclute strappate appena da un mese dal seno delle
loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirá che ad imbarazzare i buoni
veterani che son tra loro, ed a rendere piú sensibile la mancanza in  cui  siamo
di buoni officiali, il numero de' quali non  abbiam  potuto  raddoppiare  in  un
momento, come abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si aspetta  che
queste truppe si disciplinino? Perché non si aspetta che l'imperatore  si  muova
il primo? Tanta fretta si ha dunque di vincere, che non si ha  cura  neanche  di
render sicura la vittoria? Tanto certo è della vittoria Mack, che si avvia senza
neanche pensare alla possibilitá di  un  rovescio?  Si  apre  una  guerra  nelle
frontiere, è necessario che uno de' due  Stati  immediatamente  sia  invaso;  ed
intanto niuna cura egli si ha preso della difesa  dell'interno  del  Regno,  che
tutto è aperto, ed, al primo rovescio che noi avremo, il nemico sará  nel  cuore
de' nostri Stati. A noi  non  sará  molto  facile,  soli  e  senza  il  soccorso
dell'imperatore, discacciar l'inimico dall'Italia, e, finché ciò non si ottenga,
nulla si potrá dir fatto.  Molte  vittorie  bisognano  a  noi:  una  sola  basta
all'inimico. Quanto piú l'inimico si  avanzerá,  tanto  piú  facile  troverá  la
strada alla vittoria; ma quando piú ci avanzeremo  noi,  tanto  maggiori  e  piú
numerosi ostacoli incontraremo: la sorte dell'inimico si decide in  un  momento;
la nostra, sebbene prospera, avrá bisogno di molto tempo.  Intanto  Mack,  quasi
potesse terminar la guerra in pochi giorni, si avvia verso  un  paese  desolato,
ove è penuria di tutto, senza aver  prima  pensato  a  provvedersi,  ed  in  una
stagione in cui difficili sono i trasporti ed i generi non abbondanti.  Egli  si
avvia a conquistare il territorio altrui e forse a perdere il proprio.  -  Quale
fu l'effetto di questo discorso? Mack ed Acton se ne  offesero,  Acton  minacciò
Ariola, Ariola se ne dolse col re e, mentre il re gli dava ragione, Acton in sua
presenza gli tolse il portafoglio. Pochi giorni dipoi, l'esperimento confermò la
veracitá de' suoi pronostici. Il re, fuggito  da  Roma,  giunse  a  Caserta:  si
ricorda di Ariola e lo invoca come l'unico  suo  liberatore.  Ariola  parte  pel
campo onde concertare con Mack i mezzi di difendere il  Regno  da  un'invasione.
Trova lo stato maggiore in Terracina, ma Mack  non  vi  era,  né  alcuno  sapeva
indicare ove mai si trovasse. Intanto vede ritornar l'esercito  tutto  disperso.
Crede necessario tornare in Caserta e non perder tempo. Poche ore dopo la di lui
partenza, Mack arriva. Scrive al re che il ministro della guerra era un vile, il
quale avea abbandonato il suo posto. Ed Ariola è arrestato. Né è improbabile che
a questa disgrazia di Ariola abbia prestata la sua mano anche Acton, se  è  vero
ciò che taluni dicono, che, accusato egli di aver mal diretti alcuni preparativi
militari,  abbia  voluto  farne  creder  colpevole  Ariola  ed  abbia  afferrata
potentemente l'occasione di poter far sequestrare le di lui carte, onde  non  si
venisse mai in chiaro del vero autore. Credeva egli con un delitto di cortigiano
conservar la fama di generale?

XII

Continuazione.

La guerra fu risoluta. Si pubblica un proclama, col quale il re di  Napoli,  con
equivoche parole, dichiara che egli voleva conservar l'amicizia che aveva  colla
repubblica francese, ma che si credeva oltraggiato per l'occupazione  di  Malta,
isola che apparteneva al regno di Sicilia, e non  poteva  soffrire  che  fossero
invase le terre del papa, che amava come suo antico alleato  e  rispettava  come
capo della Chiesa; che avrebbe fatto marciare il suo esercito per restituire  il
territorio romano al legittimo sovrano (si lascia in dubbio  se  questo  sovrano
fosse o no il papa); ed invita qualunque forza armata a ritirarsi dal territorio
romano, perché, in altro caso,  se  le  sarebbe  dichiarata  la  guerra.  Simile
proclama non si era veduto in nessun secolo  della  diplomazia,  a  meno  che  i
romani non ne avessero formato uno, allorché ordinarono agli altri greci di  non
molestar gli acarnanii, perché tra i popoli della Grecia erano stati i soli  che
non avevano inviate truppe all'assedio di Troia. Questo proclama  fu  pubblicato
a' 21 novembre. A' 22 tutto l'esercito partí e, diviso  in  sette  colonne,  per
sette punti diversi entrò nel territorio romano. Le colonne che mossero  da  San
Germano e da Gaeta si avanzarono rapidissimamente. Né la  stagione  dirottamente
piovosa, né i fiumi  che  s'incontrarono  pel  cammino,  né  la  difficoltá  de'
trasporti di artiglieria e viveri in  cammini  impraticabili  per  profondissimo
fango, fecero arrestar gli ordini di Mack.  Egli  non  faceva  che  correre:  si
lasciava indietro l'artiglieria, cominciavano a mancare i viveri, il soldato era
privo di tutto, avea bisogno di riposo; e Mack correva. Le colonne di  Micheroux
e di Sanfilippo erano state giá battute  negli  Apruzzi.  La  voce  pubblica  di
questo rovescio incolpò i generali; ma è certo che posteriormente la condotta di
Micheroux è stata esaminata da  un  Consiglio  di  guerra  ed  è  stata  trovata
irreprensibile. Di Sanfilippo non sappiamo nulla. Ma la voce pubblica in  questi
casi non merita mai intera  fede,  perché  il  popolo  giudica  per  l'ordinario
dall'esito e spesso dá piú lode e piú biasimo di quello che taluno merita. Mack,
il quale non avea pensato mai a stabilire una ferma comunicazione tra i  diversi
corpi del suo esercito ed un concerto tra le varie loro operazioni, non seppe se
non tardi un avvenimento il quale dovea cangiar tutto il suo piano,  ed  intanto
continuava a correre. Giunse a' 27 di novembre  in  Roma.  S'impiegarono  cinque
giorni in un cammino che ne avrebbe richiesto quindici. Non  si  concessero  che
cinque ore di riposo sotto le armi alla  truppa,  e  fu  costretta  di  nuovo  a
correre a Civita Castellana. Per la strada  i  viveri  mancarono  del  tutto:  i
provvisionieri dell'esercito chiedevano invano a Mack  ove  dovessero  inviarli;
gli ordini del generale erano tanto rapidi, che, mentre si eseguiva il primo, si
era giá dato il secondo, il terzo, il quarto, il quinto; i viveri  si  perdevano
inutili per le strade, ed i soldati e i cavalli intanto morivano di fame. Quando
giunsero a Civita Castellana, i nostri da tre giorni non avean veduto pane. Essi
erano nell'assoluta impossibilitá di poter reggere a fronte di un nemico fresco,
che conosceva il luogo e che distrusse il nostro esercito, raggirandolo qua e lá
per siti ove il maggior numero era inutile. Mack non seppe ispirar  coraggio  ad
una truppa nuova, esercitandola con piccole scaramucce contro  i  piccoli  corpi
nemici che incontrò da Terracina a Roma e che, messi per insensato consiglio  in
libertá, produssero due mali gravissimi: il primo de' quali  fu  quello  di  non
avvezzare le truppe sue alla vittoria quando questa  era  facile  e  sicura;  il
secondo, di accrescer il numero de' nemici nel momento delle grandi e pericolose
azioni. Non seppe Mack far battere due colonne nello stesso tempo:  furon  tutte
disfatte in dettaglio. Mack ignorava i luoghi dove si trovava e,  sull'orlo  del
precipizio, credeva e faceva credere al re che le cose andavano prospere. Per la
resistenza che i francesi avean fatta all'esercito del  re  delle  Due  Sicilie,
costui dichiarò loro la guerra a' 7 dicembre,  cioè  quando  la  guerra  per  le
disfatte ricevute era giá terminata, e dovea pensarsi alla pace. Dopo due  altri
giorni, tutto l'esercito fu in rotta, e Mack non trovò altra risorsa che correre
indietro, come prima avea corso in avanti. In meno di un mese, Ferdinando partí,
corse, arrivò, conquistò il regno altrui, perdette uno de' suoi e,  poco  sicuro
dell'altro, fu quasi sul punto di fuggire fino al terzo suo regno di Gerusalemme
per ritrovare un asilo. Io non sono un uomo di guerra: gli altri  leggeranno  la
storia di tali avvenimenti nelle Memorie di  Bonamy  ed  in  quelle  del  nostro
Pignatelli, che vide i fatti e che era capace di giudicarne. Mack ha  pubblicato
anch'egli la sua Memoria. Egli calunnia la nazione e l'esercito. Ma  l'esercito,
alla testa del quale fu battuto, non  era  quello  stesso  esercito  col  quale,
mentre taluno lo consigliava a procedere piú adagio, egli avea  detto  di  voler
conquistare l'Italia in quindici giorni?(23). Quest'uomo, che un  momento  prima
sfidava tutte le potenze della terra, al primo rovescio perdette  tutto  il  suo
genio. Sebbene battuto, pure conservava tuttavia forze infinitamente  superiori;
e, se non poteva vincere, poteva almeno resistere: cogli avanzi del suo esercito
poteva fermarsi a Velletri oppure al  Garigliano,  ove  potea  per  lungo  tempo
contendere il passo: potea salvar Gaeta e salvare il Regno. Ma egli,  che  nella
sua fortuna non avea fatto altro che correre,  nella  disgrazia  non  seppe  far
altro che fuggire; né si fermò se non giunse a Capua, dove pensava difendersi  e
dove non si trattenne che un momento. Capua si poteva facilmente difendere e  di
lá forse si potea con migliori auspíci ritentar di nuovo la sorte delle armi. Ad
un proclama che si pubblicò per la leva in massa, tutto il Regno fu sulle  armi.
Gli apruzzesi si opposero alla divisione  di  Rusca  e,  se  non  riuscirono  ad
impedirgli il passo, fecero però sí che gli costasse molto caro. Tra le montagne
impraticabili della provincia dell'Aquila non  si  pervenne  mai  ad  estinguere
l'insorgenza, e la stessa capitale della provincia non fu che per  pochi  giorni
in poter de' francesi, ridotti a doversi difendere entro  il  castello.  L'altra
divisione, che venne per Terracina e Gaeta, si  avanzò  fino  a  Capua,  ma  non
potette impedire l'insorgenza, che  era  scoppiata  ad  Itri  e  Castelforte;  e
gl'insorgenti, che cedettero per poco le  pianure,  si  rifuggirono  nelle  loro
montagne, donde tornarono poco dopo ad infestare la coda dell'esercito francese,
che vide rotta ogni comunicazione coll'alta Italia. Un corpo di truppe difendeva
con valore e  con  felice  successo  il  passo  di  Caiazzo.  Capua  avea  quasi
dodicimila uomini di guarnigione. Tutti gli abitanti delle contrade di Nola e di
Caserta eransi levati in massa, ed eravi  ancora  un  corpo  di  truppe  intatto
comandato da Gams. Io dirò cosa che ai posteri  sembrerá  inverosimile,  ma  che
intanto mi è stata giurata da quasi tutt'i capuani. Se Capua non  fu  presa  per
sorpresa non fu merito di Mack, ma di un semplice tamburo o cannoniere che fosse
stato, il quale di proprio movimento die' fuoco ad un cannone de' posti avanzati
verso San Giuseppe e fece sí che i francesi si arrestassero. Mack certamente non
avea data alcuna disposizione di difesa. Io lo ripeto: non sono uomo di  guerra,
né imprendo ad esaminar ad una ad  una  le  operazioni  e  gli  accidenti  della
campagna. Ma io credo che gli accidenti debbano mettersi  a  calcolo  e  che  la
somma finale dell'esito dipenda meno dagli accidenti  che  dal  piano  generale.
Mack peccò naturalmente nell'estender troppo  la  linea  delle  sue  operazioni,
talché il minimo urto dell'inimico gliela ruppe. Ebbe piú cura dell'inimico  che
gli stava a fronte che di quello che gli stava sui fianchi, mentre forse  questo
era sempre piú  terribile  di  quello;  quindi  è  che  egli  si  avanzò  sempre
rapidissimamente, e questa stessa rapiditá, che alcuni chiaman vittoria,  fu  la
cagione principale delle sue inopinate  irreparabili  disfatte.  Battuto  in  un
punto, Mack fu battuto in tutta la linea, perché tutta la linea  gli  fu  rotta.
Quando  Mack  preparava  un  piano  tanto  vasto  per  combattere   un   inimico
debolissimo, molti dissero che Mack era un  gran  generale,  perché  molti  sono
quelli che misurano la grandezza di una mente dalla grandezza  delle  forze  che
move: io dissi che era poco savio, perché la saviezza consiste nel  produrre  il
massimo effetto col minimo delle forze. Mack è un generale  da  brillare  in  un
gabinetto, perché in un gabinetto appunto, e prima dell'azione, predomina  nelle
menti del maggior numero l'errore di confonder la grandezza della macchina colla
grandezza dell'artefice. Non manca Mack di quelle  cognizioni  teoretiche  della
scienza militare che impongono tanto facilmente al maggior numero. È  sicuro  di
ottenere in suo favore la pluralitá de' voti  un  generale  il  quale  vi  parli
sempre di matematica, geografia, storia, che  vi  rammenta  i  nomi  antichi  di
tutt'i sciti, vi enumera tutte le grandi battaglie che gli hanno illustrati  ed,
a confermar ogni evoluzione che gli vien fatta d'immaginare, vi adduce l'esempio
di Eugenio, di Montecuccoli, di Cesare, di Annibale e di Scipione. Il buon senso
per altro pare che ci dovrebbe indurre a diffidare dei piani di campagna  troppo
eruditi: essi per necessitá son troppo noti anche all'inimico, ed in conseguenza
inutili. Tutto il vero segreto della guerra, dice Macchiavelli, consiste in  due
cose: fare tutto ciò che l'inimico non può sospettar che tu  faccia,  lasciargli
fare tutto ciò che tu hai previsto che egli  voglia  fare:  col  primo  precetto
renderai inutile ogni sua difesa,  col  secondo  ogni  offesa.  Questi  capitani
soverchiamente sistematici hanno anche un altro difetto, ed è quello di  dar  un
nesso, una concatenazione troppo stretta alle loro  idee:  si  mandano  il  loro
piano a memoria e, se avviene che una volta la fortuna della guerra  lo  tocchi,
rassomigliano i fanciulli che han perduto il  filo  della  loro  lezione  e  son
costretti ad arrestarsi. Vuoi  conoscere  a  segni  infallibili  uno  di  questi
capitani? Soffre pochissimo la contraddizione ed i consigli altrui: il  criterio
della veritá è per lui, non giá la concordanza tra le sue idee  e  le  cose,  ma
bensí tra le sue idee medesime. Prima dell'azione sono audacissimi,  timidissimi
dopo l'azione: audacissimi, perché non pensano che le cose possan esser  diverse
dalle idee loro; timidissimi, perché, non avendo prevista questa diversitá,  non
vi si trovan preparati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa
è inesattissima, perché  trascurano  tutte  le  differenze  che  esistono  nella
natura. Numerano gli uomini e  non  li  valutano:  piú  che  nell'uomo  confidan
nell'esercito, piú che nella virtú dell'animo confidano in quella  del  corpo  e
piú che nel valore confidan nella tattica. Questi duci piú potenti in parole che
in opere prevalgon sempre, per disgrazia delle  nazioni,  o  quando  gli  ordini
militari di uno Stato sono tali che tutta l'esecuzione di una guerra dipenda  da
un'assemblea e da un Consiglio, o quando coloro che reggono la somma delle  cose
non sono esenti da ogni spirito di partito; e questo non è certamente il  minore
de' mali che lo spirito di partito e gli ordini mal congegnati soglion produrre.

XIII

FUGA DEL RE

I governi son simili agli uomini: tutte le  passioni  sono  utili  al  saggio  e
forman la rovina dello stolto. Il  timore  che  la  corte  di  Napoli  ebbe  de'
francesi, invece d'ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltá.
A forza di temerli, li rese piú terribili di quello che erano.  Una  persona  di
corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi  la  guerra,  esser  prudente
consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro i francesi
e, con tale idea, l'essersi imaginato quel gergo equivoco col quale  fu  scritto
il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento  dell'attacco
il vero oggetto della spedizione. -  Ebbene!  -  dissero  i  soldati  quando  lo
seppero - ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! - Questa  non
è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno mostrato  piú  coraggio
le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di scemar  colle
disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche dippiú, se  il  generale
non fosse stato Mack.  Vi  è  della  differenza  tra  l'avvezzare  un  popolo  a
disprezzare il nemico ed il fargli credere che non ne abbia: il primo produce il
coraggio,  il  secondo  la  spensieratezza,  cui   nel   pericolo   succede   lo
sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama  delle  forze
nemiche, non confortava col diminuirla, ma coll'accrescerla. Una  volta  che  si
temeva vicino l'arrivo di Iuba, ragunati a concione i soldati: - Sappiate - loro
disse - che tra pochi giorni sará  qui  il  re  con  dieci  legioni,  trentamila
cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate  quindi  di
piú vaneggiare per saper quali sieno le sue forze. - Cesare accrebbe il pericolo
reale, che, sebben grande, ha però un limite, per toglier quello della fantasia,
che non ha limite alcuno. Cosí voglion esser governati tutt'i popoli. Lo  stesso
timore, che la corte ebbe ne' primi rovesci, le ispirò il consiglio di una  leva
in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s'invitarono i popoli ad armarsi  e
difendere contro gl'invasori i loro beni, le loro  famiglie,  la  religione  de'
padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri  popoli  ch'essi
erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di risvegliare tali
sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai di produrre  grandi
effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un  popolaccio  immenso,  senza
verun mestiere e verun'educazione, non  vive  che  a  spese  de'  disordini  del
governo e de' pregiudizi della religione. Ma questo istesso fermento, che doveva
e che potea conservare il Regno, divenne, per colpa di Acton e per timore  della
corte, la cagione principale della sua rovina.  Il  popolo  corse  in  folla  al
palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno.  Un  re,  che  avesse  avuto
mente e cuore, non aveva a far altro che montare  a  cavallo  e  profittare  del
momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a sicura vittoria. Acton lo  ritenne.
Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle mostrare, ed in sua vece fece uscire
il generale Pignatelli ed il conte dell'Acerra. Tra le tante parole che in  tale
occasione ciascuno può immaginare essersi dette, uno del popolo  disse:  i  mali
del Regno esser nati tutti dagli esteri che erano  venuti  a  far  da  ministri;
prima godersi profonda pace e generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto
esser cangiato; gli esteri esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di
patriottismo, di cui il popolo  napolitano  non  è  privo,  o  per  ispirito  di
adulazione verso due cavalieri popolari, soggiunse: - Perché il re non fa  primo
ministro il general Pignatelli e ministro di  guerra  il  conte  dell'Acerra?  -
Queste parole, raccolte da' satelliti di Acton e riferite a lui, mossero  il  di
lui animo sospettoso ad accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute  di
un regno! Fu facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re,  si
fece crescere l'insurrezione del popolo. Gli agenti  di  Acton  lo  spinsero  la
mattina seguente ad arrestare Alessandro  Ferreri,  corriere  di  gabinetto,  il
quale portava un plico a Nelson: moltissimi hanno ragioni di credere che  costui
fosse una vittima giá da lungo tempo designata, perché conscio del segreto delle
lettere di Vienna alterate in occasione della guerra. Io non oso affermar nulla.
Sia caso, sia effetto della politica del ministro o della  vendetta  di  qualche
suo inimico privato, fu arrestato sul molo nel  punto  in  cui  s'imbarcava  per
passare sul legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato
fin sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle  grida  di  «Morano  i
traditori!», «Viva la santa fede!», «Viva il re!». Il re era alla finestra; vide
l'imponente forza del popolo e, diffidando  di  poterla  reggere,  incominciò  a
temerla. Allora la partenza fu risoluta. Furono imbarcati sui  legni  inglesi  e
portoghesi i mobili piú preziosi de' palazzi di Caserta e di Napoli e le  raritá
piú pregevoli de' musei di Portici e Capodimonte, le gioie della corona e  venti
milioni e forse piú di moneta e metalli preziosi non ancora coniati, spoglio  di
una nazione che rimaneva nella miseria. La corte di  Napoli  avea  tanti  tesori
inutili,  ed  intanto  avea  ruinata  la  nazione  con  un  disordine   generale
nell'amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne' banchi; avea  ruinata  la
nazione, mentre potea accrescer la sua potenza, rendendola piú felice: la  corte
di Napoli dunque avea sempre pensato piú a fuggire che a restare!  S'imbarcò  di
notte, come se fuggisse il nemico giá alle porte;  e  la  mattina  seguente  (21
dicembre) si lesse per Napoli un avviso, col quale si faceva  sapere  al  popolo
napolitano che il re andava per poco in Sicilia per ritornare  con  potentissimi
soccorsi, ed intanto lasciava il general Pignatelli suo vicario generale fino al
suo ritorno. Il popolo mostrò quella tacita costernazione, la  quale  vien  meno
dal timore che dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne'  primi  giorni
che il re per tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a
pregarlo perché si restasse; ma gl'inglesi, i quali giá  lo  consideravano  come
lor prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re  non  volle  o
non gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati  disprezzi,  la
memoria delle cose passate, la perdita di  tante  ricchezze  nazionali,  i  mali
presenti, passati e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la  pietá.
Il popolo lo vide partire a' 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.

XIV

ANARCHIA DI NAPOLI ED ENTRATA DE' FRANCESI

Nella storia dell'Italia, gli avvenimenti  della  fine  del  secolo  decimottavo
somiglian quelli della fine del secolo decimoquinto. In ambedue  le  epoche  gli
stessi avvenimenti furon prodotti dalle stesse cagioni e  seguíti  dai  medesimi
effetti. In amendue le epoche il Regno fu perduto  per  opera  di  picciolissime
forze inimiche: nel decimoquinto secolo, i partiti che dividevano  il  Regno  vi
attirarono la guerra; nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono  i
partiti: in quello, il re avea tentato tutt'i mezzi per  evitar  la  guerra;  in
questo, tutti li avea messi in opera per suscitarla: lo scoraggiamento, dopo  la
disfatta, eguale e nel re aragonese e  nel  borbonico;  ma  prima  della  guerra
questi ha dimostrato coraggio maggiore di quello. In ambedue le epoche  però  il
Regno fu perduto quando il fatto posteriore ha  dimostrato  che  era  facile  il
conservarlo, poiché è impossibile credere che non si  avesse  potuto  facilmente
conservare quel Regno, che, anche dopo la perdita fattane,  si  è  potuto  tanto
facilmente ricuperare. In ambedue le epoche ha preceduta la  perdita  del  Regno
una vicendevole e funesta diffidenza tra il re ed i  popoli,  non  irragionevole
nell'epoca degli Aragonesi,  priva  però  di  ogni  ragione  ne'  tempi  nostri.
Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i baroni, i quali avean  tramata
una congiura e guerreggiata una guerra civile; Vanni avea  punita  una  congiura
che ancora non si era tramata ed il pensiero di una ribellione che non si poteva
eseguire. In amendue le  epoche  alla  difesa  del  Regno  è  mancata  l'energia
piuttosto ne' consigli del re che nelle azioni de' popoli. Finalmente in ambedue
le epoche il Regno è stato abbandonato dai vincitori, perché costretti a ritirar
le loro forze nell'Italia superiore. Io vorrei che, ogni qual volta  succede  un
simile avvenimento, si rileggesse la seguente, non  saprei  dir  se  dottrina  o
profezia di Macchiavelli: «Credevano - dice egli - i nostri  principi  italiani,
prima che essi assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che ai  principi
bastasse sapere negli scritti pensare una cauta  risposta,  scrivere  una  bella
lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e  prontezza,  saper  tessere
una fraude, ornarsi di gemme e di oro, dormire e mangiare con maggior  splendore
che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi coi sudditi avaramente,
superbamente, marcirsi  nell'ozio,  dare  i  gradi  della  milizia  per  grazia,
disprezzare se alcuno avesse dimostrato loro alcuna lodevole via, volere che  le
parole loro fossero responsi di oracoli; né si accorgevano  i  meschini  che  si
preparavano ad esser preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel  1494
i grandi spaventi,  le  subite  fughe  e  le  miracolose  perdite;  e  cosí  tre
potentissimi Stati, che erano in Italia, sono stati  piú  volte  saccheggiati  e
guasti». Non è meraviglia che gli stessi  errori  abbiano  avuti  nel  1798  gli
stessi effetti e che un potentissimo regno sia rovinato  nel  tempo  stesso,  in
cui, con  ordini  piú  savi,  tale  era  lo  stato  politico  di  Europa,  dovea
ingrandirsi. «La meraviglia è - continua Macchiavelli - che quelli che  restano»
anzi quegli stessi che han sofferto il male,  «stanno  nello  stesso  errore,  e
vivono nello stesso disordine». La Cittá(24) avea assunto il governo  municipale
di Napoli: erasi formata una milizia nazionale per mantenere il buon ordine.  Il
popolo ne' primi giorni riconosceva l'autoritá della Cittá; tutto  in  apparenza
era tranquillo: ma il fuoco ardeva sotto le ceneri fallaci.  Pignatelli  avrebbe
dovuto avvedersi che il pericoloso onore, a cui era stato destinato,  era  forse
l'ultimo  tratto  del  suo  rivale  Acton  per  perderlo.  Egli  avrebbe  potuto
vendicarsi del suo rivale, render al suo re uno  di  quei  servigi  segnalati  e
straordinari, per i quali un uomo  acquista  quasi  il  nome  ed  i  diritti  di
fondator di una dinastia, renderne  un  altro  egualmente  grande  alla  patria;
avrebbe potuto o vincere la guerra o finirla, risparmiando l'anarchia e tutti  i
mali dell'anarchia: le circostanze nelle quali trovavasi erano straordinarie, ma
egli non seppe  concepire  che  pensieri  ordinari.  Si  disse  che  la  regina,
partendo, gli avesse lasciate istruzioni segrete  di  sollevare  il  popolo,  di
consegnargli le armi, di produrre l'anarchia, di far incendiare Napoli,  di  non
farvi rimanere anima vivente «da notaro in sopra»... Sia che queste voci fossero
vere,  sia  che  fossero  state  immaginate,   quasi   inevitabili   conseguenze
dell'insurrezione che la regina, partendo, organizzava, è certo però che  queste
voci furono da tutti ripetute, da tutti credute; e, nell'osservare le vicende di
una rivoluzione, meritano eguale attenzione le voci vere  e  le  false,  perché,
essendo, a differenza de' tempi tranquilli, l'opinione  del  popolo  grandissima
cagione di tutti gli avvenimenti, diviene egualmente importante e ciò che è vero
e ciò che si crede tale. Pochi giorni dopo si videro  i  primi  funesti  effetti
degli ordini della regina nell'incendio de' vascelli e delle barche  cannoniere,
che non eransi potute, per la troppo precipitevole fuga, trasportare in Sicilia.
Poche ore bastarono a consumare ciò che tanti anni e tanti tesori costavano alla
nostra nazione.  Il  conte  Thurn  da  un  legno  portoghese  dirigea  e  mirava
tranquillamente l'incendio; ed allo splendore ferale di quelle fiamme parve  che
il popolo napolitano vedesse al tempo stesso e tutti gli errori  del  governo  e
tutte le miserie del suo destino. Il popolo non  amava  piú  il  re,  non  volea
neanche udirlo nominare; ma, ripiena la mente delle impressioni di  tanti  anni,
amava ancora la sua religione, amava la patria e odiava i  francesi.  Da  queste
sue disposizioni si avrebbe potuto trarre un utile partito. Insursero delle gare
tra la Cittá ed il vicario generale. Questi volea usurparsi dritti che non avea,
quasi che allora non fosse stato piú utile ed anche piú  glorioso  cedere  tutti
quelli che avea: quella si ricordava che tra' suoi privilegi eravi anche  quello
di non dover mai esser governata  dai  viceré.  La  Cittá  allora  spiegò  molta
energia. Perché dunque allora non surse la repubblica? Il popolo  avrebbe  senza
dubbio seguíto il partito della Cittá. Ma, tra coloro che la  reggevano,  alcuni
pendevano per una oligarchia, la quale non avrebbe potuto  sostenersi  a  fronte
delle province, dove l'odio contro i baroni  era  la  caratteristica  comune  di
tutte le popolazioni; e, nello stato in cui trovavansi  gli  animi  e  le  cose,
volendo stabilirsi  un'oligarchia,  sarebbe  stato  necessario  rinunciare  alla
feudalitá. Altri non osavano; e vi fu anche chi propose di  doversi  offrire  il
Regno ad un figlio di Spagna, quasi che questo progetto fosse allora,  non  dico
lodevole,  ma  eseguibile.  Ne'  momenti  di  grandissima  trepidazione,  quando
discordi sono le idee e molti i partiti, difficile è sempre ritrovar la  via  di
mezzo e, piú che altrove, era difficilissimo in Napoli, dove il  maggior  numero
credeva i francesi  indispensabili  a  fondare  repubbliche.  Intanto  Capua  si
difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa. Si  era  anche  lusingato  di
maggiori vantaggi, poiché facile è sempre il popolo a sperare e  non  mai  manca
chi fomenti le sue speranze. Ai 12 però di  gennaio  lesse  affisso  per  Napoli
l'armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario Pignatelli, per lo
quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto del Regno che giace  a
settentrione di una  linea  tirata  da  Gaeta  per  Capua  fino  all'imboccatura
dell'Ofanto; ed inoltre, per ottener due  mesi  di  armistizio,  il  vicario  si
obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di franchi. Non
mai vicario alcuno di un re  conchiuse  un  simile  armistizio.  La  gloria  gli
consigliava a contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a morirvi;
la prudenza gli consigliava a cedere tutto e  salvar  la  sua  patria  da  nuove
inutili sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi? Non vi
era neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio  per  cui
il re erasi messo in mano degl'inglesi,  lo  metteva  nella  dura  necessitá  di
perdere o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re commesso lo  stesso
errore pel quale erasi perduto l'ultimo dei re della dinastia aragonese,  quello
cioè di mettersi in braccio di uno de' due che si disputavano il di  lui  Regno;
quell'errore dal quale il savio Guicciardini ripete l'ultima  rovina  di  quella
famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle  occasioni  che  ne'
tempi posteriori la fortuna le offrí a ricuperare il  trono.  Perché  dunque  il
vicario volle frappor del tempo tra la cessione ed il possesso, e lasciar libero
lo sfogo all'odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando questi  erano
abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo frenare?  Volea  la
guerra civile, l'anarchia? Tali erano gli ordini  della  regina?  Il  popolo  si
credette tradito dal vicario, dalla Cittá, dai generali, dai soldati, da  tutti.
La venuta de'  commissari  francesi,  spediti  ad  esigere  le  somme  promesse,
accrebbe i suoi sospetti ed il suo furore. Il giorno seguente, corse ai castelli
a prender le armi; i castelli furono aperti, la truppa non si oppose, perché non
avea ordine di opporsi. Il vicario fuggí come era fuggito il re;  il  popolaccio
corse a Caivano(25) per deporre Mack, il quale, sebbene alla testa delle truppe,
non seppe far altro  che  fuggire(26).  Ogni  vincolo  sociale  fu  rotto.  Orde
forsennate di popolaccio armato scorrevano minaccianti  tutte  le  strade  della
cittá, gridando «Viva la santa fede!», «Viva il popolo napolitano!». Si scelsero
per loro capi Moliterni  e  Roccaromana,  giovani  cavalieri  che  allora  erano
gl'idoli del popolo, perché avean mostrato del  valore  a  Capua  ed  a  Caiazzo
contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per poco i trascorsi popolari, ma
la calma non durò che due giorni. I francesi  erano  giá  quasi  alle  porte  di
Napoli.  S'inviò  al  loro  quartier  generale  una  deputazione  composta   da'
principali demagoghi, perché rinunciassero al pensiero  di  entrare  in  Napoli,
offerendo loro e quello che era  stato  promesso  coi  patti  dell'armistizio  e
qualche somma di piú. La risposta  de'  francesi  fu  negativa,  qual  si  dovea
prevedere, ma non qual dovea essere: qualche nostro emigrato, mentre  moltissimi
convenivano della  ragionevolezza  della  dimanda,  aggiunse  alla  negativa  le
minacce e l'insulto; e ciò finí d'inferocire il  popolo.  Non  mancavano  agenti
della corte che lo spingevano a nuovi furori,  non  mancava  quello  spirito  di
rapina che caratterizza tutt'i popoli della terra, non mancavano preti e  monaci
fanatici, i quali, benedicendo le armi di un popolo superstizioso  in  nome  del
Dio degli eserciti, accrescevano colla  speranza  l'audacia  e  coll'audacia  il
furore. La Cittá, che sino a quel giorno avea tenute delle sessioni, piú non  ne
tenne. Il popolo si credette abbandonato da tutti, e fece tutto da sé. La  cittá
intera non offrí che un vasto spettacolo di saccheggi, d'incendi, di  lutto,  di
orrori e di replicate immagini di morte. Tra  le  vittime  del  furore  popolare
meritano di non essere obbliati il duca della Torre e Clemente  Filomarino,  suo
fratello, rispettabili per i loro talenti e le loro virtú e  vittime  miserabili
della perfidia di un domestico scellerato. Alcuni repubblicani, ed allora  erano
repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan beni e costume,  impedirono  mali
maggiori, rimescolandosi  col  popolo  e  fingendo  gli  stessi  sentimenti  per
dirigerlo.  Altri,  colla  cooperazione   di   Moliterni   e   di   Roccaromana,
s'introdussero nel  forte  Sant'Elmo,  sotto  vari  pretesti  e  finti  nomi,  e
riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni.  Championnet  avea
desiderato che, prima ch'ei si movesse  verso  Napoli,  fosse  stato  sicuro  di
questo castello, che domina tutta la cittá. Molti altri corsero  ad  unirsi  coi
francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne. Tutt'i buoni desideravano
l'arrivo de' francesi. Essi erano giá alle  porte.  Ma  il  popolo,  ostinato  a
difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò tanto coraggio,  che
si fece conoscer degno di una causa migliore. In una cittá aperta trattenne  per
due giorni l'entrata del nemico vincitore, ne  contrastò  a  palmo  a  palmo  il
terreno: quando poi si accorse che Sant'Elmo non era piú suo, quando  si  avvide
che da tutt'i punti di Napoli i repubblicani  facevan  fuoco  alle  sue  spalle,
vinto  anziché  scoraggito,  si  ritirò,  meno  avvilito   dai   vincitori   che
indispettito contro coloro ch'esso credeva traditori.

XV

PERCHÉ NAPOLI DOPO LA FUGA DEL RE NON SI ORGANIZZÒ A REPUBBLICA?

Il re era partito, il popolo non lo desiderava piú. Egli  avea  spinto  fino  al
furore  l'amor  d'indipendenza  nazionale,  che   altri   credeva   attaccamento
all'antica schiavitú.  Quando  il  popolo  napolitano  spedí  la  deputazione  a
Championnet, non volle dir altro che  questo:  -  La  repubblica  francese  avea
guerra col re di Napoli, ed ecco che il re è partito; la  nazione  francese  non
avea guerra colla nazione napolitana, ed intanto perché mai i  soldati  francesi
voglion vincere  coloro  che  offrono  volontari  la  loro  amicizia?  -  Questo
linguaggio era saggio, ed i napolitani, senza saperne il  nome,  erano  meno  di
quel che si crede lontani dalla repubblica. Ma, siccome in ogni operazione umana
vi si richiede la forza e l'idea, cosí per produrre una rivoluzione è necessario
il numero e sono necessari i conduttori, i quali  presentino  al  popolo  quelle
idee, che egli talora travede quasi per  istinto,  che  molte  volte  segue  con
entusiasmo, ma che di rado  sa  da  se  stesso  formarsi.  Piú  facili  sono  le
rivoluzioni in un popolo che da poco abbia perduta una forma di governo,  perché
allora le idee del popolo son tratte facilmente  dall'abolito  governo,  di  cui
tuttavia fresca conserva la memoria.  Perciò  «ogni  rivoluzione  -  al  dir  di
Macchiavelli - lascia l'addentellato per un'altra». Quanto  piú  lunga  è  stata
l'oppressione da cui si risorge, quanto maggiore è la diversitá tra la forma del
governo distrutto e quella che  si  vuole  stabilire,  tanto  piú  incerte,  piú
instabili  sono  le  idee  del  popolo,  e  tanto  piú   difficile   è   ridurlo
all'uniformitá, onde avere e concerto ed effetto nelle sue operazioni. Questa  è
la ragione per cui e piú sollecito e piú felice fine hanno avuto le  rivoluzioni
di quei popoli, ne' quali o vi era ancor fresca memoria di governo migliore, o i
rivoluzionari attaccati si sono ad alcuni dritti (come  la  Gran  carta,  che  è
stata la bussola di tutte le rivoluzioni inglesi)  o  a  talune  magistrature  e
taluni usi (come fecero gli olandesi), che essi aveano conservati quasi a fronte
del dispotismo usurpatore. Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero  potuto
esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal  fondo  istesso  della  nazione.
Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla  nostra;  fondate
sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da' sensi, e, quel  ch'è  piú,
si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi,  tutt'i  capricci  e  talora
tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti,  da'  nostri
capricci, dagli usi nostri. Le contrarietá ed i dispareri si  moltiplicavano  in
ragione del numero delle cose  superflue,  che  non  doveano  entrar  nel  piano
dell'operazione, e che intanto vi entrarono. Quanto maggiore è  questa  varietá,
tanto maggiore è la difficoltá di riunire il popolo e  tanto  maggior  forza  ci
vuole per vincerla. Se le idee fossero uniformi, potrebbero  tutti  agire  senza
concerto, perché tutti agirebbero concordemente alle loro idee; ma, quando  sono
difformi, è necessario che agisca uno solo. Di rado avviene che una  rivoluzione
si possa condurre a fine se non da una persona sola: la stessa  libertá  non  si
può fondare che per mezzo del dispotismo. Il  popolo  ondeggia  lungo  tempo  in
partiti: diresti quasi che la nazione vada a distruggersi, ne vedi giá  scorrere
il sangue; finché una persona si eleva,  acquista  dell'ascendente  sul  popolo,
fissa le idee, ne riunisce le forze: col tempo, o costui forma la felicitá della
patria o, se vuole opprimerla,  talora  ne  rimane  oppresso.  Ma  egli  ha  giá
indicata la strada, ed allora il popolo può agire da sé. Quest'uomo non si trova
se non dopo replicati infelici esperimenti, dopo  lungo  ondeggiar  di  vicende,
quando i suoi fatti medesimi  lo  abbiano  svelato:  le  guerre  civili  mettono
ciascuno nel posto che gli conviene. Se taluno si voglia far conoscere e seguire
dal popolo ne' primi moti di una rivoluzione, a  meno  che  la  rivoluzione  sia
religiosa, non basta che abbia egli gran mente e gran cuore: convien  che  abbia
gran nome; e questo nome ben spesso si ha per tutt'altro che pel merito. Il modo
piú certo e piú efficace per guadagnar la pubblica opinione è una regolaritá  di
giurisdizione, che taluno ancora conservi nel passar  dagli  ordini  antichi  ai
nuovi. La Cittá era nelle circostanze di poter farsi seguire da tutto il popolo;
dopo la Cittá, poteva Moliterni: ma né Moliterni ebbe idea di far nulla,  né  la
Cittá, ondeggiando tra tante idee, quasi tutte chimeriche, seppe determinarsi  a
quelle che il tempo richiedeva. Parve che in Napoli niuno si fosse  preparato  a
questo  avvenimento;  e,  quando  si  videro  in  mezzo  al  vortice,  tutti  si
abbandonarono in balía delle onde. Non è molto onorevole a dirsi per  lo  genere
umano, ma pure è vero: quasi tutte  le  nazioni,  nelle  loro  crisi  politiche,
allora sono giunte piú facilmente al loro termine quando si è trovato  tra  loro
un  uomo  profondamente  ambizioso,  il  quale,  prevedendo   da   lontano   gli
avvenimenti, vi si sia preparato e, riunendo tutte le forze a proprio vantaggio,
abbia prodotto poi il vantaggio della  nazione:  poiché,  o  è  stato  saggio  e
virtuoso, ed ha fondata la sua grandezza sulla felicitá della patria; o è  stato
uno stolto, uno scellerato, ed è caduto vittima de' suoi progetti. Ma allora, lo
ripeto, egli avea giá insegnata la strada. In  Napoli  Pignatelli,  viceré,  non
ebbe neanche il pensiero di far nulla; la Cittá non seppe risolversi;  Moliterni
non ardí; niun altro si mostrò; tra' repubblicani molti, che menavan piú rumore,
erano piú francesi(27) che repubblicani, ed  ai  veri  repubblicani  allora  una
folla infinita si era rimescolata di mercatanti di rivoluzione, che desideravano
per calcolo un cangiamento. Era giá passato il primo momento: troppo innanzi era
trascorso il popolo; gli stessi saggi disperavano di poterlo  piú  frenare,  gli
stessi buoni desideravano una forza esterna che lo contenesse. Forse i  francesi
istessi eran giá troppo vicini. Quell'operazione che avrebbe potuto riuscire  a'
25 di dicembre, allorché la Cittá la fece da re, facendo aprir di suo ordine  le
cacce del sovrano giá partito, difficilmente potea eseguirsi allorché i francesi
erano a Capua.  Per  quanto  disinteressata  fosse  stata  la  Cittá  nelle  sue
operazioni e lontana dalle sue  idee  di  oligarchia,  volendo  però  formar  la
felicitá della nazione, non potea né dovea allontanarsi dalle idee nazionali;  e
troppo queste idee sarebbero state lontane dall'idee di molti altri. Ora  i  piú
leggeri dispareri si conciliano con difficoltá, quando vi sia una forza  esterna
pronta a sostenere un partito. I partiti non cedono se non per diseguaglianza di
forza o per vicendevole stanchezza di combattere: molte offese si  tollerano  e,
tollerando, molti mali si evitano, sol perché non  possiamo  sul  momento  farne
vendetta; e la concordia tra gli uomini  è  meno  effetto  di  saviezza  che  di
necessitá. Le potenze estere, pronte in tutt'i  tempi  a  prender  parte,  prima
nelle gare tra fazione e fazione di una medesima cittá, indi nelle  dispute  tra
uno Stato e l'altro, hanno distrutta prima la libertá  e  poscia  l'indipendenza
dell'Italia. Niuna nazione  piú  della  napolitana  ne  ha  provati  gl'infelici
effetti. Tra le tante potenze estere che vantavano un titolo su quel regno, ogni
gara che sorgeva tra' cittadini, vi era un estero che vi prendeva parte:  talora
gli esteri stessi fomentavano le  gare;  i  cittadini,  per  essere  piú  forti,
univano i loro  disegni  a  quelli  dell'estero,  simili  al  cavallo  che,  per
vendicarsi del cervo, si donò ad un padrone; e  cosí  quel  regno  è  stato  per
cinque secoli (quanti se ne contano dall'estinzione della dinastia de'  Normanni
fino allo stabilimento di  quella  dei  Borboni)  l'infelice  teatro  d'infinite
guerre civili, senza che una di esse abbia potuto giammai produrre un bene  alla
patria. Io forse non faccio che pascermi di  dolci  illusioni.  Ma,  se  mai  la
repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione,  diretta  dalle
idee eterne della giustizia, si fosse  fondata  sui  bisogni  e  sugli  usi  del
popolo; se un'autoritá, che il popolo credeva legittima e nazionale,  invece  di
parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de'
beni reali e liberato lo avesse da que'  mali  che  soffriva;  forse  allora  il
popolo, non allarmato all'aspetto di novitá contro delle quali avea  inteso  dir
tanto male, vedendo difese le sue idee ed i  suoi  costumi,  senza  soffrire  il
disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta  la  guerra;  forse...
chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri  avanzi  di  una  patria  desolata
degna di una sorte migliore.

XVI

STATO DELLA NAZIONE NAPOLITANA

L'armata francese entrò in Napoli a' 22 di gennaio. La prima cura di Championnet
fu quella d'«istallare» un governo provvisorio, il quale, nel tempo  stesso  che
provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la  costituzione
permanente dello Stato. Una cura tanto  importante  fu  affidata  a  venticinque
persone, le  quali,  divise  in  sei  «comitati»,  si  occupavano  de'  dettagli
dell'amministrazione ed esercitavano quello  che  chiamasi  «potere  esecutivo»;
riunite insieme, formavano l'assemblea legislativa. I  sei  comitati  erano:  1°
centrale, 2° dell'interno, 3° di guerra, 4° di finanza, 5°  di  giustizia  e  di
polizia, 6° di legislazione. Le persone  elette  al  governo  furono:  Abamonti,
Albanese, Baffi, Bassal francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De  Gennaro,
De Filippis, De Rensis, Doria,  Falcigni,  Fasulo,  Forges,  Laubert,  Logoteta,
Manthoné,  Pagano,  Paribelli,  Pignatelli-Vaglio,  Porta,  Riari,  Rotondo.  Ma
l'immaginare un progetto di  costituzione  repubblicana  non  è  lo  stesso  che
fondare una repubblica. In un governo in cui  la  volontá  pubblica,  o  sia  la
legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che
la volontá privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini  liberi.
Prima d'innalzare sul territorio napolitano l'edificio della libertá, vi  erano,
nelle   antiche   costituzioni,   negl'invecchiati   costumi    e    pregiudizi,
negl'interessi attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva  conoscere,
che era necessario rimuovere.  Ferdinando  guardava  bieco  la  nostra  nascente
libertá e da Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto.
Egli avea  de'  potenti  alleati,  i  quali  erano  per  noi  nemici  terribili,
specialmente gl'inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del  commercio  di
Sicilia e di Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea
che difficilmente sussistere. Dall'epoca de' romani in qua, la sorte dell'Italia
meridionale dipende in gran parte da quella della Sicilia.  I  romani  ridussero
l'Italia a giardino, il quale ben presto si cangiò in deserto.  Dopo  le  grandi
conquiste de' romani, s'incominciò ad udire per la prima volta  che  la  Sicilia
era il granaio dell'Italia; detto quanto glorioso per la prima tanto  ingiurioso
per la seconda. Non si sarebbe ciò detto prima del quinto secolo di Roma, quando
l'Italia bastava sola ad alimentare  trenta  milioni  di  uomini  industriosi  e
guerrieri, di costumi semplici e magnanimi. Ne' secoli  di  mezzo,  chiunque  fu
padrone della Sicilia turbò a suo  talento  l'Italia.  Dalla  Sicilia  Belisario
distrusse il regno de' goti; dalla Sicilia i saraceni  la  infestarono  per  tre
secoli, finché i normanni la riunirono di nuovo al regno  di  Napoli,  al  quale
rimase unita fino all'epoca di Carlo primo d'Angiò. E chi  potrebbe  negare  che
quella separazione non abbia  influito  a  ritardare  nel  regno  di  Napoli  il
progresso di quella civiltá, la quale, prima che in ogni  regione  d'Italia,  vi
avevan destata il gran Federico di Svevia e la sventurata sua  progenie?  I  due
regni furon riuniti sotto la lunga dominazione della casa Austriaca  di  Spagna.
In que' tempi appunto Napoli  incominciò  ad  ingrandirsi,  ed  è  divenuta  una
capitale immensa, la  quale  per  sussistere  ha  bisogno  del  formento  e  piú
dell'olio delle province lontane che bagna l'Adriatico, ed  il  commercio  delle
quali non si può comodamente esercitare, né  la  capitale  potrebbe  comodamente
sussistere, senza il libero passaggio per lo stretto di Messina. E  si  aggiunga
che di quello stretto il vero padrone è colui che possiede  la  Sicilia,  poiché
egli vi tiene in Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie
non vi sono che picciole e mal sicure rade. Avea il  re  nel  Regno  stesso  non
pochi partigiani, i quali amavano l'antico governo in preferenza del  nuovo;  ed
in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi erano  molte  popolazioni  in
aperta controrivoluzione, perché non ancora avean deposte quelle armi che  avean
prese, invitate e spinte da' proclami del re; altre pronte a prendere, tostoché,
rinvenute una volta dallo stupore che loro ispirava una conquista sí  rapida  ed
accorte della debolezza della forza francese, avessero ritrovato  un  intrigante
per capo ed un'ingiustizia, anche apparente, del nuovo governo per  pretesto  di
una sollevazione. Il numero di coloro che eran  decisi  per  la  rivoluzione,  a
fronte della massa intera della popolazione, era  molto  scarso;  e,  tosto  che
l'affare si fosse commesso alla decisione delle armi, era per  essi  inevitabile
soccombere. Eccone un esempio nella provincia di Lecce, dove la sollevazione  fu
prodotta da un accidente che, per la sua singolaritá, merita d'esser  ricordato.
Trovavansi in Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colá portati a causa di
procurarsi un imbarco  per  la  Sicilia.  I  continui  venti  di  scirocco,  che
impediscono colá l'uscita dal porto, impedirono la partenza de' còrsi,  i  quali
loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata  la  repubblica.
E, dubitando di poter essere arrestati e cader  nelle  mani  dei  francesi,  sen
partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per  Brindisi,  sperando
di trovar un imbarco per Corfú o per Trieste. Dopo varie  miglia  di  viaggio  a
piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati  da
una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero  che  vi  era  tra
essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse  e  corresse
da un suo parente chiamato  Bonafede  Girunda,  capo  contadino  del  villaggio.
Costui si recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al  piú  giovane  e  gli
protestò tutti gli atti  di  riverenza  e  di  vassallaggio.  I  còrsi  rimasero
sorpresi,  e,  dubitando  di  maggiori  guai,   appena   partito   il   Girunda,
senz'aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il  Girunda
dalla vecchia istessa della partenza del  supposto  principe  ereditario,  montò
tosto a cavallo per raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E,  non  avendolo
incontrato, domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col  suo
séguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in  armi
tutti i paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il
supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato  dalle  circostanze  del
momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non  credendosi  sicuro  in
Mesagne, si ritirò sollecitamente  in  Brindisi.  Qui,  rinchiusosi  nel  forte,
cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva  che,  dovendo  egli
partire per la Sicilia a raggiungere il  suo  augusto  genitore,  lasciava  suoi
vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credé due  altri
principi del sangue.  Questi  due  impostori,  uno  cognominato  Boccheciampe  e
l'altro De Cesare, si misero tosto alla testa degl'insurretti.  Il  primo  restò
nella provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo
seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione. Con questa truppa,  che  fu
fatta composta di  birri,  degli  uomini  d'armi  dei  baroni,  dei  galeotti  e
carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti  i  facinorosi
delle due province, riuscí loro facile  l'impadronirsi  di  tutti  i  paesi  che
proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con  un  assedio  Martina  ed
Acquaviva, le quali  cittá  giurato  avevano  piuttosto  morire  che  riconoscer
gl'impostori. Audaci per i buoni  successi  avuti,  tentarono  di  provarsi  coi
francesi, i quali erano giá padroni di una buona  porzione  della  provincia  di
Bari; ma, incontratisi con  un  piccolo  distaccamento  francese  nel  bosco  di
Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il  Boccheciampe
in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle  mani  dei
francesi; ma il secondo, piú astuto, se ne scappò, dopo la nuova della prigionia
del suo compagno, in Torre di mare, l'antico Metaponto, e andiede ad  unirsi  al
cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.  La  nostra  rivoluzione  essendo  una
rivoluzione passiva, l'unico mezzo  di  condurla  a  buon  fine  era  quello  di
guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute de'  patrioti(28)  e  quelle  del
popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche
due lingue diverse. Quella  stessa  ammirazione  per  gli  stranieri,  che  avea
ritardata la nostra coltura ne' tempi del re, quell'istessa formò, nel principio
della nostra repubblica, il piú grande ostacolo allo stabilimento della libertá.
La nazione napolitana si potea considerare come divisa in  due  popoli,  diversi
per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si  era
formata sopra modelli stranieri, cosí la sua coltura era diversa  da  quella  di
cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo
delle nostre facoltá. Alcuni erano divenuti francesi, altri  inglesi;  e  coloro
che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero,  erano  ancora
incolti. Cosí la coltura di pochi  non  avea  giovato  alla  nazione  intera;  e
questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l'era utile e  che  non
intendeva(29). Le disgrazie de' popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni
delle piú utili veritá. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e  non
si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser  libero
quel popolo in cui la parte che per la superioritá della sua ragione è destinata
dalla natura a governarlo, sia coll'autoritá sia cogli esempi, ha venduta la sua
opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta  allora  la  metá
della sua indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime da  seguire,  gli
ambiziosi ne profittano, la rivoluzione degenera in  guerra  civile,  ed  allora
tanto gli ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi  che  scelgono
sempre i minori tra' mali, e gl'indifferenti  i  quali  non  calcolano  che  sul
bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una potenza esterna, la
quale non manca mai di profittare di simili  torbidi  o  per  se  stessa  o  per
ristabilire il re discacciato. Quell'amore di patria, che nasce  dalla  pubblica
educazione e che genera l'orgoglio nazionale è quello che solo ha fatto  reggere
la Francia, ad onta di tutt'i mali che per la sua rivoluzione  ha  sofferti,  ad
onta di tutta l'Europa collegata contro di lei: mille francesi si  avrebbero  di
nuovo eletto un re, ma non vi è nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla  mano
de' tedeschi o degl'inglesi. Niuno piú di Pitt dagli esempi domestici ne avrebbe
dovuto esser convinto, se mai la vendetta dei diritti borbonici fosse  stata  la
cagione e non giá il pretesto della lega, che una tal guerra,  col  pretesto  di
rimettere un re, era inutile. La nazione  napolitana,  lungi  dall'avere  questa
unitá nazionale, si potea considerar come divisa in tante  diverse  nazioni.  La
natura pare che abbia voluto riunire in una picciola estensione di terreno tutte
le varietá: diverso è in ogni provincia il cielo, diverso è il suolo; le  avanie
del fisco, che ha sempre seguite tali varietá  per  ritrovar  ragioni  di  nuove
imposizioni ovunque ritrovasse  nuovi  benefíci  della  natura,  ed  il  sistema
feudale, che ne' secoli scorsi, tra l'anarchia e la barbarie, era sempre diverso
secondo i diversi luoghi e  le  diverse  circostanze,  rendevano  da  per  tutto
diverse le proprietá ed, in conseguenza, diversi i  costumi  degli  uomini,  che
seguon sempre la proprietá ed i  mezzi  di  sussistenza.  Conveniva,  tra  tante
contrarietá, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse  tutti
gli uomini alla rivoluzione. Quando la  nazione  si  fosse  una  volta  riunita,
invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi. Se  lo
stato della nostra  nazione  presentava  grandi  ostacoli,  offriva,  dall'altra
parte, grandi risorse per menare  avanti  la  nostra  rivoluzone.  Si  avea  una
popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da  sé,  era
però docile a riceverla da un'altra mano. I partiti decisi erano ambedue scarsi:
la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol  dir  questo  se
non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da veruna passione?
Giudice imparziale e perciò giusto de' due pretendenti, avrebbe  seguíto  quello
che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo  s'illude  difficilmente,
ma facilmente si governa. Esso non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva
però il suo bene. Credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che
un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso diritto pel  quale  agli
Austriaci eran succeduti i Borboni; e, quando questo nuovo  sovrano  gli  avesse
restituiti i suoi diritti, esso ne avrebbe ben accettato il dono. Le  insorgenze
ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro  della
guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa,  che,  a
forza di farci finger odio, ci porta finalmente  alla  necessitá  di  odiare  da
vero, e  dalla  condotta  di  taluni  officiali  francesi,  i  quali,  armati  e
vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La  gran  massa  della  nazione
intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le  insorgenze  non
iscoppiarono che molto tempo dopo. Vi furono anche molte popolazioni,  le  quali
spinsero tanto avanti l'entusiasmo della libertá, che  prevennero  l'arrivo  de'
francesi nella capitale e si sostennero colle sole loro forze  contro  tutte  le
armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era resa.  Tutte  queste  forze
riunite insieme avrebbero potuto formare  una  forza  imponente,  se  si  avesse
saputo trarne profitto. La popolazione immensa della capitale era piú istupidita
che attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che quasi  avea
creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il popolo della capitale era
piú lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso da'
tributi e piú vezzeggiato da una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per
lo piú sulla feccia del popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si
vende a colui che meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade  che
non sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sí che  non  sia
desiderato anche dai buoni. Ma forse il soverchio  timore,  che  si  concepí  di
quella  popolazione,  fece  sí  che  si  prendesse  troppo  cura  di  lei  e  si
trascurassero le province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali
si ebbe infatti la controrivoluzione.

XVII

IDEE DE' PATRIOTI

Quali dunque esser doveano  le  operazioni  da  farsi  per  spingere  avanti  la
rivoluzione del regno di Napoli? Il primo passo era quello di far sí che tutti i
patrioti fossero convenuti nelle loro idee, o  almeno  che  per  essi  vi  fosse
convenuto il governo. Tra i nostri patrioti (ci si permetta  un'espressione  che
conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano  la
repubblica sulle labbra, moltissimi l'aveano nella testa, pochissimi nel  cuore.
Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché
lo erano i francesi;  alcuni  lo  erano  per  vaghezza  di  spirito;  altri  per
irreligione, quasi che  per  esentarsi  dalla  superstizione  vi  bisognasse  un
brevetto di governo; taluno confondeva  la  libertá  colla  licenza,  e  credeva
acquistar colla  rivoluzione  il  diritto  d'insultare  impunemente  i  pubblici
costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare di calcolo.  Ciascuno
era mosso da quel disordine che piú lo aveva colpito  nell'antico  governo.  Non
intendo con ciò offendere la mia nazione: questo è  un  carattere  di  tutte  le
rivoluzioni; ma, al contrario, qual altra può, al pari della nostra,  presentare
un numero maggiore o anche eguale di persone che  solo  amavano  l'ordine  e  la
patria? Si prendeva però, come  suol  avvenire,  per  oggetto  principale  della
riforma ciò che non era che un accessorio, ed all'accessorio si  sagrificava  il
principale. Seguendo le idee de' patrioti, non si sapeva né  donde  incominciare
né dove arrestarsi. Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille
teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi delle altre.
Se a costoro si presenta un capo che li voglia riunire, la riunione non  seguirá
giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirá la
rivoluzione ed andrá avanti solo per quell'oggetto che è  comune  a  tutti.  Gli
altri oggetti rimarranno forse trascurati?  No;  ma  ciascuno  adatterá  il  suo
interesse privato al pubblico, la volontá particolare seguirá  la  generale,  le
riforme degli accessorii si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto camminerá
in ordine. Non vi è  governo  il  quale  non  abbia  un  disordine  che  produce
moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non  offra  a  molti  molti
beni e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione  vuol
tutto riformare, cioè vuol tutto  distruggere,  allora  ne  avviene  che  quelli
istessi, i quali braman la rivoluzione per una ragione, l'aborrono per un'altra:
passato il primo momento dell'entusiasmo ed ottenuto  l'oggetto  principale,  il
quale, perché comune a tutti, è sempre per necessitá con piú veemenza desiderato
e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il  dolore  di  tutti  gli
altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se stesso e  poi
anche agli altri: - Ma per ora potrebbe bastare... Il di piú, che si vuol  fare,
è inutile..., è dannoso. - Comincia ad ascoltarsi l'interesse privato;  ciascuno
vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia possibile; e,  siccome
le sensazioni del dolore sono in noi piú forti di quelle del  piacere,  ciascuno
valuta piú quello che ha perduto  che  quello  che  ha  guadagnato.  Le  volontá
individuali si cangiano, incominciano a discordar tra loro; in  un  governo,  in
cui la volontá generale non  deve  o  non  può  avere  altro  garante  ed  altro
esecutore che la  volontá  individuale,  le  leggi  rimangono  senza  forza,  in
contraddizione coi  pubblici  costumi,  i  poteri  caderanno  nel  languore;  il
languore o  menerá  all'anarchia,  o,  per  evitar  l'anarchia,  sará  necessitá
affidare l'esecuzione delle leggi ad una forza estranea, che non  è  piú  quella
del popolo libero; e voi non avrete piú repubblica. Ecco tutto il segreto  delle
rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo;  egli  allora  vi
seguirá: distinguere ciò che vuole  il  popolo  da  ciò  che  vorreste  voi,  ed
arrestarvi tosto che il popolo piú non vuole;  egli  allora  vi  abbandonerebbe.
Bruto, allorché discacciò i Tarquini da Roma, pensò a provvedere il popolo di un
re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di avere un  re  sul  trono,  lo
credevano però ancor necessario nell'altare. La mania di voler  tutto  riformare
porta seco la controrivoluzione: il popolo  allora  non  si  rivolta  contro  la
legge, perché non attacca la volontá generale, ma la volontá individuale. Sapete
allora perché si segue un usurpatore? Perché rallenta  il  rigore  delle  leggi;
perché non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontá sua, la
quale prende il luogo ed il nome di «volontá generale», e lascia tutti gli altri
alla  volontá  individuale  del  popolo.  «Idque  apud   imperitos   'humanitas'
vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano carattere di tutti i popoli  della
terra! Il desiderio di dar loro soverchia  libertá  risveglia  in  essi  l'amore
della libertá contro gli stessi loro liberatori.

XVIII

RIVOLUZIONE FRANCESE

Io credeva di far delle riflessioni sulla  rivoluzione  di  Napoli,  e  scriveva
intanto la storia della rivoluzione di tutt'i popoli della terra, e specialmente
della rivoluzione francese. Le false idee  che  i  nostri  aveano  concepite  di
questa non han poco contribuito ai nostri mali. Hanno voluto imitare  tutto  ciò
che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di  male,  di  cui  i  francesi
stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i nostri voluto aspettare i
giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto  che  la  rivoluzione
francese fosse l'opera della filosofia, mentre la filosofia aveva fatto poco men
che guastarla. Ne giudicavano sullo stato attuale,  senza  ricordarsi  qual  era
stata e senza preveder quale sarebbe un giorno divenuta. La rivoluzione francese
aveva un'origine quasi legale, che mancava alla nostra. Il suo  primo  scopo  fu
quello di rimediare ai mali della nazione, sui quali eran concordi egualmente il
popolo ed il re; ed il  popolo  riconobbe  la  legittima  autoritá  degli  Stati
generali e poscia delle assemblee, non altrimenti che venerava  quella  del  re,
per di cui comando, o almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati  generali
quanto le assemblee erano state convocate. Quello stesso  stato  politico  della
Francia,  che  faceva  preveder  ai  saggi  da  tanto  tempo   inevitabile   una
rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali;  si  formò  l'Assemblea
nazionale, ed il re fu dalla parte dell'Assemblea. Che  vi  sia  stato  solo  in
apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin  qui  non  vi  è  ancora
rivoluzione. Essa incominciò allorché il re  si  separò  dall'Assemblea:  allora
incominciò la guerra civile, ed il partito dell'Assemblea  seppe  guadagnare  il
popolo coll'idea della giustizia. E fin  qui  il  popolo  francese  fece  sempre
operazioni al livello, diciamo cosí,  delle  sue  idee.  I  Stati  generali  gli
sembravano giusti, tra perché la Francia conservava ancor fresca la  memoria  di
altri Stati generali, tra perché erano convocati dall'autoritá del re, che  egli
credeva legittima. Il re stesso autorizzò l'Assemblea nazionale; il re contrattò
con la medesima, allorché divenne re costituzionale; quando fu condannato, lo fu
pel pretesto di aver mancato al proprio patto, a cui il popolo intero era  stato
spettatore.  E  quale  era  questo  patto?  Quello  con  cui  avea  egli  stesso
riconosciuta la sovranitá della nazione ed aveva giurata  la  sua  felicitá.  Il
popolo, seguendo il partito dell'Assemblea, credette seguire  il  partito  della
giustizia e del suo interesse. Quando io paragono  la  rivoluzione  inglese  del
1649 alla francese del 1789, le trovo piú simili che non si pensa:  s'incomincia
la riforma in nome del re; il re è arrestato, è giudicato,  è  condannato  quasi
dal re istesso; il popolo passa per gradi  dalle  antiche  idee  alle  nuove,  e
sempre le nuove sono appoggiate alle  antiche.  Le  operazioni  de'  popoli  van
soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini. Se invertite, se
turbate l'ordine e la serie delle medesime, se volete  esporre  nell'Ottantanove
le idee del Novantadue, il  popolo  non  le  comprenderá;  ed  invece  di  veder
rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale declamatore. Al
pari che l'uomo lo è nelle idee, un popolo è nelle sue  operazioni  servo  delle
forme esterne onde son rivestite; l'esattezza esterna di  un  sillogismo  ne  fa
bever, senza avvedersene, un errore; l'esterna solennitá delle formole  sostiene
un'operazione manifestamente  ingiusta.  Incominciate  per  inavvertenza  o  per
malizia da un leggerissimo errore: quanto  piú  vi  inoltrerete,  tanto  piú  vi
discosterete da quella retta nella quale sta il vero; e  vi  inoltrerete  tanto,
che talora conoscerete l'errore, ma ignorerete la strada di ritornare  indietro.
Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica necessitá  quello  che
non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerá non  perché
il popolo lo  approvi,  ma  perché  ignora  le  vie  di  poterlo  legittimamente
impedire. Quando l'errore vien da un  metodo  fallace,  il  ricredersene  è  piú
difficile, perché è necessitá ritornar indietro fino al punto,  spesso  lontano,
in cui la linea delle fallacie si separa da quella della veritá;  ma,  ricreduti
una volta gli animi, per cagion  di  un  solo  errore  distruggeranno  tutto  il
sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi decimosesto contro tutte quelle
leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora  come  avea
ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed è cosa «di  cattivissimo
esempio in una repubblica -  dice  Macchiavelli  -  fare  una  legge  e  non  la
osservare, e tanto piú quando la non è osservata da chi l'ha  fatta».  Tutto  il
bene che poteva produrre la rivoluzione di Francia  fu  distrutto  colla  stessa
sentenza che condannò l'infelice Luigi decimosesto. Nell'epoca istessa in cui la
Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono  anche  quelle  riforme
che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste riforme?  Vi  fu  una
continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti  non  si  intendevano
piú tra loro, ed il popolo non ne  intendeva  nessuno.  Si  correva  dietro  una
parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora non indicava né  una
cosa né una persona;  e  le  controversie,  che  non  potevano  decidersi  colla
ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una forza  maggiore  e
contenne tutte le altre col timore. Robespierre ritenne le parole per perdere  i
suoi rivali, ma attaccò a queste parole  delle  cose  sensibili,  sebbene  tutte
diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo  non  intendeva  né  Robespierre  né
Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava  piú  licenza  degli  altri,  e
scannava tutti quelli che Robespierre voleva scannati.  Robespierre  non  poteva
durar molto tempo, per la ragione che i suoi  fatti  non  avean  verun  rapporto
colle sue idee e si potevano conservar le cose  senza  conservar  le  idee.  Che
volle significare infatti quella parola di «oltre rivoluzionario»,  che  i  suoi
rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo? Robespierre salvò la Francia,
facendo  rivoltare  tutt'i  partiti  contro   di   lui   ed,   in   conseguenza,
riunendoli(30); ma Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona, le sue
idee,  la  costituzione  sua.  Le  idee  erano  giunte  all'estremo  e   doveano
retrocedere. Si era riformato piú di quello che  il  popolo  volea;  e,  siccome
queste riforme superflue non aveano in favor  loro  il  pubblico  costume,  cosí
conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le leggi sono sempre  tanto
piú crudeli quanto piú son capricciose. Il sistema de' moderati rimenava le cose
al loro stato naturale e non dava loro altra importanza che quella che il popolo
istesso lor dava; cosí il suo rigore e la sua dolcezza  erano  il  rigore  e  la
dolcezza del popolo. L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo,  s'indeboliscono  e  si  estinguono:  a
forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento  di
libertá. «Nec totam libertatem,  nec  totam  servitutem  pati  possumus»,  disse
Tacito del popolo romano: a me pare che si possa dire  di  tutt'i  popoli  della
terra. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo all'estremo il senso della
libertá, se non che accelerarne il cambiamento? La vita e le vicende de'  popoli
si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è tra l'estrema servitú e la
libertá estrema uno stadio che tutt'i popoli corrono,  e  si  può  dire  che  in
questo corso appunto consiste la vita di tutt'i  popoli.  La  plebe  romana  era
serva addetta alle glebe di pochi patrizi, non aveva proprietá  di  beni  né  di
persona. Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la sicurezza delle persone
e de' beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza auspíci,  senza  magistrature;
chiese ed ottenne la partecipazione a  tutte  queste  cose,  ma  le  chiese  con
temperanza, le furon concesse con moderazione; e ciò non solo prolungò  la  vita
della repubblica, ma la rese, per la vicendevole emulazione delle parti  che  la
componevano, piú energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che chiamar
si potrebbe «eguaglianza di diritto», i tribuni pretesero anche l'eguaglianza di
fatto: s'incominciò a parlar di leggi agrarie, e  la  repubblica  perí.  Si  era
giunto a quell'estremo oltre del quale era  impossibile  progredire.  Nel  primo
anno  della  rivoluzione  francese,  non  si  pensava  che  a  stabilire  quella
eguaglianza di  diritto,  alla  quale  tendevano  irresistibilmente  gli  ordini
pubblici di tutta l'Europa; nel terzo però si pretendeva l'eguaglianza di fatto:
in tre anni voi passate dall'etá di Menenio Agrippa a quella  de'  Gracchi.  Che
dico io mai? Nell'etá de' Gracchi, mentre si pretendeva eguagliare  i  beni,  si
riconosceva la legittimitá del dominio civile. Il rispetto, che il popolo ancora
serbava per la legge delle doti, lo trattenne  dall'eseguire  la  divisione  de'
beni. In Francia le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in dubbio  la
legittimitá delle doti, quella de' testamenti, l'istessa legge fondamentale  del
dominio, senza la quale non vi è proprietá. Le idee della  rivoluzione  francese
erano un secolo piú innanzi di quelle de' Gracchi: ed ecco perché,  contando  da
quest'epoca, la repubblica francese ha  avuto  un  secolo  meno  di  vita  della
romana. Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre  il  confine  del
diritto, la causa della libertá diventa la causa  degli  scellerati.  La  legge,
diceva Cicerone, non distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque  vi  sono
ancora dissensioni tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno
sempre i pochi e i molti: pochi ricchi  e  molti  poveri,  pochi  industriosi  e
moltissimi  scioperati,  pochissimi  savi  e  moltissimi  stolti.  Le  idee   di
Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione francese
né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però  era  possibile,
alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti  de'  francesi
tanti Galli: li avrebbe resi piú  guerrieri,  ma  meno  capaci  di  sostener  la
guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta  la  terra,  ma  a  capo  di
qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese  sarebbe
stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare  o  pazzo;  di
Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo  o
pazzo.  Ho  cercato  nella  storia  un  uomo  a  cui  Robespierre   si   potesse
assomigliare. Alcuni de' suoi amici ed anche de' suoi nemici lo han paragonato a
Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non
conoscessero Silla. Robespierre ha  molta  somiglianza  con  Appio.  Differivano
nelle massime che predicavano; non so se differissero nello scopo che  si  avean
prefisso, perché per me è  ben  lontano  dall'esser  evidente  che  Robespierre,
predicando libertá, non tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente  ambiziosi
e, nella loro  ambizione,  egualmente  crudeli,  egualmente  imbecilli.  Ambedue
volevano stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza
distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell'autoritá, che Macchiavelli chiama
«pericolosissima», libera nel potere, limitata nel tempo, onde  nell'uomo  nasce
brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi;  ma  questi,  non  essendosi  dati
dalle leggi a quel fine al  quale  egli  li  indirizza,  debbono  per  necessitá
divenir tirannici. Né l'uno né l'altro comprese la massima  o  di  non  offender
nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini  e  dar
loro cagioni di quietare e fermare l'animo; ma  rinfrescavano  ogni  giorno  ne'
cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel  popolo  che
volevan dominare. Ambedue volevan  stabilire  l'impero  col  terrore;  non  eran
militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla medesima
sostituita l'inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è piú crudele  di
ogni milizia, perché è costretta a punire  i  delitti  che  questa  previene  ed
accresce i sospetti che questa minora. Questa specie di tirannide,  che  chiamar
si potrebbe «decemvirale», è la piú terribile di tutte, ma per buona sorte è  la
meno durevole. Per gli uomini che riflettevano, il «moderantismo»  non  era  che
uno stato intermedio, il quale ne dovea produrre un altro. La nazione  respirava
dopo la lotta che avea sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea  scelto  il
punto del suo riposo. Un eccesso di  energia  ne  dovea  produrre  un  altro  di
rilasciatezza. La guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla  nazione;
ma era stata fatta da un  partito,  il  quale  poi,  come  suol  avvenire,  avea
affidata la somma delle cose a mani  perfide  e  sciagurate.  La  nazione  sotto
Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto  il  Direttorio  la  sua
indipendenza(31). Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo
tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli  estremi  e
non sa che la felicitá è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al  popolo
fiorentino, esso non ritrova mai questo punto!

XIX

QUANTE ERANO LE IDEE DELLA NAZIONE?

Il male, che producono le idee troppo astratte di libertá, è quello di toglierla
mentre la vogliono stabilire. La libertá è un bene, perché produce  molti  altri
beni,  quali  sono  la  sicurezza,  l'agiata  sussistenza,  la  popolazione,  la
moderazione dei tributi,  l'accrescimento  dell'industria  e  tanti  altri  beni
sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertá. Un
uomo,  il  quale,  senza  procurare  ad  un  popolo  tali  vantaggi,  venisse  a
comandargli di amare la libertá, rassomiglierebbe l'Alcibiade di  Marmontel,  il
quale voleva esser amato «per se stesso». La nazione  napolitana  bramava  veder
riordinate le finanze, piú incomode per la  cattiva  distribuzione  che  per  la
gravezza de' tributi; terminate le dissensioni  che  nascevan  dalla  feudalitá,
dissensioni che tenevano la nazione in uno stato di guerra  civile;  divise  piú
equamente  le  immense  terre  che  trovavansi  accumulate  nelle   mani   degli
ecclesiastici e del fisco. Questo era il voto di tutti: quest'uso  fecero  della
loro libertá quelle popolazioni, che da per loro stesse si  democratizzarono,  e
dove o non pervennero o sol pervennero  tardi  gli  agenti  del  governo  e  de'
francesi. Molte popolazioni si divisero i terreni, che prima appartenevano  alle
«cacce regie»(32). Molti si revindicarono le terre litigiose del  feudo.  Ma  io
non ho cognizione di tutti gli avvenimenti, né importerebbe  ripeterli,  essendo
tutti gli stessi. In Picerno, appena il popolo  intese  l'arrivo  de'  francesi,
corse, seguendo il suo paroco, alla chiesa a render grazie  al  «Dio  d'Israele,
che avea visitato e redento il suo popolo». Dalla  chiesa  passò  ad  unirsi  in
parlamento, ed il primo atto della  sua  libertá  fu  quello  di  chieder  conto
dell'uso che per sei anni si era fatto del pubblico  danaro.  Non  tumulti,  non
massacri, non violenze accompagnarono la revindica  de'  suoi  diritti:  chi  fu
presente a quell'adunanza udí con piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior
numero a taluno, che proponeva mezzi violenti: - Non  conviene  a  noi,  che  ci
lagniamo dell'ingiustizia degli altri, il darne  l'esempio.  -  Il  secondo  uso
della libertá fu di rivendicare le usurpazioni del feudatario.  E  quale  fu  il
terzo? Quello di far prodigi per la libertá istessa, quello di battersi  fino  a
che ebbero munizioni, e, quando non ebbero piú munizioni, per aver  del  piombo,
risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli  organi  delle  chiese...  -  I
nostri santi - si disse - non ne hanno  bisogno.  -  Si  liquefecero  tutti  gli
utensili domestici, finanche gl'istrumenti  piú  necessari  della  medicina;  le
femmine, travestite da uomini onde imporre al nemico, si batterono  in  modo  da
ingannarlo piú col loro valore che colle vesti loro. Non son questi gli  estremi
dell'amore della libertá? Ed a  questo  stesso  segno  molte  altre  popolazioni
pervennero; e pervenute vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le stesse  idee,
i bisogni medesimi ed i medesimi desidèri. Ma, mentre tutti avean tali desidèri,
moltissimi desideravano anche delle  utili  riforme,  che  avessero  risvegliata
l'attivitá della nazione, che avessero  tolto  l'ozio  de'  frati,  l'incertezza
delle proprietá, che avessero assicurata e protetta l'agricoltura, il commercio;
e questi formavano quella classe che presso di tutte le nazioni è intermedia tra
il popolo e la nobiltá. Questa classe, se non è  potente  quanto  la  nobiltá  e
numerosa quanto il popolo, è però dappertutto sempre la piú sensata. La  libertá
delle opinioni, l'abolizione de' culti, l'esenzione dai pregiudizi  era  chiesta
da pochissimi, perché  a  pochissimi  interessava.  Quest'ultima  riforma  dovea
seguire la libertá giá stabilita; ma, per fondarla, si richiedeva  la  forza,  e
questa non si potea ottenere se non seguendo le idee del maggior numero.  Ma  si
rovesciò l'ordine, e si volle guadagnar gli animi  di  molti,  presentando  loro
quelle idee che erano idee di pochi. Che  sperare  da  quel  linguaggio  che  si
teneva in tutt'i proclami diretti al nostro popolo? «Finalmente siete liberi»...
Il popolo non sapeva ancora cosa fosse libertá:  essa  è  un  sentimento  e  non
un'idea; si fa provare coi fatti, non  si  dimostra  colle  parole.  «Il  vostro
Claudio è fuggito, Messalina trema»... Era obbligato il popolo a saper la storia
romana per conoscere la sua felicitá? «L'uomo riacquista tutt'i suoi diritti»...
E  quali?  «Avrete  un  governo  libero  e  giusto,  fondato  sopra  i  princípi
dell'uguaglianza; gl'impieghi non saranno il patrimonio esclusivo de'  nobili  e
de' ricchi, ma la ricompensa de' talenti e della virtú»... Potente motivo per il
popolo, il quale non si picca  né  di  virtú  né  di  talenti,  vuol  esser  ben
governato, e non ambisce cariche! «Un santo entusiasmo si  manifesti  in  tutt'i
luoghi,  le  bandiere  tricolori  s'innalzino,  gli  alberi  si   piantino,   le
municipalitá, le guardie civiche si organizzino»... Qual gruppo  d'idee  che  il
popolo o non intende  o  non  cura!  «I  destini  d'Italia  debbono  adempirsi».
«Scilicet  id  populo  cordi  est:  ea  cura  quietos  sollicitat  animos».   «I
pregiudizi, la religione, i costumi»... Piano! mio caro declamatore; finora  sei
stato solamente inutile, ora potresti esser anche dannoso(33).  Il  corso  delle
idee è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare il grado
di forza negli effetti. Le prime idee che si debbono far valere sono le idee  di
tutti; quindi le idee di molti; in ultimo luogo le idee  di  pochi.  E,  siccome
coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di  numero  ed  hanno  piú
idee degli altri, perché veggono piú mali e comprendono  piú  beni,  cosí  molte
volte è necessario che i repubblicani per istabilir la repubblica si scordino di
loro stessi. Molti mali soffrí per lungo tempo Bruto, moltissimi ne previde, ma,
finché fu solo a soffrire ed a prevedere, tacque; molti ne soffrirono i  patrizi
prima che si lagnasse il popolo; finalmente il fatto di Lucrezia fece  ricordare
ad ognuno che era marito: allora Bruto parlò prima al popolo e lo mosse,  poscia
parlò al senato, e, quando la rivoluzione fu compíta, ascoltò se  stesso.  Tutto
si può fare: la difficoltá è sola nel modo. Noi possiamo giugnere  col  tempo  a
quelle idee alle quali sarebbe follia voler giugner oggi: impresso una volta  il
moto, si passa da un avvenimento all'altro, e l'uomo diventa un essere meramente
passivo. Tutto il segreto consiste in saper donde si debba incominciare. Non  si
può mai produrre una rivoluzione, a meno che non sia una rivoluzione  religiosa,
seguendo idee troppo generali, né seguendo un piano  unico.  Mille  ostacoli  tu
incontrerai ad ogni passo, che non  si  erano  preveduti;  mille  contraddizioni
d'interessi, che, non potendosi distruggere, è necessitá conciliare. Il popolo è
un fanciullo, e vi fa spesso delle difficoltá alle quali  non  siete  preparato.
Molte  nostre  popolazioni  non  amavano  l'albero  perché  non  ne  intendevano
l'oggetto, e talune, che s'indispettivano per  non  intenderlo,  lo  biasimavano
come magico; molte, invece dell'albero, avrebbero voluto  un  altro  emblema.  È
indifferente che una rivoluzione abbia un emblema o un altro,  ma  è  necessario
che abbia quello che il popolo intende e vuole. In molte  popolazioni  eravi  un
male da riparare, un bene da procurare per poter allettare il popolo: le  stesse
risorse non vi erano in altre popolazioni; né potevano la  legge  o  il  governo
occuparsi di tali oggetti se non dopo che la rivoluzione era  giá  compiuta.  Le
rivoluzioni attive sono sempre piú efficaci, perché il popolo si  dirige  subito
da se stesso a ciò che piú da vicino l'interessa.  In  una  rivoluzione  passiva
conviene che l'agente del governo indovini l'animo del popolo e gli presenti ciò
che desidera e che da se  stesso  non  saprebbe  procacciarsi.  Talora  il  bene
generale è in collisione cogl'interessi de' potenti. L'abolizione de' feudi, per
esempio, reca un danno notabile al feudatario; ma, piú del feudatario,  sono  da
temersi  coloro  che  vivono  sul  feudo.  Il  popolo  trae  ordinariamente   la
sussistenza da costoro;  comprende  che,  dopo  un  anno,  senza  il  feudatario
vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il bisogno del  momento
gli  fa  trascurare  il  bene  futuro,  quantunque  maggiore.  Il  talento   del
riformatore è allora quello di rompere i lacci della dipendenza, di conoscer  le
persone egualmente  che  le  cose,  di  far  parlare  il  rispetto,  l'amicizia,
l'ascendente che taluno, o bene o male,  gode  talora  su  di  una  popolazione.
Spesse volte ho visto che una popolazione  ama  una  riforma  anziché  un'altra.
Molte popolazioni desideravano la  soppressione  de'  monasteri,  molte  non  la
volevano ancora: piucché la superstizione, influiva sul loro spirito il maggiore
o minor bisogno in cui erano de'  terreni.  Non  urtate  la  pubblica  opinione;
crescerá col nuovo ordine di  cose  il  bisogno,  e  voi  sarete  sollecitato  a
distruggere ciò che un momento prima si voleva conservare. Basta dar  avviamento
alle cose; di molte  non  si  comprende  oggi  la  necessitá  o  l'utile,  e  si
comprenderá domani: cosí avrete il vantaggio che farete far  dal  popolo  quello
che vorreste far voi. Non vi curate degli accessorii, quando avete  ottenuto  il
principale. Io, che ho voluto esaminar la rivoluzione piú nelle idee de'  popoli
che in quelle de' rivoluzionari, ho visto che il piú delle volte il  malcontento
nasceva dal volersi fare talune operazioni senza talune apparenze e senza talune
solennitá che il popolo  credeva  necessarie.  Avviene  nelle  rivoluzioni  come
avviene nella filosofia, dove tutte le controversie nascono meno dalle idee  che
dalle parole. I riformatori chiamano «forza di spirito»  l'audacia  colla  quale
attaccano le solennitá antiche; io la chiamo «imbecillitá» di  uno  spirito  che
non sa conciliarle colle cose nuove. Il gran talento del riformatore è quello di
menare il popolo in modo che faccia da sé quello che vorresti far tu.  Ho  visto
molte popolazioni fare da per loro stesse ciò che, fatto dal governo,  avrebbero
condannato. «Volendo - dice Macchiavelli - che un errore non sia favorito da  un
popolo, gran rimedio è fare che il popolo istesso lo abbia a  giudicare».  Ma  a
questo grande oggetto non si perviene se non da chi ha giá vinto tanto la vanitá
de' fanciulli di preferir le apparenze alle cose reali, quanto la  vanitá  anche
di quegli uomini doppiamente fanciulli, che non conoscono la vera gloria  e  che
la fanno consistere nel far tutto da  loro  stessi.  Siccome  nelle  rivoluzioni
passive il gran pericolo è quello di oltrepassare il  segno  in  cui  il  popolo
vuole fermarsi e dopo del quale vi abbandonerebbe, cosí il miglior  partito,  il
piú delle volte, è di  restarsene  al  di  qua.  Il  governo  avea  ordinata  la
soppressione istantanea di molti monasteri; e questa,  commessa  a  persone  non
sempre fedeli, non avea prodotto que' vantaggi che se ne speravano. Si poteano i
conventi far rimanere, ma colla legge di non ricever piú nuovi  monaci;  i  loro
fondi,  con  altra  legge,  si  dichiaravano  censiti  a  coloro  che  ne  erano
affittuali, colla libertá di acquistarne la proprietá; e  cosí  si  otteneva  la
ripartizione de' terreni, l'abolizione del monistero a capo  di  pochi  anni,  e
frattanto ai monaci si avrebbe potuto vender anche caro questo prolungamento  di
esistenza. Il voler far in un momento tutto ciò che si può  fare  non  è  sempre
senza pericolo, perché non è senza pericolo che il popolo non abbia piú  né  che
temere né che sperare da voi. Il popolo è ordinariamente piú saggio e piú giusto
di quello che si crede. Talora le sue disgrazie istesse lo correggono  de'  suoi
errori. Ho veduto delle popolazioni diventar  repubblicane  ed  armarsi,  perché
nella loro indifferenza erano state  saccheggiate  dagl'insorgenti.  In  Caiazzo
taluni della piú vile feccia del popolo insursero  ed  attaccarono  le  autoritá
costituite; tutti gli  altri  erano  spettatori  indolenti:  gl'insorgenti  soli
furono i piú forti, vollero rapinare, e questo ruppe  il  letargo  degli  altri.
Allora gl'insorgenti non  furono  piú  soli:  tutta  la  popolazione  difese  le
autoritá costituite; ed, istruita dal pericolo, Caiazzo divenne  la  popolazione
piú attaccata alla repubblica. Da tutto si può trar profitto:  tutto  può  esser
utile ad un governo attivo, che conosca la nazione e non abbia  sistemi.  Tutt'i
popoli si rassomigliano; ma gli effetti delle  loro  rivoluzioni  sono  diversi,
perché diversi sono coloro che le dirigono. Molti avvenimenti io potrei  narrare
in prova di ciò che ho detto; ma si potrebbe dir tutto senza una  noia  mortale?
Agli esteri bastano i risultati; i nazionali, quando vogliano, possono applicare
a ciascuno di essi i fatti ed i nomi che giá sanno.

XX

PROGETTO DI GOVERNO PROVVISORIO

Nello stato in cui era la nazione napolitana, la scelta delle persone che formar
doveano il governo  provvisorio  era  piú  importante  che  non  si  pensa.  Noi
riferiremo a questo proposito ciò che taluno propose a Championnet ed  a  coloro
che consigliavano Championnet. «Il primo passo  in  una  rivoluzione  passiva  è
quello di guadagnar l'opinione del popolo; il  secondo  è  quello  d'interessare
nella rivoluzione il maggior numero delle persone che sia possibile. Queste  due
operazioni, sebbene in apparenza diverse, non sono però in realtá che una  sola;
poiché quello istesso che interessa nella rivoluzione il  maggior  numero  delle
persone vi fa guadagnare l'opinione del popolo, il quale, non  potendo  giudicar
mai di una rivoluzione e di un governo per princípi e per  teorie,  non  potendo
ne' primi giorni giudicarne dagli effetti, deve per necessitá  giudicarne  dalle
persone, ed approvare quel governo che  vede  commesso  a  persone  che  egli  è
avvezzo a rispettare. «Tra gl'impiegati del re di Napoli molti  ve  ne  sono,  i
quali non hanno giammai fatta la guerra alla  rivoluzione;  amici  della  patria
perché amanti del bene, ed attaccati al governo del re sol perché  quel  governo
dava loro un mezzo onesto di sussistenza. Molti di  costoro  meritano  di  esser
impiegati per i loro talenti e possono guadagnare alla rivoluzione l'opinione di
molte classi del popolo. «Il fòro ne somministra moltissimi;  e  la  classe  del
fòro,  una  volta  guadagnata,  strascina  seco  il  quinto  della  popolazione.
Moltissimi ne somministra la classe degli  ecclesiastici,  e  vi  è  da  sperare
altrettanto di bene: il resto si avrebbe dalla nobiltá (uso per  l'ultima  volta
questa parola per indicare un ceto che piú non deve esistere, ma che ha esistito
finora) e dalla classe de' negozianti.  I  nobili  si  crederanno  meno  offesi,
quando si vedranno non del tutto obbliati; ed i negozianti,  finora  disprezzati
da' nobili, saranno superbi di un onore che li eguaglia ai loro rivali, e può la
nazione sperar da loro aiuti grandissimi ne' suoi bisogni. In Napoli questa è la
classe amica del popolo, poiché da questa classe dipende e vive quanto in Napoli
vi sono pescatori, marinai,  facchini  e  di  altri  tali,  che  formano  quella
numerosa e sempre mobile parte del popolo che chiamansi 'lazzaroni'. Utili anche
sarebbero molti ricchi proprietari delle province, i quali possono colá ciò  che
possono i negozianti in Napoli, e potranno dare al governo quei lumi che non  ha
e che non può avere altrimenti sulle medesime. «Per  effetto  della  nostra  mal
diretta educazione pubblica, la cognizione delle nostre cose si trova riunita al
potere ed alla ricchezza: coloro che hanno per loro porzione il sapere,  per  lo
piú, tutto sanno fuorché ciò che saper si dee. Allevati colla lettura de'  libri
inglesi e francesi, sapranno le manifatture di Birmingham e di Manchester, e non
quelle del nostro Arpino; vi parleranno dell'agricoltura della Provenza,  e  non
sapranno quella della Puglia; non vi è tra loro chi non sappia come si elegga un
re di Polonia o un imperatore dei romani, e pochi sapranno come si eleggono  gli
amministratori di  una  nostra  municipalitá;  tutti  vi  diranno  il  grado  di
longitudine e di latitudine d'Othaiti: se domandate il grado di Napoli,  nessuno
saprá dirlo. Un tempo i nostri si occuparono di tali cose, ed  ebbimo  scrittori
di questi oggetti prima che le altre nazioni di  Europa  ancora  vi  pensassero.
Oggi ciascuno sdegna di occuparsene, vago di una gloria straniera, quasi che  si
potesse meritare maggior stima dagli altri popoli ripetendo loro  male  ciò  che
essi sanno bene, che dicendo loro ciò che ancora non  sanno.  Queste  cognizioni
intanto sono necessarie, e, per averle,  o  convien  ricorrere  ai  libri  senza
ordine e senza gusto scritti due secoli fa, o  convien  dipendere  da  coloro  i
quali, per avere maneggiati gli affari del Regno e viste diverse nostre regioni,
conoscono e gli uomini e  lo  stato  degli  uomini.  Per  difetto  della  nostra
educazione, la scienza che noi abbiamo è inutile, e siam costretti  a  mendicare
le utili dagli altri. «Ma, affinché le cognizioni delle cose  patrie  non  siano
scompagnate dai lumi della filosofia universale di Europa,  ed  affinché  coloro
de' quali abbiam bisogno  per  opinione  non  diventino  i  nostri  padroni  per
necessitá, affinché gli antichi interessi (se pure  costoro  avessero  interesse
per l'antico governo) non opprimano i nuovi, a costoro si unirá un doppio numero
di savi e virtuosi patrioti: cosí avremo  il  vantaggio  del  patriotismo  nelle
decisioni,  ed  il  patriotismo  avrá  il  vantaggio  delle  cognizioni   patrie
nell'esame  e  dell'opinione   pubblica   nell'esecuzione.   «Invece   di   fare
l'assemblea, che chiamar si potrebbe 'costituente', di venticinque persone,  far
si potrebbe di ottanta, e combinare in tal modo insieme tutti  questi  vantaggi.
Un'assemblea provvisoria di ottanta non è troppo grande per una nazione che  dee
averne una costituzionale piú che doppia: all'incontro una  di  venticinque  può
sembrare  troppo  piccola,  specialmente  non  essendosi  ancora  pubblicata  la
costituzione. Il popolo potrá credere che si voglia prender giuoco di lui e  che
si pensi ad escluderlo da tutto. Un generale estero, che  venisse  egli  solo  a
darci la legge, si tollererebbe come un re conquistatore,  e  l'oppressione,  in
cui ciascuno vedrebbe gli altri tutti, gli renderebbe  tollerabile  la  propria;
ma, subito che chiamate a parte della sovranitá la nazione, conviene che  usiate
piú riguardi: o conviene dar a tutti o  a  nessuno;  i  consigli  di  mezzo  non
tolgono l'oppressione e vi aggiungono l'invidia». Si  passava  ad  indicare,  in
tutte le classi, de' veri patrioti, i quali, senza esser ascritti a verun  club,
amavano la patria ed avrebbero saputo renderla felice... Ma i  nomi  di  costoro
sarebbe ora colpevole imprudenza rivelare.

XXI

MASSIME CHE SI SEGUIRONO

Io prego tutti coloro i quali leggeranno questo paragrafo a non credere  che  io
intenda scrivere la satira de' patrioti. Se il patriota  è  l'uomo  che  ama  la
patria, non sono io stesso un patriota? Come potrei condannare un nome che onora
tanti amici, de' quali or piango la lontananza o la perdita? Noi possiamo  esser
superbi che in Napoli la classe de' patrioti sia stata la classe migliore:  ivi,
e forse ivi solamente, la rivoluzione  non  è  stata  fatta  da  coloro  che  la
desideravano sol perché non avevano che perdere. Ma  in  una  grande  agitazione
politica è impossibile che i  scellerati  non  si  rimescolino  ai  buoni,  come
appunto, agitando un vaso, è impossibile che la  feccia  non  si  rimescoli  col
fluido. Il grande oggetto delle leggi e del governo è di far sí che, ad onta de'
nomi comuni de' quali si vogliono ricoprire, si  possano  sempre  distinguere  i
buoni dai cattivi, e che si riconosca per patriota solo colui  che  è  degno  di
esserlo. Allora i cattivi non corromperanno l'opera de' buoni. Allora il governo
de' patrioti sará il migliore de' governi, perché sará il governo di coloro  che
amano la patria. Ma tale è la dura necessitá delle cose  umane,  che  spesso  le
maggiori avvertenze, che si prendono per far prevalere i buoni,  non  fanno  che
allontanarli e verificare  l'antico  adagio:  che  nelle  rivoluzioni  trionfano
sempre i pessimi. Nelle altre rivoluzioni i rivoluzionari non  buoni  han  fatto
sorgere princípi pessimi. In quella di Napoli princípi non nostri  e  non  buoni
fecero perdere gli uomini buoni. Nulla di migliore degl'individui  che  avevamo,
perché i princípi loro individuali erano retti: se le operazioni  politiche  non
corrisposero alle loro idee, ciò avvenne perché i princípi pubblici non erano di
essi ed erano fallaci. Questi princípi politici per necessitá doveano  corromper
tutto. Alcuni falsi patrioti o maligni speculatori, ai quali né  la  classe  de'
buoni né un solo del governo aderí mai, dicevano che  tutti  gli  aristocratici,
che tutt'i vescovi, tutt'i preti, tutt'i ricchi dovevano essere  distrutti.  Non
erano contenti che fossero  eguagliati  agli  altri.  La  repubblica  fiorentina
operava una volta cogli stessi principi; e la repubblica fiorentina fu perciò in
una continua guerra civile, che finalmente produsse la sua morte. Questo avviene
inevitabilmente tutte le  volte  che  la  repubblica  non  è  fondata  sopra  la
giustizia; e non lo è mai ogni  qual  volta,  dopo  aver  distrutta  la  classe,
continua a perseguitar l'individuo, non perché ami le distinzioni  della  classe
giá estinta, ma solo perché le apparteneva un giorno. I romani  si  contentarono
di far che i plebei potessero ascendere a tutte le cariche: questo era il giusto
e formava la libertá; se essi avessero voluto escluderne i  patrizi  sol  perché
erano patrizi, sarebbe stato lo stesso che voler rimettere  il  patriziato  dopo
averlo distrutto e voler far nascere la guerra civile. Pretendevano non  doversi
impiegar nessuno di coloro che aveano ben servito il  re.  Era  giusto  che  non
s'impiegassero coloro, se mai ve ne  erano,  che  lo  aveano  servito  nei  suoi
capricci, nelle sue dissolutezze, nelle sue tirannie;  che  doveano  l'onore  di
servire all'infamia onde si eran ricoperti. Ma  molti,  servendo  il  re,  avean
servita la patria; e molti altri, al contrario, non aveano potuto servire il re,
perché non meritavano servir la patria: l'escluder  quelli,  l'ammetter  questi,
sol perché quelli aveano servito il re e questi non giá, non era lo  stesso  che
tradire la patria e farla servire da coloro che non sapeano servirla? Chi dunque
dovea impiegarsi? Coloro solamente che erano patrioti. La repubblica  napolitana
fu considerata come una preda, la di cui divisione spettar dovea a pochissimi; e
questo fu il segnale, né poteva esserlo diversamente, della guerra civile tra la
parte numerosa della nazione e la parte debole. Questo fece mancare tutt'i buoni
agenti della repubblica: se un uomo di genio e da bene è raro in tutto il genere
umano, come mai può ritrovarsi poi facilmente in una  classe  poco  numerosa?  È
vero che i clamori della folla né esprimevano il voto de' buoni né eran di norma
al governo; ma, in circostanze  precipitose  ed  incerte,  quando  la  curiositá
pubblica è grandissima ed ignote sono ancora le massime di un governo nuovo,  né
vi è tempo e modo da paragonare le voci  ai  fatti,  i  clamori,  sebben  falsi,
producono un male reale, perché il popolo li crede massime del governo e  se  ne
offende. Il piú difficile, in tali tempi, è il far sorgere una opinione che  dir
si possa pubblica; fare che nel tempo istesso e parlassero molti, perché le voci
riunite  producono  effetto  maggiore,  e  le  parole  fossero  concordi,   onde
l'effetto, per contrasto delle medesime,  non  venisse  distrutto.  Questo,  per
altro, era in Napoli piú difficile ad  ottenersi  che  altrove;  tra  perché  la
rivoluzione non era attiva, ma passiva, né vi era, in  conseguenza,  un'opinione
predominante, ma si imitavano quelle di Francia, le quali erano  state  molte  e
diverse, onde è che vi erano alcuni «terroristi», altri  «moderati»,  ecc.;  tra
perché le opinioni non eran libere, e spesso  prevaleva  per  effetto  di  forza
quella che non era la piú comune; tra perché finalmente il tempo fu  brevissimo,
e l'opinione pubblica, ovunque non vi è forza che possa dirigerla, ha bisogno di
tempo lunghissimo. È un'osservazione costante che il popolo  non  s'inganna  mai
ne' particolari; ma una fazione s'inganna, e molto  piú  una  fazione  la  quale
riduce le virtú ed i talenti tutti ad un solo nome,  di  cui  usa  egualmente  e
Catilina e Catone. Il vero «patriotismo» è l'amor della patria, ed ama la patria
chi vuole il suo bene ed ha i talenti per procurarlo. Se lo separate  da  queste
idee sensibili, allora formate del patriotismo una parola  chimerica,  la  quale
apre il campo alla calunnia ed impedisce all'uomo da bene, che non è fazioso, di
accostarsi al governo; allora si  sostituisce  al  merito  reale  un  merito  di
opinione che ciascuno può fingere, ed il merito reale  rimane  sempre  dietro  a
quello dei ciarlatani. Con questi mezzi  abbiam  veduti  allontanati  dal  corpo
legislativo il virtuoso Vincenzio Russo ed alcuni altri, tra' quali uno che,  in
quelle circostanze, avrebbe  potuto  esser  utile  alla  patria.  Se  la  nostra
rivoluzione fosse stata  attiva,  i  nostri  patrioti  si  sarebbero  conosciuti
nell'azione precedente, il che non avrebbe lasciato luogo alla impostura,  e  si
sarebbero conosciuti per quello che ciascun valea. Si è detto realmente  che  le
guerre civili fanno sviluppare i geni di una nazione,  non  perché  li  facciano
nascere, ma perché li fanno conoscere; perché ciascuno nell'azione si  mette  al
posto che il suo genio gli assegna, e la scelta per lo piú suole riuscir  buona,
perché si giudica dell'uomo dai suoi fatti. Presso di noi  l'uomo  era  riputato
patriota da che apparteneva ad un  club.  Ma,  quando  anche  questa  invenzione
inglese di club fosse stata atta a produrre un giorno una rivoluzione, pure, non
avendola prodotta, non potea far giudicare degli uomini se non dalle  parole.  I
nostri clubs non avean ancora superata la prima  prova  delle  congiure,  che  è
quella di conservare il segreto tra il numero: composti  sulle  prime  da  pochi
individui, allorché incominciò la persecuzione, si sciolsero.  Quando  venne  la
rivoluzione, si trovarono moltissimi, i quali non aveano fatto altro che dare il
loro nome negli ultimi tempi, uomini che non si conoscevano neanche tra loro,  e
tra costoro fu facile a qualunque audace rimescolarsi  e  dichiararsi  patriota.
Cosí la patria fu in pericolo  di  esser  vittima  dell'ambizione  de'  privati,
poiché non si  trattava  di  soddisfar  questa  con  servigi  resi  alla  patria
medesima, ma bensí con quelli che taluno forsi voleva renderle; non si esaminava
chi sapeva, chi potea, ma si cercava chi voleva; ed in tale gara il  piú  audace
mentitore, il piú sfacciato millantatore doveano vincere il merito  e  la  virtú
sempre modesta.

XXII

ACCUSA DI ROTONDO - COMMISSIONE CENSORIA

S'incominciò dai primi giorni  della  repubblica  a  fare  una  guerra  a  tutti
gl'impiegati: accuse sopra accuse, deputazioni sopra deputazioni: chi ambiva una
carica non dovea far altro che  mettersi  alla  testa  di  un  certo  numero  di
patrioti e far dello strepito. Siccome tutto si aggirava  su  parole  vaghe  che
niuno intendeva, cosí la ragione non poteva  aver  luogo  e  dovean  vincere  il
numero e lo strepito, prima forza che gli uomini usano nelle gare civili, finché
passino ad usarne un'altra piú efficace e piú crudele.  All'uomo  ragionevole  e
dabbene non rimaneva che  involgersi  nel  suo  mantello  e  tacere.  Prosdocimo
Rotondo, eletto rappresentante, offese l'invidia di qualche suo nemico. Si mosse
Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola Palomba,  che  non  conosceva  Rotondo,  ma,
entusiasta ed in conseguenza poco saggio, credea  che  ei  fosse  indegno  della
carica, sol perché qualche suo amico lo credeva tale. Un'accusa di  tale  natura
non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l'indegnitá di taluno potrá far sí che  il
sovrano non lo elegga; ma, eletto che l'abbia,  perché  sia  deposto  prima  del
tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno di un delitto. Ammessa però una  volta
l'accusa, conveniva esaminarla: nella repubblica deve esser libera l'accusa,  ma
punita la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo: so  però  ch'egli  insisteva
perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla carica, pubblicò  il  conto  della
sua amministrazione,  e  tutti  tacquero.  Il  presidente  allora  del  comitato
centrale vedea  in  questo  affare,  in  apparenza  privato,  quanto  importasse
conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed  intendeva
bene che una folla di patrioti poteva diventar fazione, subito che non fosse piú
nazione. Ma, poco di poi, alcuni, disperando di farsi  amare  e  rendersi  forti
colla nazione, vollero adular la fazione, e non si permise  che  dell'affare  di
Rotondo piú si parlasse. Palomba partí pel  dipartimento  del  quale  era  stato
nominato commissario. Gli fu data, è vero,  la  facoltá  di  proseguir  l'accusa
anche per mezzo de' suoi procuratori: ma non si trattava di dargli una  facoltá;
era necessario imporgli un'obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto partire,  se
prima non adempiva al dovere che gl'imponeva  l'accusa.  In  un  governo  giusto
l'accusatore è nel tempo istesso accusato; e, mentre si disputava se Rotondo era
degno o no di seder tra  i  legislatori,  Palomba  non  avea  diritto  di  esser
nominato commissario. Dispiacque a Rotondo ed a tutt'i  buoni  un  silenzio  che
sacrificava il governo alla fazione e la fazione all'individuo. Il segreto,  una
sola volta svelato, tolse ogni  freno  all'intrigo.  Napoli  si  vide  piena  di
adunanze patriotiche, che incominciarono a censurare le operazioni e le  persone
del governo. Ma non si contentavano di mettere cosí un freno  alla  condotta  di
coloro che potevano abusare della  somma  delle  cose,  ottimo  effetto  che  la
libertá de' partiti produce nella repubblica; non si contentavano di  osservarsi
a vicenda: voleano combattersi, voleano vincersi; le loro  censure  voleano  che
avessero la forza di accuse, e cosí lo studio delle parti  dovea  degenerare  in
guerra civile. Non vi fu piú uno il quale non fosse  accusato;  ma,  siccome  le
accuse non erano dirette dall'amore della patria, cosí non erano  fondate  sulla
ragione: motivi personali le facevano nascere, gli  stessi  motivi  le  facevano
abbandonare. Si aggiugneva a ciò che, il piú delle volte, le contese decidevansi
per autoritá degli esteri. Sebbene le loro decisioni talora fossero giuste,  non
potevano però mai esser legali, perché,  anche  quando  si  eseguiva  la  legge,
parlava l'uomo. Cosí  gli  uomini  non  si  avvezzavano  mai  a  credere  che  a
soddisfare i loro desidèri non vi fosse altra via che  quella  della  legge;  e,
senza questa intima e profonda persuasione, non  vi  è  repubblica.  Il  costume
pubblico si corrompe; le sètte non servono piú la patria, ma  bensí  l'uomo  che
esse credono superiore alla legge, e quest'uomo fomenta in segreto una divisione
che assoda il suo imperio. I partiti corrompono l'uomo,  e  l'uomo  corrompe  la
nazione. Gl'intriganti prendono le loro misure, i buoni si vedono  senza  alcuna
difesa, i faziosi (importa poco di qual partito essi siano: è  fazioso  chiunque
non è  del  partito  della  patria)  trionfano;  e,  siccome  l'unico  mezzo  di
acquetarli è quello di dar loro una carica, cosí si vedono elevati molti che  la
nazione non vuole e che ruinano poi la nazione. Male funesto, non  ultima  causa
della nostra ruina, e che i buoni non debbono giammai obbliare, onde  esser  piú
cauti ad accordare la loro confidenza ai pessimi, che la forza della rivoluzione
spinge sempre in alto! Essi divengono assai piú terribili in una rivoluzione  di
opinione, nella quale un sentimento che non si vede, un nome che si può fingere,
tengono spesso il luogo delle vere virtú e del merito reale; in una  rivoluzione
prodotta da armi straniere, in cui  è  inevitabile  la  sconsigliata  profusione
delle cariche: tra il conquistatore, il quale spesso non sa ciò che  dona  né  a
chi dona, ma sa solo che ciò che dona non è suo; e tra i primi da lui impiegati,
i quali rammentano piú i bisogni di  un  amico  che  quelli  di  uno  Stato  che
odiavano, e, pieni ancora dell'impazienza di obbedire, di rado sanno  temperarsi
nell'uso di comandare. Il governo, per acquetare un poco i rumori,  istituí  una
commissione di cinque persone per esaminare coloro che doveano  impiegarsi:  non
erano impiegati se non quei tali che dalla commissione venissero approvati;  chi
era riprovato veniva escluso per sempre. Questa  istituzione  fu  effetto  delle
circostanze. Le accuse, i reclami erano infiniti; il tempo era breve; il bisogno
di ben conoscere le persone urgente. La commissione  della  quale  parliamo,  fu
imaginata a fine di bene; le furon date istruzioni limitatissime, quasi private:
ma essa divenne, contro la mente del  governo,  una  magistratura  che  avea  ed
esercitava giurisdizione regolare, manteneva  un  officio,  riceveva  petizioni,
faceva decreti. L'istituzione cangiò natura, e questo avvien sempre in tutte  le
istituzioni simili. Se, invece di istituire una commissione, si fosse  obbligato
Palomba a proseguire l'accusa; se fosse stato condannato, come era di giustizia,
o Palomba o Rotondo, quattro quinti de' clamori sarebbero cessati, ed il governo
avrebbe conosciuto meglio le persone e le cose. Accaduto una volta un disordine,
specialmente ne' primi giorni di un governo nuovo, di rado il popolo conosce  la
vera cagione del medesimo, e tutto attribuisce al governo:  male  inevitabile  e
gravissimo, il quale deve persuaderci che non tutto ciò  di  cui  il  popolo  si
doleva era sempre cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure,  ma
non eran sempre buone le istituzioni; e queste non eran sempre buone, perché  li
princípi, dalli quali dipendevano, eran fallaci; e finalmente che in un  governo
nuovo è necessitá far quanto  meno  si  possa  d'istituzioni  tali  che  possino
divenir arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato dalla  mano  di  chi
governa.

XXIII

LEGGI - FEDECOMMESSI

Io seguo il corso delle mie idee anziché quello de' tempi. Tanti avvenimenti  si
sono accumulati e quasi addensati  in  sí  breve  tempo,  che  essi,  invece  di
succedersi, s'incrocicchiano tra loro,  né  se  ne  può  giudicar  bene  se  non
osservandone i loro rapporti. Il momento della rivoluzione in un popolo  è  come
un momento di tumulto in un'assemblea: i dispareri,  il  calore  della  disputa,
destano tanti e sí vari rumori, che impossibile riesce  far  ascoltare  la  voce
della ragione. Se allora un uomo rispettabile per la  sua  prudenza  e  pel  suo
costume si mostra, gli animi si acchetano, tutti l'ascoltano: il  suo  nome  gli
guadagna l'attenzione di tutti, egli può far udire la voce  della  ragione.  Nel
primo momento l'opinione è necessaria per dar luogo alla ragione; ma nel secondo
conviene che la ragione sostenga e confermi l'opinione. Que'  fatti  che  finora
abbiam riferiti aveano per iscopo il guadagnare la confidenza del  popolo  prima
che il governo avesse agito; ma il governo dovea finalmente agire e dovea  colle
opere meritarsi quella confidenza che avea  giá  guadagnata...  Esso  si  occupò
dell'abolizione de' fedecommessi e della feudalitá, che formavano presso di  noi
i piú grandi ostacoli all'eguaglianza ed al governo repubblicano.  L'istituzione
de' fedecommessi porta seco lo spirito  di  conservar  i  beni  nelle  famiglie,
spirito non compatibile coll'eguaglianza nelle repubbliche ben ordinate.  Forse,
cosí in Roma come in Sparta,  l'amor  dell'eguaglianza  avea  fatto  nascere  lo
spirito della conservazione de' beni. Ma i nostri  fedecommessi  non  aveano  di
romano  altro  che  il  nome  e  le  formole  esterne  di   ciò   che   chiamasi
«sostituzione»:  queste  antiche  istituzioni,  unite  alle  idee   di   nobiltá
ereditaria e di successione feudale, avean prodotto presso di noi un mostro,  di
cui a torto incolperemmo i romani. Nel regno di Napoli, ove tutte  le  ricchezze
sono  territoriali,  si  erano  i  fedecommessi  moltiplicati   all'estremo,   e
moltiplicato avevano ancora il numero de' celibi, degli oziosi, de' poveri,  de'
litiganti, ecc. La riforma fu  semplice  e  ragionevole.  Non  si  distrusse  la
volontá de' testatori che fino a quel tempo aveano  ordinato  de'  fedecommessi,
tra perché una legge nuova non deve mai annullare i fatti precedenti, tra perché
la riforma della proprietá non deve distruggerne il fondamento, il  quale  altro
non è che il possesso autorizzato  dal  costume  pubblico(34).  Ma  i  beni  de'
fedecommessi rimanendo liberi in mano de' possessori e  la  legge  proibendo  di
ordinarne de' nuovi, una sola generazione sarebbe stata sufficiente  a  produrre
quella divisione che si desiderava, ma che, ordinata dalla pubblica autoritá, si
sarebbe mal volentieri accettata. A' secondogeniti ed a'  legatari  fu  disposto
darsi il capitale di quella parte del fedecommesso di cui godevano  la  rendita:
cosí ebbero anche essi una proprietá da trasmettere ai loro  figli.  Il  calcolo
de' capitali fu ordinato farsi sulla rendita alla ragione del tre per  cento;  e
cosí, in una nazione ove i fondi sono in commercio alla ragione non  minore  del
cinque e del sei per cento, le porzioni de' legatari venivano  indirettamente  a
duplicarsi, e si  correggeva,  senza  violenza,  quella  disuguaglianza  che  lo
spirito di primogenitura avea introdotta nelle porzioni de' figli di uno  stesso
padre. Questa legge fu saggia e ben accetta a tutti:  i  possessori  stessi  de'
fedecommessi non perdevano tanto colla cessione ai legatari, quanto guadagnavano
coll'acquistar la libera proprietá de' loro beni in una nazione che incominciava
a  sviluppare  qualche  attivitá.  I  legami  de'  fedecommessi  erano  giá  mal
tollerati, e da' dissipatori che volean abusare dei loro beni,  e  da'  saggi  i
quali voleano usarne in bene. Forse sarebbe stato giusto aggiugnere  alla  legge
la condizione aggiuntavi dall'imperatore Leopoldo, allorché fece la riforma  dei
fedecommessi di  Toscana.  Giudicando  questo  ottimo  sovrano  che  manca  alla
giustizia chiunque priva del diritto alla successione un uomo nato e nodrito con
esso, riserbò la capacitá di succedere ai fedecommessi non solo  ai  possessori,
ma anche ai chiamati giá nati o da nascere da matrimoni  contratti  prima  della
legge,  molti  de'  quali  eransi  fatti  colla  speranza  di  una   successione
fedecommessaria.  Rimanevano  ancora  alcuni  altri  oggetti  da   determinarsi:
rimaneva a prendersi delle misure sui tanti e sí ricchi monti di  maritaggi  che
vi sono in Napoli e che altro  in  realtá  poi  non  sono  che  fedecommessi  di
famiglia e di gente... Ma tali oggetti dipendevano  dalla  legge  testamentaria,
dallo stato della nazione e  da  tante  altre  considerazioni,  che  era  meglio
aspettare tempo piú opportuno. Di rado nella rivoluzione francese ed  in  quelle
che sono scoppiate in conseguenza, di rado si è peccato per  soverchia  lentezza
in far le leggi: spessissimo per soverchia precipitanza.

XXIV

LEGGE FEUDALE

La legge feudale richiedeva piú lungo esame e presentava interessi piú difficili
a conciliarsi. Quella dei fedecommessi toglieva poco ai possessori dei medesimi,
e quel poco davalo ai figli ed ai fratelli loro: la legge dei feudi toglieva  ai
feudatari moltissimo, e questo passava agli estranei, che talvolta erano i  loro
nemici. Intanto, l'abolizione dei feudi era il voto generale della nazione.  Gli
abitanti delle province  ardevano  di  tanta  impazienza,  che  aveano  quasiché
strascinato il re a dare alla feudalitá de' colpi,  i  quali  sentivano  piú  di
democrazia che di monarchia. Io dico ciò per un modo di dire, ma non  son  certo
che la feudalitá convenga piú all'una che  all'altra  di  queste  due  forme  di
governo.  La  forma  di  governo  a  cui  la   feudalitá   meglio   conviene   è
l'aristocrazia: aristocratici erano i governi di tutta  l'Europa  nell'epoca  in
cui la feudalitá prevaleva. Le monarchie  presenti  dell'Europa  eransi  elevate
sulle rovine della medesima: ove  essa  era  rimasta  intatta,  il  governo  era
rimasto aristocratico, siccome in Polonia;  ove  era  stata  temperata,  ma  non
distrutta, era surto una specie di governo misto, come in  Inghilterra  e  nella
Svezia: ove era stata interamente distrutta, era surto un governo aristocratico,
come in una grandissima parte dell'Europa, e specialmente in  quella  parte  che
altre volte componeva l'immensa monarchia di Spagna, essa  era  rimasta  in  uno
stato singolare, dove, avendo perduti tutt'i diritti che rappresentava in faccia
al sovrano, avea  conservati  tutti  quelli  che  una  volta  avea  sul  popolo.
Prendendo per punto di paragone un vassallo degl'imperatori svevi, un pari della
Gran Bretagna gli somiglia molto piú che un napolitano quando è nel  parlamento,
il napolitano gli somiglia molto piú dell'inglese quando è nelle sue terre. Ma i
primi diritti sono gloriosi al  feudatario  e  posson  esser  utilissimi  ed  al
sovrano ed allo Stato; i secondi sono al feudatario vergognosi, perché non è mai
glorioso tutto ciò che è oppressivo e nocivo allo Stato, al sovrano, agli stessi
baroni, perché tendono a distruggere l'industria, dalla quale solamente  dipende
la vera prosperitá di una nazione. Questi diritti  sono  i  diritti  dei  popoli
barbari. Ovunque si sviluppa l'industria, essi vanno a cadere in  obblio,  ed  è
interesse degli stessi feudatari che ciò succeda. In Russia  gli  stessi  grandi
possessori di terra hanno incominciato a dar libertá e proprietá agli uomini che
le abitano: con questa sola operazione, han quasi  triplicato  il  valore  delle
terre loro. I feudatari prevedevano che la rivoluzione li  avrebbe  obbligati  a
nuovi sacrifici, e bramavano che fossero i minori possibili. Taluni repubblicani
troppo ardenti avrebbero voluto loro toglier tutto. Tra questi  due  estremi  il
mezzo era difficile a rinvenirsi. Non vi era neanche un esempio da  seguire:  la
Francia, ove i grandi feudatari eran rimasti distrutti dalla guerra civile,  non
ebbe bisogno di leggi  dopo  l'opera  delle  armi(35).  Giuseppe  secondo  nella
Lombardia  avea  da  lungo  tempo  eguagliata  la  condizione  de'  beni.  Molte
popolazioni incominciarono dal fatto, prendendo il possesso di tutti i beni  de'
baroni: se tutte avessero fatto lo stesso, la legge sarebbe stata men  difficile
a concepirsi. La forza autorizza molte cose che la ragione non deve ordinare, ed
il popolo stesso ama di veder approvati molti trascorsi che  fremerebbe  vedendo
comandati. La discussione del progetto di legge fu interessante.  Le  due  parti
contendenti seguivano opinioni diverse, secondo  i  loro  diversi  interessi;  i
princípi erano opposti, e, come suole avvenire allorché si va agli  estremi,  né
sempre veri né  sempre  atti  alla  quistione.  I  feudatari  credevano  che  la
conquista potesse essere un diritto; i  repubblicani  la  credevano  sempre  una
forza, e, quando anche avesse potuto diventar diritto, dicevano che, se un tempo
i baroni aveano conquistata la  nazione,  ora  la  nazione  avea  conquistati  i
baroni: una nuova conquista potea spogliare gli usurpatori  nel  modo  stesso  e
collo stesso diritto con cui essi spogliato aveano altri usurpatori piú antichi.
I feudatari credevano legittimi  tutti  i  titoli  che  dipendevano  dall'antico
governo,  che  essi  riputavano  del  pari  legittimo:  i   patrioti   credevano
illegittimo tutto ciò che non era stato fatto da una repubblica. Se si udivano i
feudatari, tutto dovea conservarsi;  se  si  udivano  i  patrioti,  tutto  dovea
distruggersi, poiché, dichiarato una volta illegittimo un governo,  non  vi  era
ragione per cui parte dei suoi atti  si  dovesse  abolire  e  parte  conservare.
Questo era lo stesso che far la causa degli  usurpatori  e  dei  governi  e  non
dell'umanitá e della nazione, che eran  tradite  per  soverchio  zelo  dai  loro
stessi difensori. Oggi si dice: - Un re non potea far questo;  -  domani  un  re
avrebbe detto: - Questo non si potea far da una repubblica. - Quando  prenderemo
noi per principio la salute del popolo ed esamineremo, non ciò  che  un  governo
potea, ma solo ciò che dovea fare? Voler ricercare un titolo di proprietá  nella
natura è lo stesso che voler distruggere la proprietá: la natura  non  riconosce
altro che il possesso, il quale non diventa proprietá se non per consenso  degli
uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze  e  dei  bisogni
nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la  salute  pubblica  imperiosamente
non richiede, non può senza tirannia esser  sottomesso  a  riforma,  perché  gli
uomini, dopo i loro bisogni, nulla hanno e nulla debbono aver di piú sacro che i
costumi dei loro maggiori. Se si riforma ciò che non è necessario riformare,  la
rivoluzione avrá molti nemici e pochissimi amici. La  feudalitá  presso  di  noi
presentava una  massa  immensa  di  possessi,  di  proprietá,  di  esazioni,  di
preminenze, di diritti, acquistati, ricevuti, usurpati da  diverse  mani  ed  in
tempi diversi. I feudatari non furono in  origine  che  semplici  possessori  di
fondi coll'obbligo della fedeltá, e, colla legge  della  devoluzione,  essi  non
differivano dagli altri proprietari se non per aver ricevute dalla  mano  di  un
uomo quelle terre che altri ricevute avea dalla sorte.  Ma  i  grandi  feudatari
erano nel tempo istesso grandi officiali della corona, ed, in tempi di  anarchia
o di debolezza, quei rappresentanti della  sovranitá,  potenti  ed  inamovibili,
fecero  obbliar  la  sovranitá  che  rappresentavano:  quei  diritti,  che  essi
esercitavano  come  officiali  della  corona,  divennero   prima   diritti   del
feudatario, indi della sua famiglia, finalmente del feudo. In tempi di  continue
guerre civili, i pochi uomini liberi che eran rimasti nelle nostre regioni,  non
avendo  né  sicurezza  né  proprietá,  chiesero  la  protezione  dei  potenti  e
l'ottennero a prezzo di libertá. Grandi erano certamente questi abusi;  ma  tale
era l'infelicitá dei tempi, tale la condizione degli uomini, tale la desolazione
delle nostre contrade, che essi dovettero sembrar tollerabili effetti, e talora,
giunti all'estremo, produssero il ritorno  del  bene.  Gli  uomini  moltiplicati
dovettero estendere la loro industria e reclamarono la loro  libertá  civile:  è
questo il primo passo che le nazioni fanno verso la coltura. Un  re  di  spirito
generoso, che voleva elevarsi, si rese forte col favore  del  popolo,  che  egli
difese contro gli altri tiranni minori, e le monarchie di Europa  sorsero  dalle
rovine dell'aristocrazia feudale. Noi vediamo nella nostra storia tutti i  passi
dati dal popolo, le opposizioni de' baroni, l'ondeggiar perpetuo de'  sovrani  a
seconda che temevano o de' baroni o de' popoli, e la rapacitá del fisco,  eterno
traditore de' baroni, de' popoli e dei re. La storia indica la strada da seguire
uniforme alle idee de' popoli; le stesse leggi feudali indicano la riforma della
feudalitá; quella riforma, che i  popoli  bramano,  che  i  baroni  non  possono
impugnare. Non bastava una legge che dichiarasse abolita  la  feudalitá:  questa
legge sarebbe stata piú pomposa che utile.  Poco  rimaneva  presso  di  noi  che
avesse l'apparenza feudale: il difficile era riconoscer la feudalitá anche  dove
parea che non vi fosse. I feudatari aveano de' diritti acquistati come officiali
della corona e come protettori de' popoli: tali diritti non doveano piú esistere
in una forma di governo, in cui la sovranitá veniva restituita al popolo  ed  il
cittadino non dovea aver altro protettore che la  legge.  I  baroni  possedevano
delle terre: non bastava che queste fossero  eguagliate  alla  condizione  delle
altre. Se la  riforma  fosse  rimasta  a  questi  termini,  i  baroni,  sgravati
dall'adoa e dalla devoluzione, divenuti proprietari di terre  libere,  avrebbero
guadagnato molto piú di quello che loro dava  l'esazione  de'  diritti  incerti,
vacillanti ed odiosi: il popolo non avrebbe guadagnato nulla. In una nazione, in
cui l'industria è attiva, sará vantaggio del feudatario  far  coltivare  le  sue
terre dall'uomo libero, anziché dallo  schiavo.  Una  nazione  oziosa  e  povera
chiede esser sgravata dai tributi: una nazione ricca ed industriosa  è  contenta
di pagare, purché abbia  mezzi  di  accrescer  la  sua  industria.  Nell'immensa
estensione di terreni che i baroni possedevano, non vi erano che pochi  i  quali
appartenessero al feudo: negli altri voi vedevate un cumulo di  diritti  diversi
accatastati l'uno sopra l'altro ed appartenenti a persone diverse, tra le  quali
era facile il riconoscere che il piú potente dovea  esser  l'usurpatore.  Quindi
veniva restituita alle  popolazioni  gran  parte  di  quella  massa  di  terreni
feudali, chiamati «demaniali de' feudi» e che ne formavano la maggior  parte;  i
boschi  doveano  per  necessitá  divenire  oggetti  di  pubblica  ispezione;  ai
feudatari veniva a rimaner  pure  tanto  di  terreno  da  esser  ricchi,  quando
all'ozio avessero sostituita l'industria; e la  nazione,  senza  legge  agraria,
avrebbe avuta, se non la perfetta  eguaglianza,  almeno  quella  moderazione  di
beni, che in una gran nazione è piú utile, meno pericolosa  e  piú  vicina  alla
vera eguaglianza. Non mai si vide piú chiaramente quanto il  freddo  e  costante
esame sia piú pericoloso agli usurpatori che il caldo e momentaneo entusiasmo. I
baroni avrebbero mille volte amato ritornare ai  princípi  della  «conquista»  e
della «legittimitá», che, sebbene in apparenza piú distruttivi, erano piú facili
a combattersi, piú  facili  ad  eludersi  nell'esecuzione.  Ma  come  combattere
princípi evidenti,  che  essi  stessi  aveano  riconosciuti  anche  nell'abolito
governo? Ad onta di tutto ciò, il progetto non passò senza grandi dispareri:  la
spirante feudalitá avea tuttavia  molti  difensori.  Talun  legislatore  credeva
nulla potersi decidere sulla feudalitá, perché nulla  avea  deciso  la  Francia:
invincibile  argomento  per  un  rappresentante  di  una   nazione   libera   ed
indipendente! Pagano credeva non esser giunto ancora il  tempo  di  decidere  la
controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni de' diritti, ma
voleva che non si toccassero i terreni, quasi che un popolo  non  dovesse  esser
oppresso, ma potesse essere legittimamente misero. Taluno volea che l'affare  si
fosse commesso ad un tribunale, che si sarebbe di  ciò  incaricato;  ma,  se  le
leggi sono fatte pel popolo, i giudizi sono fatti per i potenti,  i  quali,  col
possesso, coi cavilli e talora colla prevaricazione,  riacquistano  coi  giudizi
tutto ciò che il popolo avea guadagnato colle leggi. Tanto importa che  le  idee
del legislatore sieno a livello con quelle della nazione e  che  i  progetti  di
legge contengano quelle idee medie, che tutti gli uomini sentono ed a cui  tutti
convengono! Se si fosse rimasto agli estremi, la legge non si  sarebbe  avuta  o
avrebbe prodotta una guerra civile; essa  avrebbe  portata  con  sé  l'apparenza
dell'ingiustizia. Fondata su princípi che  nessuno  poteva  negare,  gli  stessi
baroni  piú  avversi  alla  rivoluzione  l'avrebbero  sofferta,   se   non   con
indifferenza (poiché chi potrebbe pretendere che taluno resti indifferente  alla
perdita di tante ricchezze?), almeno con decoro. Ma, nel tempo appunto in cui il
governo era occupato della discussione del progetto di questa legge, Championnet
fu richiamato, e Magdonald, che  a  lui  successe,  fu  ben  lontano  dal  voler
sanzionare ciò che il governo avea fatto. Si dovette aspettare Abrial, il  quale
fu ragionevole e giusto. Ma intanto  il  tempo  era  scorso,  ed  il  timore  di
disgustar  diecimila  potenti  fece  perdere  ai  francesi  ed  alla  repubblica
l'occasione di guadagnar gli animi di cinque milioni. È degna di osservazione la
differenza che passa tra la discussione che sulla feudalitá vi fu in  Francia  e
quella che vi è stata tra noi.  Parlando  della  prima,  Anquetil  dice  che  la
discussione dell'Assemblea incominciò  da  una  proposizione  fatta  per  render
sicura l'esazione delle rendite a  coloro  che  ne  possedevano  i  diritti,  e,
passando da idea in idea, si finí coll'abolizione di tutti i diritti. In Francia
s'incominciò dalle massime moderate e si passò  alle  esagerate;  in  Napoli  da
queste si ritornò a quelle. Ed era ciò  nell'ordine  della  natura,  perché  noi
riprendevamo le idee dal punto istesso nel quale le avean lasciate  i  francesi.
Quindi è che tra noi furono piú esagerate le opinioni de' privati  che  le  idee
del governo. Il governo seguí la massima che le leggi sulle proprietá hanno  una
giustizia propria, la quale consiste nel far sí che ciascuno perda il  meno  che
sia possibile; e, nel caso della  riforma  feudale,  si  può  far  in  modo  che
guadagnino ambedue i partiti. Io per me son sicuro che  i  feudatari  potrebbero
guadagnar piú con una legge nuova  che  colle  antiche.  I  diritti  feudali  si
sostengono pel solo uso del fòro. Da che fu imposto tra noi l'obbligo ai giudici
di dettar le loro sentenze sul testo espresso della  legge,  i  diritti  feudali
sono stati di giorno in giorno aboliti, e col tempo lo  saranno  tutti.  Ma  una
legge nuova dovea considerarsi  piuttosto  come  una  transazione  che  come  un
decreto; ed il lunghissimo possesso poteva per essa acquistar forza  di  titolo.
La nuova legge feudale non dovea aver per iscopo  né  chimerica  eguaglianza  di
beni né revindica di domíni, ma solamente di liberare il popolo da tutto ciò che
turbava l'esercizio dell'autoritá pubblica, comprimeva e distruggeva l'industria
ed impediva la libera circolazione delle proprietá.

XXV

RELIGIONE

Oggi le idee de' popoli di Europa sono giunte a tale stato, che non è  possibile
quasi una rivoluzione politica senza che  strascini  seco  un'altra  rivoluzione
religiosa, doveché prima la rivoluzione religiosa era  quella  che  per  lo  piú
produceva la politica. Da ciò forse nasce che  le  rivoluzioni  moderne  abbiano
meno durata delle antiche?(36). In Francia la parte della rivoluzione  religiosa
dovette esser violenta, perché violento era lo  stato  della  nazione  a  questo
riguardo. Si riunivano in Francia tutti gli  estremi.  Essa  avea  innalzata  in
Europa l'autoritá papale; essa era stata la  prima  a  scuoterne  il  giogo,  ma
scuotendolo non l'avea rotto come si era fatto in  Inghilterra,  ma  le  antiche
idee erano rimaste per materia di eterne dispute su degli oggetti  che  conviene
solamente credere. Il clero era continuamente alle prese con Roma; i  parlamenti
lo erano col clero; la corte ondeggiava tra il clero, i parlamenti  e  Roma.  La
nazione non si potea arrestare ai primi passi,  una  volta  dati:  l'incredulitá
venne dietro all'esame; ma, nata in mezzo  ai  partiti,  risvegliar  dovette  la
gelosia dei potenti, e si vide in Francia la massima tolleranza ne'  filosofi  e
la massima intolleranza nel governo e nella nazione.  Poche  nazioni  di  Europa
possono, in questo pregio di barbara intolleranza, contendere coi colti ed umani
francesi. La nazione  napolitana  trovavasi  in  uno  stato  meno  violento.  La
religione era un affare individuale; e,  siccome  esso  non  interessava  né  il
governo né la nazione, cosí le ingiurie fatte agli dèi si  lasciavano  agli  dèi
istessi. Il popolo napolitano amava la sua religione, ma la religione del popolo
non era che una festa, e, purché la festa se gli fosse lasciata, non  si  curava
di altro. In Napoli non vi era da temere nessuno  de'  mali  che  l'abuso  della
religione ha persuasi a tanti popoli della terra. Il  fondo  della  religione  è
uno, ma veste nelle varie regioni forme diverse a seconda della  diversa  indole
dei popoli. Essa rassomiglia molto alla favella di ciascuno di essi. In Francia,
per esempio, al pari della lingua, è piú didascalica che in Italia; in Italia  è
piú poetica, cioè piú  liturgica,  che  in  Francia.  In  Francia  la  religione
interessa piú lo spirito che il cuore ed i sensi; in Napoli, piú i sensi  ed  il
cuore che lo spirito. Qual altra nazione di Europa si può vantare  di  non  aver
mai prodotta una setta di eresia e di essersi sempre ribellata ogni volta che le
si è parlato di Sant'officio e d'Inquisizione?  La  nazione  che  ha  eretto  un
tribunale nazionale indipendente dal re contro questa barbara  istituzione,  che
tutte le altre nazioni di Europa hanno almen per qualche  tempo  riconosciuta  e
tollerata, deve essere la piú umana di tutte. In Napoli  era  facile  far  delle
riforme sulle ricchezze del clero tanto secolare quanto regolare. Una gran parte
della nazione era in lite col medesimo per ispogliarlo delle sue rendite, né  il
rispetto per la religione e per i  suoi  ministri  l'arrestava.  Perché  dunque,
quando queste riforme si vollero tentare dalla repubblica, furono odiate? Perché
i nostri repubblicani, seguendo sempre idee troppo esagerate,  voleano  far  due
passi nel tempo in cui ne doveano far uno: l'altro avrebbe dovuto venir da sé, e
sarebbe venuto. Ma essi, mentre voleano spogliare i  preti,  volean  distruggere
gli dèi; si uní l'interesse dei primi e dei secondi, e  si  rese  piú  forte  la
causa dei primi. Ritorniamo sempre allo stesso principio: si volea fare  piú  di
quello che il popolo volea, e conveniva  retrocedere;  si  potea  giugnere  alla
mèta, ma se ne ignorava la strada. Conforti credeva che  una  religione  non  si
possa riformare se non per mezzo di un'altra religione. La  religione  cristiana
ridotta a poco a poco alla  semplicitá  del  Vangelo;  riformate  nel  clero  le
soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il
numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi  separan
troppo gli ecclesiastici dal governo e li  rendono  quasi  indipendenti,  sempre
indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio di ogni
altra si adatta ad una forma di governo moderato  e  liberale(37).  Nessun'altra
religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di libertá. La pagana  avea
per suo dogma fondamentale la forza: produceva  degli  schiavi  indocili  e  dei
padroni tirannici. La religion cristiana ha per base  la  giustizia  universale:
impone dei doveri ai popoli egualmente che ai re, e  rende  quelli  piú  docili,
questi meno oppressori. La religione cristiana è stata la prima che abbia  detto
agli uomini che Iddio non approva la  schiavitú:  per  effetto  della  religione
cristiana,  abbiamo  nell'Europa  moderna  una   specie   di   libertá   diversa
dall'antica; ed è probabile che i primi cristiani, nella loro origine, altro non
fossero che persone le quali volevano, in tempi corrottissimi,  ridurre  la  piú
superstiziosa idolatria alla semplicitá della pura ed eterna ragione, ed il  piú
orribile dispotismo che mai abbia oppresso la cervice del genere umano (tale era
quello di Roma) alle norme della giustizia.  Ma  gli  uomini  (diceva  Conforti)
corrono sempre agli estremi. La filosofia, dopo aver predicata la tolleranza,  è
diventata intollerante(38), senza ricordarsi che, se non è degno della religione
il forzar la religione, non è  degno  neanche  della  filosofia.  Non  è  ancora
dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela  date,
se ne formerá una da se stesso. Ma, quando voi gliela date, allora  formate  una
religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se
il popolo se la forma da sé, allora la religione sará indifferente al governo  e
talora nemica. Cosí tutti gli abusi  della  religione  cristiana  sono  nati  da
quegli stessi mezzi che si voglion prendere oggi per ripararli. Conforti credeva
che la Francia istessa si sarebbe un giorno ricreduta de' suoi princípi, e  che,
quando si  credeva  di  aver  distrutti  i  preti,  altro  non  avea  fatto  che
accrescerne il desiderio, e che avrebbe dovuto renderli di nuovo,  contentandosi
il governo di potersi restringere a quelle riforme alle quali si sarebbe  dovuto
arrestare. Ma gli altri erano lontani dall'avere le idee di Conforti, né seppero
mai  determinarsi  a  prendere  su  tale  oggetto  un  espediente  generale(39).
Ondeggiando tra lo stato della nazione e gli esempi della rivoluzion di Francia,
abbandonarono quest'oggetto importante alla condotta degli agenti subalterni;  e
questo fu il peggior partito a cui si potessero appigliare.  Un  atto  di  forza
avrebbe fatto odiare e temere il governo: questa  indolenza  lo  fece  odiare  e
disprezzare nel tempo istesso.  Il  popolo  si  stancò  tra  le  tante  opinioni
contrarie degli agenti  del  governo,  e  provò  tanto  maggior  odio  contro  i
repubblicani quanto che vedeva le loro operazioni essere effetti della sola loro
volontá individuale. L'odio contro gl'individui che governano, odio che poco può
in un governo antico, è pericolosissimo in un governo nuovo; perché, siccome  il
governo nuovo è tale quale lo formano gl'individui che lo compongono, il  popolo
contro gl'individui niun soccorso aspetta da un governo che  conosce,  e  l'odio
contro di quelli diventa odio  contro  di  questo.  È  un  carattere  indelebile
dell'uomo quello di sostener con piú calore le opinioni proprie che  le  altrui,
piú le opinioni che crede nuove e particolari che le antiche e comuni. Io credo,
e fermamente credo, che, se le operazioni che taluni agenti si permisero  contro
i preti fossero state ordinate dal governo, il loro zelo sarebbe  stato  minore.
La legge nulla determinava: il suo silenzio proteggeva  le  persone  ed  i  beni
degli ecclesiastici; quindi quei pochi agenti  del  governo,  che  voleano  dare
sfogo alle loro idee proprie, si doveano restringere agl'insulti. Or  gl'insulti
ricadono piú direttamente contro gli dèi, e le operazioni contro gli uomini.  La
condotta  di  molti  repubblicani  era  tanto  piú  pericolosa  quanto  che   si
restringeva alle sole parole: mentre si minacciavano i preti, si lasciavano;  ed
essi ripetevano al  popolo  che  gli  agenti  del  governo  l'aveano  piú  colla
religione che coi religiosi, perché, mentre si lasciavano i beni, si attaccavano
le opinioni. Si avrebbe dovuto far precisamente il contrario,  ed  allora  tutto
sarebbe stato nell'ordine. Il governo si avvide, ma  tardi,  dell'errore:  volle
emendarsi e fece peggio. Il popolo comprese  che  il  governo  operava  piú  per
timore che per interna persuasione;  e,  quando  ciò  si  è  compreso,  tutto  è
perduto.

XXVI

TRUPPA

Un governo nuovo  ha  piú  bisogno  di  forza  che  un  governo  antico,  perché
l'esecuzione della legge, per quanto sia giusta, non può esser mai con sicurezza
affidata al pubblico costume: gli scellerati, che  non  mancano  giammai,  hanno
campo maggiore di calunniarla e di eluderla; ed i  deboli  sono  piú  facilmente
sedotti o trascinati nell'ondeggiar dubbioso tra le antiche opinioni e le nuove.
I francesi  impedirono  però  ogni  organizzazione  di  forza  nella  repubblica
napolitana. Il primo loro errore fu quello  di  temer  troppo  la  capitale;  il
secondo, di non temere abbastanza  le  province.  Essi  non  aveano  truppa  per
inviarvene, e di ciò non poteano esser condannati; ma essi non permisero che  si
organizzasse truppa nazionale che vi potesse andare in loro vece, e di  ciò  non
possono esser scusati. Dagli avanzi dell'esercito del  re  di  Napoli  si  potea
formare sul momento un corpo di trentamila uomini,  di  persone  che  altro  non
chiedevano che vivere. Essi formavano il  fiore  dell'esercito  del  re,  poiché
erano quelli appunto che erano stati gli ultimi a deporre le armi.  Tra  questi,
per il loro coraggio, si distinsero i «camisciotti»: contesero a palmo  a  palmo
il terreno fino al castello del Carmine. Ciò dovea  farli  stimare,  e  li  fece
odiare. Furono fatti tutti prigionieri: conveniva o assoldarli per la repubblica
o mandarli via. Si lasciarono liberi per Napoli, e furono stipendiati da  coloro
che   in   segreto   macchinavano   la   rivoluzione.   Si   tennero   cosí    i
controrivoluzionari nel seno istesso della capitale. S'incominciò a  raccogliere
i soldati del re in  Capua,  indi  un'altra  volta  in  Portici.  La  repubblica
napolitana era in istato di mantenerli; essi avrebbero potuto salvar la  patria,
salvar l'Italia: ma, appena si vide incominciare l'operazione, che fu  proibita.
A quei pochissimi soldati che si permise di ritenere non si accordarono se non a
stento le armi, che erano tutte nei castelli in potere dei francesi. Intanto  si
volea disarmare la popolazione. Come farlo senza forze? Ma  i  francesi  temeano
egualmente le popolazioni ed i patrioti; e questo  loro  soverchio  timore  fece
dipoi che le popolazioni si trovassero armate per offenderli, ed i patrioti  per
difendersi disarmati. Si ordinava il disarmo,  ed  intanto  i  custodi  francesi
delle armi, non conoscendo gli uomini e le cose in un paese per essi  nuovo,  le
vendevano; e ne compravano egualmente tanto il governo repubblicano, a  cui  era
giusto restituirle senza paga, quanto i traditori,  a  cui  era  ingiusto  darle
anche con paga. I mercenari, che avrebbero potuto  diventar  nostri  amici,  non
avendo onde vivere, passarono a raddoppiar la forza dei nemici nostri. Oltre  di
una  truppa  di  linea,  si  avrebbe  potuto  sollecitamente   organizzare   una
gendarmeria: allora quando ordinossi a tutt'i baroni di licenziare le loro genti
d'armi, costoro sarebbero passati volentieri al servizio della repubblica;  essi
non sapevano far altro mestiere:  abbandonati  dalla  repubblica,  si  riunirono
agl'insorgenti. Essi avrebbero potuto formare un  corpo  di  cinque  in  seimila
uomini, e tutti valorosi. Si ordinò congedarsi gli armigeri baronali, e  non  si
pensò alla loro sussistenza; si soppressero i tribunali provinciali,  e  non  si
pensò alla sussistenza di tanti individui che componevano le loro  forze  e  che
ascendevano ad un numero anche  maggiore  degli  armigeri...  -  Essi  sono  dei
scellerati - diceva taluno, il quale voleva anche i  gendarmi  eroi.  Ma  questi
scellerati continuarono ad  esistere,  poiché  era  impossibile  ed  inumano  il
distruggerli, ed esistettero a danno della repubblica. Erasi  obbliato  il  gran
principio che «bisogna che tutto il mondo viva». L'avea del  tutto  obbliato  De
Rensis, allorché pubblicò quel proclama con cui diceva agli uffiziali del re che
«a chiunque avesse servito il tiranno nulla  a  sperar  rimanea  da  un  governo
repubblicano». Questo linguaggio, in bocca di un ministro di guerra, dir volea a
mille e cinquecento famiglie, che aveano qualche nome  e  molte  aderenze  nella
capitale: - Se volete vivere, fate che ritorni il vostro re. -  Questo  proclama
segnò l'epoca della congiura  degli  uffiziali.  Il  proclama  fu  corretto  dal
governo col fatto,  poiché  molti  uffiziali  del  re  furono  dalla  repubblica
impiegati. Ben si vide dalle persone che avean senno esser stato esso  piuttosto
feroce nelle parole che nelle idee, effetto di quella specie  di  eloquenza  che
allora predominava, e per la quale la parola la piú energica si preferiva sempre
alla piú esatta; ma, io lo ripeto, nelle rivoluzioni passive, quando le opinioni
sono varie ed ancora incerte, le parole poco misurate posson produrre gravissimi
mali.  Le  eccezioni,  le  quali  si  reputan  sempre  figlie  del  favore,  non
distruggevano le impressioni prodotte una  volta  dalla  legge  generale:  molti
rimasero ancora  ondeggianti;  moltissimi  si  trovavano  giá  aver  dati  passi
irretrattabili contro un governo che credevano ingiusto. La durata della  nostra
repubblica non fu che di cinque mesi:  nei  primi  gli  uffiziali  non  poterono
ottener gradi; negli ultimi non  vollero  accettarne.  Si  vuole  dippiú?  Degli
stessi insorgenti si avrebbero potuto formare tanti  amici.  Essi  seguivano  un
capo, il quale per lo piú non era che un  ambizioso:  questo  capo,  quando  non
avesse potuto estinguersi, si poteva guadagnare, e le  sue  forze  si  sarebbero
rivolte a difendere quella repubblica, che mostrava di voler distruggere.

XXVII

GUARDIA NAZIONALE

Il nostro governo erasi ridotto a fondar tutte le speranze  della  patria  sulla
guardia nazionale. Ma la guardia nazionale dev'essere la forza del popolo, e non
mai quella del governo. Tutto fu ruinato in Francia, quando il governo  credette
non dover avere altra forza:  la  Vandea  non  fu  mai  ridotta,  gli  assassini
ingombrarono tutte le strade, non vi fu piú sicurezza pubblica ed  invece  della
tranquillitá si ebbero le sedizioni. Il primo difetto di ogni guardia  nazionale
è l'esser piú atta all'entusiasmo che alla fatica; il secondo è che, quando  non
difende la nazione intera, quando a buon conto una parte della nazione è  armata
contro dell'altra, è impossibile evitare che ciascun partito non  abbia  tra  le
forze dell'altro  dei  seguaci,  degli  amici,  i  quali  impediscano  o  almeno
ritardino  le  operazioni.  La  vera  forza  della  guardia  nazionale   risulta
dall'uniformitá dell'opinione: ove non siasi giunto ancora  a  tale  uniformitá,
convien usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono ammettere se non
quelli i quali si presentino per  volontario  attaccamento  alla  causa,  o  che
abbiano nella loro educazione princípi di onestá e nel  loro  stato  civile  una
cautela di responsabilitá. Quei tali che  Aristotile  direbbe  formare  in  ogni
cittá la classe degli ottimi, se non sono entusiasti,  di  rado  almeno  saranno
traditori. Io parlo sempre de' princípi di una rivoluzione  passiva.  Nei  primi
giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che diedero il  loro  nome
alla  milizia  nazionale:  rispettabili  magistrati,  onestissimi  cittadini,  i
principali tra i nobili, quanto insomma vi era di meglio nella cittá, disperando
dell'abolito governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si
sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di  guadagnare
l'opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro che  conteneva  i  loro
nomi avrebbe forse potuto formar la salute di molti.  Ma  si  volle  spinger  la
parzialitá anche nella formazione della guardia  nazionale:  allora  il  maggior
numero si ritirò, e non si ebbe l'avvertenza neanche di conservare il libro  che
conteneva i loro nomi. Si formarono quattro compagnie di  patrioti:  essi  erano
tutti entusiasti, tutti bravi. Ma quattro  compagnie  erano  poche.  Si  dovette
ritornare al punto donde si era  partito,  ed  ammettere  coloro  che  si  erano
esclusi. Ma essi non ritornavano piú.  Si  ordinò  che  nessuno  potesse  essere
ammesso a cariche civili e militari, se prima non avesse  prestato  il  servizio
nella guardia nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma  si  volle  ordinare
che tutti si ascrivessero, e nel  tempo  stesso  si  ordinò  un'imposizione  per
coloro che volessero essere esentati:  dico  «volessero»,  perché  i  motivi  di
esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli,  ciascuno  potea  ammetterli,
senza timore di poter essere smentito se  li  fingeva,  o  rimproverato  se  gli
ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano esser mossi  dal  desiderio  delle
cariche erano senza dubbio i migliori del  paese,  ma  essi  per  lo  piú  erano
ricchi, e comprarono l'esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che  non
aveano né patriottismo né onestá né beni, e cosí la legge fece  passar  le  armi
nelle mani dei nostri nemici. Si volle sforzar la nazione,  che  solo  si  dovea
invitare. L'imposizione riuscí gravosissima per  le  province.  Il  governo  era
passato da un estremo all'altro: prima non volea nessuno, poi voleva tutti.  Era
però da riflettersi che questa misura fu presa quando giá incominciava a vedersi
lo stato intero delle cose volgersi ad inevitabile rovina.  Allora,  siccome  in
chi opera non vi è luogo a calcolo, cosí in chi giudica non deve  predominar  il
sistema. Il governo allora giuocava, come suol dirsi, tutto  per  tutto.  Trista
condizione di tempi, nei quali taluno, per non aver potuto far ciò che voleva, è
poi costretto a volere ciò che non può! Altre  massime,  altra  direzione  nelle
prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessitá di dover fondare  tutte  le
speranze della patria nella guardia  nazionale;  e  forse  la  patria  sarebbesi
salvata. Se la guardia nazionale  in  Francia  erasi  sperimentata  inutile,  in
Napoli dovea prevedersi inevitabilmente nociva, perché, essendo  la  rivoluzione
passiva, la massima parte della nazione dovea supporsi  almeno  indifferente  ed
inerte. Avendo io osservato le guardie nazionali in molti luoghi delle province,
ho sempre trovata piú diligente ed energica  quella  dove  o  erasi  sofferto  o
temevasi danno dalle insorgenze. L'amor di sé  ridestava  l'amor  della  patria.
Pure, ad onta di tutto ciò, la guardia nazionale  non  produsse  in  noi  alcuno
sconcerto, e nella capitale fu piú numerosa  e  piú  attiva  di  quello  che  si
avrebbe potuto sperare. Insomma, né il governo mancava di rette  intenzioni,  né
il popolo di buona volontá: l'errore era  tutto  nelle  massime  e  nella  prima
direzione data agli affari. A misura che ci avviciniamo  al  termine  di  questo
Saggio, vediamo i mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi,  ma
che intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior  utile,  che  trar  si
possa dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che sia appunto  quello
di vedere quanti generi di mali posson derivare da un solo  errore.  Gli  uomini
diventeranno piú saggi, quando conosceranno tutte le conseguenze che un picciolo
avvenimento può produrre.

XXVIII

IMPOSIZIONI

Championnet, entrando coll'armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione
di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale  imposizione  era
assolutamente  esorbitante  per  una  sola  cittá  giá  desolata  dalle  immense
depredazioni che il passato governo vi avea fatte.  Championnet  avrebbe  potuto
esigere il doppio  a  poco  a  poco,  in  piú  lungo  spazio  di  tempo.  Quando
Championnet se ne avvide, si pentí e  mostrò  pentirsi  del  fatto,  ma  non  lo
ritrattò; anzi stabilí quindici milioni per le province, a  suo  tempo.  Ma  chi
potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un'imposizione  per
se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú  facile  che  seguire  il  piano
della decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí  la  nuova  imposizione
alla quantitá dei beni che nell'officio della decima trovavasi giá liquidata. Si
videro  famiglie  milionarie  tassate  in  pochi  ducati,  e  tassate  in  somme
esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho visto la stessa tassa imposta a
chi avea sessantamila ducati all'anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi  ne
avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse  era  piú
giusto che dassero le prime l'esempio di contribuire con generositá  ai  bisogni
della  patria.  Si  cangiarono  tutte  le  idee:  ciò  che  era  imposizione  fu
considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i  gradi  di
aristocrazia che taluno avea nel cuore. - Noi tassiamo l'opinione - risposero  i
tassatori ad una donna che si lagnava della  tassa  imposta  a  suo  marito,  il
quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale, fuggendo il re, avea  perduto
tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea commesso l'affare una massima
che appena si sarebbe tollerata in un generale di un'armata vittoriosa e nemica.
Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all'arbitrio. Questo  è  il
male che producono le imposizioni male immaginate e mal  dirette;  quando  anche
evitate l'ingiustizia, non potete evitare il sospetto che producono  sul  popolo
gli effetti medesimi dell'ingiustizia. Difatti non vi era in Napoli tanto danaro
da pagar l'imposizione. Fu permesso di pagarla in metalli preziosi ed in  gioie.
Chi era incaricato a  riceverle  ne  fu  nel  tempo  istesso  il  tesoriere,  il
ricevitore, l'apprezzatore; ed il popolo credette che tutto fosse trafficato non
colla bilancia dell'equitá, ma con quella dell'interesse dell'esattore.  Io  non
intendo affermare ciò che il popolo credeva. Il governo, per dar fine  ai  tanti
reclami, nominò una commissione composta di persone superiori ad ogni  sospetto.
Mentre in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate  per
un ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche
l'attrasso di ciò che doveano  all'antico.  Quest'ordine  fatale  dovette  esser
segnato in qualche momento d'inconsideratezza e per ragion di pratica. Si  seguí
l'antico stile, lo stile di tutt'i  governi:  difatti  fu  un  solo  dei  membri
componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto,  ed  io  so  per  cosa
certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione  cogli
altri suoi  compagni.  Non  avvertí  che  quello  stile  non  conveniva  ad  una
rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima, ed
avea fatta sperare l'abolizione intera. La decima interessava  piú  la  capitale
che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá,  si  occupò
sempre il nostro  governo.  Ma  le  province  si  doveano  aspettar  mai  questo
linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la loro affezione?
In Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de' principali della cittá e che  conosceva  gli
uomini, si oppose alla pubblicazione  ed  all'esecuzione  dell'ordine.  Egli  ne
prevedeva le funeste conseguenze. Il governo non  si  rimosse;  e  quale  ne  fu
l'effetto? Ostuni si  rivoltò,  ed  Ayroldi  fu  la  prima  vittima  del  furore
popolare. Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle  requisizioni  arbitrarie
di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni  guerra,  ma  maggiori
sempre quando la nazione vincitrice non ha quell'energia di governo,  che  tutto
attira a sé e fa sí che le  passioni  dei  privati  non  turbino  l'unitá  delle
pubbliche operazioni. L'esercito di una repubblica, se non è  composto  dei  piú
virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell'esercito  di  un  re.
Questi mali portano sempre seco loro il disgusto de' popoli verso colui  che  ha
vinto, e impongono  al  vincitore  verso  l'umanitá  l'obbligo  di  un  compenso
infinito, che solo può assicurare la  conquista  e  quasi  render  legittima  la
forza.

XXIX

FAIPOULT(40)

Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del
Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione
francese. Si parlava di conquista dopo  che  si  era  tante  volte  promessa  la
libertá; e, per conciliar la promessa e  l'editto,  si  chiamava  «frutto  della
conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito re. Ma quali erano  i  beni  del
re, che non fossero della nazione? Si chiamava «fondo del re» la reggia, che suo
padre non avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni del re» i  fondi
dell'ordine di Malta e dell'ordine costantiniano, i quali erano  certamente  de'
privati(41); i monasteri, che erano de' monaci e che, ove  non  vi  fossero  piú
monaci, non perciò diventavano beni del re; gli allodiali, de' quali il  re  non
era che amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di dichiarar beni  del
re i banchi, deposito del danaro de' privati, la fabbrica della porcellana e gli
avanzi di Pompei, nascosti ancora nelle viscere della terra. Il re istesso,  ne'
momenti della maggior ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile
linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla nazione  e
meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si  prendesse,  tutto  rimaneva
alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno  strano,  perché  egli  era
realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione
che si osservava nell'editto di Faipoult. Tale  editto  potea  far  rivoltar  la
nazione:  Championnet  lo  previde  e  lo  soppresse;  Faipoult  si  oppose,   e
Championnet discacciò Faipoult. O Championnet, tu ora piú non esisti; ma la  tua
memoria riceva gli omaggi dovuti  alla  fermezza  ed  alla  giustizia  tua.  Che
importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha però avvilito.
Tu diventasti allora l'idolo della nazione nostra. Il richiamo di Championnet fu
un male per la repubblica napolitana. Io non  voglio  decidere  del  suo  merito
militare: ma egli era amato dal popolo di Napoli; e questo  era  un  merito  ben
grande.

XXX

PROVINCE - FORMAZIONE DI DIPARTIMENTI

Ma quale intanto era lo stato delle province? Esse finalmente doveano  richiamar
l'attenzione del governo, forse, fino a quel punto, troppo occupato  della  sola
capitale. Il miglior partito sarebbe stato di farvi le minori novitá  possibili;
ma, come sempre suole avvenire, s'incominciò dal farsene le piú grandi e le meno
necessarie. Il maggior numero delle rivoluzioni ha avuto un esito  infelice  per
la soverchia premura di cangiare i nomi delle cose. S'incominciò  dalla  riforma
dei dipartimenti. Volle incaricarsi di quest'opera  Bassal,  francese,  che  era
venuto in compagnia di Championnet. Qual mania è mai quella di  molti  di  voler
far tutto da loro! Quest'uomo, il quale non avea veruna  cognizione  del  nostro
territorio, fece una divisione ineseguibile, ridicola. Un viaggiatore, che dalla
cima di un monte disegni di notte le valli sottoposte che egli non abbia giammai
vedute, non può far opera piú inetta(42). La natura ha diviso  essa  istessa  il
territorio del regno di Napoli: una catena non interrotta di monti lo divide  da
Occidente ad Oriente dagli Apruzzi fino all'estremitá delle Calabrie;  i  fiumi,
che da questi monti scorrono ai due mari che  bagnano  il  nostro  territorio  a
settentrione ed a mezzogiorno, formano le suddivisioni minori. La natura  dunque
indicava i dipartimenti: la popolazione,  i  rapporti  fisici  ed  economici  di
ciascuna cittá o terra doveano indicare le centrali ed i cantoni. Invece di ciò,
si videro dipartimenti che s'incrociavano, che  si  tagliavano  a  vicenda;  una
terra, che  era  poche  miglia  discosta  dalla  centrale  di  un  dipartimento,
apparteneva ad un'altra da cui era lontana cento miglia;  le  popolazioni  della
Puglia si videro appartenere agli Apruzzi; le centrali non furono al centro,  ma
alle circonferenze; alcuni cantoni non aveano popolazione, mentre moltissimi  ne
aveano soverchia, perché sulla carta si vedevano notati i nomi dei paesi  e  non
le loro qualitá. Si vuol di piú? Molte  centrali  di  cantoni  non  erano  terre
abitate, ma o monti o valli o chiese rurali, ecc. ecc., che aveano un nome sulle
carte; molte terre, avendo un doppio nome, si videro appartenere a  due  cantoni
diversi. Dopo un mese, il governo, che non  avea  potuto  impedire  l'opera  del
cittadino Bassal, la dovette solennemente abolire, e fu  necessitá  ricorrere  a
quel metodo col quale avrebbe dovuto incominciare, cioè d'incaricare di un'opera
geografica i geografi nostri. Frattanto si comandò che si  conservasse  l'antica
divisione delle province, la quale, sebbene difettosa, era però tollerabile.  Ma
intanto si crede forsi picciolo male  che  il  governo  (poiché  il  popolo  non
conosceva né era obbligato a conoscere  Bassal),  con  ordini  male  immaginati,
ineseguibili, strani, perda nell'animo  della  popolazione  quella  opinione  di
saviezza che sola può ispirare la confidenza?

XXXI

ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE

Forse il miglior metodo per organizzare le province era quello di far uso  delle
autoritá  costituite  che  giá  vi  erano.  Tutte  le  province  aveano  di  giá
riconosciuto il nuovo governo: le  antiche  autoritá  o  conveniva  distruggerle
tutte, o tutte conservarle. Non so quale di questi due mezzi  sarebbe  stato  il
migliore: so che non si seguí né l'uno né l'altro, ed  i  consigli  mezzani  non
tolsero i nemici né accrebbero gli amici. Con un proclama del nuovo  governo  si
ordinò a tutte le antiche autoritá costituite delle province che rimanessero  in
attivitá fino a  nuova  disposizione.  Intanto  s'inviarono  da  per  tutto  dei
«democratizzatori», i quali urtavano ad  ogni  momento  la  giurisdizione  delle
autoritá antiche; e, siccome queste erano ancora in attivitá, rivolsero tutto il
loro potere a contrariar le operazioni dei democratizzatori novelli. In tal modo
si permise loro di conservar il potere, per  rivolgerlo  contro  la  repubblica,
quando ne fossero disgustati; e s'inviarono i democratizzatori, perché  avessero
un'occasione di disgustarsi. Quale strana idea era quella dei  democratizzatori?
Io non ho mai compreso il significato di questa parola. S'intendea forse  parlar
di coloro che andavano ad organizzar un governo in una provincia? Ma  di  questi
non ve ne abbisognava al certo uno per terra. S'intendeva di colui  che  andava,
per cosí dire, ad organizzare i popoli  e  render  gli  animi  repubblicani?  Ma
questa  operazione  né  si  potea  sperare  in  breve  tempo  né  richiedeva  un
commissario del governo. Le buone leggi,  i  vantaggi  sensibili  che  un  nuovo
governo giusto ed umano procura ai popoli, le parole di pochi e saggi cittadini,
che, vivendo senz'ambizione nel seno delle loro famiglie, rendonsi per  le  loro
virtú degni dell'amore e della  confidenza  dei  loro  simili,  avrebbero  fatto
quello che il governo da sé né dovea tentare né potea sperare. Quando voi volete
produrre una  rivoluzione,  avete  bisogno  di  partigiani;  ma,  quando  volete
sostenere o menare avanti una rivoluzione giá fatta, avete bisogno di guadagnare
i nemici e gl'indifferenti. Per produrre la  rivoluzione,  avete  bisogno  della
guerra, che sol colle sètte si produce;  per  sostenerla,  avete  bisogno  della
pace, che nasce dall'estinzione di ogni studio di parti. A persuadere il  popolo
sono meno atti, perché piú sospetti, i partigiani che gl'indifferenti. Quindi  è
che, in una rivoluzione passiva, voi dovete far piú conto di coloro che non sono
dalla vostra che di  quelli  che  giá  ci  sono;  e,  siccome  fu  un  errore  e
l'istituzione della commissione censoria e  la  prima  pratica  seguíta  per  la
formazione della guardia nazionale, perché tendevano a ristringer  le  cose  tra
coloro soli che eran dichiarati per la buona causa, cosí fu anche un  errore,  e
fu frequente presso di noi, l'impiegare colui che volontariamente  si  offeriva,
in preferenza di colui che volea esser richiesto, ed il servirsi dell'opera  dei
giovani anziché di quella degli uomini maturi. Non quelli che con  facilitá,  ma
bensí che con difficoltá guadagnar si possono,  sono  coloro  che  piú  vagliono
sugli animi del popolo. I giovani non vi mancano mai nella rivoluzione; Russo li
credeva perciò piú atti alla medesima: se egli con ciò volea intendere che erano
piú atti a produrla, avea ragione; se poi credeva che fossero perciò piú atti  a
sostenerla, s'ingannava. I giovani possono molto ove vi è bisogno di  moto,  non
dove vi è bisogno di opinione.  Giovanetti  inesperti,  che  non  aveano  veruna
pratica del mondo, inondarono le province con una «carta di  democratizzazione»,
che Bisceglia, allora membro del comitato  centrale,  concedeva  a  chiunque  la
dimandava. Essi non erano accompagnati da verun nome; fortunati quando non erano
preceduti da uno poco  decoroso!  Non  aveano  veruna  istruzione  del  governo:
ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie idee; ciascuno credette che la
riforma dovesse esser  quella  che  egli  desiderava:  chi  fece  la  guerra  ai
pregiudizi, chi ai  semplici  e  severi  costumi  dei  provinciali,  che  chiamò
«rozzezze»: s'incominciò dal disprezzare quella  stessa  nazione  che  si  dovea
elevare all'energia repubblicana, parlandole troppo  altamente  di  una  nazione
straniera, che non ancora conosceva se non perché era stata vincitrice; si  urtò
tutto ciò che i popoli hanno di piú sacro, i loro dèi, i loro costumi,  il  loro
nome. Non mancò qualche  malversazione,  non  mancò  qualche  abuso  di  novella
autoritá, che risvegliava gli spiriti di partito, non mai  estinguibili  tra  le
famiglie principali dei piccioli paesi.  Gli  animi  s'inasprirono.  Il  secondo
governo vide il male che nasceva dall'errore del  primo:  Abamonti  specialmente
richiamò quanti ne potette di questi tali democratizzatori. Ma il male  era  giá
troppo inoltrato; il vincolo sociale dei dipartimenti erasi giá rotto, poiché si
era giá tolta l'uniformitá della legge e la riunione delle  forze:  non  mancava
che un passo per la guerra civile, ed infatti poco tardò a scoppiare.  Come  no?
Una popolazione scosse il giogo  del  giovanetto;  le  altre  la  seguirono:  le
popolazioni che eran repubblicane, cioè che aveano avuta la fortuna di non  aver
democratizzatori o di averli avuti savi si armarono  contro  le  insorgenti.  Ma
queste aveano idee comuni, poiché  quelle  dell'antico  governo  eran  comuni  a
tutte; s'intendevano tra loro; le loro operazioni erano concertate.  Nessuno  di
questi  vantaggi  avevano  le  popolazioni  repubblicane.  Le  antiche  autoritá
costituite, che conservavano tuttavia molto potere, erano,  almeno  in  segreto,
per le prime. Qual meraviglia se, dopo qualche tempo, le popolazioni insorgenti,
sebbene sulle prime minori di numero e di forze, oppressero le repubblicane?  Si
volle tenere una strada opposta a quella  della  natura.  Questa  forma  le  sue
operazioni in getto, ed il disegno del tutto precede sempre  l'esecuzione  delle
parti: da noi si vollero fare le parti prima che si fosse fatto il disegno.

XXXII

SPEDIZIONE CONTRO GL'INSORGENTI DI PUGLIA

La nazione napolitana non era piú una: il suo territorio si  potea  dividere  in
democratico ed insorgente. Ardeva l'insorgenza negli Apruzzi  e  comunicava  con
quella di Sora e di Castelforte. Queste insorgenze  si  doveano  in  gran  parte
all'inavvertenza ed al picciol numero dei francesi, i  quali,  spingendo  sempre
innanzi le loro conquiste né avendo truppa sufficiente da lasciarne dietro,  non
pensarono ad organizzarvi un governo.  Che  vi  lasciarono  dunque?  L'anarchia.
Questa non è possibile che duri piú di cinque giorni.  Che  ne  dovea  avvenire?
Dopo qualche giorno, dovea sorgere un ordine di cose, il quale si accostasse piú
all'antico governo, che i popoli sapeano,  piuttosto  che  al  nuovo,  che  essi
ignoravano; e l'idea dei nuovi conquistatori dovea associarsi negli  animi  loro
alla memoria di tutti i mali che avea prodotti l'anarchia. Il cardinal Ruffo, il
quale ai primi giorni di febbraio avea  occupata  la  Calabria  dalla  parte  di
Sicilia, spingeva un'altra insorgenza verso il settentrione e veniva a  riunirsi
alle altre insorgenze in Matera. Il governo  troppo  tardi  avea  spedito  nelle
Calabrie due commissari, tali appunto quali gli abitanti non  gli  voleano:  per
che, senza forze, erano stati costretti a fuggire, e fu fortunato chi  salvò  la
vita. Monteleone, ricca e popolata cittá, ripiena di spirito repubblicano,  avea
opposta una resistenza ostinata a Ruffo;  ma,  sola,  senza  comunicazione,  era
stata costretta  a  cedere.  E  nello  stesso  modo  cedettero  tutte  le  altre
popolazioni di Calabria. Tutte le popolazioni repubblicane delle altre province,
isolate,  circondate,  premute  da  per  tutto  dagl'insorgenti,   si   vedevano
minacciate dello  stesso  destino.  Si  aggiungeva  a  ciò  che  le  popolazioni
insorgenti saccheggiavano,  manomettevano  tutto;  le  popolazioni  repubblicane
erano virtuose. Ma, quando, per effetto  dei  partiti,  gli  scellerati  non  si
possono tenere a freno, essi si dánno a quel partito i di cui princípi sono  piú
conformi ai loro propri, e forzano, per cosí dire, gli  dèi  a  non  essere  per
quella causa che approva Catone. Si  vollero  distruggere  le  insorgenze  della
Puglia e della Calabria come le piú pericolose, come le piú  lontane  e  le  piú
difficili a vincere, perché le piú vicine alla Sicilia. Partirono da Napoli  due
picciole colonne, una francese, che prese  il  cammino  di  Puglia,  l'altra  di
napolitani, comandata da Schipani, che prese quello di Calabria per Salerno.  Ma
la colonna di Puglia dovea anch'essa per l'Adriatico ed il  Ionio  passar  nella
Calabria e riunirsi alla  colonna  di  Schipani.  Il  comandante  della  colonna
francese, aiutato dai patrioti e soldati  che  conduceva  Ettore  Carafa  e  dai
patrioti di Foggia, distrusse la  formidabile  insorgenza  di  Sansevero;  indi,
spingendosi piú oltre, prese Andria  e  poi  Trani,  e  fu  egli  che  distrusse
l'armata dei còrsi nelle vicinanze di  Casamassima.  Ma  egli  abusò  della  sua
forza. Prese settemila ducati  che  trasportava  il  corriere  pubblico,  e  che
avrebbero dovuti esser sagri; e, quando gliene fu  chiesto  conto,  non  potette
dimostrare che essi erano degl'insorgenti. Il troppo zelo di punir questi  forsi
lo ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl'inimici, ed,  ove  si  trattava
d'imposizioni, la condizione dei primi non fu migliore di  quella  dei  secondi.
Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti prodigi per difendersi.  Quando
egli vi giunse, dovette liberarla da un assedio strettissimo, che  sosteneva  da
quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse una cittá nemica, le impone una
contribuzione di quarantamila ducati. La stessa condotta  tenne  in  Conversano,
cui, ad onta di esser stata assediata dagl'insorgenti, impose  la  contribuzione
di ottomila ducati. Nella provincia di Bari non  vi  restò  un  paio  di  fibbie
d'argento. Tutto fu dato per pagar le contribuzioni imposte. Le  prime  armi  di
una rivoluzione virtuosa doveano esser la prudenza e la giustizia; ed  i  nostri
traviati fratelli meritavano  piú  di  esser  corretti  che  distrutti.  Facendo
altrimenti,  si  credevano  vinti,  mentre  non  erano  che  fugati.  Trani   fu
saccheggiata;  questa  bella,  popolosa  e  ricca   cittá   fu   distrutta;   ma
gl'insorgenti di Trani rimanevano ancora: essi, all'avvicinarsi dei francesi, si
erano tutt'imbarcati, pronti a  ritornare  piú  feroci,  tosto  che  i  francesi
avessero abbandonate le loro case. Lo dirò io? Le tante vittorie ottenute contro
gl'insorgenti hanno distrutti piú uomini da bene che scellerati. Questi,  consci
del loro delitto, pensano sempre per tempo alla loro salvezza. L'uomo dabbene  è
còlto all'improvviso ed inerme: la sua casa è  saccheggiata  del  pari  e  forse
anche prima di quella dell'insorgente, perché l'uomo dabbene è quasi  sempre  il
piú ricco, e, quando l'insorgente ritorna, lo ritrova disgustato di colui da cui
ha sofferto il saccheggio. Un buon governo vuole esser  forte  ma  non  crudele,
severo ma non terrorista. Le insorgenze di Napoli si poteano ridurre a  calcolo.
Pochi erano i punti centrali delle  medesime,  e  chiunque  conosceva  i  luoghi
vedeva essere quegl'istessi che nell'antico governo erano ripieni  di  uomini  i
piú oziosi e piú corrotti e, per tal ragione, piú miserabili e  piú  facinorosi.
Nei luoghi dove in tempo del re vi eran  piú  ladri,  contrabbandieri  ed  altra
simile genia, in tempo della repubblica vi furono piú insorgenti.  Erano  luoghi
d'insorgenza Atina, Isernia, Longano, le colonie albanesi del Sannio, Sansevero,
ecc. Nei luoghi ove la gente era industriosa ed, in conseguenza,  agiata  e  ben
costumata, si potea scommettere cento contro uno che vi sarebbe stata una eterna
tranquillitá. I primi  motori  dell'insorgenza  furon  coloro  che  avean  tutto
perduto colla ruina dell'antico governo, e che nulla  speravano  dal  nuovo:  se
questi furon molti, gran parte della colpa ne fu del governo  istesso,  che  non
seppe far loro nulla sperare, e che fece  temere  che  il  governo  repubblicano
fosse una fazione. Eppure la repubblica avea tanto da dare, che  era  pericolosa
follia credere di  poter  sempre  dare  ai  repubblicani!  Grandi  strumenti  di
controrivoluzione furono tutte le milizie dei tribunali provinciali,  tutti  gli
armigeri dei baroni, tutt'i soldati veterani che il nuovo ordine  di  cose  avea
lasciati senza pane, tutti gli assassini  che  correvano  con  trasporto  dietro
un'insorgenza, la quale dava loro occasione di poter continuare i loro  furti  e
quasi di nobilitarli. Luoghi di grande insorgenza furono perciò quasi  tutte  le
centrali delle province, come Lecce, Matera, Aquila, Trani,  dove  la  residenza
delle autoritá provinciali, delle loro forze e di quanto nelle province eravi di
scellerati, che ivi si trovavano in carcere e che, nell'anarchia che  accompagnò
il cangiamento del governo, furono tutti scapolati, riuniva  piú  malcontenti  e
piú  facinorosi.  Costoro  strascinarono  tutti  gli  altri  esseri  pacifici  e
meramente passivi, intimoriti  egualmente  dall'audacia  dei  briganti  e  dalla
debolezza  del  governo  nuovo.  Contro  tali  insorgenze  non  vale  tanto  una
spedizione militare che distrugga, quanto una  forza  sedentaria  che  conservi:
gl'insorgenti fuggivano alla vista  di  un  esercito:  tostoché  l'esercito  era
passato, una picciola forza, ma permanente, loro avrebbe impedito di riunirsi  e
di agire. Il soldato non soffre le stazioni: brama  la  guerra  ed  ama  che  il
nemico si renda forte a segno di meritare una spedizione, onde aver  l'occasione
di misurarsi, la gloria di vincerlo ed il piacere di spogliarlo.  Il  comandante
francese padrone di Trani fu chiamato da Palomba, commissario  del  dipartimento
della Lucania, perché marciasse sopra Matera ad  impedire  che  vi  si  formasse
un'insorgenza, che potea divenir pericolosa per quel  dipartimento.  Ma,  Matera
non essendo ancora rivoltata, non vi  andò,  perché  non  avrebbe  potuto  farla
saccheggiare.  E,  quando,  premurato  dalle  reiterate  istanze   di   Palomba,
s'incaminò con tutte le forze che aveva, fu richiamato in Napoli.  L'insorgenza,
che in Matera era tutta pronta e solo compressa dal timore della vicinanza delle
forze superiori, quando queste furono lontane, scoppiò e si riuní a quella della
Calabria. Ma perché non marciò Palomba istesso colle  sue  forze  sopra  Matera?
Perché Palomba, come commissario, non avea saputo trovare i mezzi di riunirle  e
di sostenerle; perché il suo generale Mastrangiolo tutt'altro era che  generale.
Caldi ambidue del piú puro zelo repubblicano,  colle  piú  pure  intenzioni,  ma
privi di quella pubblica opinione,  che  sola  riunisce  le  forze  altrui  alle
nostre, e di quel consiglio, senza di cui non vagliono mai  nulla  né  le  forze
nostre né le altrui, tutti e due non sapeano far  altro  che  gridare  «Viva  la
repubblica!», ed intanto aspettare che i francesi la fondassero, come  se  fosse
possibile  fondare  una  repubblica  colle  forze  di  un'altra   nazione!   Nel
dipartimento il piú democratico della terra, colle forze imponenti di  Altamura,
di Avigliano, di Potenza, di Muro,  di  Tito,  Picerno,  Santofele,  ecc.  ecc.,
Mastrangiolo perdette il suo tempo nell'indolenza. I bravi uffiziali, che  aveva
attorno, lo avvertirono invano del pericolo che lo premeva: l'insorgenza  crebbe
e lo costrinse a fuggire.

XXXIII

SPEDIZIONE DI SCHIPANI

Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del piú caldo
zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle  scene  il  protagonista  in  una
tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una  spedizione  destinata  a  passar
nelle Calabrie, cioè nelle  due  province  le  piú  difficili  a  ridursi  ed  a
governarsi per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti.  Non  avea
seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco  inferiori  di
numero alla forza nemica.  Schipani  marcia:  prende  Rocca  di  Aspide,  prende
Sicignano. A Castelluccia trova della gente riunita e fortificata in  una  terra
posta sulla cima di un monte di difficilissimo  accesso.  Vi  erano  però  mille
strade per ridurla.  Castelluccia  era  una  picciola  terra,  che  potea  senza
pericolo lasciarsi dietro. Egli dovea marciare diritto alle Calabrie, ove eranvi
diecimila patrioti che lo attendevano; ove Ruffo non era ancora molto forte,  ed
andava  tentando  appena  una  controrivoluzione,  di  cui  forse  egli   stesso
disperava; e, discacciato una volta  Ruffo,  tutte  le  insorgenze  della  parte
meridionale della nostra regione  andavano  a  cedere.  Ma  Schipani  non  seppe
conoscere il nemico che dovea combattere, né seppe,  come  Scipione,  trascurare
Annibale per vincere Cartagine.  Tutt'i  luoghi  intorno  a  Castelluccia  erano
ripieni di amici della rivoluzione. Campagna, Albanella, Controne,  Postiglione,
Capaccio, ecc., potevano dare piú di tremila uomini agguerriti:  il  commissario
del Cilento ne avea giá pronti altri quattrocento, ed anche di  piú,  se  avesse
voluto, ne avrebbe  potuto  riunire.  Se  Schipani  avesse  avuto  piú  moderato
desiderio di combattere e di vincere, e se prima di distruggere i nemici  avesse
pensato a rendersi sicuro degli amici,  che  gli  offerivano  i  loro  soccorsi,
avrebbe potuto facilmente formare una forza infinitamente superiore a quella che
dovea combattere. Avrebbe potuto ridurre Castelluccia per fame, poiché non  avea
provvisioni che per pochi  giorni:  avrebbe  potuto  prenderla  circondandola  e
battendola dalla cima di un monte che la  domina;  e  questo  consiglio  gli  fu
suggerito dai cittadini di Albanella e della Rocca, che si offrirono volontari a
tale impresa. Qual disgrazia che tal consiglio non sia nato da se  stesso  nella
mente di Schipani! Egli avea un'idea romanzesca della gloria, e  riputava  viltá
il seguire un consiglio che non fosse suo. Questo  suo  carattere  fece  sí  che
ricusasse l'offerta dei castelluccesi, i quali  volean  rendersi,  a  condizione
però che la truppa non fosse entrata  nella  terra;  e  l'altra,  offertagli  da
Sciarpa, capo di tutta quella insorgenza, di voler  unire  le  sue  truppe  alle
truppe della repubblica, purché gli si  fosse  dato  un  compenso(43).  Schipani
rispose come Goffredo:

Guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco.

Questo  stesso  carattere  gli  fece  immaginare  un   piano   d'assalto   della
Castelluccia da quel lato appunto per lo quale il prenderla era  impossibile.  I
nostri fecero prodigi di  valore.  Il  nemico,  forte  per  la  sua  situazione,
distrusse la nostra truppa colle pietre. Schipani fu costretto a  ritirarsi;  e,
cadendo in un momento dall'audacia nella disperazione, la sua ritirata fu  quasi
una fuga. La spedizione diretta da Schipani dovea esser comandata  dal  valoroso
Pignatelli di Strongoli. È stata una disgrazia  per  la  nostra  repubblica  che
Pignatelli, per malattia sopravvenutagli, non poté allora prestarsi agli  ordini
del governo ed al desiderio dei  buoni.  Dopo  questa  operazione,  Schipani  fu
inviato contro gl'insorgenti di Sarno. Giunse a Palma, incendiò due ritratti del
re e della regina, che per caso vi si ritrovarono, arringò al  popolo  e  se  ne
ritornò indietro. Vi andarono i francesi, saccheggiarono ed incendiarono  Lauro,
donde tutti gli abitanti erano fuggiti, e non uccisero un solo insorgente.  Cosí
gl'insorgenti di Lauro e di Sarno, non vinti, ma solo  irritati,  si  unirono  a
quelli di Castelluccia e delle contrade di Salerno, giá vincitori.

XXXIV

CONTINUAZIONE DELL'ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE

In tale stato erano le cose, quando le autoritá dipartimentali, giá inviate  ne'
dipartimenti, incominciarono l'opera della  organizzazione  delle  municipalitá.
Per una rivoluzione non vi è oggetto piú importante della scelta  de'  munícipi.
Dipende da essi che la forza  del  governo  sia  applicata  convenientemente  in
tutt'i punti; dipende da essi di far amare o far odiare il  governo.  Il  popolo
non conosce che il municipe, e giudica da lui di coloro  che  non  conosce.  Per
eleggere i munícipi in una nazione, la quale giá anche nell'antica  costituzione
avea un governo municipale, si volle seguire  il  metodo  di  un'altra  che  non
conosceva municipalitá prima della rivoluzione; e cosí, mentre  si  promettevano
nuovi diritti al popolo, se gli  toglievano  gli  antichi.  Era  quasi  fatalitá
seguire le idee, sebbene indifferenti, de'  nostri  liberatori!  L'elezione  de'
munícipi fu affidata ad un collegio di elettori, che furono scelti dal  governo.
- Qual è dunque questa libertá e questa sovranitá che ci promettete? -  dicevano
le popolazioni. - Prima i munícipi erano eletti da noi; abbiam tanto sofferto  e
tanto conteso per conservarci questo diritto contro i baroni e contro il  fisco!
Oggi non lo abbiamo piú. Prima i munícipi rendevano conto  a  noi  stessi  delle
loro operazioni; oggi lo rendono  al  governo.  Noi  dunque  colla  rivoluzione,
anziché  guadagnare,  abbiam  perduto?  -  Si  volea  spiegar  loro  il  sistema
elettorale; si volea far comprendere come continuavano a dirsi  eletti  da  loro
quelli che erano eletti dai suoi elettori: ma le popolazioni  non  credevano  né
erano obbligate a credere ad una costituzione che ancora non si era  pubblicata.
Si diceva che gli elettori dovessero un  giorno  esser  eletti  dal  popolo;  ma
intanto il popolo vedeva che erano eletti dal governo: il  fatto  era  contrario
alla promessa. Quando anche la costituzione fosse stata giá pubblicata, i popoli
credevan sempre superfluo formar un corpo elettorale  per  eleggere  coloro  che
prima in modo piú popolare eleggevano essi stessi, e riputavano  sempre  perdita
il passare dal diritto dell'elezione immediata a quello di una semplice elezione
mediata. Ho osservato in quella occasione che le scelte de' munícipi  fatte  dal
popolo furono meno cattive di quelle fatte dai collegi elettorali, non perché  i
collegi fossero intenzionati a far il male, ma perché  erano  nell'impossibilitá
di fare il bene, perché non conoscevano  le  persone  che  eleggevano  e  perché
spesso eleggevano persone che il popolo  non  conosceva.  Io  ripeto  sempre  lo
stesso: nella nostra rivoluzione gli uomini  eran  buoni,  ma  gli  ordini  eran
cattivi. Io comprendo l'utilitá di un collegio  elettorale  dipartimentale,  che
elegga o proponga que' magistrati che soprastano alla repubblica intera;  ma  un
collegio dipartimentale che discenda ad  eleggere  i  magistrati  municipali  mi
sembra un'istituzione antilogica, per la quale dalle idee delle  specie,  invece
di risalire a quella del genere, si voglia discendere a  quella  degl'individui,
che debbon precedere l'idea della specie.  È  vero  che  in  taluni  momenti  si
richieggono negli uomini pubblici molte qualitá che il popolo o  non  conosce  o
non apprezza; ma voi, che avete il governo della  nazione,  sapete  molto  poco,
quando non sapete far sí che l'elezione cada sulle persone  degne  della  vostra
confidenza, senza alterare l'apparenza della libertá. Che ne avvenne? I  collegi
elettorali distrussero le elezioni fatte dal popolo, disgustarono  il  popolo  e
gli uomini popolari che  il  popolo  avea  eletto.  Se  il  collegio  elettorale
chiedeva degli uomini  probi,  questi  erano  piú  noti  al  popolo,  coi  quali
convivevano, che a sei persone inviate da Napoli, le quali  non  conoscevano  il
popolo né erano conosciute dal medesimo; se chiedeva  degli  uomini  utili  alla
rivoluzione, quali potevano esser mai questi se non quegl'istessi che il  popolo
amava e che il popolo rispettava? Questa parola «popolo», in tutt'i luoghi ed in
tutt'i tempi, altro non dinota  che  quattro,  tre,  due  e  talvolta  una  sola
persona, che, per le sue virtú, pe' suoi talenti, per le  sue  maniere,  dispone
degli animi di una popolazione intera: se non si guadagnano costoro,  invano  si
pretende guadagnare il popolo, e non senza pericolo talora  uno  si  lusinga  di
averlo guadagnato. Dopo qualche tempo i collegi elettorali  furono  aboliti;  ma
non si restituí l'antico diritto alle popolazioni. Si credette male degli uomini
il male che nasceva dalle cose. S'inviarono de' commissari organizzatori, cui si
diedero tutte le facoltá del corpo  elettorale;  si  commise  ad  un  solo  quel
diritto che prima almeno esercitavano sei;  e,  con  ciò,  l'esercizio,  sebbene
fosse piú giusto, parve piú tirannico e piú capriccioso. Diverso  sarebbe  stato
il giudizio del popolo, se questi commissari fossero  stati  inviati  prima.  La
loro istituzione era piú conforme alla natura, alle antiche idee de' popoli,  ai
bisogni della rivoluzione.

XXXV

MANCANZA DI COMUNICAZIONE

Ma il governo, mentre si occupava della organizzazione apparente, trascurava  o,
per  dir  meglio,  era  costretto  a  trascurare,  la   parte   piú   essenziale
dell'organizzazione vera, che consiste nel mantener libera la comunicazione  tra
le diverse parti di una nazione.  Sarebbe  stato  inescusabile  il  governo,  se
questa trascuratezza  fosse  stata  volontaria;  ma  essa  era  una  conseguenza
inevitabile della scarsezza e della non buona direzione  delle  forze.  Se  poca
forza, ben ripartita, la quale avesse agito continuamente sopra tutt'i punti,  o
almeno sopra  i  punti  principali,  sarebbe  stata  bastante  a  prevenire,  ad
impedire, a togliere ogni male; molta, che agiva per masse e per momenti  in  un
punto solo, non potea produrre che un debole effetto e passeggiero. Le  province
ignoravano ciò che si ordinava nella capitale;  la  capitale  ignorava  ciò  che
avveniva nelle province. Si crederebbe? Non si pubblicavano  neanche  le  leggi.
Due mesi dopo la pubblicazione in Napoli della  legge  feudale,  non  fu  questa
pubblicata in tutto il dipartimento del Volturno, vale a dire  nel  dipartimento
piú vicino; e la legge feudale era tutto nella nostra rivoluzione. Questa legge,
che dovea esser nota ai popoli ai quali giovava, fu  nota  ai  soli  baroni  che
offendeva, perché questi soli erano  nella  capitale.  Questa  sola  circostanza
avrebbe di molto accelerata la controrivoluzione, se una parte non piccola della
primaria nobiltá  non  fosse  stata  per  sentimento  di  virtú  attaccata  alla
repubblica,  ad  onta  de'  non  piccoli  sacrifici  che  le  costava.   Intanto
circolavano per i dipartimenti tutte le carte che potevano  denigrare  il  nuovo
ordine di cose, e passavano per le mani de' realisti, i quali accrescevano colle
loro insidiose interpretazioni i sospetti che ogni  popolo  ha  per  le  novitá.
Questa mancanza di comunicazione fu quella  che  favorí  l'impostura  dei  còrsi
Boccheciampe e De Cesare nella provincia di Lecce; e di questa  profittarono  il
cardinal Ruffo e tutti gli altri capi sollevatori, e riuscí loro facile  il  far
credere che in Napoli era ritornato il re e che il  governo  repubblicano  erasi
sciolto. Essi erano creduti, perché il governo nelle province era muto,  né  piú
si udiva la sua voce. Ruffo dava a credere alle province che  fosse  estinta  la
repubblica: il Monitore repubblicano, al contrario, dava a credere alla capitale
che fosse morto Ruffo. Ma l'errore di Ruffo spingeva gli  uomini  all'azione,  e
quello de' repubblicani gli addormentava nell'indolenza; ed  a  Ruffo  giovavano
egualmente e l'errore de' realisti e quello de' repubblicani.

XXXVI

POLIZIA

I realisti aveano piú libera e piú estesa comunicazione  pel  nostro  territorio
che lo stesso governo repubblicano. Le Calabrie erano loro  aperte;  aperto  era
tutto il  littorale  del  Mediterraneo  da  Castelvolturno  fino  a  Mondragone,
cosicché gl'insorgenti  di  quei  luoghi  erano  confortati  ed  aveano  armi  e
munizioni dagl'inglesi, padroni de' mari; aperto avea il mare  anche  Proni(44),
che comandava l'insorgenza degli Apruzzi. Tutte queste  insorgenze  si  andavano
stringendo intorno Napoli, ed  in  Napoli  stessa  aveano  delle  corrispondenze
segrete, che loro davano nuove sicure dell'interna  debolezza.  Nulla  fu  tanto
trascurato quanto la polizia nella capitale. In  primo  luogo  non  si  pensò  a
guadagnar quelle persone che sole potevano mantenerla. La polizia,  al  pari  di
ogni altra funzione civile, richiede i suoi agenti opportuni, poiché  non  tutti
conoscono il paese e sanno le vie, per lo piú tortuose ed  oscure,  che  calcano
gl'intriganti e gli scellerati. Felice quella nazione ove le idee ed  i  costumi
sono tanto uniformi agli ordini pubblici, che non vi sia bisogno di polizia. Ma,
dovunque essa vi è, non è e non deve esser altro che il segreto di saper  render
utili pochi scellerati, impiegandoli ad osservare e contenere  i  molti.  Ma  in
Napoli gli scellerati e gl'intriganti furono odiati, perseguitati,  abbandonati.
I nuovi  agenti  della  polizia  repubblicana  erano  tutti  coloro  che  aveano
educazione e morale, perché essi erano quelli che soli amavano la repubblica. Or
le congiure si tramavano tra il popolaccio  e  tra  quelli  che  non  aveano  né
costume né educazione, perché questi soli avea potuto comprar l'oro di Sicilia e
d'Inghilterra. Quindi le congiure si tramavano quasi in un paese diverso, di cui
gli agenti della polizia non conoscevano né gli abitanti  né  la  lingua;  e  la
morale de' repubblicani, troppo superiore a quella del popolo, è stata una delle
cagioni della nostra ruina. La  seconda  cagione  fu  che  il  gran  numero  de'
repubblicani si separò soverchio dal popolo; onde ne avvenne che il popolo  ebbe
sempre dati sicuri per saper da chi guardarsi. Questo  fece  sí  che  fosse  ben
esercitata quella parte della polizia che si occupa della  tranquillitá,  perché
per essa bastava il  timore;  mal  esercitata  fu  l'altra  che  invigila  sulla
sicurezza, perché per essa è necessaria la confidenza. Il popolo,  temendo,  era
tranquillo; ma, diffidando, non parlava: cosí si sapeva ciò che  esso  faceva  e
s'ignorava ciò che esso macchinava. I francesi forse temettero piú del dovere un
popolo sempre vivo, sempre ciarliero; credettero pericoloso che  questo  popolo,
per necessitá di clima  e  per  abitudine  di  educazione,  prolungasse  i  suoi
divertimenti fino  alle  ore  piú  avanzate  della  notte.  Il  popolo  si  vide
attraversato nei suoi piaceri, che credeva e che erano  innocenti;  cadde  nella
malinconia (stato sempre pericoloso  in  qualunque  popolo  e  precursore  della
disperazione; e non vi furono piú quei luoghi dove, tra l'allegrezza  e  tra  il
vino, il piú delle volte si scoprono le congiure. Il carattere e  le  intenzioni
dei popoli non si possono conoscere se non se quando essi sono a lor agio: in un
popolo oppresso le congiure sono piú frequenti a macchinarsi e piú  difficili  a
scoprirsi. È indubitato che in Napoli erasi ordita una gran  congiura,  uno  dei
grandi agenti della quale fu un certo Baccher.  Baccher  fu  arrestato  in  buon
punto: le fila dei congiurati non furono scoperte; ma intanto la congiura rimase
priva di effetto.

XXXVII

PROCIDA - SPEDIZIONE DI CUMA - MARINA

Il primo progetto dei congiurati era quello  che  gl'inglesi  dovessero  occupar
Ischia e Procida, come difatti  l'occuparono,  onde  aver  maggior  comoditá  di
mantenere una corrispondenza in Napoli e di prestare a tempo opportuno  la  mano
alle altre operazioni. Questo inconveniente fu previsto; ma il governo non  avea
forze sufficienti per custodir Procida: i francesi non compresero il pericolo di
perderla. Gl'inglesi, padroni di Procida, tentarono  uno  sbarco  nel  littorale
opposto di Cuma e Miseno. Un  distaccamento  di  pochi  nostri,  che  occupò  il
littorale, lo impedí; e la corte di Sicilia dovette piú di una volta fremere per
le  disfatte  dei  suoi  superbi  alleati.  Forse  sarebbe  riuscito  anche   di
discacciarli dall'isola. Ma la nostra marina era stata  distrutta  dagli  ultimi
ordini del re; e nei primi  giorni  della  nostra  repubblica  le  spese  sempre
esorbitanti, che seco porta un nuovo ordine di cose, avean tolto  ogni  modo  di
poter far costruire anche una sola barca cannoniera. I  pochi  e  miseri  avanzi
della marina antica furono per indolenza di amministrazione militare  dissipati;
e si vide  vendere  pubblicamente  il  legno,  le  corde  e  finanche  i  chiodi
dell'arsenale. Caracciolo, ritornato dalla Sicilia(45) e restituito alla patria,
ci rese le nostre speranze. Caracciolo valeva una flotta. Con pochi, mal atti  e
mal serviti barconi,  Caracciolo  osò  affrontar  gl'inglesi:  l'officialitá  di
marina, tutta la marineria era degna di secondar Caracciolo. Si attacca, si dura
in un combattimento ineguale per  molte  ore;  la  vittoria  si  era  dichiarata
finalmente per noi, che  pure  eravamo  i  piú  deboli:  ma  il  vento  viene  a
strapparcela dalle mani nel punto della decisione; e Caracciolo  è  costretto  a
ritirarsi, lasciando gl'inglesi malconci, e si potrebbe  dire  anche  vinti,  se
l'unico scopo della vittoria non fosse stato quello  di  guadagnar  Procida.  Un
altro momento, e Procida forse sarebbe stata occupata. Quante grandi  battaglie,
che sugl'immensi campi del mare han  deciso  della  sorte  degl'imperi,  non  si
possono paragonare a questa picciola azione per l'intelligenza  e  pel  coraggio
de' combattenti! Il vento, che impedí la riconquista di Procida, fu un vero male
per noi, perché tratanto i pericoli della patria  si  accrebbero.  Le  disgrazie
diluviavano: dopo due o tre giorni, si ebbero altri mali a riparare piú  urgenti
di Procida; e la nostra non  divisibile  marina  fu  costretta  a  difendere  il
cratere della capitale.

XXXVIII

IDEE DI TERRORISMO

La storia di una rivoluzione non è tanto storia dei fatti quanto delle idee. Non
essendo altro una rivoluzione che l'effetto delle  idee  comuni  di  un  popolo,
colui può dirsi di aver tratto tutto il profitto dalla storia, che  a  forza  di
replicate osservazioni sia giunto a saper  conoscer  il  corso  delle  medesime.
Nell'individuo la storia dei fatti è la stessa che la  storia  delle  idee  sue,
perché egli non può esser in contraddizione con se stesso. Ma, quando le nazioni
operano in massa (e questo è il vero caso della  rivoluzione),  allora  vi  sono
contraddizioni ed uniformitá, simiglianze e dissimiglianze; e  da  esse  appunto
dipende il tardo o sollecito, l'infelice o felice evento  delle  operazioni.  La
congiura  di   Baccher,   l'occupazione   di   Procida,   i   rapidi   progressi
dell'insorgenza aveano scossi i patrioti, e, nella notte profonda in cui fino  a
quel punto avean riposati tranquilli sulle parole dei generali  francesi  e  del
governo, videro finalmente tutto il pericolo onde  erano  minacciati.  Il  primo
sentimento di un uomo che sia o che tema di esser offeso è sempre  quello  della
vendetta, la quale, se diventa massima di governo,  produce  il  terrorismo.  Il
governo napolitano, quantunque composto di persone che tanto avean sofferto  per
l'ingiusta persecuzione sotto la monarchia, credette viltá vendicarsi, allorché,
avendo il sommo potere nelle mani, una vendetta  non  costava  che  il  volerla.
Pagano avea sempre in bocca la bella lettera che Dione scrisse  ai  suoi  nemici
allorché rese la libertá a Siracusa, ed il divino tratto di Vespasiano,  quando,
elevato all'impero, mandò a dire ad un suo nemico che egli ormai  non  avea  piú
che temere  da  lui.  Noi  incontriamo  sempre  i  nostri  governanti,  allorché
ricerchiamo la morale individuale. Ma molti patrioti accusarono il governo di un
«moderantismo» troppo rilasciato,  a  cui  si  attribuivano  tutt'i  mali  della
repubblica. Siccome in Francia al «terrorismo» era succeduta  una  rilasciatezza
letargica e fatale di tutt'i princípi, cosí il terrorismo era rimasto  quasi  in
appannaggio alle anime piú ardentemente patriotiche.  Forse  ciò  avvenne  anche
perché il cuore umano mette l'idea di una certa nobiltá nel sostenere un partito
oppresso, per vendicarsi cosí del  partito  trionfante  che  invidia:  forse  in
Napoli si eran vedute salve  talune  persone,  che  la  giustizia,  la  pubblica
opinione, la salute pubblica voleano distrutte o almeno allontanate. Ma  vi  era
un mezzo saggio tra i due estremi. Il terrorismo è il sistema di  quegli  uomini
che vogliono  dispensarsi  dall'esser  diligenti  e  severi;  che,  non  sapendo
prevenire i delitti, amano punirli; che, non sapendo render gli uomini migliori,
si tolgono l'imbarazzo che dánno i cattivi, distruggendo indistintamente cattivi
e buoni. Il terrorismo lusinga  l'orgoglio,  perché  è  piú  vicino  all'impero;
lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perché è molto  facile.  Ma  richiede
sempre la forza con sé: ove questa non vi sia, voi non farete che accelerare  la
vostra ruina. Tale era lo stato di Napoli. In Napoli le prime leggi marziali de'
generali in capo erano terroristiche,  perché  tali  son  sempre  e  tali  forse
debbono essere le leggi di guerra: esse non poteano produrre  e  non  produssero
alcuno effetto, imperocché come eseguite voi la legge, come l'applicate,  quando
tutta la nazione è congiurata a nascondervi i fatti e salvare i rei? Robespierre
avea la nazione intera esecutrice del terrorismo suo. Quando le  pene  non  sono
livellate alle idee de'  popoli,  l'eccesso  stesso  della  pena  ne  rende  piú
difficile l'esecuzione e, per renderle piú efficaci, convien renderle piú  miti.
Negli ultimi tempi si eresse in Napoli un «tribunale rivoluzionario»,  il  quale
procedeva cogli stessi  princípi  e  colla  stessa  tessitura  di  processo  del
terribile comitato di Robespierre. Forse quando si eresse era troppo  tardi,  ed
altro non fece che tingersi inutilmente  del  sangue  degli  scellerati  Baccher
nell'ultimo giorno della nostra esistenza civile, quando la prudenza consigliava
un perdono, che non potea esser piú dannoso. Ma, quand'anche un tal tribunale si
fosse eretto prima, la legge stessa, colla  quale  se  ne  ordinava  l'erezione,
sarebbe stato un avviso alla nazione perché si fosse posta in guardia contro  il
tribunale eretto. Il terrorismo cogl'insorgenti si provò sempre inutile. «E che?
- scrivea la saggia e sventurata Pimentel - quando un metodo di cura non riesce,
non  se  ne  saprá  tentare  un  altro?».   Difatti   si   accordò   un'amnistia
agl'insorgenti: non a tutti, perché sarebbe stata inutile; ma a  coloro  che  il
governo ne avesse creduti degni,  onde  cosí  ciascuno  si  fosse  affrettato  a
meritarla, e questo desiderio avesse fatto nascere il sospetto  e  la  divisione
tra tutti. Ma tale perdono dovea farsi valere per  mezzo  di  persone  sagge  ed
energiche, le quali avessero potuto penetrare ed eseguire gli ordini del governo
in tutt'i  punti  del  nostro  territorio.  Io  lo  ripeto:  la  mancanza  delle
comunicazioni tra le diverse parti dello Stato e la mancanza delle forze diffuse
in molti punti per mantener tale comunicazione, la mancanza a buon  conto  della
diligenza e della severitá erano l'origine di tutti  i  nostri  mali  e  facevan
credere necessario ad alcuni un terrorismo, il quale non avrebbe fatto altro che
accrescerli.

XXXIX

NUOVO GOVERNO COSTITUZIONALE

Forse  con  piú  ragione  domandavano  i  patrioti  la  riforma   del   governo.
Tralasciando i motivi privati, che spingevano taluni a declamare piú  di  quello
che conveniva, era sicuro però che si  voleva  una  riforma.  Abrial  finalmente
giunse commissario organizzatore del nostro Stato, e si accinse a farla.  Ma  vi
erano nell'antico governo molti che godevano la pubblica confidenza, o perché la
meritassero, o perché l'avessero usurpata;  e  questi  secondi  (pochissimi  per
altro di numero) erano, come sempre suole avvenire, piú  accetti,  piú  illustri
de' primi, perché le lodi che loro si davano  non  rimanevano  senza  premio.  -
Questi sono i primi che io toglierei - diceva  acutamente,  ma  invano,  in  una
societá patriotica il cittadino Mazziotti. Un governo formato da un'assemblea si
riduce a cinque o  sei  teste,  le  quali  dispongono  delle  altre:  se  queste
rimangono, voi inutilmente cangiate tutta l'assemblea. Le intenzioni  di  Abrial
erano rette: Abrial fu quello che piú sinceramente amava la  nostra  felicitá  e
quello di cui piú la nazione è rimasta contenta.  Le  sue  scelte  furono  molto
migliori delle prime; e, se non furono tutte ottime, non  fu  certo  sua  colpa,
poiché né poteva conoscere il paese in un momento,  né  vi  dimorò  tanto  tempo
quanto era necessario a conoscerlo. Abrial divise i poteri che Championnet  avea
riuniti. Il governo da lui formato fu il seguente: nella commissione  esecutiva,
Abamonti; Agnese, napolitano, ma che aveva dimorato da  trent'anni  in  Francia,
ove avea i beni e famiglia; Albanese; Ciaia; Delfico, il quale non  potette  per
le  insorgenze  di  Apruzzo  mai  venire  in  Napoli.  I  ministri  furono:   1°
dell'interno, De Filippis; 2° di giustizia e polizia, Pigliacelli; 3° di guerra,
marina ed affari esteri, Manthoné; 4° di finanze, Macedonio. Tra i membri  della
commissione legislativa vi furono sempre Pagano, Cirillo,  Galanti,  Signorelli,
Scotti, De Tommasi, Colangelo,  Coletti,  Magliani,  Gambale,  Marchetti...  Gli
altri si cambiarono spesso, e noi non li riferiremo; tanto piú che, nello  stato
in cui era allora la nostra nazione, poco potea il potere legislativo,  e  tutto
il bene e tutto il male dipendeva dall'esecutivo. Con ciò Abrial volle darci  la
forma della costituzione prima di avere una  costituzione,  e  con  ciò  rese  i
poteri inattivi, e discordi i poteri dei cittadini. Questo  involontario  errore
fu cagione di non piccoli mali, perché la  divisione  de'  poteri  ci  diede  la
debolezza nelle operazioni in un tempo appunto in cui avevamo bisogno dell'unitá
e dell'energia di un dittatore; ch'egli per  altro  non  poteva  darci,  perché,
incaricato di eseguire le istruzioni del Direttorio francese, avrebbe ben potuto
modificare in parte gli ordini che si trovavano in Francia stabiliti, ma non mai
cangiarli intieramente. Talché tutti i fatti ci conducono  sempre  all'idea,  la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio:  cioè  che  la  prima  norma  fu
sbagliata, ed i migliori architetti non potevano  innalzar  edifizio  che  fosse
durevole.

XL

SALE PATRIOTICHE

Taluni credevano che col mezzo delle sale patriotiche si potesse  «attivare»  la
rivoluzione; e furono perciò stabilite. Ma come mai ciò si potea sperare? Io non
veggo altro modo di attivare una rivoluzione che quello d'indurci il popolo:  se
la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai  rivoluzionari;  se  è  passiva,
convien che i rivoluzionari si uniscano al popolo, e, per unirvisi, convien  che
si distinguano il meno che sia possibile. Le  sale  patriotiche,  e  nell'uno  e
nell'altro caso, debbono essere le piazze. Qual bene hanno mai esse prodotto  in
Francia? Hanno, direbbe Macchiavelli, fatto degenerare in sètte  lo  spirito  di
partito, che sempre vi è nelle repubbliche, e, come sempre suole avvenire, hanno
spinto i princípi agli estremi, hanno fatto cangiar tre volte  la  costituzione,
hanno  a  buon  conto  ritardata  l'opera  della  rivoluzione  e  forse  l'hanno
distrutta. Senza societá patriotiche, le altre nazioni di Europa aveano  dirette
le loro rivoluzioni con princípi piú saggi ad un fine  piú  felice.  Ma  l'abuso
delle sale per attivare la rivoluzione  dipendeva  da  un  principio  anche  piú
lontano. L'oggetto della democrazia è l'eguaglianza; e, siccome in ogni  societá
vi è una disuguaglianza sensibilissima tra le varie classi  che  la  compongono,
cosí si giunge al governo regolare  o  abbassando  gli  ottimati  al  popolo,  o
innalzando il popolo agli  ottimati.  Ma,  siccome  gli  ottimati,  insieme  coi
diritti e colle ricchezze, hanno ancora princípi e costumi, cosí, quando le cose
si spingono all'estremo, non solo si sforzano a cedere i loro diritti e  divider
le loro ricchezze (il che  sarebbe  giusto),  ma  anche  a  rinunciare  ai  loro
costumi. Si volea fraternizzare col popolo, e  per  «fraternizzare»  s'intendeva
prendere i vizi del popolaccio, prender le sue maniere ed i suoi costumi;  mezzi
che possono talora riuscire in una rivoluzione attiva,  in  cui  il  popolo,  in
grazia dello spirito  di  partito,  perdona  l'indecenza,  ma  non  mai  in  una
rivoluzione passiva, in cui il popolo, libero  da  passioni  tumultuose,  è  piú
retto giudice del buono e dell'onesto. Doveasi perciò disprezzare il popolo? No,
ma bastava amarlo per esserne amato, distruggere i gradi per non disprezzarlo, e
conservar l'educazione per esserne stimato e  per  poter  fargli  del  bene(46).
Ammirabile e fortunata è stata  per  questo  la  repubblica  romana,  in  cui  i
patrizi, mentre cedevano ai loro diritti, forzavano il popolo  ad  amarli  ed  a
rispettarli pei loro talenti e per le loro virtú: il popolo cosí divenne  libero
e migliore. Nella repubblica fiorentina tutte le rivoluzioni  erano  dirette  da
quella «fraternizzazione», che s'intendeva in Firenze come s'intese un tratto in
Francia; e perciò la repubblica fiorentina ondeggiò  tra  perpetue  rivoluzioni,
sempre agitata e non mai felice: il popolo, o presto o tardi,  si  annoiava  dei
conduttori, che non aveano ottenuto  il  suo  favore  se  non  perché  si  erano
avviliti, ed, annoiato dei suoi capi, si annoiava del governo, ch'esso  di  rado
conosce per altro che  per  l'idea  che  ha  di  coloro  che  governano(47).  Si
condussero taluni lazzaroni del Mercato nelle sale; ma questi erano per  lo  piú
comperati e, come è facile ad  intendersi,  non  servivano  che  a  discreditare
maggiormente la rivoluzione. Non sempre, anzi quasi mai,  l'uomo  del  popolo  è
l'uomo popolare. Le sale patriotiche attivavano la  rivoluzione,  attirando  una
folla di oziosi, che vi correva a consumar cosí quella vita di  cui  non  sapeva
far uso. I giovani sopra tutti corrono sempre ove è moto,  e  ripetono  semplici
tutto ciò che loro si fa dire. Intanto pochi abili ambiziosi si  prevalgono  del
nome di conduttori e di moderatori di sale per acquistarsi un merito;  e  questo
merito appunto, perché troppo facile, perché inutile alla  nazione,  un  governo
saggio non deve permettere o (ciò che val lo stesso) non deve curare:  senza  di
ciò, i faziosi se ne prevaleranno per oscurare, per avvilire, per  opprimere  il
merito reale. Taluni buoni, i quali vedevano l'abuso che  delle  sale  si  potea
fare, credettero bene di opporre una sala all'altra e, se fosse stato possibile,
riunirle tutte a quella ove lo spirito fosse piú puro ed i princípi fossero  piú
retti; ed il desiderio della medicina fu tanto, che si credette  poter  aver  la
salute dallo stesso male. Ma io lo ripeto: quando l'istituzione è cattiva, rende
inutili gli uomini  buoni,  perché  o  li  corrompe  o  li  fa  servire,  illusi
dall'apparenza del bene, ai disegni dei cattivi. «I vostri maggiori - diceva  il
console Postumio al popolo di Roma - vollero che, fuori del caso che il vessillo
elevato sul Tarpeio v'invitasse alla coscrizione di un  esercito,  o  i  tribuni
indicessero un concilio alla plebe, o  talun  altro  dei  magistrati  convocasse
tutto il popolo alla concione, voi non vi dobbiate riunir cosí alla ventura ed a
capriccio: essi credevano che, dovunque  vi  fosse  moltitudine,  ivi  esser  vi
dovesse un legittimo rettore della medesima». In Francia  le  societá  popolari,
rese costituzionali da Robespierre, che avea quasi voluto render  costituzionale
l'anarchia, o non produssero sulle prime molti mali, o i mali che produssero non
si avvertirono, perché, quando una nazione soffre  moltissimi  mali,  spesso  un
male  serve  di  rimedio  all'altro.  In  Napoli,  dove,  per  la  natura  della
rivoluzione,   le   sale   erano   meno   necessarie,    si    corruppero    piú
sollecitamente(48). Chi è veramente patriota non perde il suo tempo  a  ciarlare
nelle sale; ma vola a battersi in  faccia  all'inimico,  adempie  ai  doveri  di
magistrato, procura rendersi utile alla patria coltivando il suo spirito  ed  il
suo cuore: voi lo ritrovate ov'è il bisogno della patria, non dove la  folla  lo
chiama; e, quando non ha verun dovere di cittadino da  adempire,  ha  quelli  di
uomo, di padre, di marito, di figlio, di amico. Il governo non lo vede; ma  guai
a lui se non sa riconoscerlo e ritrovarlo! Il solo governo buono è  quello  agli
occhi del quale ogni altro uomo  non  si  può  confondere  con  questo,  né  può
usurpare la stima che se gli deve, se non facendo lo stesso; per  cui  la  prima
parte di un ottimo governo è quella di far sí che non  vi  sieno  altre  classi,
altre divisioni che quelle della virtú, ed  evitare  a  quest'oggetto  tutte  le
istituzioni che potrebbero riunire i virtuosi a coloro che non lo sono, tutti  i
nomi finanche che potessero confonderli. Io non confondo colle sale  patriotiche
quei «circoli d'istruzione», ove la gioventú va ad istruirsi,  a  prepararsi  al
maneggio negli affari, ad ascoltare  le  parole  dei  vecchi  ed  accendersi  di
emulazione ai loro esempi, a rendersi utile ai loro  simili  ed  acquistare  dai
suoi coetanei quella stima che un giorno meriterá dalla patria e dal governo. In
Napoli se ne era aperto uno, e con felici auspíci: il suo spirito era quello  di
proporre varie opere di beneficenza che si esercitavano in favore del popolo: si
soccorsero indigenti, si prestarono senza mercede all'infima classe del popolo i
soccorsi della medicina e dell'ostetricia. Questa era l'istituzione che  avrebbe
dovuto perfezionarsi e moltiplicarsi(49).

XLI

COSTITUZIONE - ALTRE LEGGI

Tali erano le idee del popolo. Le cure della repubblica erano  ormai  divise  da
che si eran divisi i poteri; e la commissione legislativa, sgravata  dalle  cure
del governo, si era tutta occupata  della  costituzione,  il  di  cui  progetto,
formato dal nostro Pagano, era giá  compíto.  Ma  di  questo  si  dará  giudizio
altrove, come di cosa che, non essendosi né pubblicata né eseguita, niuna  parte
occupa negli avvenimenti della nostra  repubblica.  Altri  bisogni  piú  urgenti
richiamavano l'attenzione  della  commissione  legislativa.  Volle  occuparsi  a
riparare al disordine dei banchi. Fin dai primi  giorni  della  rivoluzione,  la
prima cura del governo fu di rassicurare la nazione, incerta ed agitata  per  la
sorte del debito dei banchi, da cui pendeva la sorte di un terzo della  nazione.
Un tal debito fu dichiarato debito  nazionale.  Tale  operazione  fu  da  taluni
lodata, da altri biasimata, secondo che si riguardava  piú  il  vantaggio  o  la
difficoltá dell'impresa: tutti però convenivano che una semplice promessa  potea
tutt'al piú calmare per un momento la nazione, ma che essa sarebbe poi  divenuta
doppiamente pericolosa, quando non si fossero ritrovati i  mezzi  di  adempirla.
Allora tutta la vergogna e l'odiositá di  un  fallimento  sarebbe  ricaduta  sul
nuovo governo, e si sarebbe intanto perduto il solo  momento  favorevole,  quale
era quello di una rivoluzione, in cui la colpa e  l'odio  del  male  si  avrebbe
potuto  rivolgere  contro  il  re  fuggito,  e  gli   uomini   l'avrebbero   piú
pazientemente  tollerato,  come  uno  di  quegli  avvenimenti  inseparabili  dal
rovescio di un impero, effetto piú del corso irresistibile delle cose che  della
scelleraggine de' governanti. Cosí il governo non fece allora che una  promessa,
e rimaneva ancora a far la legge. Ma, quando volle occuparsi  della  legge,  non
era forse il tempo opportuno. La nazione era oppressa da mille mali, le opinioni
erano vacillanti, tutto era inquietezza ed agitazione. In tale stato di cose  il
far delle leggi utili e forti è ottimo consiglio: sgravasi  cosí  la  somma  de'
mali che opprimono il popolo e si scema il  motivo  del  malcontento;  il  farne
delle inutili e delle inefficaci è pericoloso, perché al malcontento, che giá si
soffre per il male, l'inutilitá del rimedio aggiunge  la  disperazione.  Se  non
potete fare il bene, non fate nulla: il popolo si lagnerá del  male  e  non  del
medico. La commissione legislativa altro non fece (e, per dire il  vero,  allora
che potea far di piú?) che rinnovare per i  beni,  ch'eran  divenuti  nazionali,
quella ipoteca che giá il re avea accordata  sugli  stessi  beni,  quando  erano
regi. Gli esempi passati poteano far comprendere che questa operazione sola  era
inutile. Questi beni non poteano mai esser in commercio, perché riuniti in masse
immense in pochi punti del territorio napolitano; ed i  possessori  delle  carte
monetate erano molti, divisi in tutt'i punti e non voleano fare acquisti immensi
e lontani.  Quando  furono  esposti  in  vendita,  in  tempo  del  re,  i  fondi
ecclesiastici, i quali non  aveano  questo  inconveniente,  si  ritrovarono  piú
facilmente i compratori. Si aggiungeva a ciò  l'incertezza  della  durata  della
repubblica,  la  quale  alienava  maggiormente   gli   animi   dei   compratori;
l'incertezza della sorte dei beni che davansi in ipoteca, quasi contesi  tra  la
nazione ed il francese: per eseguir le  vendite  in  tanti  pericoli,  conveniva
offerire ai compratori vantaggi immensi,  e  cosí  tutt'i  fondi  nazionali  non
sarebbero  stati  sufficienti  a  soddisfare  una  picciola  parte  del   debito
pubblico(50). Il debito nazionale in Napoli non  era  tale  che  non  si  avesse
potuto soddisfare. Era piú incomodo che  gravoso.  Conveniva  una  piú  regolata
amministrazione, e questa vi fu(51): infatti, in cinque mesi di  repubblica,  il
governo, colle rendite di sole due province, tolse dalla circolazione un milione
e mezzo di carte. Con tanta moralitá nel governo, si  potea  far  quasi  a  meno
della legge per un male che si avrebbe potuto forsi guarire col  solo  fatto,  e
che si sarebbe guarito senza dubbio, se le circostanze interne ed esterne  della
nazione fossero state meno infelici. Ma conveniva, nel tempo istesso, che  tutta
la nazione avesse soddisfatto il debito nazionale; conveniva che  questo  debito
avesse toccato la nazione in tutt'i punti; e, dove prima  gravitava  solo  sulla
circolazione, si fosse sofferto in parte  dall'agricoltura  e  dalla  proprietá:
cosí il debito, diviso in  tanti,  diveniva  leggiero  a  ciascuno.  La  nazione
napolitana è una nazione agricola. In tali nazioni la circolazione è sempre  piú
languida che nelle nazioni manifatturiere o commercianti; ed il danaro, o presto
o tardi, va a colare, senza  ritorno,  nelle  mani  dei  possessori  dei  fondi.
Difatti in Napoli, e specialmente nelle province,  non  mancava  il  danaro:  ma
questo danaro era accumulato in poche mani, mentreché per la circolazione non vi
erano che carte. Conveniva attivare tutta la nazione, ed offerire ai proprietari
di fondi delle occasioni  di  spendere  quel  danaro  che  tenevano  inutilmente
accumulato. Conveniva... Ma io non iscrivo un trattato di finanze:  scrivo  solo
ciò che può far conoscere la mia nazione.

XLII

ABOLIZIONE DEL TESTATICO, DELLA GABELLA DELLA FARINA E DEL PESCE

Per giudicare rettamente di un legislatore, conviene che  ei  sia  indipendente;
per far che le sue leggi abbiano tutto l'effetto, conviene che egli sia  libero.
Quando o altri uomini o le cose tendono a frenare i suoi pensieri e le sue mani,
quando la sovranitá è divisa, pretenderete invano veder quel legislatore,  nelle
di cui mani è il cuore delle nazioni: i consigli son timidi, le misure  mezzane;
tra l'imperiosa necessitá e l'occasione precipitosa, spesso il miglior consiglio
non è quello che si può seguire, o  solo  si  segue  quando  l'occasione  è  giá
passata, e di tutte le operazioni voi altro non potete rilevare  che  la  puritá
del cuore e la rettitudine dei suoi pensieri. Cosí, non altrimenti che la  legge
sui banchi, riuscirono  inutili  quasi  tutte  le  altre  leggi  immaginate  per
isgravare i popoli dai  pesi  che  nell'antico  governo  sofferiva.  Io  non  ne
eccettuo che la sola legge colla quale si abolí la gabella del pesce; legge  che
produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica gli animi di quasi tutti
i marinai ed i pescatori della  capitale.  Quando  si  abolí  la  gabella  sulla
farina, non si ottenne l'intento di far ribassare il prezzo de' grani in Napoli,
dove, per le insorgenze che aveano giá chiuse tutte le  strade  delle  province,
non potevano ivi piú entrar grani nuovi, e quei che esistevano  erano  pochi  ed
avean giá pagato il dazio. Il popolo napolitano disse allora: che «la gabella si
era tolta quando non vi era piú farina». Dal 1764 era in Napoli molto  cresciuto
il prezzo del grano; e, sebbene questo aumento  fosse  in  parte  effetto  della
maggior ricchezza della nazione, non si poteva però mettere in controversia  che
l'aumento del prezzo degli altri generi non  era  proporzionato  all'aumento  di
quello del grano(52). Questo non era alterato, quando si  paragonava  al  prezzo
del grano nelle altre nazioni di  Europa;  ma  era  alteratissimo,  allorché  si
paragonava al prezzo degli altri generi presso  la  stessa  nazione  napolitana.
Tutto il male nasceva da che l'industria, ed in conseguenza la ricchezza, non si
era risvegliata e diffusa equabilmente  sopra  tutt'i  generi  ed  in  tutte  le
persone. Il male era tollerabile nelle province, ma insoffribile nella capitale,
non perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne fosse molto piú  caro  che
nelle province; ma perché Napoli conteneva un numero immenso di  renditieri,  di
oziosi o di persone che, senza  essere  oziose,  nulla  producevano  e  che  non
partecipavano dell'aumento  dell'industria  e  della  ricchezza  nazionale.  Per
rendere il popolo  napolitano  contento  sull'articolo  del  pane,  o  conveniva
migliorarlo e renderlo cosí piú attivo e  piú  ricco,  o  conveniva  render  piú
misere le province: la  prima  operazione  avrebbe  reso  il  popolo  napolitano
contento dei nuovi prezzi; la seconda avrebbe fatto ritornar gli antichi(53). La
sola abolizione della gabella era nella capitale un'operazione piú  pomposa  che
utile. Guardiamola nelle province. Essa dovette esser inutile in quei luoghi nei
quali non si pagava, e questi formavano il numero maggiore; in quelli nei  quali
si pagava, dovette riuscire piuttosto dannosa. Il ritratto della gabella serviva
a pagare le pubbliche imposizioni: proibir quella  e  pretender  queste  era  un
contradditorio; rinunciare a queste era impossibile  tra  i  tanti  urgentissimi
bisogni dai quali era allora il governo  premuto;  obbligare  le  popolazioni  a
sostituire all'antico metodo un nuovo,  ed  obbligarle  a  sostituirlo  di  loro
autoritá (giacché colla legge non si era preveduto questo caso), era  pericoloso
in un tempo in cui lo spirito di partito né fa conoscere  il  giusto  né  lo  fa
amare. Un dio solo avrebbe potuto persuadere alle popolazioni che una novitá non
fosse stata allora una ingiustizia patriotica. Infatti  molte  popolazioni,  che
per la vicinanza alla capitale erano nello stato di portar  i  loro  reclami  al
governo(54), chiesero  che  la  gabella  sulla  farina  si  ristabilisse.  Nella
costituzione antica del regno di Napoli, ove si trattava d'imposizioni  dirette,
il sovrano quasi altro non faceva che imporre il tributo:  la  ripartizione  era
determinata da una legge quasi che fondamentale  dello  Stato,  ed  il  modo  di
esigerlo era in arbitrio di ciascuna popolazione.  Non  si  esigeva  dappertutto
nello stesso modo: una popolazione avea una gabella, un'altra ne avea  un'altra;
chi non avea gabelle e pagava la decima sul raccolto del grano, chi  pagava  sui
fondi, chi in un modo, chi in un altro,  secondo  le  sue  circostanze,  i  suoi
prodotti, i suoi bisogni, i suoi costumi e  talora  i  pregiudizi  suoi.  Questo
metodo di amministrazione avea i suoi inconvenienti; ma questi inconvenienti  si
potean correggere, e conservare un metodo, il quale, se non toglieva il male, lo
rendeva però meno sensibile. Questo stato della  nazione  fece  sí  che  inutile
riuscisse anche la  legge  sull'abolizione  del  testatico.  «Nessun  testatico,
nessuna imposizione personale  avrá  luogo  nella  nazione  napolitana».  Questo
stesso, e colle stesse parole, era stato detto quasi tre  secoli  prima:  quella
legge era tuttavia in vigore nel Regno; ed intanto, ad onta della  medesima,  si
pagava l'imposizione personale. In pochi luoghi si esigeva ancora sotto il  nome
di «testatico»;  in  molti  si  pagava  ricoperta  del  nome  d'«industria»;  in
moltissimi si pagava pagando un dazio indiretto sui generi di  prima  necessitá,
che si consumano egualmente da chi possiede e da chi non  possiede:  ove  in  un
modo, ove in un altro, il testatico si pagava dappertutto e  non  era  in  verun
luogo nominato. La legge esisteva; ma l'abuso, cangiando le parole,  faceva  una
frode alla legge. Prima di riformare  l'antico  sistema  delle  nostre  finanze,
conveniva conoscerlo: la riforma dovea essere simultanea  ed  intera.  Tutte  le
parti di un sistema di finanze hanno stretti rapporti tra  loro  e  collo  stato
intero della nazione. Ma la maggior parte degli Stati di Europa erano nati,  non
dalle unioni spontanee, ma dalla conquista: il signore di un piccolo Stato  avea
oppressi gli altri con diversi mezzi ed in diversi tempi; per lo  piú  si  erano
transatti colle popolazioni, che avean conservati i loro usi,  i  dazi  loro,  i
loro costumi. Una gran nazione non fu che l'aggregato di tante piccole  nazioni,
che si consideravano come estranee  tra  loro;  ed  il  sovrano  si  considerava
estraneo a tutte. Invece di leggi, si chiedevano «privilegi»; il  sistema  delle
finanze non era che un'unione di diversi pezzi fatti da mani e in tempi diversi;
i bisogni del momento, non essendo mai quelli della nazione,  facevano  sí  che,
invece di correggersi gli antichi abusi, se ne aggiugnessero dei nuovi; e  tutto
ciò produceva quell'orribile caos di finanze, in cui,  al  dir  di  Vauban,  era
grande quell'uomo che sapesse immaginar nuovi nomi per poter  imporre  un  nuovo
tributo senza alterare gli antichi. Era venuta l'epoca fortunata della  riforma;
ma questa riforma né dovea esser fatta con leggi particolari, le quali o  presto
o tardi si sarebbero contraddette, né in un momento. Era l'opera di molto tempo.
Sulle prime, per  contentare  il  popolo,  il  quale  fra  le  novitá  è  sempre
impaziente di veder segni sensibili di utile, bastava dire che si pagassero solo
due terzi delle antiche imposizioni. Questa diminuzione di un  terzo  di  tutt'i
tributi avrebbe attirato alla rivoluzione  maggior  numero  di  persone;  mentre
colla sola abolizione del testatico e della gabella della farina non si  giovava
che ai poveri. In séguito, quando  il  favore  dei  ricchi  non  era  piú  tanto
necessario e l'odio loro tanto pericoloso,  i  poveri  si  sarebbero  del  tutto
sgravati. Un governo stabilito deve esser giusto; un governo  nuovo  deve  farsi
amare: quello deve dare a ciascuno ciò che è suo; questo deve dare a tutti.  Una
commissione a quest'oggetto stabilita avrebbe  fatto  in  séguito  conoscere  le
antiche finanze, i nuovi bisogni dello Stato, e si sarebbe  formato  un  sistema
generale e durevole, su di cui si  sarebbe  potuta  fondare  la  felicitá  della
nazione.

XLIII

RICHIAMO DE' FRANCESI

Ma eccoci alfine ai giorni infelici della nostra repubblica:  i  mali  da  tanto
tempo trascurati, ormai ingigantiti, ci soverchiano e minacciano di  opprimerci.
Le Calabrie  si  erano  interamente  perdute,  e  gl'insorgenti  delle  Calabrie
comunicavano di giá cogl'insorgenti di Salerno e di Cetara e si stendevano  fino
a Castellamare. Questa stessa cittá fu  occupata  dagl'inglesi,  e  si  vide  la
bandiera dei superbi  britanni  sventolar  vincitrice  in  faccia  della  stessa
capitale. I francesi ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta.  Ma,
pochi giorni dopo, i francesi  furon  costretti  ad  abbandonare  il  territorio
napolitano, richiamati nell'Italia superiore; e, sebbene tentassero colorire con
pomposi proclami la loro ritirata, gl'insorgenti ben ne compresero il  motivo  e
ne trassero audacia maggiore. Salerno  fu  di  nuovo  occupata:  a  Castellamare
s'inviò da Napoli una forte guarnigione,  la  quale  però  fu  ridotta  a  dover
difendere la sola cittá, quasi assediata dalle insorgenze che  la  circondavano.
Magdonald, partendo, lasciò una guarnigione di settecento uomini  in  Sant'Elmo;
circa duemila rimasero a difender Capua, e quasi altri settecento in Gaeta. Egli
avea promesso lasciar una forte colonna mobile; ma questa poi in  effetti  altro
non fu che una debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati  dalla
guernigione di Capua, venivano a  Sant'Elmo,  donde  altri  quattrocento  uomini
partivano alternativamente per  Capua.  Questa  forza  sarebbe  stata  superflua
presso di noi, se da principio ci fosse stato permesso di  organizzar  la  forza
nazionale. Poiché il far questo  ci  era  stato  tolto,  la  forza  rimasta  era
insufficiente. I rovesci d'Italia mostravano giá lo stato di languore, in cui la
rilassatezza del governo  direttoriale  avea  gittata  la  Francia.  La  Francia
diminuiva di forze in proporzione che cresceva di volume; le  nuove  repubbliche
organizzate in Italia, che avrebbero dovuto essere le sue alleate, furono le sue
province; invece di esserne amati, i francesi ne  furono  odiati,  perché  essi,
invece di amarle, le temettero. I romani,  di  cui  i  francesi  volevano  esser
imitatori, ritraevano forza dagli alleati. Gli spagnuoli  tennero  una  condotta
diversa, ed avvilirono quelle nazioni che doveano esser loro amiche. Ma ciò  che
potea ben riuscire per qualche tempo agli spagnuoli, per lo stato in cui  allora
si ritrovava l'Europa, non poteva riuscire al Direttorio, che avea da per  tutto
governi regolari e potenti ai loro confini. Quando, in séguito di una conquista,
si vuole organizzare una repubblica, l'operazione è  sempre  piú  difficile  che
quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli ad ubbidire,  perché  egli
non deve far altro che schiavi; un conquistatore, che far voglia dei  cittadini,
deve avvezzarli ad ubbidire e a comandare.  Ma  non  si  avvezzano  i  popoli  a
comandare senza dar loro l'indipendenza, la quale richiede un sacrifizio, per lo
piú doloroso, di autoritá per parte di colui che conquista. E quindi è che quasi
sempre vana riesce la libertá che si riceve in dono dagli altri popoli,  perché,
non essendovi chi sappia comandare, non vi sará nemmeno chi sappia ubbidire, ed,
invece di saggi ordini di governo, non si hanno che  le  volontá  momentanee  di
coloro che comandano la forza straniera; volontá  che  sono  tanto  piú  ruinose
quanto il comando è piú vacillante e poco o nulla vale a prolungarlo  il  merito
della buona condotta. La libertá invidia e la  legge  toglie  gl'impieghi  anche
agli ottimi. Questi cangiamenti ne produssero degli altri ugualmente rapidi  nel
governo delle nuove repubbliche. Quasi ogni  mese  si  cangiavano  i  governanti
nella repubblica romana. Come  sperare  quella  stabilitá  di  princípi,  quella
costanza di operazioni, che solo può rendere le repubbliche  ferme  e  vigorose?
Talora, oltre dei governanti, si violentava  anche  la  costituzione;  e  quello
stesso Direttorio, che avea violata la costituzione francese, rovesciò anche  la
cisalpina. Si trovarono delle anime eroiche, che seppero resistere  agl'intrighi
ed alla forza, e preferirono la  libertá  del  loro  giuramento  al  favore  del
conquistatore. In Napoli, quando si temeva che le idee del Direttorio  potessero
non esser quelle dell'indipendenza e felicitá della nazione,  tutt'i  governanti
giurarono di deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma  possiamo
noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero è sempre  debole;  ed  il
popolo intero come può amar una costituzione che  non  si  abbia  scelta  da  se
stesso e che non possa conservare né distruggere se non per  volere  altrui?  Si
aggiunga a ciò che  il  principio  fondamentale  delle  repubbliche,  che  è  il
rispetto e l'amore pe' suoi cittadini,  mentre  rende  un  governo  repubblicano
attentissimo ad ogni ingiustizia che si commetta tra' suoi, lo rende  negligente
sulla sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato  in  Roma  da  coloro  che
erano suoi eguali e che temevano piú di lui  che  delle  province  desolate.  Le
repubbliche italiane  segnavano  l'etá  con  sempre  nuovo  languore  invece  di
rassettarsi cogli anni, quanto piú vivevano piú si accostavano alla morte; e  le
altre repubbliche d'Italia, dopo quattro anni di  libertá,  si  trovarono  tanto
deboli quanto la nostra lo era al principio della sua politica rivoluzione. Se i
francesi avessero permesso alla repubblica cisalpina di  organizzare  una  forza
regolare, se lo avessero permesso alla repubblica romana, avrebbero  potuto  piú
lungo  tempo  contrastare  in  Italia  contro  le  forze  austro-russe:  se  non
impedivano l'organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero  assicurata
la vittoria al  partito  repubblicano.  Ma  il  voler  difendere  la  repubblica
cisalpina, la romana, la napolitana colle sole proprie forze;  il  voler  temere
egualmente il nemico e gli amici, era la massima di un governo che vuol  crescer
il numero  dei  soggetti  senza  aumentar  la  forza(55).  Si  parla  tanto  del
tradimento di Scherer: Scherer tradí il governo, ma la condotta di quel  governo
avea di giá tradita una gran  nazione.  La  rivoluzione  di  Napoli  potea  solo
assicurar  l'indipendenza  d'Italia,  e  l'indipendenza  d'Italia   potea   solo
assicurar la Francia.  L'equilibrio  tanto  vantato  di  Europa  non  può  esser
affidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipendenza,  che  tutte  le
potenze, quando seguissero piú il loro vero interesse  che  il  loro  capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrá meco che, nella gran
lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrá vincitore
che piú sinceramente  favorirá  l'indipendenza  italiana(56).  Il  destino  avea
finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo che allora avea  la  Francia
non fu buono per eseguire gli ordini del destino, ed i  prodirettoriali  governi
d'Italia non seppero comprenderne le intenzioni. Dura necessitá ci  costrinse  a
trascurare tutti gli esterni rapporti che  avrebbero  potuto  salvar  la  nostra
esistenza politica. Noi ignoravamo ciò che si faceva nel rimanente  dell'Europa,
e l'Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per bocca dei nostri  nemici.
Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese non avevamo che gazzette  o
rapporti piú frivoli di una gazzetta e  piú  mendaci.  I  generali  francesi  ci
scrivean sempre vittorie, perché questo loro imponeva la ragion della guerra: ma
il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e l'ignoranza in cui  rimase
il governo e  le  false  lusinghe  che  gli  furon  date  di  prossimo  soccorso
accelerarono la perdita, se  non  della  repubblica,  almeno  dei  repubblicani.
Napoli avrebbe potuto salvar l'Italia;  ma  l'Italia  cadde,  ed  involse  anche
Napoli nella sua ruina.

XLIV

RICHIAMO DI ETTORE CARAFA DALLA PUGLIA

I francesi dovettero aprirsi la ritirata colle armi alla mano, ed  all'isola  di
Sora e nelle  gole  di  Castelforte  perdettero  non  poca  gente.  Appena  essi
partirono, nuove insorgenze scoppiarono in  molti  luoghi.  Roccaromana  suscitò
l'insorgenza nelle sue terre alle mura di Capua. Egli divenne  l'istrumento  piú
grande della nobiltá, a cui apparteneva, e del popolo, tra cui avea un nome.  Il
governo lo  avea  disgustato,  lo  avea  degradato  forsi  per  sospetti  troppo
anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo e perderlo: offendendo,  non
seppe metterlo nella impossibilitá di far male. Luigi de  Gams  organizzò  nello
stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste insorgenze,  unite  a  quelle  di
Castelforte e di Teano, ruppero ogni comunicazione tra Capua e Gaeta  e  tra  il
governo napolitano ed il resto  dell'Italia.  La  ritirata  dei  francesi  dalla
provincia di Bari fece insorgere di nuovo quella provincia di Lecce.  In  Puglia
eravi ancora Ettore Carafa colla sua legione, ed, oltre la legione, avea un nome
e molti seguaci; ma, sia imprudenza, sia,  come  taluni  vogliono,  gelosia  del
governo, Carafa fu richiamato da  una  provincia  dove  poteva  esser  utile  ed
inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di Carafa fu un vero male
per quelle province e per la repubblica intera. A  questo  male  si  sarebbe  in
parte riparato, se riusciva a Federici di penetrare in Puglia ed a Belpulsi  nel
contado di Molise; ma le spedizioni di  questi  due,  ritardate  soverchio,  non
furono intraprese se non dopo la partenza delle truppe francesi, quando cioè era
impossibile eseguirle. Cosí sopra tutta la superficie del territorio  napolitano
rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi.
Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo  a
Mammone(57), comandante dell'insorgenza di Sora: con poco piú di forza,  avrebbe
potuto prendere la parte offensiva. I paesi  della  Lucania  fecero  prodigi  di
valore, opponendosi all'unione di Ruffo con Sciarpa; e, se il  fato  non  faceva
perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo  avesse  inviati  loro
non piú che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e le munizioni da
guerra che loro mancavano, forse la causa della libertá non sarebbe perita.  Gli
stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane del Cilento, le quali
per lungo tempo impedirono che l'insorgenza delle Calabrie  non  si  riunisse  a
quella di Salerno. Foggia finalmente era una cittá piena  di  democratici:  essa
avea una guardia nazionale di duemila persone; era una cittá che, per  lo  stato
politico ed economico della provincia, potea trarsi dietro la provincia  intera;
e da Foggia una linea quasi non interrotta prendeva pel settentrione  verso  gli
Apruzzi, dove  si  contavano  Serracapriola,  Casacalenda,  Agnone,  Lanciano...
Dall'altra  parte,  per  Cirignola  e  Melfi,  Foggia  comunicava  colle   tante
popolazioni democratiche della provincia di Bari e della Lucania.  Noi  vorremmo
poter  nominare  tutte  le  popolazioni  e  tutti  gl'individui;  ma  né   tutto
distintamente sappiamo, né tutto senza imprudenza apertamente si  può  dire:  un
tempo forse si saprá, e si potrá loro rendere giustizia. Ma che  fare?  A  tutte
queste forze mancava la mente, mancava  la  riunione  tra  tutti  questi  punti,
mancava un piano comune per le loro operazioni. Non si  crederá,  ma  intanto  è
vero: una delle cagioni,  che  piú  hanno  contribuito  a  rovesciar  la  nostra
repubblica, è stata quella di non aver avute nelle province  delle  persone  che
riunissero e dirigessero tutte le operazioni: gl'insorgenti aveano tutti  questi
vantaggi.

XLV

CARDINAL RUFFO

Ruffo intanto trionfava in Calabria. Dalla Sicilia, ove era fuggito seguendo  la
corte, era ritornato quasiché solo nella Calabria; ma le terre  nelle  quali  si
era fermato erano appunto le terre di sua famiglia. Quivi il suo nome gli  diede
qualche seguace: a questi si aggiunsero tutti quelli che si trovavan  condannati
nelle isole della Sicilia, ai quali fu promesso il  perdono;  tutt'i  scellerati
banditi, fuorusciti delle Calabrie, ai quali fu promessa l'impunitá. A Ruffo  si
unirono il preside della provincia, Winspeare, e l'uditore Fiore. L'impunitá, la
rapina, il saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso(58); tutto
concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò con picciole  operazioni,  piú  per
tentare gli animi e le cose che per invadere.  Ma,  vinte  una  volta  le  forze
repubblicane perché divise e mal dirette, superata Monteleone, attaccò  e  prese
Catanzaro, capitale della Calabria ulteriore, e, passando quindi alla citeriore,
attaccò e prese Cosenza, sede di  antico  ed  ardente  repubblicanismo.  Cosenza
cadde vittima  degli  errori  del  governo,  perché  disgustò  il  basso  popolo
coll'ordine di doversi pagare anche gli arretrati delle  imposizioni  dovute  al
re, perché vi costituí comandante della guardia nazionale il tenente De  Chiara,
profondo scellerato ed attaccato all'antico governo. Quando Ruffo era giá vicino
a Cosenza, De Chiara era alla testa di sette in ottomila patrioti,  risoluti  di
vincere o di morire. Ruffo aveva appena diecimila uomini. Quando  queste  truppe
furono a vista, De Chiara ordinò la ritirata; intanto  ad  un  segno  concertato
scoppiò la sollevazione dentro Cosenza: cosicché i repubblicani si trovarono tra
due fuochi; ma, ciò non ostante,  riguadagnano  la  cittá  e  si  difendono  tre
giorni. Labonia e Vanni corrono a radunar gente nelle loro patrie. Ma, quando il
soccorso giunse, Cosenza era giá caduta. Essi si ridussero a dover fare  prodigi
di valore nella difesa di Rossano. Ma Rossano, rimasta  sola,  cadde  anch'essa:
cadde Paola, una delle piú belle  cittá  di  Calabria,  incendiata  dal  barbaro
vincitore, indispettito da un valore che avrebbe dovuto ammirare.  La  fama  del
successo ed il terrore che ispirava lo resero padrone di tutte le Calabrie  fino
a Matera, dove incontrò il còrso  De  Cesare,  di  cui  parlammo  nel  paragrafo
decimosesto(59). Il disegno di Ruffo era  di  penetrar  nella  Puglia.  Altamura
formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende.  Per
ritrovare esempi di difesa piú ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia
antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi
abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono  in
uso di mitraglia; ma  finalmente  dovettero  cedere.  Ruffo  prese  Altamura  di
assalto, giacché gli abitanti ricusarono sempre di  capitolare;  e,  dove  prima
nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in  Altamura,  sicuro
giá da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che  potea  ormai  vincere,
volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura  era  stato  promesso  ai
suoi soldati: la cittá fu abbandonata al loro furore; non  fu  perdonato  né  al
sesso né all'etá. Accresceva il furore dei soldati la nobile  ostinazione  degli
abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore,  col  coltello  alla  gola,
gridavano tuttavia: - Viva la repubblica! - Altamura non fu che  un  mucchio  di
ceneri e di cadaveri intrisi di sangue. Dopo  la  caduta  di  Altamura,  Sciarpa
soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santofele, Tito,
ecc. ecc., i quali si erano uniti per la difesa comune. La  stessa  mancanza  di
provvisioni di guerra, che avea fatta perdere Altamura, li costrinse a cedere  a
Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore, conservarono tanto di  quell'ascendente
che il valore dá sul numero,  che  fecero  una  capitolazione  onorevole,  colla
quale, riconoscendo di nuovo il re, le loro persone e le cose rimaner  dovessero
salve. Ben poche nazioni possono gloriarsi di simili esempi di  valore.  Intanto
Micheroux fece nell'Adriatico  uno  sbarco  di  russi,  che  occuparono  Foggia.
L'occupazione, sia caso, sia arte, avvenne ne' giorni in cui la fiera richiamava
colá gli abitanti di tutte  le  altre  province  del  Regno;  e  cosí  la  nuova
dell'invasione, sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore anche
prima  delle  armi.  Chi  non  sarebbesi  rivoltato  allora  contro  il  governo
repubblicano, dopo i funesti esempi di coloro che eran rimasti vittima  del  suo
partito, vedendo dappertutto il  nemico  vincitore  e  niuna  difesa  rimaner  a
sperarsi dagli amici? Si  era  giá  nel  caso  che  i  repubblicani,  ridotti  a
picciolissimo numero, sembravano essi esser gl'insorgenti. Eppure l'amore per la
repubblica era cosí grande,  che  faceva  ancora  amare  il  governo,  e  tutt'i
repubblicani morirono con lui. Un poco di truppa francese e patriotica  che  era
in Campobasso fu costretta ad abbandonarla. Si  perdette  anche  il  contado  di
Molise. Non si era pensato a guadagnar le posizioni  di  Monteforte,  Benevento,
Cerreto ed Isernia, onde impedire le  comunicazioni  di  queste  insorgenze  tra
loro. Ribollí l'insorgenza di Nola, comunicando con quella di Puglia;  e  Napoli
fu quasi che assediata.

XLVI

MINISTRO DELLA GUERRA

Si era esposto mille volte al ministro della guerra tutto  il  pericolo  che  si
correva per le insorgenze troppo trascurate;  ma  egli  credeva  ed  avea  fatto
credere al governo non esser ciò altro che  voci  di  allarmisti.  Si  giunse  a
promulgare una legge severissima contro i medesimi;  ma  la  legge  dovea  farsi
perché gli allarmisti non ingannassero il popolo, e non giá  perché  il  governo
fosse ingannato dagli adulatori. Il governo era  su  questo  oggetto  molto  mal
servito da' suoi agenti tanto interni che esterni,  poiché  per  lo  piú  eransi
affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano che l'entusiasmo; ed  essi
piú del pericolo temevano la fatica di doverlo prevedere.  I  popoli  non  erano
creduti. Si chiesero de' soccorsi al governo per frenare l'insorgenza  scoppiata
nel Cilento. Si proponeva al ministro che s'inviassero i francesi. - I  francesi
- si rispondeva - non sono buoni a  frenare  l'insorgenza;  -  e  si  diceva  il
vero(60). - Vi anderanno dunque i patrioti? - I patrioti faranno  peggio.  -  Ma
intanto il pessimo di tutt'i partiti fu quello di non prenderne  alcuno;  ed  il
piú funesto degli errori fu quello di credere che il tempo avesse potuto giovare
a distruggere l'insorgenza. Il ministro della guerra diceva  sempre  al  governo
che egli si occupava a formare un piano, che avrebbe  riparato  a  tutto.  Prima
parte però di ogni piano avrebbe dovuto esser quella di far presto. Si disse  al
ministro che avesse occupata Ariano, e non curò  di  farlo;  se  gli  disse  che
avesse occupata Monteforte, e non curò di farlo. Manthoné credeva che il  nemico
non fosse da temersi. Fino agli ultimi  momenti  ei  lusingò  se  stesso  ed  il
governo: credeva che i russi, i quali erano  sbarcati  in  Puglia,  non  fossero
veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli  avea  spediti  abbigliati  alla
russa. Gl'insorgenti erano giá alla Torre, lo stesso Ruffo  co'  suoi  calabresi
era in Nola, Micheroux co' russi era al Cardinale, Aversa era insorta  ed  aveva
rotta ogni comunicazione tra Napoli e Capua; ed il ministro della guerra, a  cui
tutto ciò si riferiva, rispondeva non esser altro che pochi  briganti,  i  quali
non avrebbero ardito di attaccar la  capitale.  Quale  stranezza!  Una  centrale
immensa, aperta da tutt'i lati, il di cui popolo vi è  nemico,  a  cui  dopo  un
giorno si toglie l'acqua e dopo due giorni il pane!...

XLVII

DISFATTA DI MARIGLIANO

Ma chi potea smuovere  il  ministro  della  guerra  dall'idea  di  difendere  la
repubblica nella centrale? Egli volle anche difenderla in un modo tutto suo. Non
impiegò se non picciolissime forze, le quali, se prima sarebbero state  bastanti
ad impedire che l'insorgenza nascesse, non erano poi sufficienti a  combatterla.
Egli avea fatto credere al  governo  ed  alla  nazione  che  potea  disporre  di
ottomila uomini di truppe di linea; ma questa colonna, colla  quale  si  avrebbe
potuto formare un campo per difendere Napoli, non  si  vide  mai  intera.  Molti
credettero che si  avrebbe  potuto  riunire  gran  numero  di  patrioti,  se  si
dichiarasse la patria in pericolo; ma, sia  timore,  sia  soverchia  confidenza,
questo linguaggio franco non si volle  mai  adottare  dal  governo,  e  solo  si
ridusse ad ordinare che ad un tiro designato  di  cannone  tutti  della  milizia
nazionale dovessero condursi ai loro posti, e gli  altri  del  popolo  ritirarsi
nelle loro case, né uscirne, sotto pena  della  vita,  prima  del  nuovo  segno.
Misura piú allarmante  di  qualunque  dichiarazione  di  pericolo,  poiché,  non
dichiarandolo, lasciava libero il capo alla fantasia alterata d'immaginarlo  piú
grande di quello che era; misura che non dovea usarsi se non negli estremi  casi
e che, essendosi usata imprudentemente la prima volta,  quando  bisogno  non  vi
era, fece sí che si  fosse  usata  quasi  che  inutilmente,  quando  poi  vi  fu
bisogno(61). Intanto le infinitesimali colonne spedite da Manthoné furono ad una
ad una distrutte. Quella comandata da Spanò fu battuta  a  Monteforte;  l'altra,
comandata da Belpulsi, che dovea esser per lo meno di mille e  duecento  uomini,
vanguardia di un corpo piú numeroso, e che poi  si  trovò  essere  in  tutto  di
duecentocinquanta, fu costretta a retrocedere da Marigliano, ove non  potea  piú
reggere in faccia a tutta la forza di Ruffo. La sola colonna di  Schipani  resse
nella Torre dell'Annunziata, perché era composta di numero maggiore, perché  non
poteva  esser  circondata  se  prima  non  si  guadagnava  Marigliano  e  perché
finalmente  era  sotto  la  protezione  delle  barche   cannoniere,   le   quali
allontanavano l'inimico dalla strada che va lungo  il  mare.  La  nostra  marina
continuò a ben meritare della patria e, finché vi rimase il minimo legno,  tenne
sempre lontani gl'inglesi. E chi  mai  demeritò  della  patria,  all'infuori  di
coloro che alla patria non appartenevano? Ma finalmente Ruffo, padrone di Nola e
di Marigliano, si avanzò da quella via verso Portici, tagliando cosí la ritirata
alla colonna di Schipani  e  togliendole  ogni  comunicazione  con  Napoli.  Tra
Portici e Napoli vi era il picciol forte di Vigliena, difeso da pochi  patrioti;
e, ad onta delle forze infinitamente superiori di Ruffo, sostennero  oltre  ogni
credere il forte: quando furono ridotti alla necessitá di  cederlo,  risolverono
di farlo saltar per aria. L'autore di questa ardita risoluzione fu Martelli. Non
minor valore dimostrò la colonna di Schipani: si aprí per sei miglia  la  strada
in mezzo ai nemici, prese de' cannoni, giunse a Portici. Le nuove che si  aveano
di Napoli, la quale si credeva giá presa, indussero alcuni vili a  gridar  «viva
il re» e costrinsero gli altri a rendersi prigionieri di guerra.

XLVIII

CAPITOLAZIONE

Ma Napoli non era presa ancora. I nostri si eran battuti con sorte infelice  nel
dí 13 giugno al ponte della  Maddalena,  e  furono  costretti  a  ritirarsi  nei
castelli. Il governo si era giá ritirato nel Castello nuovo.  Il  solo  castello
del Carmine, il quale altro non è che una batteria di mare e che per la  via  di
terra non si può difendere, era  caduto  nelle  mani  degl'insorgenti.  E  quale
castello di Napoli, all'infuori  di  Sant'Elmo  si  può  difendere?  Il  partito
migliore sarebbe stato quello di abbandonar la cittá, e, fatta  una  colonna  di
patrioti, che allora forse per  la  necessitá  sarebbe  divenuta  numerosissima,
guadagnar Capua per la via di Aversa o di Pozzuoli. Questo era stato il progetto
di Girardon, che  comandava  in  Capua  le  poche  forze  francesi  rimaste  nel
territorio della repubblica napolitana. Se questo progetto fosse stato eseguito,
Napoli non sarebbe divenuta, come addivenne, teatro  di  stragi,  d'incendi,  di
scelleraggini e di  crudeltá;  ed  ora  non  piangeremmo  la  perdita  di  tanti
cittadini.  Durante  l'assedio  dei  castelli  il   popolo   napolitano,   unito
agl'insorgenti, commise delle barbarie che fan fremere: incrudelí financo contro
le donne, alzò nelle pubbliche piazze dei roghi,  ove  si  cuocevano  le  membra
degl'infelici, parte gittati vivi e parte moribondi. Tutte queste  scelleraggini
furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo ed alla presenza  degl'inglesi.  I  due
castelli Nuovo e dell'Uovo, difesi dai  patrioti,  fecero  intanto  per  qualche
giorno la piú vigorosa resistenza. Se i patrioti avessero avuto un poco  piú  di
forza, avrebbero potuto  riguadagnar  Napoli:  ma  essi  non  erano  che  appena
cinquecento uomini atti alle armi; e Mégeant, che comandava  in  Sant'Elmo,  non
permise piú ai suoi francesi di unirsi ai  nostri.  Si  sono  tanto  ammirati  i
trecento delle Termopili, perché seppero morire; i nostri fecero  anche  dippiú:
seppero capitolare  coll'inimico  e  salvarsi;  seppero  almeno  una  volta  far
riconoscere la repubblica napolitana. La  capitolazione  fu  sottoscritta  nella
fine di giugno. Si promise l'amnistia; si diede a ciascuno la libertá di partire
o di restare, come piú gli piaceva; e tanto a coloro  che  partissero  quanto  a
coloro che restassero si promise la sicurezza delle persone e  degli  averi.  La
capitolazione fu sottoscritta da Ruffo, vicario generale del re  di  Napoli;  da
Micheroux, generale delle sue armi; dall'ammiraglio russo; dal comandante  delle
forze turche; da Food, comandante i legni inglesi che si trovarono all'azione; e
da Mégeant, il quale, in nome della repubblica  francese,  entrò  garante  della
napolitana. Furon dati per  parte  di  Ruffo  degli  ostaggi  per  la  sicurezza
dell'esecuzione del trattato, e  questi  furon  consegnati  a  Mégeant(62).  Per
eseguire il trattato fu stabilito un armistizio, ma nell'armistizio  si  preparò
il tradimento. Appena che la regina seppe  l'occupazione  di  Napoli,  inviò  da
Palermo milady Hamilton a raggiungere Nelson. -  Voglio  prima  perdere  -  avea
detto la regina ad Hamilton - tutti e due i regni che avvilirmi a capitolar  coi
ribelli. - Che Hamilton si prestasse a servir la regina, era cosa non  insolita;
essa finalmente non disponeva che dell'onor suo: ma che Nelson,  il  quale  avea
trovata la capitolazione giá sottoscritta, prostituisse ad Hamilton l'onor  suo,
l'onor delle sue armi, l'onor della sua nazione; questo è ciò che il  mondo  non
aspettava, e che il governo e la nazione inglese non dovea soffrire(63).  Nelson
col resto della sua flotta giunse nella rada di Napoli durante  l'armistizio,  e
dichiarò che un trattato fatto senza di lui, che era  ammiraglio  in  capo,  non
dovea esser valido; quasi  che  l'onorato  e  valoroso  Food,  che  era  persona
legittima a ricevere i castelli, non lo fosse poi  ad  osservare  le  condizioni
della resa; quasi che una capitolazione potesse esser legittima per una parte ed
illegittima per  l'altra,  e,  non  volendo  mantener  le  promesse  fatte  alla
repubblica napolitana, non fosse necessario restituire ai suoi agenti tutto  ciò
che per tali promesse aveano giá consegnato. Acton diceva e faceva dire  al  re,
che era a  bordo  dei  vascelli  inglesi,  circondato  però  dalle  creature  di
Carolina: che «un re non capitola mai coi suoi ribelli»(64).  Egli  infatti  era
padrone di non capitolare; ma si poteva domandare se mai,  quando  un  re  abbia
capitolato, debba o no mantenere la sua parola! Intanto i  patrioti  per  Napoli
erano arrestati; la partenza di quei che eransi imbarcati si differiva;  Mégeant
che avea gli  ostaggi  nelle  sue  mani,  Mégeant  che  avea  ancora  forza  per
resistere, che poteva e doveva essere il garante  della  capitolazione,  Mégeant
dormiva. Nel tempo dell'armistizio permise che i nemici erigessero  le  batterie
sotto il suo forte. Fu attaccato, fu battuto, non fece una sortita, appena sparò
un cannone, fu vinto, si rese. Segnò una capitolazione vergognosissima  al  nome
francese. Quando dovea rimaner solo per  ricoprirsi  di  obbrobrio,  perché  non
capitolò insieme cogli altri forti? Restituí gli ostaggi, ad onta che vedesse  i
patrioti non ancora partiti e ad onta  che  resistesse  ancora  Capua,  ove  gli
ostaggi si poteano conservare. Promise di consegnare i  patrioti  che  erano  in
Sant'Elmo, e li consegnò. Fu visto scorrere tra le  file  dei  suoi  soldati,  e
riconoscere ed indicare qualche infelice che  si  era  nascosto  alle  ricerche,
travestito tra quei bravi francesi, coi quali avea sparso il suo sangue. Neanche
Matera, antico ufficiale francese, fu risparmiato, ad onta  dell'onor  nazionale
che dovea salvarlo e del diritto di tutte  le  genti.  Fu  imbarcato  colla  sua
truppa, partí solo colla sua truppa, e non domandò neanche dei napolitani. E  vi
è taluno il quale ardisce di mettere in dubbio che Mégeant sia un  traditore?  E
quest'uomo intanto ancora «disonora, portandolo,  l'uniforme  francese»,  che  è
l'uniforme della gloria e dell'onore?(65). Bravi ed onorati militari destinati a
giudicarlo, avvertite: il giudizio, che voi pronuncerete sopra di lui,  sará  il
giudizio che cinque milioni di uomini pronunzieranno sopra di voi!

XLIX

PERSECUZIONE DE' REPUBBLICANI

Dopo la partenza di Mégeant, si spiegò tutto l'orrore del destino che minacciava
i repubblicani. Fu eretta una delle solite Giunte di Stato  nella  capitale;  ma
giá da due mesi un certo Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto
un macello di carne umana in Procida, ove condannò a  morte  un  sartore  perché
avea cuciti gli abiti repubblicani ai munícipi, ed anche un notaro, il quale  in
tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e  si  era
rimasto nella perfetta indifferenza. - Egli è un furbo - diceva  Speziale:  -  è
bene che  muoia.  -  Per  suo  ordine  morirono  Spanò,  Schipani,  Battistessa.
Quest'ultimo  non  era  morto  sulla  forca;  dopo  esservi  stato  sospeso  per
ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato  che
dava ancora qualche languido segno di vita. Si domandò a  Speziale  che  mai  si
dovea fare di lui: - Scannatelo - egli rispose. Ma la Giunta che si  era  eretta
in Napoli si trovò per accidente composta di  uomini  dabbene,  che  amavano  la
giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e  ragionevole
che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se prima della capitolazione
si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non rimaneva altro che  eseguire;
ragionevole, perché non è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare  della
parola di un re, e perché si deturpa cosí la causa di ogni altro  sovrano  e  si
toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni. Allora fu che Acton disse  che,  se
non avea luogo la capitolazione, poteva averlo  la  clemenza  del  re.  Ma  qual
clemenza, qual generositá sperare da chi non osservava  un  trattato?  La  prima
caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi superiori al giusto e  di
voler dare per capriccio ciò che debbono per legge: cosí sotto  l'apparenza  del
capriccio nascondono la viltá, e promettono piú di  quel  che  debbono  per  non
osservare quello che hanno promesso.  Rendasi  giustizia  a  Paolo  primo.  Egli
conobbe quando importasse che i popoli prestassero fede alle parole dei sovrani,
ed il di lui gabinetto fu sempre per la capitolazione. Il maggior  numero  degli
officiali della flotta inglese compresero quanta infamia si  sarebbe  rovesciata
sulla loro nazione, giacché il loro ammiraglio era il vero,  l'unico  autore  di
tanta violazione del diritto delle genti; e si misero in  aperta  sedizione.  La
Giunta intanto rammentava al governo le leggi della  giustizia;  ed  invitata  a
formare una classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno  di
tante ve ne erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano esser  posti
in libertá, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati  di  altro
che di un fatto avvenuto dopo l'arrivo dei francesi. La  rivoluzione  in  Napoli
non potea chiamarsi «ribellione», i repubblicani non eran ribelli, ed il re  non
potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era piú re di Napoli,
dopo che per un diritto tanto legittimo  quanto  quello  della  conquista,  cioè
quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi  occupato  il  di
lui regno. Che se i repubblicani  avean  professate  massime  le  quali  parevan
distruttrici della monarchia, ciò neanche  era  da  imputarsi  loro  a  delitto,
perché eran le massime del vincitore, a cui  era  dovere  ubbidire.  Essi  avean
professata  democrazia,  perché  democrazia  professavano  i  vincitori:  se   i
vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero  seguite
idee diverse. L'opinione dunque non dovea calcolarsi, perché non  solamente  non
era volontaria, ma era necessaria  e  giusta,  perché  era  giusto  ubbidire  al
vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un  popolo
dopo la legittima conquista ritenghi ancora le antiche affezioni  e  le  antiche
idee,   è   lo   stesso    che    voler    fomentare    l'insubordinazione,    e
coll'insubordinazione voler eternare la guerra civile, la mutua diffidenza tra i
governi ed i popoli, la distruzione  di  ogni  morale  pubblica  e  privata,  la
distruzione di tutta l'Europa. Al ministero di  Napoli  ciò  dispiaceva,  perché
nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore,  se  invece  di
perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe  piaciuto  che  i  nuovi  suoi
sudditi  avessero  conservato  troppo  tenacemente  e   fino   alla   caparbietá
l'affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito come
ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato  l'antico  sovrano?  La
vera morale dei principi deve tendere a render facile la  vittoria,  e  non  giá
femminilmente dispettosa la disfatta. I princípi della Giunta eran quelli  della
ragione, e non giá della corte. In questa i partiti eran divisi. Dicesi  che  la
regina non volesse la  capitolazione,  ma  che,  fatta  una  volta,  ne  volesse
l'osservanza: difatti era inutile  coprirsi  di  obbrobrio  per  perdere  due  o
trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione, voleva lo stesso, e divenne
perciò inviso ed alla regina, che non avrebbe voluta la capitolazione,  ed  agli
altri, ai quali non dispiaceva che si  fosse  fatta,  ma  non  volevano  che  si
osservasse. Le istruzioni, che furon date alla Giunta, da persone degne di  fede
si assicura che furono  scritte  da  Castelcicala.  In  esse  stabilivasi,  come
massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro i quali avean  seguíta  la
repubblica: bastava che taluno avesse portata la coccarda nazionale.  Per  avere
una causa di vendetta, ammetteva che il re  era  partito;  ma,  per  averne  una
ragione, asseriva che, ad onta della partenza, era rimasto  sempre  presente  in
Napoli. Il Regno si dichiarava un regno di  conquista,  quando  si  trattava  di
distruggere tutt'i privilegi della Cittá e del Regno, i quali si chiamano  quasi
in tutta l'Europa «privilegi», mentre dovrebbero esser diritti,  perché  fondati
sulle promesse dei re; ma, quando si trattava di dover punire i repubblicani, il
Regno non era mai stato perduto(66). Tale  fu  la  logica  di  Caligola,  quando
condannava a morte egualmente e chi piangeva  e  chi  gioiva  per  la  morte  di
Drusilla. Nelson,  unico  autore  dell'infrazione  del  trattato,  quell'istesso
Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in  Napoli,  ma  sempre
suo prigioniero; né  mai,  partendo  o  ritornando,  ebbe  mai  la  minima  cura
dell'onor di lui: giacché, partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom  che
disprezzasse ogni segno di  affezione  che  questo  gli  dava;  tornando,  quasi
insultasse ai mali che soffriva.  Egli  vide  dal  suo  legno  i  massacri  e  i
saccheggi della capitale. Poco di poi con suo rescritto avvisò i magistrati  che
egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio  palazzo,  e  sperava
che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente  i
danni che avean  sofferti!  Tutti  gl'infelici  che  il  popolo  arrestava  eran
condotti e presentati a lui, tutti  pesti,  intrisi  di  polvere  e  di  sangue,
spirando quasi l'ultimo respiro. Non s'intese mai da  lui  una  sola  parola  di
pietá. Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi  al
popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni d'infelici arrestati, che  morivano
sotto i suoi occhi per la strettezza  del  sito,  per  la  mancanza  di  cibi  e
dell'acqua, per gl'insetti, sotto la piú ardente canicola, nell'ardente clima di
Napoli. Egli avea degl'infelici ai  ferri  finanche  nel  suo  legno.  Con  tali
princípi, la corte dovea stancarsi, e si stancò ben presto,  delle  noiose  cure
che la Giunta si prendeva per la salute dell'umanitá. Gli uomini dabbene, che la
componevano, furono allontanati:  non  rimase  altro  che  Fiore,  il  quale  da
piccioli princípi era pervenuto alla carica di uditore provinciale in Catanzaro,
donde, fuggiasco pel taglione  in  tempo  della  repubblica,  era  ritornato  in
Napoli, come Mario in Roma, spirando stragi e vendette. Ritornò Guidobaldi, seco
menando, come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori, che erano fuggiti
con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre siciliani: Damiani,
Sambuti ed, il piú  scellerato  di  tutti,  Speziale.  La  prima  operazione  di
Guidobaldi fu quella di transigersi con  un  carnefice.  Al  numero  immenso  di
coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la  mercede  di
sei ducati per ciascuna operazione, che per  antico  stabilimento  il  carnefice
esigeva dal fisco; credette poter procurare un  gran  risparmio,  sostituendo  a
quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per dieci o dodici
mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato. La storia ci  offre  mille
esempi di regni perduti e poscia colle  armi  ricuperati:  in  nessuno  però  si
ritrovano eguali esempi di tale stolta  ferocia.  Silla  fece  morire  centomila
romani non per altro che per la sua volontá: Augusto depose la sua ferocia colle
armi. Un altro re di Napoli, Ferdinando primo di  Aragona,  capitolò  egualmente
coi suoi sudditi, e poscia sotto specie di amicizia li fece  tutti  assassinare.
Ma, mentre commetteva il piú orribile tradimento di  cui  ci  parli  la  storia,
mostrò almeno di rispettare l'apparenza della santitá dei  trattati.  Mostrarono
almeno gli alleati, che li  avean  garantiti,  di  reclamarne  l'esecuzione.  Il
nostro storico Camillo Porzio attribuisce a questa  scelleraggine  le  calamitá,
che poco dopo oppressero e  finalmente  distrussero  la  famiglia  aragonese  in
Napoli. La vera gloria di un vincitore è quella  di  esser  clemente:  il  voler
distruggere i suoi nemici per la sola ragione di esser piú  forte  è  facile,  e
nulla ha con sé che il piú vile degli uomini non  possa  imitare.  Una  vendetta
rapida e forte è simile ad un fulmine che sbalordisce;  ma  porta  seco  qualche
carattere di nobiltá. Il deliziarsi nel sangue, il  gustare  a  sorsi  tutto  il
calice della vendetta, il prolungarla al di  lá  del  pericolo  e  dell'ira  del
momento, che sola può renderla, se non lodevole, almeno scusabile, il vincer  la
ferocia del popolo e lo stesso terrore dei vinti, e far tutto  ciò  prostituendo
le formole piú sacre della giustizia; ecco ciò che non è né utile né  giusto  né
nobile. La storia ha dato un luogo  distinto  tra  i  tiranni  ai  geni  cupi  e
lentamente crudeli di Tiberio e di  Filippo  secondo,  ai  fatti  dei  quali  la
posteritá aggiungerá gli orrori commessi in Napoli.  Si  conobbe  finalmente  la
legge di maestá, che dovea esser di norma alla Giunta nei  suoi  giudizi;  legge
terribile, emanata dopo il fatto  e  da  cui  neanche  gl'innocenti  si  potevan
salvare. Eccone li principali articoli, quali si sono potuti  raccogliere  dalle
voci piú concordi tra loro e piú consone alle sentenze pronunziate dalla Giunta,
poiché è da sapersi che questa  legge,  colla  quale  si  sono  giudicati  quasi
trentamila individui, non è stata pubblicata giammai. «Sono  dichiarati  rei  di
lesa maestá in primo capo (e perciò degni  di  morte)  tutti  coloro  che  hanno
occupato i primari impieghi della sedicente repubblica». Per «primari  impieghi»
s'intendevano  le  cariche  della  rappresentanza  nazionale,   del   direttorio
esecutivo,  dei  generali,  dell'alta  commissione   militare,   del   tribunale
rivoluzionario(67). Egualmente erano rei «tutti coloro che  fossero  cospiratori
prima della venuta dei francesi». Sotto  questo  nome  andavano  compresi  tutti
coloro che aveano  occupato  Sant'Elmo  e  tutti  coloro  che  erano  andati  ad
incontrare i francesi in Capua ed in Caserta; ad onta che la cessione  di  Capua
fosse stata fatta da autoritá legittima; ad onta che tra i privilegi della cittá
di Napoli, riconosciuti dal re, vi fosse quello che, giunto il nemico  a  Capua,
la cittá  di  Napoli  potesse,  senza  taccia  di  ribellione,  prendere  quegli
espedienti che volesse, ed invitare  anche  il  nemico;  ad  onta  che,  essendo
legittima la cessione di Capua e di tutte le province del Regno  a  settentrione
della linea di demarcazione, un numero infinito di persone, che dimoravano nella
capitale, ma che intanto aveano la  cittadinanza  in  quelle  province,  fossero
divenuti legittimamente cittadini francesi; ad onta finalmente che, dopo la resa
di Capua, in Napoli fosse cessata ogni autoritá legittima: niun re, niun vicario
regio, niun generale, nessuna forza  pubblica;  tutto  era  nell'anarchia  ed  a
ciascuno nell'anarchia era permesso di salvar  come  meglio  poteva  la  propria
vita. Intanto, ad onta di tutto ciò, furon  dichiarati  rei  «tutti  coloro  che
nelle due anarchie avessero fatto fuoco sul popolo dalle finestre»;  cioè  tutti
coloro i quali non avessero sofferto che la piú scellerata feccia del popolo tra
la licenza dell'anarchia li assassinasse. «Tutti coloro che avevano continuato a
battersi in faccia alle armi del re, comandate dal cardinal Ruffo, o a vista del
re, che stava a bordo degl'inglesi». Questo articolo avrebbe portate alla  morte
per lo meno ventimila persone, tra le quali eranvi tutti coloro che si  trovavan
rifugiati a Sant'Elmo, i quali,  neanche  volendo,  poteano  piú  separarsi  dai
francesi. «Tutti coloro  che  avessero  assistito  all'innalzamento  dell'albero
nella piazza dello Spirito santo (perché in quell'occasione si atterrò la statua
di Carlo terzo) o alla festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed
inglesi, prese  agl'insorgenti».  «Tutti  coloro  che  durante  il  tempo  della
repubblica aveano, o predicando o  scrivendo,  offeso  il  re  o  l'augusta  sua
famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di  morte  chiunque  non  avea
fatto altro che parlare. La legge diceva: «Se è stato mosso da  leggerezza,  nol
curiamo; se da follia, lo compiangiamo; se da ragione, gli siam grati; e, se  da
malizia, lo perdoniamo, a  meno  che  dalle  parole  non  ne  possa  nascere  un
attentato piú grave». Una legge posteriore  a  questa  condannò  a  morte  tutti
coloro i quali avean parlato o scritto in un'epoca, nella  quale  forse  nessuno
poteva render ragione di ciò che avea fatto. Si vide allora che non bastava  non
aver offese le leggi per esser sicuro. «Finalmente tutti coloro i quali in  modo
deciso  avessero  dimostrata  la  loro  empietá  verso   la   sedicente   caduta
repubblica». Quest'ultimo comprendeva tutti.  Per  questo  articolo  infatti  fu
condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa  non  avea  altro  delitto  che
quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher, quando era sul  punto
di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione né nel governo. Questa
operazione le fu ispirata dalla piú pura virtú. Non poté  reggere  all'idea  del
massacro, dell'incendio e della ruina totale di Napoli, che i  congiurati  avean
progettata. Questa generosa umanitá, indipendente da ogni opinione di governo  e
da ogni spirito di partito, le costò la vita; e fu spinta la ferocia al segno di
farla entrare tre volte in «cappella», ad onta della consuetudine del Regno,  la
quale ragionevolmente volea che chi avesse una volta sofferta la «cappella» aver
dovesse la grazia della vita. Non ha sofferta infatti la pena della morte  colui
che per ventiquattr'ore l'ha veduta inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi
ogni legge di pietá, ogni consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice,  dopo
un anno, fu decollata senza  delitto!  «Coloro  che  erano  ascritti  alla  sala
patriotica, benché colle loro mani istesse avessero segnata la loro sentenza  di
morte (non si comprende perché: un'adunanza  patriotica  è  un  delitto  in  una
monarchia, perché è rivoluzionaria;  in  un  governo  democratico,  è  un'azione
indifferente), pure  Sua  Maestá,  per  la  sua  innata  clemenza,  li  condanna
all'esilio in vita colla perdita de' beni, se abbiano  prestato  il  giuramento;
quelli che non l'hanno prestato, sono condannati a  quindici  anni  di  esilio».
«Finalmente coloro, i quali avessero avute cariche  subalterne  e  non  avessero
altri delitti, saranno riserbati all'indulto che Sua Maestá  concederá».  Questo
indulto fu immaginato per due oggetti: il primo era quello di  far  languire  un
anno nelle carceri coloro che non aveano alcun delitto. - Mio figlio è innocente
- diceva una sventurata madre a Speziale. - Ebbene - rispondeva costui, -  se  è
innocente, avrá l'onore di uscir l'ultimo. - Il secondo oggetto  era  quello  di
condannare almeno nell'opinione pubblica, con un perdono, anche coloro  che  per
la loro innocenza doveano essere assoluti. Non avea  forse  ragione  la  regina,
quando, se è vero ciò che  si  dice,  si  opponeva  a  questa  prostituzione  di
giudizi? Io vorrei che si esaminassero li giudizi della Giunta e di  coloro  che
dirigevan la Giunta, non colle massime della ragione e della giustizia naturale,
non colle massime della stessa giustizia civile, poiché neanche  con  queste  si
troverebbe ragion di condannar come ribelli coloro i quali non avean fatto altro
che ubbidire ad una forza legittima e superiore, alla quale era stato  costretto
a cedere lo stesso re; ma colle massime dell'interesse del re. Io non  dirò  che
la giustizia è il primo interesse di un re: ammetto anzi che l'interesse del  re
è la norma della giustizia. Ed anche allora, chi  potrebbe  assolver  molti  (io
dico «molti», e sono ben lontano dal dir «tutti»: sono ben lontano  dal  credere
tutt'i membri della Giunta simili a Speziale, e forse taluno non ha altra  colpa
che quella di non esser stato abbastanza forte contro i  tempi);  chi  potrebbe,
dico, assolver molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma anche  tradito
il re? Quando Silla fece scannare seimila sanniti, disse  al  senato,  allarmato
da' gemiti e dalle grida di quest'infelici: -  Ponete  mente  agli  affari:  son
pochi sediziosetti che si correggono per ordine mio. - Silla era  piú  grande  e
forse anche men crudele. Se coloro che consigliavano il re gli avessero  parlato
il linguaggio della saviezza e gli avessero fatto scrivere un editto, in cui  si
fosse ai popoli parlato cosí: «Coloro i  quali  han  seguíto  il  partito  della
repubblica, ora che questo partito è caduto, han pensato di aver bisogno di  una
capitolazione per la loro salvezza. Se essi avessero conosciuto  il  mio  cuore,
avrebbero compreso che questa capitolazione era superflua. Questo errore è stato
la causa di tutt'i  loro  traviamenti.  Obblio  tutto.  Possano  cessare  tutt'i
partiti e riunirsi a me per il vero bene della patria! Possa  questa  generositá
far loro comprendere il mio cuore e rendermi degno del loro  amore!  Possano  le
tante vicende e le tante sventure sofferte renderli piú saggi! Se,  ad  onta  di
tutto ciò, vi è taluno a cui  il  nuovo  ordine  di  cose  non  piaccia,  siagli
permesso partire. Ma, o che parta o che resti, i suoi beni, la sua  persona,  la
sua famiglia saranno intatte, ed in me  non  troverá  che  un  padre»;  in  quel
momento,... momento forsi di disinganno... un proclama di questa natura  avrebbe
riuniti tutti gli animi. La nazione non sarebbe stata distrutta  da  una  guerra
civile;... l'amor del popolo avrebbe prodotta la sicurezza del re e la forza del
Regno... Se oggi il regno di Napoli si trova diviso,  desolato,  pieno  di  odii
intestini, quasi sul punto di  sciogliersi,  perché  il  re  non  dice  ai  suoi
ministri e suoi consiglieri: - Voi siete stati tanti traditori! voi colpate alla
mia rovina! -?  L'esecuzione  di  questa  legge  spaventò  finanche  gli  stessi
carnefici della Giunta. Essa avrebbe fatto certamente rivoltare  il  popolo.  La
stessa crudeltá rese indispensabile la moderazione. Vennero da Palermo  le  note
de' proscritti; ma rimase la legge, affinché si potesse loro apporre un delitto.
Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla  morte  dovea
morire, ancorché il preteso reo fosse minore. Tutti li mezzi si adoperavano  per
ritrovare il delitto; nessuno se ne ammetteva per difendere l'innocenza. Il nome
del re dispensò a tutte le formole del processo, quasi che si potesse dispensare
alla formola senza dispensare alla  giustizia.  Ventiquattro  ore  di  tempo  si
accordavano alla difesa: i testimoni non si ammettevano,  si  allontanavano,  si
minacciavano, si sbigottivano, talora anche si  arrestavano;  il  tempo  intanto
scorreva, e l'infelice rimaneva senza difesa. Non confronto tra i testimoni, non
ripulse di sospetti, non ricognizione di scritture si ammettevano; non debolezza
di sesso, non imbecillitá di anni potevan salvare dalla  morte.  Si  son  veduti
condannati a morte giovinetti di sedici anni; giudicati, esiliati  fanciulli  di
dodici. Non solo tutt'i mezzi della difesa erano tolti, ma erano  spenti  tutt'i
sensi di umanitá. Se la Giunta, per invincibile evidenza  d'innocenza,  è  stata
talora quasi costretta ad assolvere suo malgrado un infelice,  si  è  veduto  da
Palermo rimproverarsi di un tal atto di giustizia, e  condannarsi  per  arbitrio
chi era stato o assoluto o condannato a  pena  molto  minore.  Dal  processo  di
Muscari nulla si rilevava che potesse farlo  condannare;  ma  troppo  zelo  avea
mostrato Muscari per la repubblica, e si voleva morto. La Giunta,  dicesi,  ebbe
ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere  la  causa  finché
non si fosse ritrovata una  causa  di  morte.  A  capo  di  due  mesi  è  facile
indovinare che questa causa si trovò.  Pirelli,  uno  dei  migliori  uomini  che
avesse la patria, uno dei migliori magistrati che  avesse  lo  Stato,  anche  in
tempo del re, fu dalla Giunta assoluto: i trenta di Atene quasi  arrossirono  di
condannare Focione. Pirelli era però segnato tra le vittime,  e  da  Palermo  fu
condannato ad un  esilio  perpetuo.  Michelangiolo  Novi  era  stato  condannato
all'esilio; la sentenza era stata giá eseguita, si era giá imbarcato,  il  legno
era per far vela: giunge un ordine  da  Palermo,  e  fu  condannato  al  carcere
perpetuo nella Favignana. Gregorio Mancini era stato giá  giudicato,  era  stato
giá condannato a quindici anni di esilio; di giá prendeva commiato dalla  moglie
e dai figli: un ordine di Speziale lo chiama,  e  lo  conduce...  dove?...  alla
morte. Altre volte si era detto che le leggi condannavano ed i  re  facevano  le
grazie: in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in  nome  del
re. Intanto Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone che  si
volevan perdute, nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né  d'inganni
per servire alla vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola
Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale  si
ricorda della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il  povero  Fiani
languiva tra' ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto,  non  giá  nel
luogo delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo  gli  scorrono
le lagrime; lo abbraccia: - Povero amico! a quale stato ti veggo io ridotto!  Io
sono stanco di piú fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora  al
tuo giudice; sei coll'amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu  mi  dica  ciò
che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te.  In  Giunta  fosti  saggio  a
negare; ma ciò che dirai a me non lo saprá la Giunta... - Fiani presta fede alle
parole  dell'amicizia;  Fiani  confessa...  -  Bisogna  scriverlo;  servirá  per
memoria... - Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo due giorni  va  alla
morte. Speziale interrogò Conforti. Dopo avergli domandato  il  suo  nome  e  la
carica che nella repubblica avea ottenuto, lo  fa  sedere.  Gli  fa  sperare  la
clemenza del re; gli dice che egli non avea altro delitto che la carica, ma  che
una carica eminente era segno di «patriotismo», e perciò delitto in  coloro  che
erano stati, senza merito e senza nome,  elevati  per  solo  favore  di  fazione
rivoluzionaria. Conforti era tale, che ogni governo  sarebbe  stato  onorato  da
lui. Indi gli parla delle pretensioni che la corte avea sullo Stato romano. - Tu
conosci - gli dice - profondamente tali interessi. - La corte ha  molte  memorie
mie - risponde Conforti. - Sí, ma la rivoluzione ha  fatto  perdere  tutto.  Non
saresti in grado di occupartici di nuovo?  -  E,  cosí  dicendo,  gli  fa  quasi
sperare in premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale riceve il lavoro  del
rispettabile  vecchio;  e,  quando  ne  ebbe  ottenuto  l'intento,  lo  mandò  a
morire(68). Qual mostro era mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce  ha
conosciuto altro piacere che quello di insultar gl'infelici. Si dilettava passar
quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare,  opprimere  colla  sua  presenza
coloro che non poteva uccidere ancora. Se avea il rapporto di  qualche  infelice
morto di disagio o  d'infezione,  inevitabile  in  carceri  orribili,  dove  gli
arrestati erano quasiché accatastati, questo rapporto era per lui l'annunzio  di
«un incomodo di meno». Un soldato insorgente uccise un povero vecchio,  che  per
poco si era avvicinato ad una finestra della sua  carcere  a  respirare  un'aria
meno infetta: gli altri della Giunta volean chieder conto di questo fatto: - Che
fate voi? - disse Speziale; - costui non ha fatto altro che toglierci l'incomodo
di fare una sentenza. - La moglie di Baffa gli raccomanda  il  suo  marito...  -
Vostro marito non morrá - gli diceva Speziale; - siate di buon animo:  egli  non
avrá che l'esilio. - Ma quando? -  Al  piú  presto.  -  Intanto  scorsero  molti
giorni: non si avea nuova della causa di Baffa. La moglie ritorna  da  Speziale,
il quale si scusa che non ancora avea, per altre occupazioni,  potuto  disbrigar
la causa del marito; e la congeda confermandole le  stesse  speranze  che  altra
volta le avea date. - Ma perché insultare questa povera infelice?  -  gli  disse
allora uno che era presente al discorso... Baffa  era  stato  giá  condannato  a
morte;  ma  la  sentenza  s'ignorava  dalla  moglie.  Chi  può   descrivere   la
disperazione, i lamenti, le grida,  i  rimproveri  di  quella  moglie  infelice?
Speziale con un freddo sorriso le dice: - Che affettuosa moglie! Ignora finanche
il destino di suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella,
sei giovine, vai cercando un altro marito. Addio. - Sotto  la  direzione  di  un
tale uomo, ciascuno può comprendere quale sia stata la  maniera  con  cui  sieno
stati tenuti i carcerati. Quante  volte  quegli  infelici  hanno  desiderata  ed
invocata la morte!... Ma la mia  mente  è  stanca  di  piú  occuparsi  de'  mali
dell'umanitá... Il mio cuore giá freme!

L

TALUNI PATRIOTI

Dopo la caduta della  repubblica,  Napoli  non  presentò  che  l'immagine  dello
squallore. Tutto  ciò  che  vi  era  di  buono,  di  grande,  d'industrioso,  fu
distrutto; ed appena pochi avanzi de' suoi uomini illustri si  possono  contare,
scampati quasi per miracolo dal  naufragio,  erranti,  senza  famiglia  e  senza
patria, sull'immensa superficie della terra. Si può valutare a  piú  di  ottanta
milioni di ducati la perdita  che  la  nazione  ha  fatto  in  industrie;  quasi
altrettanto ha perduto in mobili, in argenti, in beni confiscati: il prodotto di
quattro secoli è stato distrutto in un momento. Si son  veduti  de'  monopolisti
inglesi mercanteggiare i nostri capi d'opera di pittura, che il saccheggio  avea
fatti passare dagli antichi proprietari nelle mani del popolaccio, il quale  non
ne conosceva né il merito né il prezzo.  La  rovina  della  parte  attiva  della
nazione ha strascinata seco la rovina della  nazione  intera:  tutto  il  popolo
restò senza  sussistenza,  perché  estinti  furono  o  dispersi  coloro  che  ne
mantenevano o che ne animavano l'industria;  e  gli  stessi  controrivoluzionari
piangono ora la perdita  di  coloro  che  essi  stessi  hanno  spinti  a  morte.
Aggiungete a questi danni la perdita di tutt'i princípi, la corruzione  di  ogni
costume, funeste ed inevitabili conseguenze delle vicende  di  una  rivoluzione;
una corte che da oggi in avanti  riguarda  la  nazione  come  estranea  e  crede
ritrovar nella di lei miseria e nella di  lei  ignoranza  la  sicurezza  sua;  e
l'uomo che pensa vedrá con dolore  una  gran  nazione  respinta  nel  suo  corso
politico allo stato infelice in cui era due secoli fa. Salviamo da tanta  rovina
taluni esempi di virtú: la memoria di coloro che abbiamo perduti è l'unico  bene
che ci resta, è l'unico bene che possiamo  trasmettere  alla  posteritá.  Vivono
ancora le grandi anime di coloro che Speziale ha tentato invano di  distruggere;
e vedranno con gioia i loro nomi, trasmessi da noi a quella posteritá  che  essi
tanto amavano, servir di sprone all'emulazione di quella virtú che  era  l'unico
oggetto de' loro voti. Noi abbiamo sofferti  gravissimi  mali;  ma  abbiam  dati
anche grandissimi esempi di virtú. La giusta posteritá obblierá gli errori  che,
come uomini, han potuto commettere coloro a cui la repubblica era affidata:  tra
essi però ricercherá invano  un  vile,  un  traditore.  Ecco  ciò  che  si  deve
aspettare dall'uomo, ed ecco ciò che forma la loro gloria. In faccia alla  morte
nessuno ha dato un segno di viltá. Tutti l'han guardata con quell'istessa fronte
con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino.  Manthoné,  interrogato
da Speziale di ciò che avesse fatto nella repubblica, non rispose altro  che:  -
Ho capitolato. - Ad ogni interrogazione non dava altra risposta.  Gli  fu  detto
che preparasse la sua difesa: - Se non basta  la  capitolazione,  arrossirei  di
ogni altra. - Cirillo, interrogato qual fosse la sua professione  in  tempo  del
re, rispose: - Medico. - Nella repubblica? - Rappresentante del popolo. - Ma  in
faccia a me che sei? - riprese Speziale, che pensava cosí  avvilirlo(69).  -  In
faccia a te? Un eroe. - Quando fu annunziata a Vitagliani la sua sentenza,  egli
suonava la chitarra; continuò a suonarla ed a  cantare  finché  venne  l'ora  di
avviarsi al  suo  destino.  Uscendo  dalle  carceri,  disse  al  custode:  -  Ti
raccomando i miei compagni: essi sono uomini, e tu potresti  esser  infelice  un
giorno al pari di loro. - Carlomagno, montato giá sulla scala del  patibolo,  si
rivolse al popolo e gli disse: - Popolo stupido! tu godi adesso della mia morte.
Verrá un giorno, e tu mi piangerai: il mio sangue giá  si  rovescia  sul  vostro
capo e, se voi avrete la fortuna di non esser vivi, sul capo de' vostri figli. -
Granalè dall'istesso luogo guardò la folla spettatrice:  -  Vi  ci  riconosco  -
disse - molti miei amici:  vendicatemi!  -  Nicola  Palomba  era  giá  sotto  al
patibolo: il commesso del fisco gli dice che ancora era a tempo di rivelare  de'
complici. - Vile schiavo! - risponde Palomba - io non ho saputo comprar  mai  la
vita coll'infamia. - - Io ti manderò a morte -  diceva  Speziale  a  Velasco.  -
Tu?... Io morirò, ma tu non mi ci manderai. - Cosí dicendo,  misura  coll'occhio
l'altezza di una finestra che era nella stanza del giudice, vi si slancia  sotto
i suoi occhi, e lascia lo scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio  ed
indispettito per aver perduto la vittima sua. Ma, se vi vuole del  coraggio  per
darsi la morte, non se ne richiede uno minore per non darsela, quando si è certo
di averla da  altri.  A  Baffa(70),  giá  certo  del  suo  destino,  fu  offerto
dell'oppio. Egli lo ricusò; e, morendo, dimostrò che  non  l'avea  ricusato  per
viltá. Era egli, al pari di Socrate, persuaso che l'uomo  sia  posto  in  questo
mondo come un soldato in fazione e che sia delitto  l'abbandonar  la  vita,  non
altrimenti che lo sarebbe l'abbandonare il posto. Questo  sangue  freddo,  tanto
superiore allo stesso coraggio, giunse all'estremo nella  persona  di  Grimaldi.
Era giá condannato a morte; era stato trattenuto dopo la condanna piú di un mese
tra' ferri; finalmente l'ora fatale arriva: di notte, una compagnia di russi  ed
un'altra  di  soldati  napolitani  lo  trasportano  dalla  custodia   al   luogo
dell'esecuzione. Egli ha il coraggio di svincolarsi dalle guardie; si difende da
tutti i soldati, si libera, si salva. La truppa lo insiegue invano per quasi  un
miglio; né lo avrebbe al certo raggiunto, se,  invece  di  fuggire,  non  avesse
creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui trovò la porta aperta.
La notte era oscura e tempestosa; un lampo lo tradí e lo scoperse ad un soldato,
che l'inseguiva da lontano. Fu raggiunto. Disarmò due soldati, si difese, né  lo
potettero prendere se non quando, per tante ferite,  era  giá  caduto  semivivo.
Quante perdite dovrá piangere, e per lungo tempo, la nostra nazione!  Io  vorrei
poter rendere ai nomi di tutti quell'onore che meritano,  e  spargere  sul  loro
cenere quei fiori che forse chi sa se essi  avranno  giammai!  Ma  chi  potrebbe
rammentarli tutti? Io non posso render a tutti quella  giustizia  che  meritano,
tra perché non ho potuto sapere tutto ciò ch'è avvenuto ne' diversi  luoghi  del
Regno, tra perché nella mia emigrazione non ho avuta  altra  guida  che  la  mia
memoria, la  quale  non  ha  potuto  tutto  ritenere.  Mi  sia  perciò  permesso
trattenermi un momento sopra taluni piú noti. Caracciolo Francesco.  Era,  senza
contraddizione, uno de' primi geni che avesse l'Europa. La nazione  lo  stimava,
il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da  Acton,  odiato  dalla
regina, e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di  mortificazione
a cui Acton  non  lo  avesse  assoggettato;  si  vide  ogni  giorno  posposto...
Caracciolo era uno di quei pochi che al piú  gran  genio  riuniva  la  piú  pura
virtú. Chi piú di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei? Diceva che
la nazione napolitana era fatta dalla natura per avere una gran  marina,  e  che
questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo;  avea  in  grandissima
stima i nostri marinari. Egli morí vittima dell'antica gelosia di Thurn e  della
viltá di Nelson... Quando gli fu  annunziata  la  morte,  egli  passeggiava  sul
cassero, ragionando della costruzione di un legno inglese che era dirimpetto,  e
proseguí tranquillamente il suo ragionamento. Intanto  un  marinaro  avea  avuto
l'ordine di preparargli il capestro: la pietá glielo impediva...  Egli  piangeva
sulla sorte di quel generale, sotto i di cui ordini aveva tante volte  militato.
- Sbrigati - gli disse Caracciolo: - è ben grazioso che, mentre io debbo morire,
tu debbi piangere. - Si vide Caracciolo sospeso come un infame all'antenna della
fregata «Minerva»; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era  ad  Ischia,  e
venne  nel  giorno  susseguente,  stabilendo  la   sua   dimora   nel   vascello
dell'ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di Caracciolo apparve  sotto
il vascello, sotto gli occhi del re...  Fu  raccolto  dai  marinari,  che  tanto
l'amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa di Santa Lucia,  che
era prossima alla sua abitazione; offici tanto piú pomposi quantoché senza fasto
veruno e quasi a dispetto di chi allora poteva tutto, furono accompagnati  dalle
lagrime sincere di tutt'i poveri abitanti di quel quartiere, che lo riguardavano
come il loro amico ed il loro padre. Simile  a  Caracciolo  era  Ettore  Carafa.
Quest'eroe, unitamente al suo bravo aiutante  Ginevra,  sostenne  Pescara  anche
dopo le capitolazioni  di  Capua,  Gaeta  e  Sant'Elmo.  Caduto  nelle  mani  di
Speziale, mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte con intrepidezza
e disinvoltura. Cirillo Domenico. Era uno de' primi tra i medici  di  una  cittá
ove la medicina era benissimo intesa e coltivata;  ma  la  medicina  formava  la
minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni formavano la  minor  parte
del suo merito. Chi può lodare abbastanza la sua morale? Dotato di molti beni di
fortuna, con un nome superiore all'invidia, amico  della  tranquillitá  e  della
pace, senza veruna ambizione, Cirillo è uno di quei pochi, pochi  sempre,  pochi
in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione non amano che il  bene  pubblico.
Non è questo il piú sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di  un
uomo? Io era seco lui nelle carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, a' quali  avea
piú volte prestato i soccorsi della sua scienza, volevano salvarlo. Egli  ricusò
una grazia che gli sarebbe costata una viltá. Conforti Francesco. Si è giá detto
il tratto di perfidia che gli usò Speziale. A questo si aggiunga che Conforti in
tutto il corso della sua vita avea reso de' servigi importanti alla corte;  avea
difesi i diritti della sovranitá contro le pretensioni di Roma; avea  fissati  i
nuovi princípi per i beni ecclesiastici, princípi che riportavano  la  ricchezza
nello Stato e la felicitá nella nazione; molte utili riforme erano nate per  suo
consiglio; la corte per sua opera avea rivendicati piú di cinquanta  milioni  di
ducati in fondi... Conforti era il Giannone, era il Sarpi della nostra  etá;  ma
avea fatto piú di essi, istruendo dalla cattedra e formando, per cosí dire,  una
gioventú nuova. Pochi sono i napolitani che sanno leggere, che  non  lo  abbiano
avuto a maestro. E quest'uomo, senza verun delitto,  si  mandò  a  morire!  Egli
riuniva eminentemente tutto ciò che formava l'uomo di lettere e l'uomo di Stato.
Pagano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale  è
tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che  si  abbia
su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi
non rinvenite che  l'orme  di  Pagano,  che  vi  possano  servir  di  guida  per
raggiugnere i voli di Vico. Pimentel Eleonora Fonseca. «Audet  viris  concurrere
virgo». Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo
amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata  l'approvazione
di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava  una  piccola  parte  delle
tante cognizioni  che  l'adornavano.  Nell'epoca  della  repubblica  scrisse  il
Monitore napolitano, da cui spira il piú puro ed il piú ardente amor di  patria.
Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la  morte  con  un'indifferenza
eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè,  e
le sue parole furono: - «Forsan haec olim meminisse iuvabit». - Russo Vincenzio.
È impossibile spinger piú avanti di quello che  egli  lo  spinse  l'amore  della
patria e della virtú. La sua opera de' Pensieri politici è una delle  piú  forti
che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa
anche migliore, rendendola piú moderata. La sua eloquenza popolare era  sublime,
straordinaria... Egli tuonava, fulminava:  nulla  poteva  resistere  alla  forza
delle sue parole... Sarebbe stato utile che si fossero  raccolte  delle  memorie
sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un  eroe.  Giunto  al  luogo  del
supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e con un calore di  sentimento,
il quale ben mostrava che la morte potea  distruggerlo,  non  mai  però  il  suo
aspetto poteva avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso raccontarmi  il  suo
discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella  forte  impressione  che
gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con quella specie di dispetto con
cui gli spiriti vili risentono le irresistibili impressioni degli spiriti troppo
sublimi... Oh! se la tua ombra si aggira ancora intorno a coloro che  ti  furono
cari, rimira me, fin dalla piú tenera nostra adolescenza tuo amico, che  piango,
non te (a te che servirebbe il pianto?), ma la patria per cui inutilmente tu sei
morto. Federici Francesco. Era maresciallo in tempo del re; fu generale in tempo
della repubblica. Il ministro di guerra lo rese inutile, mentre  avrebbe  potuto
esser utilissimo. La stessa ragione lo avea reso inutile in tempo del  re.  Egli
sapeva profondamente l'arte della guerra; ma insieme coll'arte della guerra egli
sapeva mille altre cose, che per lo piú ignorano coloro che sanno  l'arte  della
guerra. Il suo coraggio nel punto della morte fu sorprendente. Scotti  Marcello.
È difficile immaginare un cuore piú evangelico. Egli era l'autore del Catechismo
nautico, opera destinata all'istruzione de' marinai dell'isola di  Procida,  sua
patria, che meriterebbe  di  esser  universale.  Nella  disputa  sulla  «chinea»
scrisse, sebben senza suo nome, l'opera della Monarchia papale, di  cui  non  si
era veduta l'eguale dopo Sarpi e Giannone. Nella repubblica  fu  rappresentante.
Morí vittima dell'invidia di taluni suoi compatrioti. Parlando di Scotti, la mia
memoria mi rammenta il virtuoso vescovo di Vico, il rispettabile prelato Troise,
e chi no? Figli della patria! La vostra memoria è  cara,  perché  è  la  memoria
della virtú. Verrá, spero, quel giorno in cui, nel luogo istesso nobilitato  dal
vostro martirio, la posteritá, piú giusta, vi potrá dare  quelle  lodi  che  ora
sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e, piú felice, vi potrá elevare
un monumento piú durevole della debole mia voce(71).

LI

CONCLUSIONE

Il re, strascinato da' falsi consigli, produsse la rovina della nazione. I  suoi
ministri o non amavano o non curavano la nazione: dovea perciò  perdersi,  e  si
perdette. I repubblicani, colle piú pure intenzioni, col piú  caldo  amor  della
patria, non mancando di coraggio, perdettero loro  stessi  e  la  repubblica,  e
caddero colla patria, vittime di  quell'ordine  di  cose,  a  cui  tentarono  di
resistere, ma a cui nulla  piú  si  poteva  fare  che  cedere.  Una  rivoluzione
ritardata o respinta è un male gravissimo, da cui l'umanitá non si libera se non
quando le sue idee tornano di nuovo al livello coi  governi  suoi;  e  quindi  i
governi diventano piú umani, perché piú sicuri; l'umanitá piú libera, perché piú
tranquilla; piú industriosa e piú felice, perché non deve consumar le sue  forze
a lottare contro il governo. Ma  talora  passano  de'  secoli  e  si  soffre  la
barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il genere umano non passa  ad  un
nuovo ordine di beni se non a traverso degli estremi de'  mali.  Quale  sará  il
destino di Napoli, dell'Italia, dell'Europa? Io non lo so:  una  notte  profonda
circonda e ricopre tutto di un'ombra impenetrabile. Sembra che  il  destino  non
sia ancora propizio per la libertá italiana;  ma  sembra  dall'altra  parte  che
egli, col nuovo miglior ordine di cose, non ne tolga ancora le  speranze,  e  fa
che gli stessi re travaglino a preparar quell'opera che  con  infelice  successo
hanno tentata i repubblicani. Forse  la  corte  di  Napoli,  spingendo  le  cose
all'estremo, per desiderio smoderato di  conservare  il  Regno,  lo  perderá  di
nuovo; e noi, come della prima è avvenuto, dovremo alla corte anche  la  seconda
rivoluzione, la quale sará piú felice,  perché  desiderata  e  conseguíta  dalla
nazione intera per suo bisogno e non  per  solo  altrui  dono.  Queste  cose  io
scriveva sul cader del 1799, e gli avvenimenti posteriori le  hanno  confermate.
La corte di Napoli ha prodotto un nuovo cangiamento politico; e questo,  diretto
da altre massime, può produrre nel Regno quella felicitá che si sperò invano dal
primo. Dal 1800 fino al 1806 abbiamo veduto la corte  di  Napoli  seguir  sempre
quelle stesse  massime  dalle  quali  tanti  mali  eran  nati;  la  Francia,  al
contrario, cangiar quegli ordini, da' quali, siccome da ordini  irregolarissimi,
nessun bene e nessuna durevolezza di bene poteva sperarsi; e  si  può  dire  che
alla nuova felicitá, che il gran Napoleone ora ci ha  data,  abbiano  egualmente
contribuito e l'ostinazione della corte di Napoli  ed  il  cangiamento  avvenuto
nella Francia. Per effetto della prima  gli  stessi  errori  han  confermata  ed
accresciuta  la  debolezza  del  Regno:  nell'interno  lo  stesso   languor   di
amministrazione, la stessa negligenza nella milizia, la stessa inconseguenza ne'
piani, diffidenza tra il governo e la nazione, animositá, spirito di partito piú
che ragione; nell'esterno la stessa debolezza, la stessa audacia nelle  speranze
e timiditá nelle imprese, la stessa malafede: non  si  è  saputo  né  evitar  la
guerra né condurla; si è suscitata, e si è rimasto  perdente.  Per  effetto  del
secondo, nella Francia gli ordini pubblici sono divenuti piú regolari: i diversi
poteri piú concordi tra loro: il massimo  tra  essi  piú  stabile,  piú  sicuro;
perciò meno intento a vincer gli altri che  a  dirigerli  tutti  al  bene  della
patria: le idee si sono messe al livello con quelle di tutte  le  altre  nazioni
dell'Europa; perciò minore esagerazione nelle  promesse,  animositá  minore  ne'
partiti, facilitá maggiore dopo la vittoria di stabilire presso gli altri popoli
un nuovo ordine di cose: il potere piú concentrato; onde meno  disordine  e  piú
concerto nelle operazioni de' comandanti militari, abuso  minore  nell'esercizio
de' poteri inferiori, maggiore prudenza, perché  comune  a  tutti  e  dipendente
dalla  stessa  natura  comune  degli  ordini  e  non  dalla  natura  particolare
degl'individui:  al  sistema   di   democratizzazione   sostituito   quello   di
federazione, il quale assicura la pace, che è sempre per i  popoli  il  maggiore
de' beni; e che finalmente ha procurati all'Italia tutti que' vantaggi  che  non
poteva avere col sistema precedente, secondo il  quale  si  voleva  amica  e  si
temeva rivale; onde, non formando mai in essa uno Stato forte  ed  indipendente,
andava a distruggersi interamente: e finalmente, oltre  tutti  questi  beni,  il
dono grandissimo di un re che tutta l'Europa venerava per la sua mente e pel suo
cuore. Me felice, se la lettura di questo libro potrá  convincere  un  solo  de'
miei lettori che lo spirito di partito nel cittadino è un delitto,  nel  governo
una stoltezza; che la sorte degli Stati  dipende  da  leggi  certe,  immutabili,
eterne, e che queste leggi  impongono  ai  cittadini  l'amor  della  patria,  ai
governi la giustizia e l'attivitá nell'amministrazione interna,  il  valore,  la
prudenza, la fede nell'esterna; che alla felicitá de' popoli sono piú  necessari
gli ordini che gli uomini; e che noi, dopo replicate vicende,  siamo  giunti  ad
avere al tempo istesso ordini buoni ed un  ottimo  re;  e  che  la  memoria  del
passato deve esser per ogni uomo, che non odia la patria e  se  stesso,  il  piú
forte stimolo per amare il presente.


NOTE dell'AUTORE

(1) Questo libro fu scritto nell'anno 1800, e quindi si comprende facilmente  di
quale ruina si vuol parlare. (2) Tutto ciò era stato  previsto  da  Burke.  Egli
solo tra gl'inglesi avea predetto che la  guerra  dovea  per  necessitá  riuscir
funesta,  che  l'interesse  dell'Inghilterra  era  quello  di  far  cessare   la
rivoluzione colla mediazione, ecc. ecc. ecc. (3) Il lungo favore, che costui  ha
goduto, potrebbe forse far credere a  taluno  ch'egli  avesse  qualche  talento,
almeno di corte... Non ne ha nessuno...  non  ha  altro  che  la  scelleraggine.
Sarebbe mille volte caduto, se avesse avuto a fronte un altro scellerato. (4) Un
esempio. Il re una volta nominò Michele Arditi  segretario  del  magistrato  del
commercio; lo nominò di moto proprio e senza la precedente proposta di  Acton...
(5) ...Omnia graecae, cum sit nobis  turpe  magis  nescire  latine.  È  un  gran
carattere di ogni nazione corrotta, dal tempo di Giovenale fin oggi.  (6)  Nella
stessa Francia la rivoluzione è stata preceduta da cinquant'anni di  anglomania.
Coloro che hanno pratica  della  letteratura  francese  lo  potranno  facilmente
avvertire. Da cinquant'anni in qua i  frances'istessi  troppo  disprezzavano  le
cose loro. (7) Giuliano a quel miserabile pazzo, il  quale  quasi  pubblicamente
ambiva l'impero, inviò in dono una veste di porpora: Tiberio  lo  avrebbe  fatto
impiccare. (8) Invece di tanti luoghi comuni  satirici,  che  ne'  primi  giorni
della repubblica si son pubblicati contro il governo del re, non vi è  stato  un
solo che abbia pensato a pubblicare un estratto fedele de' processi della Giunta
di Stato! Tanto è piú facile declamare che raccontar fatti! Ma  le  declamazioni
passano, ed i fatti arrivano alla posteritá. (9) Molti hanno predetto da  queste
osservazioni la rivoluzione francese. Tra questi si conta  anche  Rousseau.  Piú
particolarizzata è la predizione di Mercier, nel suo Anno 2240,  opera  che  una
volta fu attribuita a Rousseau, e di cui Rousseau arrossiva quasi  di  cosa  non
degna di lui. Sembra che Mercier fosse stato a parte del segreto rivoluzionario,
come lo era l'autore della Rimostranza da leggersi nel Consiglio privato  di  S.
M., il quale volle della prossima rivoluzione avvertirne il re, come Mercier  ne
avea avvertito l'Europa. Tra quelli che hanno antiveduta la rivoluzione francese
prima degli altri e per  le  cause  interne  che  nascevano  dallo  stato  della
Francia, è il nostro Genovesi. Egli vide dove  tendevano  e  le  opinioni  degli
scrittori ed il corto delle cose: la sua  predizione  è  degna  di  Vico...  Non
saprei se il re di Prussia avesse anche egli preveduta la rivoluzione:  è  certo
però  che  ne  previde  il  corso  e  la  smania  di   voler   tutto   riformare
filosoficamente. I riformatori metafisici, che ei chiama «enciclopedisti»,  sono
da lui molto maltrattati.  Vedi  il  suo  Dialogo  tra  Eugenio,  Malbourough  e
Liechtenstein. (10) Quando io considero tutto ciò che  i  gabinetti  de'  re  in
questi tempi avrebbero potuto e non hanno saputo fare,  desidero  un  libro  che
avesse per titolo: Storia degli errori di coloro che  sono  stati  grandi  senza
esser grandi uomini. Con questa idea è stato scritto uno de' libri  piú  sensati
dell'ultimo decennio del secolo: Tutti han torto; ma molto ancora rimarrebbe  ad
aggiugnere alla serie delle sue  osservazioni.  (11)  Montesquieu  dice  che  la
Spagna conservò l'Italia  arricchendola.  Troppo  inesatti  doveano  essere  gli
autori che Montesquieu consultò sulla nostra  storia.  (12)  Questa  veritá  non
seppe conoscer Necker, allorché fece il paragone tra le  finanze  di  Francia  e
quelle d'Inghilterra. Gl'inglesi pagavano piú de' francesi, ma la  loro  nazione
accresceva le sue ricchezze, e la Francia, per le sue circostanze politiche, non
potea crescer dippiú. I tributi erano utili in Inghilterra, dannosi in  Francia.
La Francia avea compito il suo  corso  politico,  era  nella  sua  decrepitezza;
donde, se non sorge un nuovo ordine di cose, non resta che un passo alla  morte.
Necker infatti non seppe trovar rimedio al male. L'esperienza mostrò la fallacia
delle sue teorie. «Se l'Inghilterra regge, molto piú facilmente - diceva egli  -
potrá regger la Francia». Intanto la Francia fallí e l'Inghilterra regge ancora.
(13) Chi potrebbe determinare il grado di felicitá e di potenza,  a  cui  da  un
governo savio potrebbe esser condotta la nazione napolitana? Io penso che, senza
esser visionario,  si  possa  creder  possibile  anche  piú  di  quello  che  si
auguravano Broggia, Genovesi e Palmieri. Ma questa nazione ha  la  disgrazia  di
essere stata vilipesa, perché non conosciuta: i spagnuoli la  conoscevano  e  la
temevano; solo Federico secondo imperatore la conoscevo  e  l'amava.  Ma  i  bei
giorni di Federico non furono per noi che un lampo, cui successe una  notte  piú
tempestosa. (14) Forse il piú efficace metodo contro i  barbareschi  era  quello
che presero gli inglesi sotto Carlo secondo,  cioè  di  costruire  tutt'i  legni
mercantili in modo da poter essere armati di dieci cannoni, ed affidare cosí  la
difesa della proprietá agli stessi proprietari. I nostri  proprietari  di  legni
mercantili mille volte ne han chiesto il permesso:  mille  volte  è  stato  loro
negato. Essi aveano del coraggio e della buona volontá, ma Acton voleva che  non
ne avessero. (15) Era il generalissimo di Carlo terzo e lo fu fino  alla  morte,
anche sotto il regno di Ferdinando.  Godeva  molta  autoritá  e  sapeva  usarne;
finché visse, si oppose ad Acton. (16) Il soldato prima  aveva  la  speranza  di
esser premiato, poiché i  bassi  ufficiali  avevano  diritto  a  una  promozione
regolare. Acton, invece di obbligar tutti ad  esser  bassi  ufficiali,  tolse  a
costoro ogni speranza di promozione. Il sergente doveva  morir  sergente,  e  fu
obbligato a servire venti anni. Questo era  lo  stesso  che  non  voler  piú  né
sergenti onorati né soldati valorosi.  (17)  Vedi  BONNET,  Art  de  rendre  les
révolutions utiles, libro pieno di  buon  senso.  (18)  Ecco  un  esempio  della
dissipazione che vi era nell'amministrazione di tali beni. I gesuiti in Sicilia,
quando  furono   espulsi,   possedeano   fondi,   i   quali   nel   primo   anno
dell'amministrazione regia diedero centocinquantamila  ducati  di  rendita,  nel
secondo anno ne diedero  settantamila,  nel  terzo  quarantamila:  ed  a  questa
ragione furono calcolati allorché si vendettero. Ab uno disce omnes. (19) Il  re
aveva eretto un'ottima manifattura di seterie  in  Caserta;  ma  le  seterie  si
travagliavano solo in Caserta né si sarebbero mai travagliate altrove.  Chi  mai
poteva reggere alla concorrenza d'un re? Il sovrano dev'essere il protettore de'
manifatturieri e non  il  rivale.  (20)  Solamente  la  nazione  rise  un  poco,
leggendo, nell'editto con cui si toglieva l'argento ai privati,  che  «la  mente
del re era quella di rimettere in vigore le antiche leggi suntuarie, tanto utili
allo Stato». Chi fu mai il ministro che indusse il re a  prestar  il  sacro  suo
nome a menzogna tanto evidente? Ed in qual altro caso mai è permesso ad un re di
esporre ai suoi popoli i propri bisogni,  se  non  quando  questi  bisogni  sono
bisogni dello Stato? Perché non si disse: «La patria è in  pericolo;  i  bisogni
della patria sono miei e vostri: salviamo la  patria»?  Quale  idea  dovea  aver
dell'onore e  qual  generositá  dovea  aver  nell'animo  il  ministro  che  poté
consigliare una simile versipelleria? Or il  senso  di  onore  e  la  nobiltá  e
generositá delle idee de' ministri non sono forse la  piú  esatta  misura  della
vera forza di uno Stato? (21) Si avverta una volta per  sempre  che,  in  questa
storia, «governo», «corte», ed anche «re» e «regina»,  sono  tutti  sinonimi  di
«Acton». Pochi sono i casi ne' quali convien distinguerli. (22) Il  giubilo  per
questa vittoria si spinse fino all'indecenza: non si  seppe  nemmeno  serbar  le
apparenze della neutralitá. La flotta inglese era tata chiamata dalla  corte  di
Napoli;  dalla  medesima  corte,  sebbene  sotto   nome   privato,   era   stata
approvvisionata. (23) Mack, per salvar la sua fama, calunnia la nazione.  Bonamy
sembra piú inclinato a render giustizia a Mack  che  alla  nazione,  perché  non
conosceva questa ed era suo interesse, dopo  la  vittoria,  lodare  il  generale
vinto. Pare che Pignatelli, conoscendo egualmente e la nazione ed  il  generale,
renda a ciascuno quella giustizia che si compete. (24) «Cittá»  si  chiamava  in
Napoli un'unione di sette persone, delle quali sei erano nobili ed una popolare.
I nobili erano eletti dai cinque  «sedili»,  tra'  quali  era  divisa  tutta  la
nobiltá del Regno (il sedile di Montagna ne eliggeva due, i quali però aveano un
voto solo), e questi sedili erano succeduti alle «fratrie»,  in  una  cittá  che
fino all'undecimo secolo era stata  greca.  Il  popolare  avrebbe  dovuto  esser
eletto dal popolo, che avea un sedile solo, ad onta che fosse  mille  volte  piú
numeroso de' nobili; ma era eletto dal re. Questa cittá rappresentava nel  tempo
stesso e la municipalitá di Napoli  ed  il  Regno  intero.  Quando  nel  governo
viceregnale furono aboliti i parlamenti nazionali, la Cittá  rimase  depositaria
de' privilegi della nazione. Ma sotto Ferdinando quarto la Cittá era rimasta  un
nome del tutto vano. (25) Villaggio otto miglia lontano da Napoli. (26)  È  noto
che allora depose la divisa di generale del re  di  Napoli  e  vestí  quella  di
generale austriaco;  si  presentò  a  Championnet  e  pretendea,  qual  generale
austriaco, non dover esser fatto prigioniero di guerra. Championnet non  ascoltò
questo miserabile sofisma. Ma da questo fatto ben traspariva  l'uomo,  il  quale
dieci mesi di poi avrebbe disfidato a duello  Moliterni  e  poi  l'avrebbe  egli
stesso impedito. Il disfidare non è, a creder mio, un'azione  di  valore:  forse
sará un'azione d'imprudenza: ma  il  disfidare  e  poi  ricusar  di  battersi  è
un'azione  che  riunisce  l'imprudenza  alla  viltá.  Traspariva  l'uomo,   che,
prigioniero e libero sulla sua parola di onore, sarebbe fuggito. (27) Per questa
espressione non s'intende indicare se non due classi di persone:  la  prima,  di
coloro che volevano piú un cangiamento che un buon cangiamento; la  seconda,  di
coloro che credevano doversi imitare in tutto la Francia, anche  in  quello  che
non poteva e non doveva, per le differenze che vi  erano  tra  le  due  nazioni,
imitarsi. La prima era la classe de'  furbi,  la  seconda  de'  fantastici.  Non
s'intende al certo parlare di quel ragionevole attaccamento che anche gli uomini
dabbene doveano provare per quella nazione trionfatrice, da cui allora dipendeva
la felicitá della patria. Ma il nobile attaccamento di costoro  onorava  ambedue
le nazioni, mentre il vile o sciocco partegianismo de' primi era indegno e della
nazione liberata e della liberatrice. (28) «Patriota». Che è mai un  «patriota»?
Questo nome dovrebbe indicare un uomo che ama la  patria.  Nel  decennio  scorso
esso  era  sinonimo  di  «repubblicano»;  ben  inteso  però  che  non  tutti   i
repubblicani eran patrioti. (29) Il fondo delle maniere  e  de'  costumi  di  un
popolo in origine è sempre barbaro,  ma  la  moltiplicazione  degli  uomini,  il
tempo,  le  cure  de'  sapienti  possono  egualmente  raddolcire  ogni  costume,
incivilire ogni maniera. Il dialetto pugliese, per esempio, che fu  il  primo  a
scriversi in Italia, era atto, al pari del toscano, a divenir colto  e  gentile:
se non lo è divenuto, è colpa de' nostri, che lo hanno abbandonato  per  seguire
il toscano. Noi ammiriamo le maniere degli esteri, senza riflettere  che  questa
ammirazione appunto ha recato pregiudizio  alle  nostre:  esse  sarebbero  state
eguali, e forse superiori a quelle degli esteri, se le  avremmo  coltivate.  Una
nazione che si sviluppa da sé acquista una civiltá eguale in tutte le sue parti,
e la  coltura  diventa  un  bene  generale  della  nazione.  Cosí  in  Atene  la
femminuccia  parlava  colla  stessa  eleganza  di  Teofrasto  ed  il  ciabattino
giudicava Demostene. Ammirando ed imitando le nazioni straniere, né si coltivano
tutti gli uomini che compongono un popolo, né  si  coltivano  bene:  non  tutti,
perché non tutti  possono  vedere  ed  imitare  gli  esteri;  non  bene,  perché
l'imitatore, per eterna legge della natura, resta  sempre  al  disotto  del  suo
modello. La coltura straniera porta in una nazione divisioni e non uniformitá, e
quindi non si acquista che a spese della  forza.  Quali  sono  oggi  le  nazioni
preponderanti in Europa? Quelle che non solo  non  imitano,  ma  disprezzano  le
altre.  E  noi  volevamo  far  la  repubblica  indipendente  incominciando   dal
disprezzare la nostra nazione! N. B. - A scanso di ogni equivoco,  questa  nota,
poco piú poco meno, vale  per  tutta  l'Italia.  (30)  Robespierre  operò  sulla
Francia come lo stimolo opera sull'eccitabilitá umana,  nel  sistema  di  Brown.
(31) Questo punto oggi è provato. (32) Estesissima caccia che il re teneva nella
provincia di Salerno: intorno alla medesima erano le  popolazioni  nominate  nel
testo. (33) Questo linguaggio può star bene in bocca  di  un  conquistatore  che
voglia nobilitare le sue conquiste, di un retore che  parli  ad  un'adunanza  di
oziosi, di un filosofo che parli agli  altri  filosofi;  potrá  esser  anche  il
linguaggio  dello  storico  che  trasmetta  alla  posteritá  i  risultati  degli
avvenimenti: ma non deve esser mai il linguaggio di un uomo che parli al  popolo
e voglia muoverlo. Noi abbiamo perduta ogni  idea  dell'eloquenza  popolare:  la
nostra non è che l'eloquenza delle scuole; e questa è la ragione per cui piú non
si veggono tra noi ripetuti quegli effetti che appena  crediamo  negli  antichi.
Dopo essersi or da pedanti or da eruditi or da filosofi analizzato il meccanismo
del discorso, calcolata la sua forza, fissati  i  princípi  per  dirigerlo  onde
produca il massimo effetto, mi par che ancora resti a farsi un libro in  cui  si
calcoli la forza dell'eloquenza non sull'individuo ma sulle nazioni, e si  vegga
il rapporto che lo stato della nazione può aver sull'eloquenza, e la  natura  di
questa sullo stato di quella. Si conoscerebbe allora qual differenza vi sia  tra
i pomposi proclami che dall'Ottantanove inondano l'Europa, e la forza segreta ma
irresistibile. Pericle tuonava, fulminava, sconvolgeva la Grecia  intera,  ed  i
figli d'Isacco e d'Ismaele si dividevano l'impero della terra e de' secoli. (34)
Una legge, dice Macchiavelli, che guarda molto  indietro,  è  sempre  tirannica.
(35) Nella Francia vi fu ne' primi giorni dalla rivoluzione una  legge  feudale,
ma essa non riformò che i disordini piú orribili, i quali non vi erano  piú  tra
noi. La feudalitá in Francia  era  piú  gravosa  che  in  Napoli.  Noi  dovevamo
incominciare precisamente dal punto in cui eransi arrestate le  leggi  francesi.
Or questa seconda riforma era stata fatta in Francia dalla guerra  civile.  (36)
Rousseau, domandato dall'autore de' Studi della natura  perché  mai,  con  tanto
amore per l'umanitá e tanto disgusto per gli uomini, non avea imitato Penn e non
si era ritirato con pochi saggi a fondare una colonia  in  America,  rispose:  -
Qual differenza! Si credeva nel secolo di Penn, e non si crede piú  nel  mio!  -
(37) Queste idee erano giá popolari in Napoli.  La  disputa  sulla  chinea  avea
istruiti tutti sulla legittimitá di un concilio nazionale. Si era veduto un gran
prelato declamare contro l'abuso delle indulgenze e del celibato,  e  ciò  senza
scandalo. (38) Lo stesso cammino tenne il cristianesimo, che in origine  non  fu
che filosofia. Cominciò dal predicar la tolleranza: essa non era  venuta  per  i
soli figli di Abramo, ma per tutte le genti; ma in seguito, divenuta  dominante,
neanche i figli di Abramo furono da lei risparmiati. (39) Rendiamo giustizia  ai
migliori tra' nostri. Essi intendevano l'importanza delle opinioni religiose  in
un popolo. (40) Prendo il nome di Faipoult come il nome dell'esecutore, e  forsi
non volontario, degli ordini del Direttorio francese.  Faipoult  era  un  ottimo
uomo, che amava e che stimava la nazione nostra: ma egli, come  commissario  del
suo governo, non era altro che esecutore di ordini non suoi. Il governo che oggi
ha la Francia gli avrebbe dati al certo ordini diversi. (41) Quando  i  francesi
aggregarono alla nazione i beni dell'ordine di Malta, dimostrarono che essi  non
erano dell'ordine, ma della nazione. Se i beni dell'ordine di Malta  in  Francia
eran della nazione francese, i beni dello stesso ordine in Napoli doveano  esser
dalla nazione napolitana. (42)  L'opera  della  divisione  dei  dipartimenti  in
Francia è ben eseguita; ma i francesi,  che  hanno  voluto  dirigere  la  stessa
operazione presso le altre nazioni, hanno ben mostrato che essi non aveano né le
cognizioni né il buon senso di coloro che l'aveano  diretta  in  Francia.  Quale
stranezza  infatti  era  quella  di  dividere  il  territorio  ligure  in  venti
dipartimenti? Nella Cisalpina si fecero  sulle  prime  gli  stessi  errori;  gli
stessi nel territorio romano. (43) Sciarpa, uno de' piú  grandi  e  piú  funesti
controrivoluzionari, lo divenne  per  calcolo.  Egli  era  uno  degli  uffiziali
subalterni delle milizie del tribunale di Salerno: col  nuovo  ordine  di  cose,
avrebbe potuto passare nella gendarmeria. Non fu  ammesso.  Sciarpa  non  fu  né
vezzeggiato né spento. (44) Proni era, mi si dice, un armigero del marchese  del
Vasto: i suoi delitti gli avean fatta meritare la condanna  alla  galera,  donde
era fuggito. Nell'anarchia si mise alla testa di altri assassini e  divenne,  in
séguito, generale. Altri dicono  che  fosse  stato  prete.  (45)  Caracciolo  fu
solennemente congedato dal re: il re istesso gli permise di ritornare in Napoli.
(46) L'oggetto del fraternizzare col popolo era quello di riunirsi a lui; e, per
riunirsi, conveniva distinguersi il meno che sia possibile, cioè far quanto meno
si potesse di novitá. Cerca egualmente a distinguersi tanto chi s'innalza troppo
quanto chi troppo si abbassa, ed il popolo si mette in guardia egualmente e  del
primo e del secondo. Orléans non mostrò mai piú chiaramente di voler  innalzarsi
al trono se non quando si abbassò all'eguaglianza. (47) Questo paragone  tra  la
repubblica romana e la fiorentina si è  fatto  da  due  uomini  sommi  d'Italia.
Macchiavelli è del nostro parere, e dice che il desiderio che in Roma  i  plebei
ebbero di imitare i  patrizi  perfezionò  le  istituzioni  di  Roma.  Campanella
sostiene, al contrario, che la  libertá  si  perdette  in  Roma  e  conservò  in
Firenze, sol perché quivi il popolo forzò  i  nobili  a  discendere  dalla  loro
educazione. Ecco appunto i due aspetti sotto i quali la democrazia or da uno  or
da un  altro  si  è  guardata.  Ma  Roma  ebbe,  e  per  lungo  tempo,  costumi,
costituzione, milizia e potenza; Firenze  non  ebbe  che  tumulti,  rivoluzioni,
licenza, debolezza.  Macchiavelli  ha  per  sé  i  fatti  (che  son  contrari  a
Campanella) ed il giudizio degli uomini sensati, tra' quali non vi è alcuno  che
non avrebbe  amato  di  vivere  nella  repubblica  romana  in  preferenza  della
fiorentina. (48) Mentre io era giunto a questo punto, mi è pervenuta una memoria
del cittadino Baudin sulle societá popolari.  Mi  sia  permesso  di  recarne  un
tratto, che descrive gli effetti che le societá  produssero  in  Francia  e  che
conferma quello che sempre ho detto, cioè che gli errori erano nei principi. «Il
desiderio di aggregarsi a queste nuove societá era fomentato da molte cause, che
le resero quasi universali. Esse aprivano una carriera all'ambizione e davano un
mezzo all'emulazione: facevano sperare ai deboli un appoggio, che per altro  era
meglio cercare solo nella protezione delle leggi: davano ai patrioti un punto di
riunione, che la  conformitá  degl'interessi  e  dei  princípi  dovea  far  loro
desiderare e che contribuir dovea al successo della rivoluzione:  ma  nel  tempo
istesso favorivano quel pregiudizio troppo comune tra noi  ed  in  qualche  modo
nazionale, che fa credere a moltissimi la teoria del governo essere una  scienza
infusa, di cui si possa parlare senza studio e senza  esperienza...  «Noi  tutti
abbiamo nei trastulli della nostra fanciullezza imitate le cerimonie del culto e
le evoluzioni militari; ma non mai è avvenuto che il vescovo ed il suo  capitolo
siensi veduti in ginocchio avanti al piccolo pontefice, abbigliato di una  cappa
e di una  mitria  di  carta  dorata,  prestargli  il  giuramento  di  fedeltá  e
rassegnargli la cura della diocesi e la collazione dei benefici. E pure a questo
segno si sono avvilite le autoritá piú eminenti verso le societá popolari!  «Ben
tosto, le societá rinunciando alla teoria delle quistioni politiche, sulle quali
i loro membri ben poco potevan dire di tollerabile, le sale  divennero  un'arena
di delatori, una leva potente che taluni destri ambiziosi facevan  servire  alla
loro elevazione, allettando intanto gli animi della cieca moltitudine colle  due
lusinghe, dalle quali si lascian  sorprendere  ben  spesso  anche  i  saggi:  la
speranza e l'adulazione. Ogni club fu lusingato dai suoi  oratori  coll'idea  di
esser sovrano; ed il club bene spesso si condusse a seconda di questa  dottrina,
dando ordini, distribuendo grazie, esigendo  rispetto  e  sommissione...».  (49)
Amerei che in ogni repubblica ci fosse un circolo d'istruzione  sul  modello  di
quella «repubblica giovanile» che era nell'antica repubblica  di  Berna.  Quella
istituzione mi sembra ammirabile per formar gli uomini di Stato. Non so se colla
rivoluzione della Svizzera si sia conservata. (50) Cosa ha ritratto  la  Francia
dalle vendite dei suoi immensi beni nazionali? Quale  orribile  dissipazione  ho
visto io stesso! A quali mani  la  salute  pubblica  è  stata  affidata!  Questa
infelice risorsa, a cui un governo possa ridursi, è sempre inutile.  Un  governo
deve vendere i fondi nazionali (perché non deve averne), ma  deve  venderli  ne'
tempi ne' quali non ha bisogno; allora, se  non  trova  compratori,  deve  anche
donarli. (51) Questo è il  trionfo  de'  nostri  governanti.  Sfido  ogni  altra
nazione ad opporre un tratto di eguale moralitá ed economia! Il re  con  tredici
province, in tempi tranquilli, coll'onnipotenza nelle mani, che non avrebbe  mai
potuto fare? E che ha fatto? Questo è il trionfo della nostra causa. (52) Questo
fenomeno, in Napoli sensibilissimo, avrebbe  meritata  attenzione  maggiore  per
parte dei nostri economisti. Io lo ripeto da varie  cagioni:  1.  Dall'esser  il
grano una delle poche derrate che noi  vendevamo  agli  esteri:  l'olio  per  la
stessa  ragione  era  nelle  stesse  circostanze  ed  avea  sofferte  le  stesse
alterazioni ne' suoi prezzi. Una derrata che sia  richiesta  da  maggior  numero
deve per necessitá crescere di prezzo; e, se mai presso una nazione  avvien  che
essa formi tutto o grandissima parte del commercio estero,  allora  diviene  una
specie di moneta di conto ed accresce il suo valore, non solo per  le  richieste
de' compratori, ma anche per le speculazioni de' venditori. Una moneta di  conto
è oggi in Sicilia il grano, e l'olio in Napoli, perché l'olio in  Napoli  occupa
il primo luogo tra' generi che si estraggono, ed il  grano  il  secondo.  Questo
fenomeno, non osservato da nessuno, meriterebbe di esserlo. 2. Il consumo che la
nazione napolitana fa di paste. 3. Il monopolio che vi è nelle terre, ridotte in
poche mani e desiderate da molti, dacché non vi è  altro  mezzo  d'impiegare  il
proprio danaro né in rendite, che son poche, né in oggetti di manifatture  e  di
commercio. Promovendo  tali  oggetti,  son  persuaso  che  le  stesse  avrebbero
ribassato il loro prezzo, e che questo ribasso avrebbe potuto influire anche  su
quello del grano. 4. La male intesa agricoltura, la quale rende necessaria molta
estensione di terreno, ecc. ecc. (53) Fa meraviglia come i scrittori di economia
pubblica non abbiano  distinte  due  specie  di  carestia,  una  reale,  l'altra
apparente, la quale non manca però di  produrre  mali  reali.  Quella  reale  si
potrebbe suddividere in mancanza di genere  ed  alterazione  di  prezzo.  Tutt'i
difetti dei regolamenti annonari sono nati  dall'aver  voluto  riparare  ad  una
carestia apparente come se fosse carestia reale, e da questo primo errore  ne  è
nato il secondo, che si  è  atteso  piú  all'alterazione  del  prezzo  che  alla
mancanza del genere: chi conosce la storia degli stabilimenti annonari di Napoli
intende la veritá di ciò che io dico. Ma tali stabilimenti sono simili a  quelli
di tutte le altre parti di Europa: eran figli de' tempi e delle idee de'  tempi:
il nostro errore è di volerli seguire  anche  quando  i  tempi  e  le  idee  son
cangiati. (54) Palma ed altre terre. (55) La piú chiara prova che abbia dato  il
primo console di amar sinceramente la libertá d'Italia è stata  quella  di  aver
concesso alla Cisalpina il corpo de' polacchi. Chi legge con  attenzione  questo
paragrafo e tutta l'opera, vedrá come gli  avvenimenti  stessi  giustificano  il
nuovo ordine di cose, desiderato tanto dalla giustizia e dall'umanitá.  (56)  Se
io dovessi parlare al governo francese per l'Italia, gli direi liberamente che o
convien liberarla tutta o non toccarla. Formandone un solo governo,  la  Francia
acquisterebbe  una  potentissima  alleata;  democratizzandone  una  sola  parte,
siccome questa piccola parte né potrebbe sperar  pace  dalle  altre  potenze  né
potrebbe difendersi da se sola, cosí o dovrebbe perire abbandonata dalla Francia
o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra. Questa è la ragione
per cui Luigi decimoprimo, ad onta  della  sua  ambizione,  allorché  Genova  si
offerí a lui, le rispose che «si dasse al diavolo». Questa è la ragione per  cui
si è detto che gli stabilimenti in Italia non giovavano alla  Francia:  duecento
anni di guerra distruttiva le ha costato il  possesso  del  Milanese.  Allora  i
sovrani di Francia non avean comprese due veritá, la prima  delle  quali  è  che
l'Italia è piú utile alla Francia amica che serva, e quindi  è  meglio  renderla
libera che provincia. Questa veritá si è compresa da qualche  anno,  sebbene  il
Direttorio si conduceva come se non  l'avesse  compresa  ancora  o  non  volesse
comprenderla, e solo dal nuovo piú giusto ordine di cose si può sperare  l'utile
effetto di questa veritá. La seconda è che l'Italia  non  dev'esser  divisa,  ma
riunita: e la riunione dell'Italia dipende dalla libertá di Napoli; paese che la
Francia non potrá giammai conservare e che ha tante  risorse  in  sé,  che  solo
potrebbe disturbar tutta la tranquillitá italiana, quando non sia in mano di  un
governo umano ed amico della libertá. È l'esperienza di tutt'i secoli, la  quale
ci mostra che i conquistatori dell'Alta Italia han per lo piú rotto alle  sponde
del Garigliano; e la filosofia spiega  la  ragione  di  tali  avvenimenti.  (57)
Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo dell'insorgenza di  Sora,
è un mostro orribile, di cui difficilmente si ritrova l'eguale. In due  mesi  di
comando, in  poca  estensione  di  paese,  ha  fatto  fucilar  trecentocinquanta
infelici; oltre del doppio forse uccisi dai suoi satelliti.  Non  si  parla  de'
saccheggi, delle violenze, degl'incendi; non si  parla  delle  carceri  orribili
nelle quali gittava gl'infelici che cadevano  nelle  sue  mani,  non  de'  nuovi
generi di morte dalla sua crudeltá inventati.  Ha  rinnovate  le  invenzioni  di
Procuste, di Mezenzio... Il suo desiderio di  sangue  umano  era  tale,  che  si
beveva tutto quello che usciva dagl'infelici che faceva scannare. Chi scrive  lo
ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercar con
aviditá quello degli altri salassati che erano con lui. Pranzava avendo a tavola
qualche testa ancora grondante di sangue; beveva in un cranio... A questi mostri
scriveva Ferdinando da Sicilia: «mio generale e mio amico». (58)  Quest'uomo  ai
creduli abitanti delle Calabrie  si  fece  creder  papa.  Il  cardinale  Zurolo,
arcivescovo di Napoli, ebbe  il  coraggio  di  anatemizzarlo.  (59)  Le  notizie
dell'insurrezione della provincia di Lecce e delle operazioni dei còrsi mi  sono
state comunicate  dal  mio  amico  Giovanni  Battista  Gagliardo,  il  quale  fu
principal parte di tutto ciò che avvenne in  Taranto.  Le  memorie,  ch'egli  ha
scritte sopra gli accidenti della rivoluzione della sua patria, sono importanti.
Io ho lette molte memorie simili. È  degno  di  osservazione  che  in  tutte  le
sollevazioni del Regno ci è stato sempre suono di campane ed una processione del
santo  protettore.  (60)  Per  le  ragioni  dette  di  sopra,  cioè  che  contro
gl'insorgenti  poco  vale  l'armata,  ma  si  richiedono  le  piccole  forze   e
permanenti. (61) La prima volta si  radunarono  moltissimi  patrioti;  tutta  la
guardia nazionale fu al suo posto. Furono tenuti  a  disagio  una  notte;  e  la
mattina furon congedati senza che avessero ottenuto neanche  un  ringraziamento,
senza poter neanche comprendere la cagione dell'allarme.  La  seconda  volta  la
credettero o frivola o finta come la prima; e questo fece  perdere  molti  bravi
patrioti, i quali si ritrovarono rinchiusi nelle loro case,  allorché  avrebbero
potuto esser ne' castelli a difenderli. (62) Ecco la capitolazione: «Articolo I.
Il castel Nuovo ed il castel dell'Ovo saranno rimessi nelle mani del  comandante
delle truppe di S. M. il re delle Due Sicilie e di quelle dei suoi  alleati,  il
re d'Inghilterra, l'imperadore di tutte le Russie e la Porta ottomana, con tutte
le munizioni da guerra e da  bocca,  artiglieria  ed  effetti  di  ogni  specie,
esistenti nei magazzeni, di cui si formerá inventario dai commissari  rispettivi
dopo la firma  della  presente  capitolazione.  «II.  Le  truppe  componenti  le
guarnigioni conserveranno i loro forti fino che i bastimenti, di cui si  parlerá
qui appresso, destinati a trasportar gl'individui che vorranno andare a  Tolone,
saranno pronti a far vela. «III. Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra,
armi, bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia  accesa,  e  ciascuna
con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul lido. «IV. Le  persone
e le proprietá mobili ed  immobili  di  tutti  gl'individui  componenti  le  due
guarnigioni saranno rispettate e garantite. «V.  Tutti  gli  suddetti  individui
potranno scegliere di imbarcarsi sopra i bastimenti  parlamentari,  che  saranno
loro presentati per condursi a Tolone, o di  restare  in  Napoli,  senza  essere
inquietati né essi né le loro  famiglie.  «VI.  Le  condizioni  contenute  nella
presente capitolazione son comuni a tutte le persone dei due sessi rinchiuse nei
forti. «VII. Le stesse condizioni avran  luogo  riguardo  a  tutt'i  prigionieri
fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S. M. il re delle Due Sicilie  e
quelle dei suoi alleati nei diversi combattimenti che hanno  avuto  luogo  prima
del blocco dei forti. «VIII. I signori arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon
ed il vescovo di Avellino saranno rimessi al comandante del forte Sant'Elmo, ove
resteranno  in  ostaggio  fino  a  che  sia   assicurato   l'arrivo   a   Tolone
degl'individui che vi si mandano. «IX. Tutti gli altri ostaggi e prigionieri  di
Stato, rinchiusi nei due forti, saranno rimessi in libertá subito dopo la  firma
della  presente  capitolazione.  «X.   Tutti   gli   articoli   della   presente
capitolazione non potranno eseguirsi se non dopo che saranno  stati  interamente
approvati dal comandante del forte Sant'Elmo».  (63)  Un  segretario  di  Nelson
scrivea ad un suo amico a Maone: «Noi commettiamo le  piú  orride  scelleraggini
per rimettere sul trono il piú stupido dei re». Io ho del  ribrezzo  in  riferir
queste parole, che pure ho letto io stesso. Oh! come gl'inglesi sanno  compatire
le loro vittime! (64) Espressione di un dispaccio. (65)  Espressione  del  primo
console in circostanze quasi simili. (66) Esistono ancora  ambidue  gli  editti:
col primo il Regno si dichiara regno di conquista; col secondo si  dichiara  che
il re non lo avea mai perduto.  (67)  Subitoché  in  Napoli  non  vi  era  stata
ribellione, non vi era piú differenza tra coloro che aveano occupate  cariche  e
coloro che avean  solo  riconosciuta  la  repubblica.  Tutti  doveano  essere  o
egualmente  rei  o  egualmente  innocenti.  (68)  Questo  fatto   sembra   tanto
incredibile, che  mi  sarei  astenuto  dal  narrarlo,  se  non  mi  fosse  stato
contestato da moltissimi degni di ogni fede. Ma, quando anche questi mentissero,
gran Dio! quanto odio pubblico si è dovuto meritare, prima di mover  gli  uomini
ad immaginare, a spacciare, a credere tali orrori!  (69)  È  da  osservarsi  che
Speziale non risparmiava nessuno de' piú vili epiteti del trivio e del bordello.
(70) Baffa era uno de' piú eruditi  uomini  d'Italia,  era  uno  de'  primi  per
l'erudizione greca. (71) Per riunire sotto un colpo di occhio tutto il male  che
in Napoli ha prodotta la controrivoluzione, basterá fare  il  seguente  calcolo:
Ettore Carafa, Giovanni Riari, Giuliano  Colonna,  Serra,  Torella,  Caracciolo,
Ferdinando e  Mario  Pignatelli  di  Strongoli,  Pignatelli  Vaglio,  Pignatelli
Marsico son della prima nobiltá d'Italia; e venti altre famiglie nobili al  pari
di queste sono state quasiché distrutte. Tra le altre non vi è  chi  non  pianga
una perdita. La rivoluzione conta trenta in quaranta  vescovi,  altri  venti  in
trenta magistrati rispettabili per il loro grado e piú per il loro merito, molti
avvocati di primo ordine ed infiniti uomini di lettere.  A  quelli  che  abbiamo
nominati si possono aggiugnere, tra' morti, Falconieri, Logoteta,  Albanese,  De
Filippis, Fiorentino, Ciaia, Bagni, Neri... La professione medica pare  che  sia
stata presa di mira dalla  persecuzione  controrivoluzionaria.  Sará  un  giorno
oggetto di ammirazione per la posteritá l'ardore  che  i  nostri  medici  aveano
sviluppato  per  la  buona  causa.  I  giovani  medici   del   grande   ospedale
degl'Incurabili formavano il «battaglione sacro» della nostra repubblica. Io non
parlo che della capitale. Eguale e forse anche piú feroce è stata la distruzione
che gli emissari della Giunta, sotto  nome  di  «visitatori»,  han  fatta  nelle
provincie. Si possono calcolare a quattromila coloro che sono morti  per  furore
degl'insorgenti, come l'infelice Serao vescovo di Potenza, uomo rispettabile per
la sua dottrina e per lo suo costume; il  giovine  Spinelli  di  San  Giorgio...
Tutti gli altri erano egualmente i migliori della nazione. Dopo ciò, si  calcoli
il danno. La nazione potrá rimpiazzar gli uomini, ma non la coltura. Ed è  forse
esagerata l'espressione di esser essa retroceduta di due secoli?

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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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