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Alessandro Manzoni - Storia della colonna infame


Storia della colonna infame Alessandro Manzoni


Introduzione

Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi  alcuni
accusati d'aver propagata la peste con certi  ritrovati  sciocchi  non  men  che
orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente  degna  di  memoria,  che,  nella
sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la  demolizion
della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in  quello  spazio
s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame,  con  un'iscrizione
che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò  non
s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile. In una parte dello scritto
antecedente, l'autore aveva manifestata l'intenzione di pubblicarne  la  storia;
ed è questa che presenta al pubblico, non senza vergogna, sapendo che da altri è
stata supposta opera di vasta materia, se non altro, e di  mole  corrispondente.
Ma se il ridicolo del disinganno deve cadere addosso a  lui,  gli  sia  permesso
almeno di protestare che nell'errore non ha colpa, e che, se viene alla luce  un
topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i monti. Aveva detto  soltanto
che, come episodio, una tale  storia  sarebbe  riuscita  troppo  lunga,  e  che,
quantunque il soggetto fosse già stato trattato  da  uno  scrittore  giustamente
celebre (Osservazioni sulla tortura, di Pietro  Verri),  gli  pareva  che
potesse esser trattato di nuovo, con diverso intento. E basterà un  breve  cenno
su questa diversità, per far conoscere la ragione  del  nuovo  lavoro.  Così  si
potesse  anche  dire  l'utilità;  ma  questa,  pur  troppo,  dipende  molto  più
dall'esecuzione che dall'intento. Pietro Verri si propose, come indica il titolo
medesimo del suo opuscolo, di ricavar da  quel  fatto  un  argomento  contro  la
tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la  confessione  d'un
delitto, fisicamente e moralmente impossibile.  E  l'argomento  era  stringente,
come nobile e umano l'assunto. Ma dalla storia, per quanto possa esser succinta,
d'un avvenimento complicato, d'un gran male fatto  senza  ragione  da  uomini  a
uomini, devono necessariamente potersi ricavare  osservazioni  più  generali,  e
d'un'utilità, se non così immediata, non meno  reale.  Anzi,  a  contentarsi  di
quelle sole che potevan principalmente servire  a  quell'intento  speciale,  c'è
pericolo di formarsi una nozione  del  fatto,  non  solo  dimezzata,  ma  falsa,
prendendo per cagioni  di  esso  l'ignoranza  de'  tempi  e  la  barbarie  della
giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale  e  necessario;
che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento.
L'ignoranza in fisica può produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità;  e
una cattiva  istituzione  non  s'applica  da  sé.  Certo,  non  era  un  effetto
necessario del credere all'efficacia  dell'unzioni  pestifere,  il  credere  che
Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come  dell'esser
la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti
gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero  sentenziati
colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado  le
verità troppo  evidenti,  e  che  dovrebbero  esser  sottintese,  sono  in  vece
dimenticate;  e  dal  non  dimenticar  questa  dipende  il  giudicar  rettamente
quell'atroce giudizio. Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che
que' giudici condannaron degl'innocenti, che essi, con la più ferma  persuasione
dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione che  ammetteva  la  tortura,
potevano  riconoscere  innocenti;  e  che  anzi,  per  trovarli  colpevoli,  per
respingere il vero che ricompariva ogni momento, in  mille  forme,  e  da  mille
parti, con caratteri chiari allora com'ora, come sempre, dovettero fare continui
sforzi d'ingegno, e ricorrere a  espedienti,  de'  quali  non  potevano  ignorar
l'ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un  tristo  assunto)  togliere
all'ignoranza e alla tortura la parte loro in quell'orribile fatto:  ne  furono,
la prima un'occasion deplorabile, l'altra un mezzo crudele e attivo,  quantunque
non  l'unico  certamente,  né  il  principale.  Ma  crediamo  che   importi   il
distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti  da
che, se non da passioni perverse? Dio solo ha potuto distinguere qual più,  qual
meno tra queste abbia dominato nel cuor di que' giudici, e  soggiogate  le  loro
volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri,  che,  impaziente  di  trovare  un
oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che  aveva  ricevuto  una
notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente!
e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa  spietata  da  una  lunga
paura, e diventata odio e  puntiglio  contro  gli  sventurati  che  cercavan  di
sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un'aspettativa generale,  altrettanto
sicura quanto avventata, di parer meno abili se  scoprivano  degl'innocenti,  di
voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non  ascoltarle;  il  timore
fors'anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe
apparenza, ma ugualmente perverso, e non men  miserabile,  quando  sottentra  al
timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter  l'ingiustizia.  Dio
solo ha potuto vedere se que' magistrati, trovando i colpevoli d'un delitto  che
non c'era, ma che si voleva(1) , furon più complici o ministri d'una moltitudine
che, accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava  con
quelle grida i precetti più positivi della  legge  divina,  di  cui  si  vantava
seguace. Ma la menzogna, l'abuso del potere, la violazion delle  leggi  e  delle
regole più note e ricevute, l'adoprar doppio peso e doppia misura, son cose  che
si posson riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e  riconosciute,  non
si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né,  per
ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne  potrebbe  trovar
di più naturali e di men triste, che quella rabbia  e  quel  timore.  Ora,  tali
cagioni non furon  pur  troppo  particolari  a  un'epoca;  né  fu  soltanto  per
occasione d'errori in fisica, e col mezzo della tortura,  che  quelle  passioni,
come tutte l'altre, abbian fatto commettere ad  uomini  ch'eran  tutt'altro  che
scellerati di professione, azioni malvage, sia in rumorosi avvenimenti pubblici,
sia nelle più oscure relazioni private. «Se una sola tortura  di  meno,»  scrive
l'autor sullodato, «si darà in grazia dell'orrore che  pongo  sotto  gli  occhi,
sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di  ottenerlo
mi ricompensa(2) .» Noi, proponendo a lettori pazienti di  fissar  di  nuovo  lo
sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e  non
ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si  può  non  provarne  ogni
volta, si rivolgeranno anche, e  principalmente,  contro  passioni  che  non  si
posson bandire, come falsi sistemi, né abolire,  come  cattive  istituzioni,  ma
render meno potenti e  meno  funeste,  col  riconoscerle  ne'  loro  effetti,  e
detestarle. E non temiamo d'aggiungere che potrà anche esser cosa, in  mezzo  ai
più dolorosi sentimenti,  consolante.  Se,  in  un  complesso  di  fatti  atroci
dell'uomo contro l'uomo,  crediam  di  vedere  un  effetto  de'  tempi  e  delle
circostanze, proviamo, insieme con l'orrore e con la  compassion  medesima,  uno
scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par  di  vedere  la  natura  umana
spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e  come
legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di  riscotersi,  di
cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l'indegnazione  che  nasce
in noi spontanea contro gli autori di que' fatti, e che pur nello  stesso  tempo
ci par nobile e santa: rimane l'orrore, e scompare  la  colpa;  e,  cercando  un
colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con  raccapriccio
condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la  Provvidenza,
o accusarla. Ma quando, nel guardar più attentamente a que' fatti, ci si  scopre
un'ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano,  un
trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell'azioni opposte ai lumi che  non
solo c'erano al loro  tempo,  ma  che  essi  medesimi,  in  circostanze  simili,
mostraron d'avere, è un sollievo il pensare  che,  se  non  seppero  quello  che
facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume  e
perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può
bensì esser forzatamente vittime, ma non autori. Non ho però  voluto  dire  che,
tra gli orrori di quel giudizio, l'illustre scrittore suddetto non veda mai,  in
nessun caso, l'ingiustizia personale e volontaria de'  giudici.  Ho  voluto  dir
soltanto che non s'era proposto d'osservar quale e quanta parte c'ebbe, e  molto
meno di dimostrare che ne fu la principale, anzi, a parlar precisamente, la sola
cagione. E aggiungo ora, che non l'avrebbe  potuto  fare  senza  nocere  al  suo
particolare intento. I partigiani della tortura (ché l'istituzioni  più  assurde
ne hanno finché non son morte del tutto, e spesso anche  dopo,  per  la  ragione
stessa che son potute  vivere)  ci  avrebbero  trovata  una  giustificazione  di
quella. - Vedete? - avrebbero detto, - la colpa è dell'abuso, e non della  cosa.
- Veramente, sarebbe una singolar giustificazione d'una cosa, il far vedere che,
oltre all'essere assurda in ogni caso, ha potuto in qualche caso speciale servir
di strumento alle passioni, per commettere fatti assurdissimi e atrocissimi.  Ma
l'opinioni fisse l'intendon così. E dall'altra parte, quelli che, come il Verri,
volevano  l'abolizion   della   tortura,   sarebbero   stati   malcontenti   che
s'imbrogliasse la causa con distinzioni, e che, con dar la colpa  ad  altro,  si
diminuisse l'orrore per quella. Così almeno avvien  d'ordinario:  che  chi  vuol
mettere in luce una verità contrastata, trovi ne' fautori, come negli avversari,
un ostacolo a esporla nella sua forma sincera. È vero che gli resta quella  gran
massa d'uomini senza partito, senza  preoccupazione,  senza  passione,  che  non
hanno voglia di conoscerla in nessuna forma. In quanto ai materiali  di  cui  ci
siam serviti per compilar questa breve storia, dobbiam dire prima di tutto,  che
le ricerche fatte da noi per iscoprire il processo originale, benché  agevolate,
anzi aiutate dalla più gentile e attiva  compiacenza,  non  han  giovato  che  a
persuaderci sempre più che sia assolutamente perduto. D'una buona parte  però  è
rimasta la copia; ed ecco come. Tra que' miseri accusati si trovò, e pur  troppo
per colpa d'alcun di loro, una persona d'importanza,  don  Giovanni  Gaetano  de
Padilla, figlio del comandante del castello di Milano, cavalier di sant'Iago,  e
capitano di cavalleria; il quale poté fare stampare le sue difese, e  corredarle
d'un estratto del processo, che, come a reo costituito,  gli  fu  comunicato.  E
certo, que' giudici non s'accorsero allora, che lasciavan fare da uno stampatore
un monumento più autorevole e più durevole di quello che avevan  commesso  a  un
architetto. Di quest'estratto, c'è di più un'altra copia manoscritta, in  alcuni
luoghi più scarsa, in altri più abbondante, la quale appartenne al conte  Pietro
Verri, e fu dal degnissimo suo figlio, il signor conte Gabriele, con liberale  e
paziente cortesia, messa e lasciata a nostra disposizione. È  quella  che  servì
all'illustre scrittore per lavorar l'opuscolo citato, ed è sparsa  di  postille,
che sono riflessioni rapide,  o  sfoghi  repentini  di  compassion  dolorosa,  e
d'indegnazione santa.  Porta  per  titolo:  Summarium  offensivi  contra  Don
Johannem Cajetanum de Padilla; ci si trovan  per  esteso  molte  cose  delle
quali nell'estratto stampato non c'è che un sunto; ci son notati  in  margine  i
numeri delle pagine del processo originale, dalle quali  son  levati  i  diversi
brani; ed è pure  sparsa  di  brevissime  annotazioni  latine,  tutte  però  del
carattere stesso del  testo:  Detentio  Morae;  Descriptio  Domini  Johannis;
Adversatur  Commissario;  Inverisimile;  Subgestio,  e  simili,   che   sono
evidentemente appunti presi dall'avvocato del Padilla, per le difese.  Da  tutto
ciò pare evidente che sia una copia letterale  dell'estratto  autentico  che  fu
comunicato al difensore; e che questo, nel farlo stampare,  abbia  omesse  varie
cose, come meno importanti, e altre si sia contentato d'accennarle. Ma come  mai
se ne trovano nello stampato alcune che mancano nel  manoscritto?  Probabilmente
il difensore poté spogliar di nuovo il processo originale, e farci  una  seconda
scelta di ciò che gli paresse utile alla causa del suo cliente.  Da  questi  due
estratti abbiamo naturalmente ricavato il più; ed essendo il primo, altre  volte
rarissimo, stato ristampato da poco tempo,  il  lettore  potrà,  se  gli  piace,
riconoscere, col confronto di quello, i luoghi  che  abbiam  presi  dalla  copia
manoscritta. Anche le difese suddette ci hanno somministrato  diversi  fatti,  e
materia di qualche osservazione. E siccome  non  furon  mai  ristampate,  e  gli
esemplari ne sono scarsissimi, non mancherem di citarle, ogni volta  che  avremo
occasion di servircene. Qualche piccola cosa finalmente abbiam potuto pescare da
qualcheduno de' pochi e scompagnati  documenti  autentici  che  son  rimasti  di
quell'epoca di confusione e di disperdimento, e che si conservano  nell'archivio
citato più d'una volta nello scritto  antecedente.  Dopo  la  breve  storia  del
processo abbiam poi creduto che non sarebbe fuor di luogo una più  breve  storia
dell'opinione che regnò intorno ad esso, fino al Verri, cioè  per  un  secolo  e
mezzo circa. Dico l'opinione espressa ne' libri, che è, per lo più,  e  in  gran
parte, la sola che i posteri possan  conoscere;  e  ha  in  ogni  caso  una  sua
importanza speciale. Nel nostro, c'è parso che potesse essere una  cosa  curiosa
il vedere un seguito di scrittori andar l'uno dietro all'altro come le pecorelle
di Dante, senza pensare a informarsi d'un fatto del  quale  credevano  di  dover
parlare.  Non  dico:  cosa  divertente;  ché,  dopo  aver  visto  quel   crudele
combattimento, e quell'orrenda vittoria dell'errore  contro  la  verità,  e  del
furore  potente  contro  l'innocenza  disarmata,  non  posson  far   altro   che
dispiacere, dicevo quasi rabbia, di chiunque siano, quelle parole in conferma  e
in esaltazione dell'errore, quell'affermar  così  sicuro,  sul  fondamento  d'un
credere così spensierato, quelle maledizioni  alle  vittime,  quell'indegnazione
alla rovescia. Ma un tal dispiacere porta con sé il suo  vantaggio,  accrescendo
l'avversione e la diffidenza per  quell'usanza  antica,  e  non  mai  abbastanza
screditata,  di  ripetere  senza  esaminare,  e,  se   ci   si   lascia   passar
quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino  medesimo,  e  alle  volte
quello che gli ha già dato alla testa. A questo fine, avevam pensato alla  prima
di presentare al lettore la raccolta di tutti i giudizi su quel fatto, che c'era
riuscito di trovare in qualunque libro.  Ma  temendo  poi  di  metter  troppo  a
cimento la sua pazienza, ci siam ristretti a pochi  scrittori,  nessuno  affatto
oscuro, la più parte rinomati: cioè quelli, de' quali son più  istruttivi  anche
gli errori, quando non posson più esser contagiosi.

Cap.1

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le  quattro  e  mezzo,  una  donnicciola
chiamata  Caterina  Rosa,  trovandosi,  per  disgrazia,  a  una  finestra   d'un
cavalcavia che allora c'era sul principio di  via  della  Vetra  de'  Cittadini,
dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle  colonne
di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera,  e  il  cappello  sugli
occhi, e una carta in  mano,  sopra  la  quale,  dice  costei  nella  sua
deposizione, metteva su le mani,  che  pareua  che  scrivesse.  Le  diede
nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia  delle
case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo  tiraua
con le mani dietro al  muro.  All'hora,  soggiunge,  mi  viene  in
pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati,  andauano
ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che
guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che  s'avanzava  in
quella; et viddi, dice, che teneua toccato  la  detta  muraglia
con le mani. C'era alla finestra d'una casa della strada  medesima  un'altra
spettatrice, chiamata Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse
lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o  solamente  quando  l'altra  ebbe
messo il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto  fin  dal
momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare.
Viddi, dice, che si fermò qui in  fine  della  muraglia  del  giardino
della casa delli Crivelli... et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra
la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scrivere; et poi  viddi
che, leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto  giardino,
dove era un poco di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le  dita  macchiate
d'inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero. Infatti, nell'esame che gli fu
fatto il giorno dopo, interrogato, se  l'attioni  che  fece  quella  mattina,
ricercorno scrittura, risponde: signor  sì.  E  in  quanto  all'andar
rasente al muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno d'un perché,  era  perché
pioveva, come accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione  di
questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceva questi atti di
ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo  piovoso,  perché
più persone potessero imbrattarsi li panni nell'andar in  volta,  per  andar  al
coperto. Dopo quella fermata, costui  tornò  indietro,  rifece  la  medesima
strada, arrivò alla  cantonata,  ed  era  per  isparire;  quando,  per  un'altra
disgrazia, fu rintoppato da uno ch'entrava nella strada, e che lo salutò. Quella
Caterina, che, per tener dietro all'untore, fin che  poteva,  era  tornata  alla
finestra  di  prima,  domandò  all'altro  chi   fosse   quello   che   haueua
salutato. L'altro, che, come depose poi, lo conosceva di  vista,  e  non  ne
sapeva il nome, disse quel che sapeva, ch'era un commissario della Sanità. Et
io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui
a fare certi atti, che non mi piacciono niente. Subito puoi  si  diuulgò  questo
negotio, cioè fu essa, almeno principalmente, che lo divolgò, et  uscirno
dalle porte, et si vidde imbrattate le  muraglie  d'un  certo  ontume  che  pare
grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate  dissero  che
haueuano trovato tutto imbrattato li  muri  dell'andito  della  loro  porta.
L'altra donna depone il medesimo. Interrogata, se sa  a  che  effetto  questo
tale fregasse di quella mano sopra il muro,  risponde:  dopo  fu  trouato
onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate. E, cose che in un
romanzo sarebbero tacciate d'inverisimili, ma che pur troppo l'accecamento della
passione basta a spiegare, non venne in mente  né  all'una  né  all'altra,  che,
descrivendo passo per passo, specialmente la prima,  il  giro  che  questo  tale
aveva fatto nella strada, non avevan però  potuto  dire  che  fosse  entrato  in
quell'andito: non parve loro una gran cosa davvero, che costui,  giacché,
per fare un lavoro simile, aveva voluto aspettare che fosse levato il sole,  non
ci andasse almeno guardingo, non desse almeno un'occhiata alle finestre; né  che
tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se  fosse  usanza
de' malfattori di trattenersi più del bisogno nel  luogo  del  delitto;  né  che
maneggiasse impunemente una materia che  doveva  uccider  quelli  che  se  ne
imbrattassero i panni; né troppe altre ugualmente strane  inverisimiglianze.
Ma il più  strano  e  il  più  atroce  si  è  che  non  paressero  tali  neppure
all'interrogante, e che non ne chiedesse spiegazione nessuna. O  se  ne  chiese,
sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo. I vicini, a cui
lo spavento fece scoprire chi  sa  quante  sudicerie  che  avevan  probabilmente
davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci, si misero in fretta e
in furia a  abbruciacchiarle  con  della  paglia  accesa.  A  Giangiacomo  Mora,
barbiere, che stava sulla cantonata, parve, come agli altri, che  fossero  stati
unti i muri della sua casa. E non sapeva, l'infelice, qual  altro  pericolo  gli
sovrastava, e da quel commissario medesimo, ben infelice anche lui. Il  racconto
delle donne fu subito arricchito di nuove circostanze; o fors'anche  quello  che
fecero subito ai vicini non fu in tutto  uguale  a  quello  che  fecero  poi  al
capitano di giustizia. Il figlio di quel povero Mora,  essendo  interrogato  più
tardi se sa o ha inteso dire in che modo  il  detto  commissario  ongesse  le
dette muraglie et case, risponde: sentei che  una  donna  di  quelle  che
stanno sopra il portico che trauersa la detta Vedra, quale  non  so  come  habbi
nome, disse che detto commissario ongeua con una penna, hauendo  un  vasetto  in
mano. Potrebb'esser benissimo che quella Caterina avesse parlato d'una penna
da lei vista davvero  in  mano  dello  sconosciuto;  e  ognuno  indovina  troppo
facilmente qual altra cosa poté esser da lei battezzata per vasetto; ché, in una
mente la qual non vedeva che unzioni, una penna doveva avere una  relazione  più
immediata e più stretta con un vasetto, che con un calamaio. Ma pur  troppo,  in
quel tumulto di chiacchiere, non andò persa una circostanza vera, che l'uomo era
un commissario della Sanità; e, con quest'indizio, si trovò anche subito  ch'era
un Guglielmo Piazza, genero della comar Paola, la quale doveva essere una
levatrice molto nota in que' contorni. La notizia si sparse via via negli  altri
quartieri, e ci fu anche portata da qualcheduno che s'era abbattuto a passar  di
lì nel momento del sottosopra. Uno di questi discorsi fu riferito al senato, che
ordinò al capitano di giustizia, d'andar subito a prendere  informazioni,  e  di
procedere secondo il caso. È stato significato al Senato  che  hieri  mattina
furno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle  case  della  Vedra  de'
Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese  con
sé in quella spedizione. E  con  queste  parole,  già  piene  d'una  deplorabile
certezza, e passate senza correzione  dalla  bocca  del  popolo  in  quella  de'
magistrati, s'apre il processo. Al veder questa ferma persuasione, questa  pazza
paura d'un attentato chimerico, non si può far a meno di non rammentarsi ciò che
accadde di simile in varie parti  d'Europa,  pochi  anni  sono,  nel  tempo  del
colera. Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno  qualche
eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero
quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che
stendesse la mano sopra imputati di quella sorte, quando  non  fosse  stato  per
sottrarli al furore della moltitudine. È, certo, un gran  miglioramento;  ma  se
fosse anche più grande, se si potesse esser  certi  che,  in  un'occasion  dello
stesso genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse  attentati  dello  stesso
genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo  d'errori  somiglianti
nel modo, se non nell'oggetto. Pur troppo, l'uomo può ingannarsi,  e  ingannarsi
terribilmente, con molto minore stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion
medesima nascono ugualmente all'occasion di mali che possono esser benissimo,  e
sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia  umana;  e  il  sospetto  e
l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno  la
trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani  indizi
e sulle più  avventate  affermazioni.  Per  citarne  un  esempio  anch'esso  non
lontano, anteriore di poco al  colera;  quando  gl'incendi  eran  divenuti  così
frequenti nella Normandia, cosa ci voleva perché un uomo ne fosse subito  subito
creduto autore da una moltitudine? L'essere il primo che trovavan  lì,  o  nelle
vicinanze; l'essere sconosciuto, e non dar di sé un  conto  soddisfacente:  cosa
doppiamente difficile quando chi risponde è spaventato,  e  furiosi  quelli  che
interrogano; l'essere indicato da una donna che poteva essere una Caterina Rosa,
da un ragazzo che, preso in sospetto  esso  medesimo  per  uno  strumento  della
malvagità altrui, e messo alle strette di dire chi l'avesse mandato a dar fuoco,
diceva un nome  a  caso.  Felici  que'  giurati  davanti  a  cui  tali  imputati
comparvero (ché più d'una volta la moltitudine  eseguì  da  sé  la  sua  propria
sentenza); felici que' giurati, se entrarono nella loro sala  ben  persuasi  che
non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di  quel
rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice  spesso
con un traslato di quelli che fanno perder  di  vista  il  carattere  proprio  e
essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei  casi  in  cui  il
paese si sia già formato un giudizio senza averne i  mezzi;  ma  ch'eran  uomini
esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere
se altri uomini siano colpevoli o innocenti. La persona ch'era stata indicata al
capitano di giustizia, per averne informazioni, non poteva dir altro che  d'aver
visto, il  giorno  prima,  passando  per  via  della  Vetra,  abbruciacchiar  le
muraglie, e sentito dire ch'erano state unte  quella  mattina  da  un  genero
della comar Paola. Il capitano di giustizia  e  il  notaio  si  portarono  a
quella strada; e videro infatti muri affumicati,  e  uno,  quello  del  barbiere
Mora, imbiancato di fresco. E anche a loro fu detto da diversi  che  si  sono
trouati ivi, che ciò era stato fatto per averli veduti  unti;  come  anco
dal detto Signor Capitano, et da me notaro, scrive costui, si sono  visti
ne' luoghi abbrugiati  alcuni  segni  di  materia  ontuosa  tirante  al  giallo,
sparsaui come con le deta. Quale riconoscimento d'un corpo  di  delitto!  Fu
esaminata una donna di quella casa  de'  Tradati,  la  quale  disse  che  avevan
trovati i muri dell'andito imbrattati di una certa cosa gialla, et in  grande
quantità. Furono esaminate le due donne,  delle  quali  abbiam  riferita  la
deposizione; qualche  altra  persona,  che  non  aggiunse  nulla,  per  ciò  che
riguardava il fatto; e, tra gli altri, l'uomo che aveva salutato il commissario.
Interrogato di più, se passando lui per la  Vedra  de'  Cittadini,  vidde  le
muraglie imbrattate, risponde: non li feci fantasia, perché fin' all'hora
non si era detto cosa alcuna. Era già stato  dato  l'ordine  d'arrestare  il
Piazza, e ci volle poco.  Lo  stesso  giorno  22,  referisce...  fante  della
compagnia del Baricello di Campagna al prefato Signor Capitano, il quale  ancora
era in carrozza, che andaua verso casa  sua,  sicome  passando  dalla  casa  del
Signor Senatore Monti Presidente della Sanità,  ha  ritrouato  auanti  a  quella
porta, il suddetto Guglielmo Commissario, et hauerlo, in esecuzione  dell'ordine
datogli, condotto  in  prigione.  Per  ispiegare  come  la  sicurezza  dello
sventurato non diminuisse punto la preoccupazione de' giudici, non  basta  certo
l'ignoranza de' tempi. Avevano per un indizio di reità  la  fuga  dell'imputato;
che di lì non fossero condotti a intendere che il non  fuggire,  e  un  tal  non
fuggire, doveva essere indizio del contrario! Ma sarebbe ridicolo  il  dimostrar
che uomini potevano veder cose che l'uomo non può  non  vedere:  può  bensì  non
volerci badare. Fu subito visitata la casa del Piazza, frugato per tutto,  in
omnibus arcis, capsis, scriniis, cancellis, sublectis, per veder  se  c'eran
vasi d'unzioni, o danari, e non  si  trovò  nulla:  nihil  penitus  compertum
fuit. Né anche questo non gli giovò punto, come pur troppo si vede dal primo
esame che gli fu fatto, il giorno  medesimo,  dal  capitano  di  giustizia,  con
l'assistenza d'un auditore, probabilmente quello del tribunale della  Sanità.  È
interrogato sulla sua professione, sulle sue operazioni abituali, sul  giro  che
fece il giorno prima, sul vestito che aveva; finalmente gli si domanda: se sa
che siano stati trouati alcuni imbrattamenti nelle muraglie delle case di questa
città, particolarmente in Porta Ticinese. Risponde: mi non lo so,  perché
non mi fermo niente in Porta Ticinese. Gli si replica che  questo  non  è
verisimile; si vuol dimostrargli che lo doveva sapere.  A  quattro  ripetute
domande, risponde quattro volte il medesimo,  in  altri  termini.  Si  passa  ad
altro, ma  non  con  altro  fine:  ché  vedrem  poi  per  qual  crudele  malizia
s'insistesse su questa  pretesa  inverisimiglianza,  e  s'andasse  a  caccia  di
qualche altra. Tra i fatti della giornata antecedente, de' quali  aveva  parlato
il  Piazza,  c'era  d'essersi  trovato  coi  deputati  d'una  parrocchia.  (Eran
gentiluomini eletti in ciascheduna di queste dal  tribunale  della  Sanità,  per
invigilare, girando per la  città,  sull'esecuzion  de'  suoi  ordini.)  Gli  fu
domandato chi eran quelli con cui  s'era  trovato;  rispose:  che  li  conosceva
solamente di vista e non di nome. E anche qui  gli  fu  detto:  non  è
verisimile. Terribile parola: per intender  l'importanza  della  quale,  son
necessarie alcune osservazioni generali,  che  pur  troppo  non  potranno  esser
brevissime, sulla pratica di que' tempi, ne' giudizi criminali.


Cap.2

 Questa, come ognun sa, si regolava principalmente, qui, come a un di presso  in
tutta Europa, sull'autorità degli scrittori; per la ragion semplicissima che, in
una gran parte de' casi,  non  ce  n'era  altra  su  cui  regolarsi.  Erano  due
conseguenze naturali del non esserci complessi di leggi composte con un  intento
generale, che gl'interpreti si facessero legislatori, e fossero a un  di  presso
ricevuti come tali; giacché, quando le cose necessarie  non  son  fatte  da  chi
toccherebbe, o non son fatte in maniera di poter servire, nasce  ugualmente,  in
alcuni il pensiero di farle, negli  altri  la  disposizione  ad  accettarle,  da
chiunque sian fatte. L'operar  senza  regole  è  il  più  faticoso  e  difficile
mestiere di questo mondo. Gli statuti di Milano, per esempio, non  prescrivevano
altre norme, né condizioni alla facoltà di mettere un uomo alla tortura (facoltà
ammessa implicitamente, e  riguardata  ormai  come  connaturale  al  diritto  di
giudicare), se non che l'accusa  fosse  confermata  dalla  fama,  e  il  delitto
portasse pena di sangue, e ci fossero indizi(3) ; ma senza dir quali.  La
legge romana, che aveva vigore ne' casi a cui non provvedessero gli statuti, non
lo dice di più, benché ci adopri più parole. «I giudici non devono cominciar da'
tormenti, ma servirsi prima d'argomenti verisimili e probabili; e  se,  condotti
da questi, quasi da indizi sicuri, credono di  dover  venire  ai  tormenti,  per
iscoprir  la  verità,  lo  facciano,  quando  la  condizion  della  persona   lo
permette.(4) » Anzi, in questa legge è espressamente  istituito  l'arbitrio  del
giudice sulla qualità e sul valore degl'indizi; arbitrio che  negli  statuti  di
Milano fu poi sottinteso. Nelle così dette  Nuove  Costituzioni  promulgate  per
ordine di Carlo V, la tortura non è neppur nominata; e da quelle fino  all'epoca
del nostro processo, e per molto  tempo  dopo,  si  trovano  bensì,  e  in  gran
quantità, atti legislativi ne'  quali  è  intimata  come  pena;  nessuno,  ch'io
sappia, in cui sia regolata la facoltà d'adoprarla come mezzo di prova. E  anche
di questo si vede facilmente la  ragione:  l'effetto  era  diventato  causa;  il
legislatore, qui come altrove, aveva trovato, principalmente  per  quella  parte
che chiamiam procedura, un supplente, che faceva, non solo sentir meno, ma quasi
dimenticare  la  necessità  del  suo,  dirò  così,  intervento.  Gli  scrittori,
principalmente dal tempo in cui cominciarono a diminuire i  semplici  commentari
sulle leggi romane, e a crescer l'opere composte con un ordine più indipendente,
sia su tutta la pratica criminale, sia su questo  o  quel  punto  speciale,  gli
scrittori trattavan la materia con metodi complessivi, e insieme con  un  lavoro
minuto delle parti; moltiplicavan le leggi con l'interpretarle, stendendone, per
analogia, l'applicazione  ad  altri  casi,  cavando  regole  generali  da  leggi
speciali; e, quando questo non bastava, supplivan del loro,  con  quelle  regole
che gli paressero più fondate sulla ragione, sull'equità, sul diritto  naturale,
dove concordemente, anzi copiandosi e citandosi gli uni con gli altri, dove  con
disparità di pareri: e i giudici,  dotti,  e  alcuni  anche  autori,  in  quella
scienza, avevano, quasi in qualunque caso, e in qualunque circostanza d'un caso,
decisioni da seguire o da scegliere. La legge, dico, era divenuta  una  scienza;
anzi alla scienza, cioè al diritto romano interpretato da essa, a quelle antiche
leggi de' diversi paesi che lo studio e l'autorità crescente del diritto  romano
non aveva fatte dimenticare, e ch'erano ugualmente interpretate  dalla  scienza,
alle consuetudini approvate da essa, a' suoi precetti passati  in  consuetudini,
era quasi unicamente appropriato  il  nome  di  legge:  gli  atti  dell'autorità
sovrana, qualunque fosse, si chiamavano ordini, decreti, gride, o con altrettali
nomi; e avevano annessa non so quale idea d'occasionale  e  di  temporario.  Per
citarne un esempio, le gride de' governatori di Milano, l'autorità de' quali era
anche legislativa, non valevano che  per  quanto  durava  il  governo  de'  loro
autori; e il primo atto del successore era di confermarle provvisoriamente. Ogni
gridario, come lo  chiamavano,  era  una  specie  d'Editto  del  Pretore,
composto un poco  alla  volta,  e  in  diverse  occasioni;  la  scienza  invece,
lavorando sempre, e lavorando  sul  tutto;  modificandosi,  ma  insensibilmente;
avendo  sempre  per  maestri  quelli  che  avevan  cominciato  dall'esser   suoi
discepoli, era, direi quasi, una revisione continua, e in parte una compilazione
continua delle Dodici Tavole, affidata o abbandonata a un decemvirato  perpetuo.
Questa così generale e così durevole autorità di privati sulle  leggi,  fu  poi,
quando si vide insieme la convenienza  e  la  possibilità  d'abolirla,  col  far
nuove, e più intere, e più precise, e più ordinate leggi, fu, dico,  e,  se  non
m'inganno, è ancora riguardata come un fatto strano  e  come  un  fatto  funesto
all'umanità, principalmente nella parte  criminale,  e  più  principalmente  nel
punto della procedura. Quanto fosse naturale s'è accennato; e del resto, non era
un  fatto  nuovo,  ma  un'estensione,  dirò  così,  straordinaria   d'un   fatto
antichissimo, e forse, in altre proporzioni, perenne;  giacché,  per  quanto  le
leggi possano essere particolarizzate, non cesseranno forse mai  d'aver  bisogno
d'interpreti, né cesserà forse mai che i giudici  deferiscano,  dove  più,  dove
meno, ai più riputati tra quelli, come ad uomini che, di  proposito,  e  con  un
intento generale, hanno studiato la cosa prima di loro.  E  non  so  se  un  più
tranquillo e accurato esame non facesse trovare che fu anche, comparativamente e
relativamente, un bene; perché succedeva a uno stato di cose molto  peggiore.  È
difficile infatti  che  uomini  i  quali  considerano  una  generalità  di  casi
possibili, cercandone le regole nell'interpretazion di leggi positive, o in  più
universali ed alti princìpi, consiglin  cose  più  inique,  più  insensate,  più
violente, più capricciose di quelle che  può  consigliar  l'arbitrio,  ne'  casi
diversi, in una pratica così facilmente appassionata.  La  quantità  stessa  de'
volumi  e  degli  autori,  la  moltiplicità  e,  dirò  così,  lo   sminuzzamento
progressivo  delle   regole   da   essi   prescritte,   sarebbero   un   indizio
dell'intenzione  di  restringer  l'arbitrio,  e  di  guidarlo  (per  quanto  era
possibile) secondo la ragione e verso la giustizia; giacché non  ci  vuol  tanto
per istruir gli uomini ad abusar della forza, a seconda de' casi. Non si  lavora
a fare e a ritagliar finimenti al cavallo che si  vuol  lasciar  correre  a  suo
capriccio; gli si leva la briglia, se l'ha. Ma così avvien per il  solito  nelle
riforme umane che si fanno per gradi (parlo delle vere e giuste riforme; non  di
tutte le cose che ne hanno preso il nome): ai primi che  le  intraprendono,  par
molto di  modificare  la  cosa,  di  correggerla  in  varie  parti,  di  levare,
d'aggiungere: quelli che vengon dopo, e alle volte molto tempo dopo, trovandola,
e con ragione, ancora cattiva, si fermano facilmente alla cagion  più  prossima,
maledicono come autori della cosa quelli di cui porta il nome, perché  le  hanno
data la forma con la quale continua a vivere e a  dominare.  In  questo  errore,
diremmo quasi invidiabile, quando è compagno di grandi e benefiche  imprese,  ci
par  che  sia  caduto,  con  altri  uomini  insigni  del  suo  tempo,   l'autore
dell'Osservazioni sulla tortura. Quanto è forte e fondato  nel  dimostrar
l'assurdità,  l'ingiustizia  e  la  crudeltà  di   quell'abbominevole   pratica,
altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell'attribuire all'autorità
degli scrittori ciò  ch'essa  aveva  di  più  odioso.  E  non  è  certamente  la
dimenticanza della nostra inferiorità  che  ci  dia  il  coraggio  di  contradir
liberamente, come siamo per fare, l'opinion d'un uomo così illustre, e sostenuta
in un libro così generoso; ma la confidenza nel vantaggio d'esser venuti dopo, e
di poter facilmente (prendendo per punto principale ciò che per lui era  affatto
accessorio) guardar con occhio più tranquillo, nel complesso de' suoi effetti, e
nella differenza de' tempi, come cosa morta, e passata nella  storia,  un  fatto
ch'egli aveva a combattere, come ancor dominante, come  un  ostacolo  attuale  a
nuove e desiderabilissime riforme. E a ogni modo, quel fatto è  talmente  legato
col suo e nostro argomento, che l'uno e l'altro eravam naturalmente  condotti  a
dirne  qualcosa  in  generale:  il  Verri  perché,  dall'essere   quell'autorità
riconosciuta al tempo dell'iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in
gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch'essa prescriveva  o  insegnava
ne' vari particolari, ce ne dovrem servire come d'un  criterio,  sussidiario  ma
importantissimo, per dimostrar più vivamente l'iniquità, dirò così,  individuale
del giudizio medesimo. «È certo», dice  l'ingegnoso  ma  preoccupato  scrittore,
«che niente sta scritto  nelle  leggi  nostre,  né  sulle  persone  che  possono
mettersi alla tortura, né sulle occasioni nelle quali possano  applicarvisi,  né
sul modo di tormentare, se col foco o col dislogamento e strazio  delle  membra,
né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero delle  volte  da  ripeterlo;
tutto  questo  strazio  si  fa  sopra  gli  uomini  coll'autorità  del  giudice,
unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati.(5) » Ma  in  quelle
leggi nostre stava scritta la tortura; ma in quelle d'una gran parte d'Europa(6)
, ma nelle romane, ch'ebbero per tanto tempo nome e autorità di diritto  comune,
stava scritta la tortura. La  questione  dev'esser  dunque,  se  i  criminalisti
interpreti (così li chiameremo, per distinguerli da quelli ch'ebbero il merito e
la fortuna di sbandirli per sempre) sian venuti a render la tortura più  o  meno
atroce di quel che fosse in mano dell'arbitrio, a  cui  la  legge  l'abbandonava
quasi affatto; e il Verri medesimo aveva, in quel  libro  medesimo,  addotta,  o
almeno accennata, la prova più forte in loro favore. «Farinaccio istesso,»  dice
l'illustre scrittore, «parlando de' suoi tempi, asserisce che i giudici, per  il
diletto che  provavano  nel  tormentare  i  rei,  inventavano  nuove  specie  di
tormenti; eccone le parole: Judices qui propter  delectationem,  quam  habent
torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species(7) .» Ho detto: in  loro
favore; perché l'intimazione ai giudici d'astenersi dall'inventar nuove  maniere
di tormentare, e in generale le riprensioni e i lamenti che attestano insieme la
sfrenata e inventiva crudeltà dell'arbitrio, e l'intenzion,  se  non  altro,  di
reprimerla  e  di  svergognarla,  non  sono  tanto  del  Farinacci,  quanto  de'
criminalisti, direi quasi, in genere. Le parole  stesse  trascritte  qui  sopra,
quel dottore le prende da uno più antico, Francesco dal Bruno, il quale le  cita
come d'uno più antico ancora, Angelo d'Arezzo, con  altre  gravi  e  forti,  che
diamo qui tradotte: «giudici, arrabbiati e perversi, che saranno da Dio confusi;
giudici ignoranti, perché l'uom sapiente abborrisce tali cose, e dà  forma  alla
scienza col lume delle virtù(8) ». Prima di tutti questi, nel secolo XIII, Guido
da Suzara, trattando della tortura, e applicando  a  quest'argomento  le  parole
d'un rescritto di Costanzo, sulla custodia  del  reo,  dice  esser  suo  intento
«d'imporre qualche moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura.(9)  »
Nel secolo seguente, Baldo applica il celebre rescritto di Costantino contro  il
padrone che uccide il servo, «ai giudici che squarcian le carni del reo,  perché
confessi»; e vuole che, se questo muore ne' tormenti, il giudice sia decapitato,
come omicida(10). Più tardi, Paride dal Pozzo inveisce contro que' giudici  che,
«assetati di sangue,  anelano  a  scannare,  non  per  fine  di  riparazione  né
d'esempio, ma come per un loro vanto (propter gloriam eorum); e sono  per
ciò da riguardarsi come omicidi(11)». «Badi il giudice di non  adoprar  tormenti
ricercati e inusitati;  perché  chi  fa  tali  cose  è  degno  d'esser  chiamato
carnefice piuttosto che giudice,» scrive Giulio Claro(12) .  «Bisogna  alzar  la
voce (clamandum est) contro  que'  giudici  severi  e  crudeli  che,  per
acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a  più  alti  posti,
impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti,» scrive  Antonio  Gomez(13)  .
Diletto e gloria! quali passioni,  in  qual  soggetto!  Voluttà  nel  tormentare
uomini, orgoglio nel soggiogare uomini imprigionati! Ma  almeno  quelli  che  le
svelavano,  non  si  può  credere  che  intendessero  di  favorirle.  A   queste
testimonianze (e altre simili se ne dovrà allegare  or  ora)  aggiungeremo  qui,
che, ne' libri su questa materia,  che  abbiam  potuti  vedere,  non  ci  è  mai
accaduto di trovar lamenti contro de' giudici che  adoprassero  tormenti  troppo
leggieri. E se, in quelli che non abbiam visti, ci si mostrasse una tal cosa, ci
parrebbe una curiosità davvero. Alcuni de' nomi che abbiam citati, e  di  quelli
che avremo a citare, son messi dal Verri in una lista di «scrittori, i quali  se
avessero esposto  le  crudeli  loro  dottrine  e  la  metodica  descrizione  de'
raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la  rozzezza  e
la barbarie non allontanasse le persone sensate  e  colte  dall'esaminarli,  non
potevano essere riguardati se non coll'occhio medesimo col quale  si  rimira  il
carnefice, cioè con orrore e ignominia(14) ». Certo,  l'orrore  per  quello  che
rivelano, non può esser troppo; è giustissimo questo sentimento anche per quello
che ammettevano; ma se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del  loro,
l'orrore sia un giusto sentimento, e l'ignominia  una  giusta  retribuzione,  il
poco che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare. È vero che ne' loro
libri, o, per dir meglio, in qualcheduno, sono, più che nelle  leggi,  descritte
le varie specie di tormenti; ma  come  consuetudini  invalse  e  radicate  nella
pratica, non come ritrovati degli scrittori. E Ippolito  Marsigli,  scrittore  e
giudice del secolo decimoquinto, che ne fa un'atroce, strana e ributtante lista,
allegando anche la sua esperienza, chiama però  bestiali  que'  giudici  che  ne
inventan di nuovi.(15) Furono quegli scrittori, è vero, che misero in  campo  la
questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser  ripetuto;  ma  (e
avremo  occasion  di  vederlo)  per  impor  limiti  e  condizioni  all'arbitrio,
profittando dell'indeterminate e ambigue indicazioni  che  ne  somministrava  il
diritto romano. Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che potesse durar lo
spasimo; ma non per altro che per  imporre,  anche  in  questo,  qualche  misura
all'instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, «a certi  giudici,  non
meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo  per  tre  o  quattr'ore,»
dice il Farinacci(16) ; «a certi giudici iniquissimi e  scelleratissimi,  levati
dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i  quali,  quand'hanno  in
loro potere un accusato, forse a torto (forte indebite), non gli  parlano
che tenendolo al tormento; e se non confessa quel ch'essi vorrebbero, lo lascian
lì pendente alla fune, per un giorno, per una  notte  intera,»  aveva  detto  il
Marsigli(17) , circa un secolo prima. In questi passi, e in  qualche  altro  de'
citati sopra, si può anche notare come alla crudeltà cerchino d'associar  l'idea
dell'ignoranza. E per la ragion contraria, raccomandano, in nome della  scienza,
non meno che della coscienza, la moderazione,  la  benignità,  la  mansuetudine.
Parole che fanno rabbia, applicate a una tal cosa; ma che insieme  fanno  vedere
se l'intento di quegli  scrittori  era  d'aizzare  il  mostro,  o  d'ammansarlo.
Riguardo poi alle persone che potessero  esser  messe  alla  tortura,  non  vedo
cos'importi che niente ci fosse nelle leggi propriamente  nostre,  quando  c'era
molto, relativamente al resto di questa trista materia, nelle leggi  romane,  le
quali erano in fatto  leggi  nostre  anch'esse.  «Uomini»,  prosegue  il  Verri,
«ignoranti e feroci, i quali senza esaminare donde emani il diritto di punire  i
delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare  la
gravezza dei delitti, qual debba esser la proporzione tra i delitti e  le  pene,
se un uomo possa mai costringersi a rinunziare alla  difesa  propria,  e  simili
principii, dai quali, intimamente  conosciuti,  possono  unicamente  dedursi  le
naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della società; uomini,
dico, oscuri e privati, con  tristissimo  raffinamento  ridussero  a  sistema  e
gravemente pubblicarono la  scienza  di  tormentare  altri  uomini,  con  quella
tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare  ai  mali  del
corpo umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un
serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie legali i crudeli
scrittori che insegnarono a sconnettere con industrioso spasimo le membra  degli
uomini vivi, e a raffinarlo colla lentezza e coll'aggiunta di più tormenti, onde
rendere più desolante e acuta l'angoscia e l'esterminio.» Ma come mai ad  uomini
oscuri e ignoranti poté esser concessa  tanta  autorità?  dico  oscuri  al  loro
tempo, e  ignoranti  riguardo  ad  esso;  ché  la  questione  è  necessariamente
relativa; e si tratta di vedere, non già se quegli scrittori avessero i lumi che
si posson desiderare in un legislatore, ma se n'avessero più o  meno  di  coloro
che prima applicavan le leggi da sé, e in gran parte se le facevan da sé. E come
mai era più feroce l'uomo  che  lavorava  teorie,  e  le  discuteva  dinanzi  al
pubblico,  dell'uomo  ch'esercitava  l'arbitrio  in  privato,  sopra   chi   gli
resisteva? In quanto  poi  alle  questioni  accennate  dal  Verri,  guai  se  la
soluzione della prima, «donde emani il  diritto  di  punire  i  delitti»,  fosse
necessaria per compilar con discrezione delle leggi penali; poiché si poté bene,
al tempo del Verri, crederla sciolta; ma ora (e per fortuna, giacché è men  male
l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore) è più controversa che mai.  E
l'altre, dico in generale tutte le questioni d'un'importanza  più  immediata,  e
più pratica, erano forse sciolte e sciolte  a  dovere,  erano  almeno  discusse,
esaminate quando gli scrittori comparvero? Vennero essi forse  a  confondere  un
ordine stabilito di più giusti e umani principi, a balzar di posto dottrine  più
sapienti, a turbar, dirò così, il possesso a una giurisprudenza più ragionata  e
più ragionevole? A questo possiamo risponder francamente di no, anche noi; e ciò
basta  all'assunto.  Ma  vorremmo  che  qualcheduno  di  quelli  che  ne  sanno,
esaminasse se piuttosto non furon essi che, costretti, appunto perché privati  e
non legislatori, a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la materia a
princìpi generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi  nelle  leggi
romane, e cercandone altri nell'idea universale del diritto; se non  furon  essi
che, lavorando a costruir, con  rottami  e  con  nuovi  materiali,  una  pratica
criminale intera ed una, prepararono il concetto, indicarono la  possibilità,  e
in parte l'ordine, d'una legislazion criminale intera ed una; essi che,  ideando
una forma generale,  aprirono  ad  altri  scrittori,  dai  quali  furono  troppo
sommariamente giudicati, la strada a ideare  una  generale  riforma.  In  quanto
finalmente all'accusa, così generale e così nuda, d'aver raffinato  i  tormenti,
abbiamo in vece veduto che fu cosa dalla maggior  parte  di  loro  espressamente
detestata e, per quanto stava in loro, proibita. Molti  de'  luoghi  che  abbiam
riferiti possono anche servire a lavarli in parte dalla taccia d'averne trattato
con quell'impassibile tranquillità. Ci si  permetta  di  citarne  un  altro  che
parrebbe quasi un'anticipata protesta. «Non posso che dar nelle  furie»,  scrive
il Farinacci, (non possum  nisi  vehementer  excandescere)  «contro  que'
giudici che tengono per lungo tempo legato il  reo,  prima  di  sottoporlo  alla
tortura; e con quella preparazione  la  rendon  più  crudele.(18)  »  Da  queste
testimonianze, e da quello che sappiamo essere stata  la  tortura  negli  ultimi
suoi tempi,  si  può  francamente  dedurre  che  i  criminalisti  interpreti  la
lasciarono molto, ma molto, men barbara di quello che l'avevan trovata. E  certo
sarebbe assurdo l'attribuire a una sola causa una tal diminuzione di  male;  ma,
tra le molte, mi par che sarebbe anche cosa poco ragionevole il non  contare  il
biasimo e le ammonizioni  ripetute  e  rinnovate  pubblicamente,  di  secolo  in
secolo, da quelli ai quali pure s'attribuisce un'autorità di fatto sulla pratica
de' tribunali. Cita  poi  il  Verri  alcune  loro  proposizioni;  le  quali  non
basterebbero per  fondarci  sopra  un  generale  giudizio  storico,  quand'anche
fossero tutte esattamente citate. Eccone, per esempio, una importantissima,  che
non lo è: «Il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizii contro un  uomo,
e si può metterlo alla  tortura(19)».  Se  quel  dottore  avesse  parlato  così,
sarebbe piuttosto una singolarità che un argomento; tanto  una  tal  dottrina  è
opposta a quella d'una moltitudine d'altri dottori. Non dico di tutti,  per  non
affermar troppo più di quello che so; benché, dicendolo, non temerei  d'affermar
più di quello che è. Ma in realtà il Claro disse, anche lui, il contrario; e  il
Verri fu probabilmente indotto in errore dall'incuria d'un tipografo,  il  quale
stampò: Nam sufficit adesse aliqua indicia contra reum  ad  hoc  ut  torqueri
possit(20) , in vece di Non sufficit,  come  trovo  in  due  edizioni
anteriori(21) . E per accertarsi dell'errore, non  è  neppur  necessario  questo
confronto, giacché il testo continua  così:  «se  tali  indizi  non  sono  anche
legittimamente provati»; frase che farebbe ai cozzi con l'antecedente, se questa
avesse un senso affermativo.  E  soggiunge  subito:  «ho  detto  che  non  basta
(dixi  quoque  non  sufficere)  che  ci  siano  indizi,   e   che   siano
legittimamente provati, se non sono anche sufficienti alla  tortura.  Ed  è  una
cosa che i giudici timorati di Dio devono aver sempre davanti  agli  occhi,  per
non sottoporre  ingiustamente  alcuno  alla  tortura:  cosa  del  resto  che  li
sottopone essi medesimi a un giudizio di revisione. E racconta l'Afflitto d'aver
risposto al re Federigo, che nemmen lui, con l'autorità regia, poteva  comandare
a un giudice di mettere alla tortura un uomo, contro il  quale  non  ci  fossero
indizi sufficienti». Così il Claro; e basterebbe questo per  esser  come  certi,
che  dovette  intender  tutt'altro  che  di  rendere  assoluto  l'arbitrio   con
quell'altra proposizione che il Verri traduce così: «in  materia  di  tortura  e
d'indizi,  non  potendosi  prescrivere  una  norma  certa,  tutto   si   rimette
all'arbitrio del giudice(22) ». La contradizione sarebbe  troppo  strana;  e  lo
sarebbe di più, se è possibile, con quello che l'autor  medesimo  dice  altrove:
«benché il giudice abbia l'arbitrio, deve però  stare  al  diritto  comune...  e
badino bene gli ufiziali della giustizia, di non andar avanti tanto allegramente
(ne nimis animose procedant),  con  questo  pretesto  dell'arbitrio(23)».
Cosa intese dunque, con quelle parole: remittitur arbitrio judicis che il
Verri traduce: «tutto si rimette all'arbitrio del  giudice»?  Intese...  Ma  che
dico? e perché cercare  in  questo  un'opinion  particolare  del  Claro?  Quella
proposizione, egli non faceva altro che ripeterla, giacché era,  per  dir  così,
proverbiale tra gl'interpreti; e già due secoli prima, Bartolo la ripeteva anche
lui, come sentenza comune: Doctores communiter dicunt quod in hoc  (quali
siano gl'indizi sufficienti alla tortura) non potest dari certa doctrina, sed
relinquitur arbitrio judicis(24) .  E  con  questo  non  intendevan  già  di
proporre un principio, di stabilire una teoria, ma d'enunciar  semplicemente  un
fatto; cioè che la legge, non avendo determinato gl'indizi, gli  aveva  per  ciò
stesso lasciati all'arbitrio del giudice. Guido da Suzara, anteriore  a  Bartolo
d'un secolo circa, dopo aver detto o  ripetuto  anche  lui,  che  gl'indizi  son
rimessi all'arbitrio del giudice, soggiunge: «come, in generale, tutto  ciò  che
non è determinato dalla legge(25) ». E per citarne qualcheduno de' meno antichi,
Paride dal Pozzo, ripetendo quella comune sentenza, la commenta così: «a ciò che
non è determinato dalla legge, né dalla consuetudine, deve supplire la  religion
del giudice; e perciò la legge  sugl'indizi  mette  un  gran  carico  sulla  sua
coscienza(26)i ». E il Bossi, criminalista del secolo XVI, e senator di  Milano:
«Arbitrio non vuol dir altro (in hoc consistit) se non che il giudice non
ha una regola certa dalla legge, la quale dice soltanto  non  doversi  cominciar
dai tormenti, ma da argomenti verisimili e probabili. Tocca dunque al giudice  a
esaminare se un indizio sia verisimile e probabile(27) ». Ciò ch'essi chiamavano
arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e
di tristo suono, fu  poi  chiamata  poter  discrezionale:  cosa  pericolosa,  ma
inevitabile nell'applicazion delle leggi, e  buone  e  cattive;  e  che  i  savi
legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad
alcune determinate e meno essenziali circostanze,  e  di  restringere  anche  in
quelle più che possono. E tale, oso dire, fu anche  l'intento  primitivo,  e  il
progressivo lavoro degl'interpreti, segnatamente riguardo  alla  tortura,  sulla
quale il potere lasciato dalla legge al giudice era spaventosamente  largo.  Già
Bartolo, dopo le parole che abbiam citate  sopra,  soggiunge:  «ma  io  darò  le
regole che potrò». Altri ne avevan date prima di lui; e  i  suoi  successori  ne
diedero di mano in mano molte più, chi proponendone  qualcheduna  del  suo,  chi
ripetendo e approvando le proposte da altri; senza lasciar però  di  ripeter  la
formola ch'esprimeva il fatto della legge, della quale non erano, alla fine, che
interpreti. Ma con l'andar del  tempo,  e  con  l'avanzar  del  lavoro,  vollero
modificare anche il linguaggio; e n'abbiam l'attestato dal Farinacci, posteriore
ai  citati  qui,  anteriore  però  all'epoca  del  nostro  processo,  e   allora
autorevolissimo. Dopo aver ripetuto, e confermato con un subisso d'autorità,  il
principio, che «l'arbitrio non si deve intender libero e assoluto, ma legato dal
diritto e dall'equità»; dopo averne cavate, e confermate con altre autorità,  le
conseguenze, che «il giudice deve inclinare  alla  parte  più  mite,  e  regolar
l'arbitrio con la disposizion generale  delle  leggi,  e  con  la  dottrina  de'
dottori approvati, e che non può formare indizi  a  suo  capriccio»;  dopo  aver
trattato, più estesamente, credo, e più ordinatamente che nessuno  avesse  ancor
fatto, di tali indizi, conclude: «puoi dunque vedere che la massima  comune  de'
dottori - gl'indizi alla tortura sono arbitrari al giudice - è talmente, e anche
concordemente ristretta da' dottori medesimi, che non a torto molti giurisperiti
dicono doversi anzi stabilir la regola contraria, cioè che  gl'indizi  non  sono
arbitrari al giudice(28) ». E cita questa sentenza di Francesco Casoni: «è error
comune de' giudici il credere che la tortura sia arbitraria; come se  la  natura
avesse  creati  i  corpi  de'  rei  perché  essi  potessero  straziarli  a  loro
capriccio(29) ». Si vede qui un momento notabile della scienza,  che,  misurando
il suo lavoro, n'esige il frutto; e dichiarandosi, non aperta riformatrice  (ché
non lo pretendeva, né le sarebbe stato ammesso), ma  efficace  ausiliaria  della
legge, consacrando la propria autorità  con  quella  d'una  legge  superiore  ed
eterna, intima ai giudici di seguir le regole che  ha  trovate,  per  risparmiar
degli strazi a chi poteva essere innocente,  e  a  loro  delle  turpi  iniquità.
Triste correzioni d'una cosa che, per essenza, non  poteva  ricevere  una  buona
forma; ma tutt'altro che argomenti atti a provar la  tesi  del  Verri:  «né  gli
orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa  patire...
ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla(30) ».
Ci si permetta in ultimo qualche  osservazione  sopra  un  altro  luogo  da  lui
citato; ché l'esaminarli tutti sarebbe troppo in questo luogo, e non  abbastanza
certamente per la questione. «Basti un solo orrore per  tutti;  e  questo  viene
riferito dal celebre Claro milanese, che è il sommo maestro di questa pratica: -
Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela  venire
nella sua stanza secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla,  prometterle
la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e che con un tal mezzo  un
certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi d'un omicidio, e la condusse  a
perdere la testa. -  Acciocché  non  si  sospetti  che  quest'orrore  contro  la
religione, la virtù e tutti i più sacri principii dell'uomo sia esagerato,  ecco
cosa dice il Claro: Paris dicit quod judex  potest,  etc.(31)  ».  Orrore
davvero; ma per veder che importanza possa  avere  in  una  question  di  questa
sorte, s'osservi  che,  enunciando  quell'opinione,  Paride  dal  Pozzo(32)  non
proponeva già un suo ritrovato; raccontava, e pur troppo  con  approvazione,  un
fatto d'un giudice, cioè uno de' mille  fatti  che  produceva  l'arbitrio  senza
suggerimento  di  dottori;  s'osservi  che  il  Baiardi,  il   quale   riferisce
quell'opinione, nelle sue aggiunte al Claro (non il Claro medesimo), lo  fa  per
detestarla anche lui, e per qualificare il fatto  di  finzione  diabolica(33)
; s'osservi che non cita alcun altro il quale  sostenesse  un'opinion  tale,
dal tempo di Paride dal Pozzo al suo, cioè per lo spazio d'un secolo. E  andando
avanti, sarebbe più strano che ce ne fosse stato alcuno. E quel Paride dal Pozzo
medesimo,  Dio   ci   liberi   di   chiamarlo,   col   Giannone,   eccellente
giureconsulto(34) ;  ma  l'altre  sue  parole  che  abbiam  riferite  sopra,
basterebbero a far veder che queste bruttissime non bastano a  dare  una  giusta
idea nemmen delle dottrine di questo  solo.  Non  abbiam  certamente  la  strana
pretensione  d'aver  dimostrato  che  quelle  degl'interpreti,  prese  nel  loro
complesso,  non  servirono,   né   furon   rivolte   a   peggiorare.   Questione
interessantissima, giacché si tratta  di  giudicar  l'effetto  e  l'intento  del
lavoro intellettuale di più secoli, in una materia così  importante,  anzi  così
necessaria all'umanità;  questione  del  nostro  tempo,  giacché,  come  abbiamo
accennato, e del resto ognun sa, il momento in cui si  lavora  a  rovesciare  un
sistema, non è il più adattato a farne imparzialmente la storia; ma questione da
risolversi, o piuttosto storia da farsi, con altro che  con  pochi  e  sconnessi
cenni. Questi  bastan  però,  se  non  m'inganno,  a  dimostrar  precipitata  la
soluzione contraria; come erano, in certo modo, una  preparazion  necessaria  al
nostro racconto. Ché in esso noi avremo spesso a rammaricarci che l'autorità  di
quegli uomini non sia stata efficace davvero; e siam certi che il lettore  dovrà
dir con noi: fossero stati ubbiditi!

Cap.3

E per venir  finalmente  all'applicazione,  era  insegnamento  comune,  e  quasi
universale de' dottori, che la bugia dell'accusato nel  rispondere  al  giudice,
fosse uno degl'indizi  legittimi,  come  dicevano,  alla  tortura.  Ecco  perché
l'esaminatore dell'infelice Piazza gli oppose, non essere verisimile che lui non
avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta Ticinese, e che  non  sapesse
il nome de' deputati coi quali aveva avuto che fare.  Ma  insegnavan  forse  che
bastasse una bugia qualunque? «La bugia, per fare  indizio  alla  tortura,  deve
riguardar le  qualità  e  le  circostanze  sostanziali  del  delitto,  cioè  che
appartengano ad esso, e dalle quali  esso  si  possa  inferire;  altrimenti  no:
alias secus.» «La bugia non fa indizio alla tortura, se riguarda cose che
non aggraverebbero il reo, quando le  avesse  confessate.»  E  bastava,  secondo
loro, che il detto dell'accusato paresse al giudice bugia, perché questo potesse
venire ai tormenti? «La bugia per fare indizio alla  tortura  dev'esser  provata
concludentemente, o dalla propria confession del  reo,  o  da  due  testimoni...
essendo dottrina comune che due sian necessari  a  provare  un  indizio  remoto,
quale è la bugia(35) ». Cito, e citerò spesso il Farinacci,  come  uno  de'  più
autorevoli allora, e come gran raccoglitore dell'opinioni più  ricevute.  Alcuni
però  si  contentavano  d'un  testimonio  solo,  purché  fosse  maggiore  d'ogni
eccezione. Ma che la bugia dovesse risultar da prove legali, e non  da  semplice
congettura del giudice, era dottrina comune e non contradetta.  Tali  condizioni
eran dedotte da quel canone della legge romana, il quale proibiva (che cose  s'è
ridotti a proibire, quando se ne sono ammesse cert'altre!)  di  cominciar  dalla
tortura. «E se concedessimo ai giudici», dice l'autor medesimo, «la  facoltà  di
mettere alla tortura i rei senza indizi legittimi e sufficienti, sarebbe come in
lor potere il cominciar da essa... E per poter chiamarsi tali,  devon  gl'indizi
esser verisimili, probabili, non leggieri, né di semplice formalità,  ma  gravi,
urgenti, certi, chiari, anzi più chiari del sole di mezzogiorno,  come  si  suol
dire... Si tratta di dare a un uomo un tormento, e un tormento che  può  decider
della sua vita: agitur de hominis salute; e perciò non ti maravigliare, o
giudice rigoroso, se la scienza del diritto e i dottori richiedono  indizi  così
squisiti, e dicon la cosa con tanta forza, e la vanno tanto ripetendo(36) .» Non
diremo certamente che tutto questo sia ragionevole; giacché non può esserlo  ciò
che implica contradizione. Erano sforzi vani,  per  conciliar  la  certezza  col
dubbio, per evitare il pericolo di tormentare  innocenti,  e  d'estorcere  false
confessioni, volendo però la tortura come un mezzo appunto di  scoprire  se  uno
fosse innocente o reo, e di fargli confessare  una  data  cosa.  La  conseguenza
logica sarebbe stata di dichiarare assurda e ingiusta la tortura;  ma  a  questo
ostava l'ossequio cieco all'antichità  e  al  diritto  romano.  Quel  libriccino
Dei delitti e delle  pene,  che  promosse,  non  solo  l'abolizion  della
tortura, ma la riforma di  tutta  la  legislazion  criminale,  cominciò  con  le
parole: «Alcuni avanzi di leggi d'un  antico  popolo  conquistatore.»  E  parve,
com'era, ardire d'un grand'ingegno: un secolo prima sarebbe  parsa  stravaganza.
Né c'è da maravigliarsene: non s'è egli visto un ossequio  dello  stesso  genere
mantenersi più a lungo, anzi diventar più forte nella politica, più tardi  nella
letteratura, più tardi ancora in qualche ramo delle  Belle  Arti?  Viene,  nelle
cose grandi, come nelle piccole, un momento in cui ciò che, essendo  accidentale
e fattizio, vuol perpetuarsi come naturale e necessario, è  costretto  a  cedere
all'esperienza, al ragionamento, alla sazietà, alla moda, a qualcosa di meno, se
è possibile, secondo la qualità e l'importanza delle cose  medesime;  ma  questo
momento dev'esser preparato. Ed è già un merito non piccolo degl'interpreti, se,
come  ci  pare,  furon  essi  che  lo  prepararono,  benché  lentamente,  benché
senz'avvedersene,  per  la  giurisprudenza.  Ma  le  regole  che  pure   avevano
stabilite, bastano in questo caso a convincere  i  giudici,  anche  di  positiva
prevaricazione. Vollero appunto costoro cominciar dalla tortura.  Senza  entrare
in nulla che toccasse circostanze, né sostanziali né accidentali,  del  presunto
delitto,  moltiplicarono  interrogazioni  inconcludenti,  per  farne  uscir  de'
pretesti di dire alla vittima destinata: non è verisimile; e,  dando  insieme  a
inverisimiglianze asserite la forza di  bugie  legalmente  provate,  intimar  la
tortura. È che non cercavano  una  verità,  ma  volevano  una  confessione:  non
sapendo quanto vantaggio avrebbero avuto nell'esame del fatto supposto, volevano
venir presto al dolore, che dava loro  un  vantaggio  pronto  e  sicuro:  avevan
furia. Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi  simili)  che  Guglielmo
Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra;  e  loro  che
l'avevan nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui! Si dirà forse
che,  in  faccia  alla  giurisprudenza,  se  non  alla  coscienza,   tutto   era
giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne' delitti  più
atroci fosse lecito oltrepassare il diritto? Lasciamo da parte che l'opinion più
comune, anzi quasi universale, de' giureconsulti,  era  (e  se  al  ciel  piace,
doveva essere) che una tal massima non potesse  applicarsi  alla  procedura,  ma
soltanto alla pena; «giacché,» per citarne uno, «benché si tratti  d'un  delitto
enorme, non consta però che l'uomo l'abbia commesso; e fin  che  non  consti,  è
dovere che si serbino le solennità del diritto(37) ». E solo per farne  memoria,
e come un di que' tratti notabili con cui l'eterna ragione si manifesta in tutti
i tempi, citeremo anche la sentenza d'un uomo  che  scrisse  sul  principio  del
secolo decimoquinto, e fu, per lungo tempo dopo, chiamato il Bartolo del diritto
ecclesiastico, Nicolò Tedeschi, arcivescovo di Palermo, più celebre, fin che  fu
celebre, sotto il nome d'Abate Palermitano: «Quanto il  delitto  è  più  grave,»
dice quest'uomo, «tanto più le presunzioni devono esser forti; perché,  dove  il
pericolo è maggiore, bisogna anche andar più cauti(38) ». Ma questo,  dico,  non
fa al nostro caso (sempre riguardo alla sola giurisprudenza),  poiché  il  Claro
attesta che nel foro di Milano prevaleva la consuetudine contraria; cioè era, in
que'   casi,   permesso   al   giudice   d'oltrepassare   il   diritto,    anche
nell'inquisizione(39)  .  «Regola»,  dice  il  Riminaldi,  altro   già   celebre
giureconsulto, «da non riceversi negli altri paesi»; e il  Farinacci  soggiunge:
«ha ragione(40) ». Ma vediamo come il Claro medesimo interpreti una tal  regola:
«si viene alla tortura, quantunque gl'indizi  non  siano  in  tutto  sufficienti
(in  totum  sufficientia),  né  provati  da  testimoni  maggiori   d'ogni
eccezione, e spesse volte anche senza  aver  data  al  reo  copia  del  processo
informativo». E dove tratta in particolare degl'indizi legittimi  alla  tortura,
li dichiara espressamente necessari «non solo ne' delitti minori, ma  anche  ne'
maggiori e negli atrocissimi, anzi nel delitto stesso di lesa maestà(41)  ».  Si
contentava dunque d'indizi meno rigorosamente provati, ma li voleva  provati  in
qualche maniera; di testimoni meno autorevoli, ma voleva testimoni; d'indizi più
leggieri, ma voleva indizi reali, relativi al fatto; voleva insomma  render  più
facile al giudice la scoperta del delitto, non dargli la facoltà di  tormentare,
sotto qualunque pretesto, chiunque gli venisse nelle  mani.  Son  cose  che  una
teoria astratta non riceve, non inventa, non sogna neppure; bensì la passione le
fa. Intimò dunque l'iniquo esaminatore al Piazza: che dica la verità per qual
causa nega di sapere che siano state onte le muraglie,  et  di  sapere  come  si
chiamino li deputati, che altrimente, come cose inuerisimili,  si  metterà  alla
corda, per hauer la verità di queste inuerisimilitudini. -  Se  me  la  vogliono
anche far attaccar al collo, lo  faccino;  che  di  queste  cose  che  mi  hanno
interrogato non ne so niente,  rispose  l'infelice,  con  quella  specie  di
coraggio disperato, con cui la ragione sfida alle volte la forza, come per farle
sentire che, a qualunque segno arrivi, non arriverà mai a diventar ragione. E si
veda a che miserabile astuzia dovettero ricorrer que' signori, per dare  un  po'
più di colore al pretesto. Andarono, come abbiam detto, a caccia  d'una  seconda
bugia, per poter parlarne con la formola del plurale; cercarono un  altro
zero, per ingrossare un conto in  cui  non  avevan  potuto  fare  entrar  nessun
numero. È messo alla  tortura;  gli  s'intima  che  si  risolua  di  dire  la
verità;  risponde,  tra  gli  urli  e  i  gemiti  e   l'invocazioni   e   le
supplicazioni: l'ho detta, signore. Insistono. Ah per amor di Dio!  grida
l'infelice: V.S. mi facci lasciar giù, che dirò quello che so; mi facci  dare
un po' d'aqua. È  lasciato  giù,  messo  a  sedere,  interrogato  di  nuovo;
risponde: io non so niente; V.S. mi facci dare un poco d'aqua.  Quanto  è
cieco il furore! Non veniva loro in mente che quello  che  volevan  cavargli  di
bocca per forza, avrebbe potuto addurlo lui come un argomento  fortissimo  della
sua innocenza, se fosse stato la verità, come, con atroce sicurezza, ripetevano.
- Sì, signore, - avrebbe potuto rispondere: -  avevo  sentito  dire  che  s'eran
trovati unti i muri di via della Vetra; e stavo a baloccarmi sulla porta di casa
vostra, signor presidente della Sanità! - E l'argomento sarebbe stato tanto  più
forte, in quanto, essendosi sparsa insieme la voce del fatto, e la voce  che  il
Piazza ne fosse  l'autore,  questo  avrebbe,  insieme  con  la  notizia,  dovuto
risapere il suo pericolo. Ma questa osservazion così ovvia, e che il furore  non
lasciava  venire  in  mente  a  coloro,  non  poteva  nemmeno  venire  in  mente
all'infelice, perché non gli era stato detto di  cosa  fosse  imputato.  Volevan
prima domarlo co' tormenti; questi eran per  loro  gli  argomenti  verosimili  e
probabili, richiesti  dalla  legge;  volevan  fargli  sentire  quale  terribile,
immediata  conseguenza  veniva  dal  risponder  loro  di  no;  volevano  che  si
confessasse bugiardo una volta, per acquistare  il  diritto  di  non  credergli,
quando avrebbe detto: sono innocente. Ma  non  ottennero  l'iniquo  intento.  Il
Piazza, rimesso alla tortura, alzato da terra, intimatogli che  verrebbe  alzato
di più, eseguita la minaccia, e sempre incalzato a dir la verità, rispose
sempre: l'ho detta; prima urlando, poi a voce bassa;  finché  i  giudici,
vedendo che ormai non avrebbe più  potuto  rispondere  in  nessuna  maniera,  lo
fecero lasciar giù, e ricondurre in carcere.  Riferito  l'esame  in  senato,  il
giorno 23, dal presidente della Sanità, che n'era  membro,  e  dal  capitano  di
giustizia, che ci sedeva quando fosse chiamato, quel tribunale  supremo  decretò
che: «il Piazza, dopo essere stato raso, rivestito con gli abiti della curia,  e
purgato, fosse sottoposto alla tortura  grave,  con  la  legatura  del  canapo»,
atrocissima aggiunta, per la quale, oltre le  braccia,  si  slogavano  anche  le
mani; «a riprese, e ad arbitrio de' due magistrati suddetti; e ciò sopra  alcune
delle menzogne e inverisimiglianze risultanti  dal  processo».  Il  solo  senato
aveva, non dico l'autorità, ma il potere d'andare impunemente tanto  avanti  per
una tale strada. La  legge  romana  sulla  ripetizion  de'  tormenti(42)  ,  era
interpretata in due maniere; e la men probabile era la più umana. Molti  dottori
(seguendo forse Odofredo(43) , che è il solo citato da Cino di Pistoia(44)  ,  e
il più antico de' citati dagli altri) intesero che la  tortura  non  si  potesse
rinnovare, se non quando fossero sopravvenuti nuovi  indizi,  più  evidenti  de'
primi, e, condizione  che  fu  aggiunta  poi,  di  diverso  genere.  Molt'altri,
seguendo Bartolo(45) , intesero che si potesse, quando i  primi  indizi  fossero
manifesti, evidentissimi, urgentissimi; e quando, condizione aggiunta poi  anche
questa, la tortura  fosse  stata  leggiera(46)  .  Ora,  né  l'una,  né  l'altra
interpretazione faceva punto al caso. Nessun nuovo indizio era emerso; e i primi
erano che due donne avevan visto il Piazza toccar qualche muro;  e,  ciò  ch'era
indizio insieme e corpo del delitto, i magistrati avevan visto  alcuni  segni
di materia ontuosa su que' muri abbruciacchiati e affumicati, e segnatamente
in un andito... dove il Piazza non era entrato.  Di  più,  quest'indizi,  quanto
manifesti, evidenti e urgenti, ognun lo vede, non erano stati messi alla  prova,
discussi col reo. Ma che dico? il decreto del  senato  non  fa  neppur  menzione
d'indizi relativi al delitto, non applica neppur la legge a torto;  fa  come  se
non ci fosse. Contro ogni legge, contro ogni autorità, come contro ogni ragione,
ordina  che  il  Piazza  sia  torturato  di  nuovo,  sopra  alcune  bugie   e
inverisimiglianze;  ordina  cioè  a'  suoi  delegati  di   rifare,   e   più
spietatamente, ciò che avrebbe dovuto punirli d'aver fatto.  Perciocché  era  (e
poteva non essere?) dottrina universale, canone  della  giurisprudenza,  che  il
giudice inferiore, il quale avesse messo un accusato alla tortura  senza  indizi
legittimi, fosse punito dal superiore. Ma  il  senato  di  Milano  era  tribunal
supremo; in questo mondo, s'intende. E il senato di Milano, da cui  il  pubblico
aspettava la sua vendetta, se non la salute, non doveva essere men  destro,  men
perseverante, men fortunato scopritore, di Caterina Rosa. Ché  tutto  si  faceva
con l'autorità di costei; quel suo: all'hora mi viene in pensiero se  a  caso
fosse un poco uno de quelli, com'era stato il primo  movente  del  processo,
così n'era ancora il regolatore e il modello; se non che colei aveva  cominciato
col dubbio, i giudici con la certezza. E non paia strano di vedere un  tribunale
farsi seguace ed emulo d'una o di due donnicciole; giacché, quando  s'è  per  la
strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino. Non paia  strano  il
veder uomini i quali non dovevan essere, anzi non eran certamente di quelli  che
vogliono il male  per  il  male,  vederli,  dico,  violare  così  apertamente  e
crudelmente  ogni  diritto;  giacché  il  credere  ingiustamente,  è  strada   a
ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta persuasione possa condurre; e  se  la
coscienza esita, s'inquieta, avverte, le grida d'un pubblico  hanno  la  funesta
forza (in chi dimentica d'avere un altro giudice) di soffogare i rimorsi;  anche
d'impedirli. Il motivo di quelle odiose, se non crudeli prescrizioni, di tosare,
rivestire, purgare, lo diremo con le parole del Verri. «In quei tempi  credevasi
che o ne' capelli  e  peli,  ovvero  nel  vestito,  o  persino  negli  intestini
trangugiandolo, potesse avere un amuleto o patto col  demonio,  onde  rasandolo,
spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato(47) ». E questo era veramente de'
tempi; la violenza era un fatto (con diverse forme) di tutti  i  tempi,  ma  una
dottrina di nessun tempo. Quel secondo esame non fu che una ugualmente assurda e
più atroce ripetizione del primo, e con lo stesso  effetto.  L'infelice  Piazza,
interrogato prima, e contradetto con cavilli, che si  direbbero  puerili,  se  a
nulla d'un tal fatto potesse convenire un tal vocabolo, e sempre su  circostanze
indifferenti al supposto delitto, e senza mai accennarlo  nemmeno,  fu  messo  a
quella più crudele tortura che il senato aveva prescritta.  N'ebbero  parole  di
dolor  disperato,  parole  di  dolor  supplichevole,  nessuna  di   quelle   che
desideravano, e per ottener le quali avevano il coraggio di sentire, di far dire
quell'altre.  Ah  Dio  mio!  ah  che  assassinamento  è  questo!  ah   Signor
fiscale!... Fatemi almeno appiccar  presto...  Fatemi  tagliar  via  la  mano...
Ammazzatemi; lasciatemi almeno riposar un poco. Ah! signor Presidente!  ...  Per
amor di Dio, fatemi dar da bere; ma insieme: non  so  niente,  la  verità
l'ho detta. Dopo molte  e  molte  risposte  tali,  a  quella  freddamente  e
freneticamente ripetuta istanza di dir la verità, gli mancò la  voce,  ammutolì;
per quattro volte non rispose; finalmente poté dire ancora una volta,  con  voce
fioca; non so niente; la verità l'ho già  detta.  Si  dovette  finire,  e
ricondurlo di nuovo, non confesso, in carcere. E non c'eran più nemmen pretesti,
né motivo di ricominciare: quella che avevan  presa  per  una  scorciatoia,  gli
aveva condotti fuor di strada. Se la tortura avesse  prodotto  il  suo  effetto,
estorta la confession della bugia, tenevan l'uomo; e, cosa orribile! quanto  più
il soggetto della bugia era per sé indifferente, e di nessuna importanza,  tanto
più essa sarebbe stata, nelle loro mani, un argomento potente  della  reità  del
Piazza, mostrando che questo aveva bisogno di stare alla  larga  dal  fatto,  di
farsene ignaro in tutto, in somma di mentire. Ma dopo una tortura illegale, dopo
un'altra più illegale e più atroce,  o  grave,  come  dicevano,  rimettere  alla
tortura un uomo, perché negava d'aver sentito parlare d'un fatto, e di sapere il
nome de' deputati d'una  parrocchia,  sarebbe  stato  eccedere  i  limiti  dello
straordinario. Eran dunque da capo, come se  non  avessero  fatto  ancor  nulla;
bisognava  venire,  senza  nessun  vantaggio,  all'investigazion  del   supposto
delitto, manifestare il reato al Piazza, interrogarlo. E se l'uomo  negava?  se,
come aveva dato prova di saper fare, persisteva a negare anche ne'  tormenti?  I
quali avrebbero dovuto  essere  assolutamente  gli  ultimi,  se  i  giudici  non
volevano appropriarsi una terribil sentenza d'un loro collega, morto quasi da un
secolo, ma la cui autorità era viva più che mai, il Bossi citato sopra. «Più  di
tre volte,» dice, «non ho mai visto ordinar la tortura, se non  da  de'  giudici
boia:  nisi  a  carnificibus(48)  .»  E  parla  della  tortura,  ordinata
legalmente! Ma la passione è pur  troppo  abile  e  coraggiosa  a  trovar  nuove
strade, per iscansar  quella  del  diritto,  quand'è  lunga  e  incerta.  Avevan
cominciato con la tortura dello spasimo, ricominciarono  con  una  tortura  d'un
altro genere. D'ordine del senato (come si ricava da una lettera  autentica  del
capitano di giustizia al governatore Spinola, che allora si trovava  all'assedio
di Casale), l'auditor fiscale della Sanità, in presenza d'un notaio, promise  al
Piazza l'impunità, con la condizione (e questo si vede  poi  nel  processo)  che
dicesse interamente la verità. Così eran riusciti a parlargli  dell'imputazione,
senza doverla discutere; a parlargliene, non per cavar dalle sue risposte i lumi
necessari all'investigazion della verità, non per sentir quello che  ne  dicesse
lui; ma per dargli uno stimolo potente a dir quello che volevan loro. La lettera
che abbiamo accennata, fu scritta il 28  di  giugno,  cioè  quando  il  processo
aveva, con quell'espediente, fatto un  gran  passo.  «Ho  giudicato  conuenire,»
comincia, «che V.E. sapesse quello che si è scoperto  nel  particolare  d'alcuni
scelerati che, a' giorni passati, andauano ungendo i muri et le porte di  questa
città.» E non sarà forse senza curiosità, né senza  istruzione,  il  veder  come
cose tali sian raccontate  da  quelli  che  le  fecero.  «Hebbi»,  dice  dunque,
«commissione dal Senato di formar processo, nel quale,  per  il  detto  d'alcune
donne, e d'un huomo degno di fede, restò aggrauato un  Guglielmo  Piazza,  huomo
plebeio, ma ora Commissario  della  Sanità,  ch'esso,  il  venerdì  alli  21  su
l'aurora, hauesse unto i muri di una contrada posta in Porta Ticinese,  chiamata
la Vetra de' Cittadini.» E l'uomo degno di fede, messo lì subito per  corroborar
l'autorità delle donne, aveva detto d'aver rintoppato il Piazza, il quale  io
salutai, et lui mi rese il saluto. Questo era stato aggravarlo! come  se  il
delitto imputatogli fosse stato d'essere entrato in via della Vetra.  Non  parla
poi il capitano di giustizia della visita fatta da lui per riconoscere il  corpo
del delitto; come non se ne parla  più  nel  processo.  «Fu  dunque»,  prosegue,
«incontinente preso costui.» E non parla della visita fattagli in casa, dove non
si trovò nulla di sospetto.  «Et essendosi  maggiormente  nel  suo  esame
aggravato,» (s'è visto!) «fu messo ad una graue  tortura,  ma  non  confessò  il
delitto.» Se qualcheduno avesse detto allo Spinola, che il Piazza non era  stato
interrogato punto intorno al  delitto,  lo  Spinola  avrebbe  risposto:  -  Sono
positivamente informato del contrario: il capitano di giustizia mi  scrive,  non
questa cosa appunto, ch'era inutile; ma un'altra  che  la  sottintende,  che  la
suppone necessariamente; mi scrive che, messo  ad  una  grave  tortura,  non  lo
confessò. - Se l'altro avesse insistito, - come! - avrebbe  potuto  dire  l'uomo
celebre e potente, - volete voi che il capitano di giustizia si faccia beffe  di
me, a segno di raccontarmi, come una notizia  importante,  che  non  è  accaduto
quello che non poteva accadere? - Eppure era proprio così: cioè, non era che  il
capitano di giustizia volesse farsi beffe del governatore; era che avevan  fatta
una cosa da non potersi raccontare nella maniera  appunto  che  l'avevan  fatta;
era, ed è, che la falsa coscienza trova più facilmente pretesti per operare, che
formole per render conto di quello che ha fatto. Ma sul punto dell'impunità, c'è
in quella lettera un altro inganno che lo Spinola avrebbe  potuto,  anzi  dovuto
conoscer da sé, almeno per una parte, se avesse pensato ad altro che  a  prender
Casale, che non prese. Prosegue essa così: «finché d'ordine del Senato (anco per
esecutione della grida ultimamente fatta in  questo  particolare  pubblicare  da
V.E.), promessa dal  Presidente  della  Sanità  a  costui  l'impunità,  confessò
finalmente, etc.». Nel  capitolo  XXXI  dello  scritto  antecedente,  s'è  fatto
menzione d'una grida, con la quale il tribunale della Sanità prometteva premio e
impunità a chi rivelasse gli autori degl'imbrattamenti trovati sulle porte e sui
muri delle case, la mattina del 18 di maggio; e s'è anche accennata una  lettera
del tribunale suddetto al  governatore,  su  quel  fatto.  In  essa,  dopo  aver
protestato che quella grida era stata pubblicata, con participatione del Sig.
Gran Cancelliere, il quale faceva le veci del governatore,  pregavan  questo
di corroborarla con altra sua, con  promessa  di  maggior  premio.  E  il
governatore ne fece infatti promulgare una, in data del 13  di  giugno,  con  la
quale promette a ciascuna persona che, nel termine di giorni trenta,  metterà
in chiaro la persona o le persone che hanno commesso,  fauorito,  aiutato  cotal
delitto, il premio, etc. et se quel tale sarà dei complici,  gli  promette  anco
l'impunità  della  pena.  Ed  è  per  l'esecuzione  di  questa  grida,  così
espressamente circoscritta a un fatto del 18  di  maggio,  che  il  capitano  di
giustizia dice essersi promessa l'impunità all'uomo accusato d'un fatto  del  21
di giugno, e lo dice a quel medesimo che l'aveva, se  non  altro,  sottoscritta!
Tanto pare che si fidassero  sull'assedio  di  Casale!  giacché  sarebbe  troppo
strano il supporre che travedessero essi medesimi a quel segno. Ma  che  bisogno
avevano d'usare un tal raggiro con lo Spinola? Il bisogno d'attaccarsi alla  sua
autorità, di travisare un atto irregolare e abusivo, e secondo la giurisprudenza
comune, e secondo la legislazion del paese. Era, dico, dottrina  comune  che  il
giudice  non  potesse,  di  sua  autorità  propria,  concedere  impunità  a   un
accusato(49) . E nelle costituzioni di Carlo V, dove sono attribuiti  al  senato
poteri ampissimi, s'eccettua però quello di «concedere  remissioni  di  delitti,
grazie o salvocondotti; essendo cosa riservata al principe(50) ». E il Bossi già
citato, il quale, come senator di Milano in quel tempo, fu uno  de'  compilatori
di  quelle  costituzioni,  dice  espressamente:  «questa   promessa   d'impunità
appartiene al principe solo(51) ». Ma perché mettersi nel caso  d'usare  un  tal
raggiro, quando potevan  ricorrere  a  tempo  al  governatore,  il  quale  aveva
sicuramente dal principe un tal potere, e la facoltà di trasmetterlo?  E  non  è
una  possibilità  immaginata  da  noi:  è  quello  che  fecero  essi   medesimi,
all'occasione d'un altro infelice, involto più tardi in quel  crudele  processo.
L'atto è registrato  nel  processo  medesimo,  in  questi  termini:  Ambrosio
Spinola, etc. In conformità del parere datoci dal Senato con lettera dei  cinque
del corrente, concederete impunità, in virtù della presente, a Stefano Baruello,
condannato come dispensatore et fabricatore delli  onti  pestiferi,  sparsi  per
questa Città, ad estintione del Popolo,  se  dentro  del  termine  che  li  sarà
statuito  dal  detto  Senato,  manifestarà  li  auttori  et  complici  di   tale
misfatto. Al Piazza l'impunità  non  fu  promessa  con  un  atto  formale  e
autentico; furon parole dettegli dall'auditore della Sanità, fuor del  processo.
E questo s'intende: un tal atto sarebbe stato una falsità  troppo  evidente,  se
s'attaccava alla grida, un'usurpazion di potere, se non s'attaccava a nulla.  Ma
perché, aggiungo, levarsi in certo modo  la  possibilità  di  mettere  in  forma
solenne un atto di tanta importanza? Questi perché  non  possiam  certo  saperli
positivamente; ma vedrem più tardi cosa servisse ai giudici l'aver fatto così. A
ogni modo, l'irregolarità  d'un  tal  procedere  era  tanto  manifesta,  che  il
difensor del Padilla  la  notò  liberamente.  Benché,  come  protesta  con  gran
ragione, non avesse bisogno d'uscir da ciò che riguardava  direttamente  il  suo
cliente, per iscolparlo dalla pazza accusa; benché, senza ragione,  e  con  poca
coerenza, ammetta un delitto reale, e de'  veri  colpevoli,  in  quel  mescuglio
d'immaginazioni e d'invenzioni; ciò non ostante, ad abbondanza, come si dice,  e
per indebolire tutto ciò che potesse aver relazione con quell'accusa,  fa  varie
eccezioni alla parte  del  processo  che  riguarda  gli  altri.  E  a  proposito
dell'impunità, senza impugnar l'autorità del senato in  tal  materia  (ché  alle
volte gli uomini si tengon più offesi a metter in dubbio il loro potere, che  la
loro rettitudine), oppone che  il  Piazza  «fu  introdotto  nanti  detto  signor
Auditore solamente, quale non haueua alcuna giurisditione...  procedendo  perciò
nullamente, e contro li termini di ragione». E parlando della  menzione  che  fu
fatta più tardi, e occasionalmente, di quell'impunità, dice:  «e  pure,  sino  a
quel ponto, non appare, né si legge in  processo  impunità,  quale  pure,  nanti
detta redargutione, doueua constare in processo, secondo li termini di ragione».
In quel luogo delle difese c'è una parola buttata là,  come  incidentemente,  ma
significantissima. Ripassando gli atti che precedettero  l'impunità,  l'avvocato
non fa alcuna eccezione espressa e diretta alla tortura data al  Piazza,  ma  ne
parla così: «sotto pretesto d'inuerisimili,  torturato».  Ed  è,  mi  pare,  una
circostanza degna d'osservazione che la cosa sia stata  chiamata  col  suo  nome
anche allora, anche davanti a quelli che n'eran gli autori, e  da  uno  che  non
pensava punto a difender la causa di chi n'era stato la  vittima.  Bisogna  dire
che quella promessa d'impunità fosse poco conosciuta dal  pubblico,  giacché  il
Ripamonti, raccontando i fatti principali del processo, nella sua  storia  della
peste, non ne fa menzione,  anzi  l'esclude  indirettamente.  Questo  scrittore,
incapace d'alterare apposta la verità, ma inescusabile di non aver letto, né  le
difese del Padilla, né l'estratto del  processo  che  le  accompagna,  e  d'aver
creduto  piuttosto  alle  ciarle  del  pubblico,  o  alle  menzogne  di  qualche
interessato, racconta in vece che il Piazza, subito dopo la tortura, e mentre lo
slegavano per ricondurlo in carcere, uscì fuori con una  rivelazione  spontanea,
che nessuno s'aspettava(52) . La bugiarda rivelazione  fu  fatta  bensì,  ma  il
giorno  seguente,  dopo  l'abboccamento  con  l'auditore,  e  a  gente  che   se
l'aspettava benissimo. Sicché, se non fossero rimasti que' pochi  documenti,  se
il senato avesse avuto che fare soltanto col pubblico e con la  storia,  avrebbe
ottenuto l'intento d'abbuiar quel fatto così essenziale al processo, e che diede
le  mosse  a  tutti  gli  altri  che  venner   dopo.   Quello   che   passò   in
quell'abboccamento, nessuno lo sa, ognuno se l'immagina a un di presso. «È assai
verosimile», dice  il  Verri,  «che  nel  carcere  istesso  si  sia  persuaso  a
quest'infelice,  che  persistendo  egli  nel   negare,   ogni   giorno   sarebbe
ricominciato lo spasimo; che il delitto si credeva certo, e altro spediente  non
esservi per lui fuorché  l'accusarsene  e  nominare  i  complici;  così  avrebbe
salvata la vita, e si sarebbe sottratto alle torture pronte  a  rinnovarsi  ogni
giorno. Il Piazza dunque chiese, ed  ebbe  l'impunità,  a  condizione  però  che
esponesse sinceramente il fatto.(53) » Non pare  però  punto  probabile  che  il
Piazza abbia chiesto lui l'impunità. L'infelice, come vedremo  nel  seguito  del
processo, non andava avanti se non in quanto  era  strascinato;  ed  è  ben  più
credibile, che, per fargli fare quel primo, così strano e  orribile  passo,  per
tirarlo a calunniar sé e altri, l'auditore gliel'abbia  offerta.  E  di  più,  i
giudici, quando gliene parlaron poi, non avrebbero omessa una  circostanza  così
importante, e che dava tanto maggior peso alla confessione; né l'avrebbe  omessa
il capitano di giustizia nella lettera allo Spinola. Ma chi  può  immaginarsi  i
combattimenti di quell'animo, a cui la memoria così recente  de'  tormenti  avrà
fatto sentire a vicenda il terror di soffrirli di nuovo,  e  l'orrore  di  farli
soffrire! a cui la speranza di fuggire una morte spaventosa, non  si  presentava
che accompagnata con lo spavento di cagionarla a un altro innocente! giacché non
poteva credere che fossero per abbandonare una preda,  senza  averne  acquistata
un'altra almeno, che volessero finire senza  una  condanna.  Cedette,  abbracciò
quella speranza, per quanto fosse orribile e  incerta;  assunse  l'impresa,  per
quanto fosse mostruosa e difficile; deliberò  di  mettere  una  vittima  in  suo
luogo. Ma come trovarla? a che filo attaccarsi? come scegliere tra nessuno? Lui,
era stato un fatto reale, che  aveva  servito  d'occasione  e  di  pretesto  per
accusarlo. Era entrato in via della Vetra, era andato rasente al  muro,  l'aveva
toccato; una sciagurata aveva traveduto, ma qualche cosa. Un  fatto  altrettanto
innocente, e altrettanto indifferente fu, si vede, quello  che  gli  suggerì  la
persona e la favola. Il barbiere  Giangiacomo  Mora  componeva  e  spacciava  un
unguento contro la peste; uno de' mille specifici che avevano  e  dovevano  aver
credito, mentre faceva tanta strage un male di cui non si conosce il rimedio,  e
in un secolo in cui la medicina aveva ancor così poco imparato a non  affermare,
e insegnato a non credere. Pochi giorni  prima  d'essere  arrestato,  il  Piazza
aveva  chiesto  di  quell'unguento  al  barbiere;  questo  aveva   promesso   di
preparargliene; e avendolo poi incontrato sul Carrobio, la  mattina  stessa  del
giorno che seguì l'arresto, gli aveva detto che il vasetto era pronto, e venisse
a prenderlo. Volevan dal Piazza una storia d'unguento, di concerti, di via della
Vetra: quelle circostanze così recenti gli serviron di materia per comporne una:
se si può chiamar comporre l'attaccare a molte circostanze  reali  un'invenzione
incompatibile con esse. Il giorno seguente, 26 di giugno, il Piazza  è  condotto
davanti agli esaminatori, e l'auditore gl'intima: che dica conforme a  quello
che estraiudicialmente confessò a me, alla presenza anco del Notaro Balbiano, se
sa chi è il fabricatore degli unguenti, con quali tante volte  si  sono  trouate
ontate le porte et mura delle case et  cadenazzi  di  questa  città.  Ma  il
disgraziato, che, mentendo a suo dispetto, cercava  di  scostarsi  il  possibile
meno dalla verità, rispose soltanto:  a  me  l'ha  dato  lui  l'unguento,  il
Barbiero. Son le parole tradotte letteralmente, ma messe così fuor di  luogo
dal Ripamonti: dedit unguenta mihi tonsor.  Gli si dice che nomini  il
detto Barbiero; e il suo complice, il suo ministro  in  un  tale  attentato,
risponde: credo habbi nome Gio. Jacomo, la  cui  parentela  (il  cognome)
non so. Non sapeva di certo, che dove stesse di casa, anzi di bottega; e,
a un'altra interrogazione, lo disse. Gli domandano se da detto  Barbiero  lui
Constituto ne ha hauuto o poco o assai di detto unguento. Risponde: me ne
ha dato tanta quantità come potrebbe capire questo calamaro che è qua  sopra  la
tavola. Se avesse ricevuto dal Mora il  vasetto  del  preservativo  che  gli
aveva chiesto, avrebbe descritto quello; ma non potendo cavar  nulla  dalla  sua
memoria, s'attacca a un oggetto presente, per attaccarsi a  qualcosa  di  reale.
Gli domandano se detto Barbiero è amico di lui  Constituto.  E  qui,  non
accorgendosi come la verità che gli si presenta alla memoria,  faccia  ai  cozzi
con l'invenzione, risponde: è amico, signor sì, buon dì, buon anno, è  amico,
signor sì; val a dire che lo conosceva appena di saluto. Ma gli esaminatori,
senza far nessuna osservazione, passarono a domandargli, con  qual  occasione
detto Barbiero gli ha dato detto onto. Ed ecco cosa  rispose:  passai  di
là, et lui chiamandomi mi disse: vi ho puoi da dare un non so che; io gli  dissi
che cosa era? et egli disse: è non so che onto; et io dissi: sì, sì, verrò  puoi
a tuorlo; et così da lì a due o tre giorni, me  lo  diede  puoi.  Altera  le
circostanze materiali del  fatto,  quanto  è  necessario  per  accomodarlo  alla
favola; ma gli lascia il suo colore; e alcune delle parole che  riferisce,  eran
probabilmente quelle ch'eran corse davvero tra loro. Parole dette in conseguenza
d'un concerto già  preso,  a  proposito  d'un  preservativo,  le  dà  per  dette
all'intento di proporre di punto in bianco un avvelenamento, almen  tanto  pazzo
quanto atroce. Con tutto ciò, gli esaminatori vanno avanti con le  domande,  sul
luogo, sul giorno, sull'ora della proposta e della consegna; e, come contenti di
quelle risposte, ne  chiedon  dell'altre.  Che  cosa  gli  disse  quando  gli
consegnò il detto vasetto d'onto?  Mi disse: pigliate questo vasetto,  et
ongete le muraglie qui adietro, et poi venete da me, che hauerete  una  mano  de
danari. «Ma perché il barbiero, senza  arrischiare,  non  ungeva  da  sé  di
notte!»  postilla  qui,  stavo  per  dire  esclama,  il  Verri.   E   una   tale
inverisimiglianza avventa, per dir così, ancor più in una  risposta  successiva.
Interrogato se il detto Barbiero assignò a lui Constituto il luogo preciso da
ongere, risponde: mi disse che ongessi lì nella Vedra de'  Cittadini,  et
che cominciassi dal suo uschio, dove in effetto cominciai. «Nemmeno  l'uscio
suo proprio aveva unto il barbiere!» postilla qui di nuovo il Verri.  E  non  ci
voleva, certo, la sua perspicacia  per  fare  un'osservazion  simile;  ci  volle
l'accecamento della passione per non farla, o la malizia della passione per  non
farne conto, se, come è  più  naturale,  si  presentò  anche  alla  mente  degli
esaminatori. L'infelice inventava così a stento, e come per forza, e solo quando
era eccitato, e come punto dalle domande, che  non  si  saprebbe  indovinare  se
quella promessa di danari sia stata immaginata da lui, per dar  qualche  ragione
dell'avere accettata una commission di  quella  sorte,  o  se  gli  fosse  stata
suggerita da un'interrogazion dell'auditore, in quel tenebroso abboccamento.  Lo
stesso bisogna dire  d'un'altra  invenzione,  con  la  quale,  nell'esame,  andò
incontro indirettamente a un'altra  difficoltà,  cioè  come  mai  avesse  potuto
maneggiar quell'unto così mortale, senza riceverne danno.  Gli  domandano  se
detto Barbiero disse a lui Constituto per qual causa  facesse  ontare  le  dette
porte et muraglie. Risponde: lui non mi disse niente; m'imagino bene  che  detto
onto fosse velenato, et potesse nocere alli  corpi  humani,  poiché  la  mattina
seguente mi diede un'aqua da bevere,  dicendomi  che  mi  sarei  preservato  dal
veleno di tal onto. A tutte queste risposte, e ad altre d'ugual valore,  che
sarebbe lungo e inutile il riferire,  gli  esaminatori  non  trovaron  nulla  da
opporre, o per parlar più precisamente, non  opposero  nulla.  D'una  sola  cosa
credettero di dover chiedere spiegazione: per qual causa non l'ha potuto dire
le altre volte. Rispose: io non lo so, né so a che attribuire  la  causa,
se non a quella aqua che mi diede da bere; perché V.S. vede bene che, per quanti
tormenti ho hauuto, non ho potuto dir  niente.  Questa  volta  però,  quegli
uomini così facili a contentarsi, non son contenti, e  tornano  a  domandare:
per qual causa non ha detto questa verità prima di adesso, massime  sendo  stato
tormentato nella maniera che fu tormentato, et sabbato  et  hieri.    Questa
verità! Risponde: io non l'ho detta, perché non ho potuto,  et  se  io  fossi
stato cent'anni sopra la corda, io non haueria  mai  potuto  dire  cosa  alcuna,
perché non potevo parlare, poiché quando m'era dimandata qualche cosa di  questo
particolare, mi fugiva dal cuore, et non poteuo rispondere. Sentito  questo,
chiuser l'esame, e rimandaron lo sventurato in carcere. Ma  basta  il  chiamarlo
sventurato? A una  tale  interrogazione,  la  coscienza  si  confonde,  rifugge,
vorrebbe   dichiararsi   incompetente;   par   quasi   un'arroganza    spietata,
un'ostentazion farisaica, il giudicar chi operava in tali angosce,  e  tra  tali
insidie. Ma costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche  colpevole;
i patimenti e i terrori dell'innocente sono una gran cosa, hanno di gran  virtù;
ma non quella di mutar la legge eterna, di far che  la  calunnia  cessi  d'esser
colpa. E la compassione stessa, che vorrebbe  pure  scusare  il  tormentato,  si
rivolta subito anch'essa contro il calunniatore: ha sentito  nominare  un  altro
innocente; prevede altri patimenti, altri terrori, forse altre simili  colpe.  E
gli uomini  che  crearon  quell'angosce,  che  tesero  quell'insidie,  ci  parrà
d'averli scusati con dire: si credeva all'unzioni, e c'era la  tortura?  Crediam
pure anche noi alla possibilità d'uccider gli  uomini  col  veleno;  e  cosa  si
direbbe d'un giudice che  adducesse  questo  per  argomento  d'aver  giustamente
condannato un uomo come avvelenatore? C'è pure ancora la pena di morte;  e  cosa
si risponderebbe a uno che  pretendesse  con  questo  di  giustificar  tutte  le
sentenze di morte? No; non c'era la tortura per il  caso  di  Guglielmo  Piazza:
furono i giudici che la vollero, che, per dir così, l'inventarono in quel  caso.
Se gli avesse ingannati, sarebbe stata loro colpa, perché  era  opera  loro;  ma
abbiam visto che non gl'ingannò. Mettiam pure che siano  stati  ingannati  dalle
parole del Piazza  nell'ultimo  esame,  che  abbian  potuto  credere  un  fatto,
esposto, spiegato, circostanziato in quella maniera. Da che  eran  mosse  quelle
parole? come l'avevano avute? Con un mezzo,  sull'illegittimità  del  quale  non
dovevano  ingannarsi,  e  non  s'ingannarono  infatti,   poiché   cercarono   di
nasconderlo e di travisarlo. Se, per impossibile, tutto quello  che  venne  dopo
fosse stato un concorso accidentale di cose le più atte a  confermar  l'inganno,
la colpa rimarrebbe ancora a coloro che gli avevano aperta la strada. Ma vedremo
in vece che tutto fu condotto da quella medesima loro  volontà,  la  quale,  per
mantener l'inganno  fino  alla  fine,  dovette  ancora  eluder  le  leggi,  come
resistere  all'evidenza,  farsi  gioco  della  probità,  come   indurirsi   alla
compassione.

Cap.4

L'auditore corse, con la sbirraglia, alla casa  del  Mora,  e  lo  trovarono  in
bottega. Ecco un altro reo che non pensava a fuggire, né a  nascondersi,  benché
il suo complice fosse in prigione da  quattro  giorni.  C'era  con  lui  un  suo
figliuolo; e l'auditore ordinò che  fossero  arrestati  tutt'e  due.  Il  Verri,
spogliando i libri parrocchiali di San Lorenzo, trovò  che  l'infelice  barbiere
poteva avere anche tre figlie; una di quattordici anni, una di dodici,  una  che
aveva appena finiti i sei. Ed è bello il vedere un uomo ricco, nobile,  celebre,
in carica, prendersi questa cura di scavar le  memorie  d'una  famiglia  povera,
oscura, dimenticata: che dico? infame; e in mezzo a una posterità, erede cieca e
tenace della stolta esecrazione degli avi, cercar nuovi oggetti a una compassion
generosa e sapiente. Certo, non è cosa ragionevole l'opporre la compassione alla
giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a  compiangere,  e  non
sarebbe  giustizia  se  volesse  condonar  le  pene  de'  colpevoli  al   dolore
degl'innocenti. Ma contro la violenza e la frode, la compassione è  una  ragione
anch'essa. E se non fossero state che quelle prime angosce d'una moglie e  d'una
madre, quella rivelazione d'un così nuovo spavento, e d'un così nuovo  cordoglio
a bambine che vedevano metter le  mani  addosso  al  loro  padre,  al  fratello,
legarli, trattarli come scellerati; sarebbe un carico terribile contro coloro, i
quali non avevano dalla giustizia il dovere, e nemmeno dalla legge  il  permesso
di venire a ciò. Ché, anche per procedere alla cattura, ci volevano naturalmente
degl'indizi. E qui non c'era né fama, né fuga, né querela d'un offeso, né accusa
di persona degna di fede, né deposizion di testimoni; non c'era alcun  corpo  di
delitto; non c'era altro che il detto d'un supposto complice. E perché un  detto
tale, che non aveva per sé valor di sorte alcuna, potesse  dare  al  giudice  la
facoltà di procedere, eran necessarie molte condizioni.  Più  d'una  essenziale,
avremo occasion di vedere  che  non  fu  osservata;  e  si  potrebbe  facilmente
dimostrarlo di molt'altre. Ma non ce n'è bisogno;  perché,  quand'anche  fossero
state adempite tutte a un puntino, c'era in  questo  caso  una  circostanza  che
rendeva l'accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l'essere  stata  fatta  in
conseguenza  d'una  promessa  d'impunità.  «A  chi  rivela   per   la   speranza
dell'impunità, o concessa dalla legge, o promessa  dal  giudice,  non  si  crede
nulla contro i nominati», dice il Farinacci(54) . E il Bossi: «si può opporre al
testimonio che quel che ha detto, l'abbia  detto  per  essergli  stata  promessa
l'impunità... mentre un testimonio  deve  parlar  sinceramente,  e  non  per  la
speranza d'un vantaggio... E questo vale  anche  ne'  casi  in  cui,  per  altre
ragioni,  si  può  fare  eccezione  alla  regola   che   esclude   il   complice
dall'attestare... perché colui che  attesta  per  una  promessa  d'impunità,  si
chiama corrotto, e non gli si crede(55) ».  Ed  era  dottrina  non  contradetta.
Mentre si preparavano a visitare ogni cosa, il Mora  disse  all'auditore:  Oh
V.S. veda! so che è venuta per quell'unguento; V.S. lo veda là; et  aponto  quel
vasettino l'haueuo apparecchiato per darlo al Commissario, ma  non  è  venuto  a
pigliarlo; io, gratia a Dio, non ho fallato. V.S. veda  per  tutto;  io  non  ho
fallato: può sparagnare di farmi tener legato. Credeva  l'infelice,  che  il
suo reato fosse d'aver composto e spacciato  quello  specifico,  senza  licenza.
Frugan per tutto; ripassan vasi,  vasetti,  ampolle,  alberelli,  barattoli.  (I
barbieri, a quel tempo, esercitavan la bassa chirurgia; e di lì a fare anche  un
po' il medico, e un po' lo speziale, non c'era che un passo.) Due  cose  parvero
sospette; e, chiedendo scusa al lettore, siam costretti a  parlarne,  perché  il
sospetto manifestato da coloro, nell'atto della visita, fu quello che diede  poi
al povero sventurato un'indicazione, un mezzo per potersi accusare ne' tormenti.
E del resto c'è in tutta questa storia qualcosa di più forte che lo  schifo.  In
tempo di peste, era naturale che un uomo, il  quale  doveva  trattar  con  molte
persone, e principalmente  con  ammalati,  stesse,  per  quanto  era  possibile,
segregato dalla famiglia: e il difensor del Padilla fa questa osservazione dove,
come vedremo or ora, oppone al processo la mancanza d'un corpo  di  delitto.  La
peste medesima poi aveva diminuito in quella  desolata  popolazione  il  bisogno
della pulizia, ch'era già poco. Si trovaron perciò in  una  stanzina  dietro  la
bottega, duo vasa stercore humano plena, dice il processo. Un birro se ne
maraviglia, e (a tutti era lecito di parlar  contro  gli  untori)  fa  osservare
che di sopra vi è il condotto. Il Mora rispose: io dormo qui da basso,
et non vado di sopra.  La seconda cosa fu che in un cortiletto si vide un
fornello con dentro murata una caldara di rame, nella quale si è trovato  dentro
dell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa gialla
et bianca, la quale, gettata al muro, fattone la  prova,  si  attaccava.  Il
Mora disse: l'è smoglio (ranno): e il processo  nota  che  lo  disse  con
molta insistenza: cosa  che  fa  vedere  quanto  essi  mostrassero  di  trovarci
mistero. Ma come mai s'arrischiarono di far tanto a confidenza con  quel  veleno
così potente e così misterioso? Bisogna dire che il furore soffogasse la  paura,
che pure era una delle sue cagioni. Tra le carte poi si trovò una  ricetta,  che
l'auditore diede in mano al Mora, perché spiegasse cos'era. Questo la  stracciò,
perché, in quella confusione, l'aveva presa per la ricetta  dello  specifico.  I
pezzi furon raccolti subito; ma vedremo come questo miserabile accidente fu  poi
fatto valere contro quell'infelice. Nell'estratto  del  processo  non  si  trova
quante persone fossero arrestate insieme con lui. Il Ripamonti dice che  menaron
via tutta la gente di casa e di bottega;  giovani,  garzoni,  moglie,  figli,  e
anche parenti, se ce n'era lì(56) . Nell'uscir da quella casa, nella  quale  non
doveva più rimetter  piede,  da  quella  casa  che  doveva  esser  demolita  da'
fondamenti, e dar luogo a un monumento d'infamia, il Mora disse:  io  non  ho
fallato, et se ho fallato, che sij castigato; ma da quello Elettuario  in  puoi,
io non ho fatto altro; però, se hauessi fallato  in  qualche  cosa,  ne  dimando
misericordia. Fu esaminato il giorno medesimo, e interrogato  principalmente
sul ranno che gli avevan trovato in casa, e sulle sue relazioni col commissario.
Intorno al primo, rispose: signore, io non so niente, et l'hanno fatto far le
donne; che ne dimandano conto da loro, che lo diranno; et sapevo  tanto  io  che
quel  smoglio  vi  fosse,  quanto  che  mi  credessi   d'esser   oggi   condotto
prigione. Intorno al commissario, raccontò del vasetto d'unguento che doveva
dargli, e ne specificò gl'ingredienti; altre relazioni con  lui,  disse  di  non
averne avute, se non che, circa un anno prima, quello era venuto a casa  sua,  a
chiedergli un servizio del suo mestiere. Subito dopo fu esaminato il  figliuolo;
e fu allora che quel povero ragazzo ripetè la sciocca ciarla del vasetto e della
penna, che abbiam riferita da principio. Del resto, l'esame fu inconcludente;  e
il Verri osserva, in una postilla, che «si  doveva  interrogare  il  figlio  del
barbiere su quel ranno, e vedere da quanto tempo si trovava nella caldaia,  come
fatto, a che uso; e allora si sarebbe chiarito meglio l'affare. Ma»,  soggiunge,
«temevano di non trovarlo reo».  E  questa  veramente  è  la  chiave  di  tutto.
Interrogarono però su quel particolare la povera moglie del Mora, la quale  alle
varie domande rispose che aveva fatto il bucato dieci o  dodici  giorni  avanti;
che ogni volta riponeva del ranno per certi usi di  chirurgia;  che  per  questo
gliene avevan trovato in casa; ma  che  quello  non  era  stato  adoperato,  non
essendocene stato bisogno. Si fece esaminare quel ranno da due lavandaie,  e  da
tre medici. Quelle dissero ch'era ranno, ma alterato; questi, che non era ranno;
le une e gli altri, perché il fondo  appiccicava  e  faceva  le  fila.  «In  una
bottega d'un barbiere,» dice il Verri, «dove si saranno lavati de' lini  sporchi
e dalle piaghe e da'  cerotti,  qual  cosa  più  naturale  che  il  trovarsi  un
sedimento viscido, grasso, giallo, dopo  varii  giorni  d'estate?(57)  »  Ma  in
ultimo, da quelle visite non risultava  una  scoperta;  risultava  soltanto  una
contradizione. E il  difensore  del  Padilla  ne  deduce,  con  troppo  evidente
ragione, che  «dalla  lettura  dell'istesso  processo  offensiuo,  non  si  vede
constare del corpo del delitto; requisito e preambolo necessario, acciò si venga
a Reato, atto tanto pregiudiciale, e danno irreparabile». E osserva  che,  tanto
più era necessario, in quanto l'effetto che si voleva attribuire a  un  delitto,
il morir tante persone, aveva la sua  causa  naturale.  «Per  i  quali  giuditii
incerti», dice, «quanto fosse necessario venire all'esperienza,  lo  ricercauano
le maligne costellationi, et li pronostici  de'  Matthematici,  quali  nell'anno
1630 altro non concludevano che peste, e finalmente il veder tante città insigni
della Lombardia, et Italia rimanere desolate, et dalla peste distrutte, in quali
non si sentirno pensieri, né timori di onto.» Anche l'errore vien qui  in  aiuto
della verità: la quale però non n'aveva  bisogno.  E  fa  male  il  vedere  come
quest'uomo, dopo aver fatto e questa e altre  osservazioni,  ugualmente  atte  a
dimostrar chimerico il delitto medesimo, dopo avere attribuito  alla  forza  de'
tormenti le deposizioni che accusavano il suo cliente, dica in un  luogo  queste
strane parole: «conuien confessare, che per malignità  de'  detti  nominati,  et
altri complici, con animo ancor di sualigiare le case, et far guadagni, come  il
detto Barbiere, al fol. 104, disse, si  mouessero  a  tanto  delitto  contro  la
propria Patria.» Nella lettera d'informazione al  governatore,  il  capitano  di
giustizia parla di questa circostanza così: «Il barbiero è preso, in casa di cui
si sono trovate  alcune  misture,  per  giudicio  de  periti,  molto  sospette.»
Sospette! È una parola con cui il giudice comincia, ma con cui non  finisce,  se
non suo malgrado, e dopo aver tentati tutti i mezzi per arrivare alla  certezza.
E se ognuno non sapesse, o non indovinasse quelli ch'erano in uso anche  allora,
e che si  sarebbero  potuti  adoprare,  quando  si  fosse  veramente  pensato  a
chiarirsi sulla qualità velenosa di quella porcheria, l'uomo che  presiedeva  al
processo ce l'avrebbe fatto  sapere.  In  quell'altra  lettera  rammentata  poco
sopra, con la quale il tribunale della Sanità aveva informato il governatore  di
quel grande imbrattamento del 18 di maggio, si  parlava  pure  d'un  esperimento
fatto sopra de' cani, «per accertarsi se tali ontuosità  erano  pestilentiali  o
no». Ma allora non avevan nelle  mani  nessun  uomo  sul  quale  potessero  fare
l'esperimento  della  tortura,  e  contro  il   quale   le   turbe   gridassero:
tolle! Prima però di mettere alle  strette  il  Mora,  vollero  aver  dal
commissario più chiare e precise  notizie;  e  il  lettore  dirà  che  ce  n'era
bisogno. Lo fecero dunque venire, e gli domandarono se ciò che aveva deposto era
vero, e se non si rammentava d'altro. Confermò il  primo  detto,  ma  non  trovò
nulla da aggiungerci. Allora gli dissero che ha molto  dell'inuerisimile  che
tra lui et detto barbiero non sia passata altra negotiatione di  quella  che  ha
deposto, trattandosi di negotio tanto grave, il quale non si commette a  persone
per eseguirlo, se non con grande et confidente negotiatione, et non alla fugita,
come lui depone. L'osservazione era giusta,  ma  veniva  tardi.  Perché  non
farla alla prima, quando il Piazza depose la cosa in que'  termini?  Perché  una
cosa tale chiamarla verità? Che avessero il  senso  del  verisimile  così
ottuso, così lento, da volerci un giorno intero per accorgersi che lì non c'era?
Essi? Tutt'altro. L'avevan delicatissimo, anzi troppo delicato.  Non  eran  que'
medesimi che avevan trovato, e immediatamente, cose inverisimili che  il  Piazza
non avesse sentito parlare dell'imbrattamento di via della Vetra, e non  sapesse
il nome de' deputati d'una parrocchia? E perché in un caso così sofistici, in un
altro così correnti? Il perché lo sapevan loro,  e  Chi  sa  tutto;  quello  che
possiamo vedere anche noi è  che  trovaron  l'inverisimiglianza,  quando  poteva
essere un pretesto alla tortura del Piazza;  non  la  trovarono  quando  sarebbe
stata un ostacolo troppo manifesto alla cattura del Mora. Abbiam visto, è  vero,
che la deposizion del primo, come radicalmente nulla, non poteva dar loro  alcun
diritto di venire a ciò. Ma poiché volevano a ogni  modo  servirsene,  bisognava
almeno conservarla intatta. Se gli avessero dette la prima volta quelle  parole:
ha molto dell'inverisimile; se lui  non  avesse  sciolta  la  difficoltà,
mettendo il fatto in forma meno strana, e senza contradire al già detto (cosa da
sperarsi poco); si sarebbero trovati al bivio, o  di  dover  lasciare  stare  il
Mora, o di carcerarlo  dopo  avere  essi  medesimi  protestato,  per  dir  così,
anticipatamente contro  un  tal  atto.  L'osservazione  fu  accompagnata  da  un
avvertimento terribile. Et perciò se non si risoluerà di dire interamente  la
verità, come ha promesso, se gli protesta che  non  se  gli  seruarà  l'impunità
promessa, ogni volta che si trovi diminuta la suddetta sua confessione,  et  non
intiera di tutto quello è passato tra di lui et il suddetto Barbiero, et per  il
contrario, dicendo la verità se gli servarà l'impunità promessa.  E  qui  si
vede, come avevamo  accennato  sopra,  cosa  poté  servire  ai  giudici  il  non
ricorrere al governatore per quell'impunità. Concessa da  questo,  con  autorità
regia e riservata, con un atto solenne, e da  inserirsi  nel  processo,  non  si
poteva ritirarla con quella disinvoltura. Le parole  dette  da  un  auditore  si
potevano annullare con altre parole. Si noti che l'impunità per il  Baruello  fu
chiesta al governatore il 5 di settembre, cioè dopo il supplizio del Piazza, del
Mora, e di qualche altro infelice. Si  poteva  allora  mettersi  al  rischio  di
lasciarne scappar qualcheduno: la fiera aveva mangiato, e  i  suoi  ruggiti  non
dovevan  più  esser  così  impazienti  e  imperiosi.  A  quell'avvertimento,  il
commissario dovette, poiché stava fermo nel suo  sciagurato  proposito,  aguzzar
l'ingegno quanto poteva, ma non seppe far altro che ripeter la storia di  prima.
Dirò a V.S.: due dì auanti che mi dasse l'onto, era  il  detto  Barbiero  sul
corso di Porta Ticinese, con tre d'altri in compagnia; et vedendomi passare,  mi
disse: Commissario, ho un onto da darvi; io gli dissi:  volete  darmelo  adesso?
lui mi disse di no, et all'hora non mi disse l'effetto che doueua fare il  detto
onto; ma quando me lo diede poi, mi disse ch'era onto da ongere le muraglie, per
far morire la gente; né io gli dimandai se lo haueua provato. Se non che  la
prima volta aveva detto: lui non mi disse niente; m'imagino  bene  che  detto
onto fosse velenato; la seconda: mi disse ch'era per far morire la gente.
Ma senza farsi caso d'una tal  contradizione,  gli  domandano  chi  erano
quelli che erano con detto Barbiero, et come erano vestiti. Chi fossero, non
lo sa; sospetta che dovessero essere vicini del Mora; come fossero vestiti,  non
se ne rammenta; solo mantiene che è vero tutto ciò che ha deposto contro di lui.
Interrogato se è pronto a sostenerglielo in faccia, risponde di sì. È messo alla
tortura,  per  purgar  l'infamia,   e   perché   possa   fare   indizio   contro
quell'infelice. I tempi della tortura sono, grazie al cielo, abbastanza lontani,
perché queste formole richiedano spiegazione. Una legge romana  prescriveva  che
«la testimonianza d'un gladiatore o di  persona  simile,  non  valesse  senza  i
tormenti(58)».  La  giurisprudenza  aveva  poi  determinate,  sotto  il   titolo
d'infami, le persone alle quali questa regola  dovesse  applicarsi;  e  il  reo,
confesso o convinto, entrava in quella categoria. Ecco  dunque  in  che  maniera
intendevano che  la  tortura  purgasse  l'infamia.  Come  infame,  dicevano,  il
complice non merita fede; ma quando affermi una cosa  contro  un  suo  interesse
forte, vivo, presente, si può credere che la verità sia quella che lo sforzi  ad
affermare. Se dunque,  dopo  che  un  reo  s'è  fatto  accusatore  d'altri,  gli
s'intima, o di ritrattar l'accusa, o di sottoporsi ai tormenti, e  lui  persiste
nell'accusa; se, ridotta la minaccia ad effetto, persiste anche ne' tormenti, il
suo detto diventa credibile: la tortura ha purgato l'infamia, restituendo a quel
detto l'autorità che non poteva avere dal  carattere  della  persona.  E  perché
dunque non avevan fatta confermare al Piazza ne' tormenti la prima  deposizione?
Fu  anche  questo  per  non  mettere  a   cimento   quella   deposizione,   così
insufficiente, ma  così  necessaria  alla  cattura  del  Mora?  Certo  una  tale
omissione rendeva questa ancor più  illegale:  giacché  era  bensì  ammesso  che
l'accusa dell'infame, non confermata  ne'  tormenti,  potesse  dar  luogo,  come
qualunque altro più  difettoso  indizio,  a  prendere  informazioni,  ma  non  a
procedere contro  la  persona(59)  .  E  riguardo  alla  consuetudine  del  foro
milanese, ecco quel che attesta il Claro in forma  generalissima:  «Affinché  il
detto del complice faccia fede, è necessario che sia  confermato  ne'  tormenti,
perché, essendo lui infame a cagion del suo  proprio  delitto,  non  può  essere
ammesso come testimonio, senza tortura; e così si pratica da noi: et ita apud
nos servatur(60) ». Era dunque legale almeno la tortura data al  commissario
in quest'ultimo costituto? No, certamente: era iniqua, anche secondo  le  leggi,
poiché gliela davano per convalidare un'accusa che non  poteva  diventar  valida
con nessun mezzo, a cagion dell'impunità da cui era stata promossa.  E  si  veda
come gli avesse avvertiti a proposito il loro Bossi. «Essendo la tortura un male
irreparabile, si badi bene di non farla soffrire  in  vano  a  un  reo  in  casi
simili, cioè quando non ci siano altre presunzioni o indizi del  delitto.(61)  »
Ma che? facevan dunque contro la legge, a dargliela, e a non dargliela?  Sicuro;
e qual maraviglia che chi s'è messo in una strada falsa, arrivi a  due  che  non
son buone, né l'una né l'altra? Del resto, è facile indovinare  che  la  tortura
datagli per fargli ritrattare un'accusa, non dovette esser  così  efficace  come
quella datagli per isforzarlo ad accusarsi. Infatti, non ebbero questa  volta  a
scrivere esclamazioni, a registrare urli né gemiti: sostenne tranquillamente  la
sua deposizione. Gli domandaron due volte perché non l'avesse  fatta  ne'  primi
costituti. Si vede che non potevan levarsi dalla testa il dubbio, e dal cuore il
rimorso, che quella sciocca storia fosse un'ispirazion  dell'impunità.  Rispose:
fu per l'impedimento dell'aqua che ho detto che haueuo beuuta.  Avrebbero
certamente desiderato qualcosa di più  concludente;  ma  bisognava  contentarsi.
Avevan trascurati, che dico?  schivati,  esclusi,  tutti  i  mezzi  che  potevan
condurre alla scoperta della verità: delle due contrarie conclusioni che potevan
risultare dalla ricerca, n'avevan voluta una, e adoprato, prima un mezzo, poi un
altro, per ottenerla a qualunque costo: potevan pretendere  di  trovarci  quella
soddisfazione che può dar la verità sinceramente cercata? Spegnere il lume è  un
mezzo opportunissimo per non veder la cosa che  non  piace,  ma  non  per  veder
quella che si desidera. Calato dalla fune, e mentre lo slegavano, il commissario
disse: Signore, vi voglio un puoco pensar sino a dimani, et dirò  poi  quello
d'auantaggio, che mi ricordarò, tanto contro di lui, quanto d'altri.  Mentre
poi lo riconducevano in carcere, si fermò, dicendo: ho non so  che  da  dire;  e
nominò come gente amica del Mora,  e  pochi  di  buono,  quel  Baruello,  e  due
foresari(62) , Girolamo e Gaspare Migliavacca, padre e  figlio.  Così  lo
sciagurato cercava di supplir col  numero  delle  vittime  alla  mancanza  delle
prove.  Ma  coloro  che  l'avevano  interrogato,  potevano  non  accorgersi  che
quell'aggiungere era una prova di più che non aveva che  rispondere?  Eran  loro
che gli avevan chiesto delle circostanze che rendessero verisimile il  fatto;  e
chi propone la difficoltà, non si può dir che non la veda. Quelle nuove denunzie
in aria, o que' tentativi  di  denunzie  volevan  dire  apertamente:  voi  altri
pretendete ch'io vi renda chiaro un fatto; come è possibile, se il fatto non  è?
Ma, in ultimo, quel che vi preme è d'aver delle persone da  condannare:  persone
ve ne do; a voi tocca  a  cavarne  quel  che  vi  bisogna.  Con  qualcheduno  vi
riuscirà: v'è pur riuscito con me. Di que' tre nominati dal  Piazza,  e  d'altri
che, andando avanti, furon nominati con ugual fondamento, e condannati con ugual
sicurezza, non faremo menzione, se non in quanto  potrà  esser  necessario  alla
storia di lui e del Mora (i quali, per essere i primi  caduti  in  quelle  mani,
furono riguardati sempre come i principali autori del delitto); o in  quanto  ne
esca qualcosa degna di particolare osservazione. Omettiamo pure in questo luogo,
come faremo altrove, de' fatti  secondari  e  incidenti,  per  venir  subito  al
secondo esame del Mora; che fu  in  quel  giorno  medesimo.  In  mezzo  a  varie
domande, sul suo specifico, sul  ranno,  su  certe  lucertole  che  aveva  fatto
prender da de' ragazzi, per comporne un medicamento di que' tempi (domande  alle
quali soddisfece come un uomo che non ha nulla da nascondere né  da  inventare),
gli metton lì i pezzi di quella  carta  che  aveva  stracciata  nell'atto  della
visita. La riconosco, disse, per quella  scrittura  che  io  strazziai
inauertentamente; et si potranno li pezzetti congregar  insieme,  per  veder  la
continenza, et mi verrà ancora a memoria da chi mi sij stata data.  Passaron
poi a fargli un'interrogazione di questa sorte: in che modo, non hauendo  più
che tanta amicitia con il detto Commissario chiamato Gulielmo  Piazza,  come  ha
detto nel precedente suo esame, esso Commissario con tanta libertà  gli  ricercò
il suddetto vaso di preseruatiuo;  et  lui  Constituto,  con  tanta  libertà  et
prestezza, si offerse di darglielo, et l'interpellò di andarlo a pigliare,  come
nell'altro suo esame ha deposto. Ecco che torna in campo la  misura  stretta
della verisimiglianza. Quando il Piazza  asserì  per  la  prima  volta,  che  il
barbiere, suo amico di bon dì e bon anno, con quella medesima  libertà
e prestezza, gli aveva offerto un vasetto per far  morire  la  gente,
non gli fecero difficoltà; la  fanno  a  chi  asserisce  che  si  trattava  d'un
rimedio. Eppure, si devono  naturalmente  usar  meno  riguardi  nel  cercare  un
complice necessario a  una  contravvenzion  leggiera,  e  per  una  cosa  in  sé
onestissima, che a cercarlo, senza necessità, per un attentato pericoloso quanto
esecrabile: e non è questa una scoperta che si sia fatta in  questi  due  ultimi
secoli. Non era l'uomo del secento che ragionava così alla rovescia: era  l'uomo
della passione. Il Mora  rispose:  io  lo  feci  per  l'interesse.    Gli
domandano poi se conosce quelli che il Piazza aveva nominati;  risponde  che  li
conosce, ma non è loro amico, perché son certa gente  da  lasciarli  fare  il
fatto suo. Gli domandano se sa chi avesse fatto quell'imbrattamento di tutta
la città; risponde di no. Se sa da chi il commissario abbia avuto l'unguento per
unger le muraglie: risponde ancora di no. Gli domandan finalmente: se sa  che
persona alcuna, con offerta de danari, habbi ricercato il detto  Commissario  ad
ontar le muraglie della Vedra de' Cittadini, et che per così fare, li habbi  poi
dato un vasetto di vetro con dentro tal onto. Rispose, chinando la testa,  e
abbassando la voce (flectens caput, et submissa  voce):  non  so  niente.
Forse soltanto allora cominciava a vedere a che strano e  orribil  fine  potesse
riuscire quel rigirìo di domande. E chi sa  in  che  maniera  sarà  stata  fatta
questa da coloro, che, incerti, volere o non volere, della loro scoperta,  tanto
più dovevano accennar di saperne, e mostrarsi anticipatamente  forti  contro  le
negative che prevedevano. I visi e gli atti che facevan loro, non  li  notavano.
Andaron dunque avanti  a  domandargli  direttamente:  se  lui  Constituto  ha
ricercato il suddetto Gulielmo Piazza Commissario  della  Sanità  ad  ongere  le
muraglie lì a torno alla Vedra de' Cittadini, et per così fare se gli ha dato un
vasetto di vetro con dentro l'onto che doueua adoperare; con promessa di  dargli
ancora una quantità de danari.  Esclamò, più che non rispose: Signor  no!
maidè(63) no! no in eterno! far io queste cose?  Son  parole  che  può  dire  un
colpevole, quanto un innocente;  ma  non  nella  stessa  maniera.    Gli  fu
replicato, che cosa dirà poi quando dal suddetto Gulielmo Piazza  Commissario
della Sanità, gli  sarà  questa  verità  sostenuta  in  faccia.    Di  nuovo
questa verità! Non  conoscevan  la  cosa  che  per  la  deposizione  d'un
supposto complice; a questo avevan detto essi medesimi, il giorno medesimo, che,
come la raccontava lui, haueua molto dell'inverisimile; lui non ci  aveva
saputo aggiungere neppure un'ombra di verisimiglianza, se la  contradizione  non
ne dà; e al  Mora  dicevano  francamente:  questa  verità!  Era,  ripeto,
rozzezza de' tempi? era barbarie delle leggi? era ignoranza? era  superstizione?
O era una di quelle volte che l'iniquità si smentisce da sé?  Il  Mora  rispose:
quando mi dirà questo in faccia, dirò che è un infame, et che  non  può  dire
questo, perché non ha mai parlato con me di tal cosa, et guardimi Dio!    Si
fa venire il Piazza, e, alla  presenza  del  Mora,  gli  si  domanda,  tutto  di
seguito, se è vero questo e questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Risponde:
Signor sì, che è vero. Il povero Mora grida: ah Dio misericordia!  non
si trouarà mai questo.  Il commissario: io sono  a  questi  termini,  per
sostentarui voi. Il Mora: non si trouarà mai, non prouarete  mai  d'esser
stato a casa mia.  Il commissario: non fossi mai stato  in  casa  vostra,
come vi son stato; che sono a questi termini per voi.  Il  Mora:  non  si
trouarà mai che siate stato a casa mia.    Dopo  di  ciò,  furon  rimandati,
ognuno nel suo carcere. Il capitano di giustizia, nella lettera al  governatore,
più volte citata, rende conto di quel confronto in questi  termini:  «Il  Piazza
animosamente gli ha sostenuto in faccia, esser vero ch'egli riceuè da  lui  tale
unguento, con le circostanze del luogo e del tempo.» Lo Spinola dovette  credere
che il Piazza avesse specificate  queste  circostanze,  contradittoriamente  col
Mora; e tutto quel sostenere animosamente si riduceva in realtà a  un  Signor
sì, che è vero.  La lettera finisce con queste  parole:  «Si  vanno  facendo
altre diligenze per scoprire altri complici, o mandanti. Fratanto ho voluto  che
quello che passa fosse inteso da V.E.,alla quale humilmente bacio  le  mani,  et
auguro prospero fine delle sue imprese.» Probabilmente ne furono scritte  altre,
che sono perdute. In quanto all'imprese, l'augurio andò a vòto. Lo Spinola,  non
ricevendo rinforzi, e disperando ormai di prender  Casale,  s'ammalò,  anche  di
passione, verso il principio di settembre, e morì il  25,  mancando  sull'ultimo
all'illustre soprannome di prenditor  di  città,  acquistato  nelle  Fiandre,  e
dicendo (in ispagnolo): m'han levato  l'onore.  Gli  avevan  fatto  peggio,  col
dargli un posto a cui erano annesse tante obbligazioni, delle quali pare  che  a
lui ne premesse solamente una: e probabilmente non gliel  avevan  dato  che  per
questa. Il giorno dopo il confronto, il commissario chiese d'esser  sentito;  e,
introdotto, disse: il Barbiero ha detto ch'io non sono mai stato a casa  sua;
perciò V.S. esamini Baldassar Litta, che  sta  nella  casa  dell'Antiano,  nella
Contrada di S. Bernardino, et Stefano Buzzio, che fa  il  tintore,  et  sta  nel
portone per contro S. Agostino, presso S.  Ambrogio,  li  quali  sono  informati
ch'io sono stato nella casa et bottega di detto Barbiero.  Era venuto a fare
una tal dichiarazione, di suo proprio impulso? O era  un  suggerimento  fattogli
dare da' giudici? Il primo sarebbe strano, e l'esito lo farà vedere; del secondo
c'era un motivo fortissimo. Volevano  un  pretesto  per  mettere  il  Mora  alla
tortura; e tra le cose che, secondo l'opinione di molti  dottori,  potevan  dare
all'accusa del complice quel valore che non aveva  da  sé,  e  renderla  indizio
sufficiente alla tortura del nominato, una era che tra loro ci  fosse  amicizia.
Non però un'amicizia, una conoscenza qualunque;  perché,  «a  intenderla  così,»
dice il Farinacci, «ogni accusa d'un complice farebbe  indizio,  essendo  troppo
facile che il nominante conosca il nominato in  qualche  maniera;  ma  bensì  un
praticarsi stretto e frequente, e tale da render verisimile che tra loro si  sia
potuto concertare il delitto(64) ». Per questo avevan domandato da principio  al
commissario, se detto Barbiero è amico di lui Constituto. Ma  il  lettore
si rammenta della risposta  che  n'ebbero:  amico  sì,  buon  dì  buon
anno. L'intimazione minacciosa fattagli poi, non aveva  prodotto  niente  di
più; e quello che avevan cercato come un mezzo, era  diventato  un  ostacolo.  È
vero che non era, né poteva diventar mai un mezzo legittimo  né  legale,  e  che
l'amicizia più intima e più provata non avrebbe potuto dar  valore  a  un'accusa
resa insanabilmente nulla dalla promessa d'impunità.  Ma  a  questa  difficoltà,
come a tante altre che non risultavano materialmente dal processo,  ci  passavan
sopra: quella, l'avevan messa in evidenza essi medesimi con le loro  domande;  e
bisognava veder di levarla. Nel processo son riferiti discorsi di carcerieri, di
birri e di carcerati per altri delitti, messi in  compagnia  di  quegl'infelici,
per cavar loro qualcosa di bocca. È quindi più che probabile che abbiano,
con uno di questi mezzi, fatto dire al commissario, che la sua  salvezza  poteva
dipendere dalle  prove  che  desse  della  sua  amicizia  col  Mora;  e  che  lo
sciagurato, per non dir che non n'aveva, sia ricorso a quel  partito,  al  quale
non avrebbe mai pensato da sé. Perché, quale  assegnamento  potesse  fare  sulla
testimonianza de'  due  che  aveva  citati,  si  vede  dalle  loro  deposizioni.
Baldassare Litta, interrogato se ha mai visto il Piazza in casa o in  bottega
del Mora, risponde: signor, no. Stefano Buzzi, interrogato  se  sa
che tra il detto Piazza et Barbiero  vi  passi  alcuna  amicitia,  risponde:
può essere che siano amici, et che si salutassero; ma questo  non  lo  saprei
mai dire a V.S. Interrogato di nuovo se sa che il detto  Piazza  sia  mai
stato in casa o bottega del detto Barbiero, risponde: non lo  saprei  mai
dire a V.S. Vollero poi sentire un  altro  testimonio,  per  verificare  una
circostanza asserita dal Piazza nella sua deposizione; cioè che un certo  Matteo
Volpi s'era trovato presente, quando il barbiere gli aveva detto: ho  poi  da
darvi un non so che. Questo Volpi, interrogato su di ciò, non solo  risponde
di non ne saper nulla,  ma,  redarguito,  aggiunge  risolutamente:  io
giurarò che non ho mai visto che  si  siano  parlati  insieme.    Il  giorno
seguente, 30 di  giugno,  fu  sottomesso  il  Mora  a  un  nuovo  esame;  e  non
s'indovinerebbe mai come lo principiassero.  Che  dica  per  qual  causa  lui
Constituto, nell'altro suo esame, mentre  fu  confrontato  con  Gulielmo  Piazza
Commissario della Sanità, ha negato a pena hauer cognitione di lui, dicendo  che
mai fu in casa sua, cosa però che in contrario gli fu sostenuta  in  faccia;  et
pure, nel primo suo esame mostra d'hauere piena sua cognitione, cosa  che  ancor
depongono altri nel processo formato; il che ancora si conosce  per  vero  dalla
prontezza sua in offerirli, et apparecchiarli il vaso di  preseruatiuo,  deposto
nel suo precedente esame.  Risponde: è ben  vero  che  detto  Commissario
passa da lì spesso dalla mia bottega; ma non ha prattica di casa mia, né di  me.
 Replicano: che non solo è contrario al suo primo esame, ma  ancora  alla
depositione d'altri testimonij...  Qui è superflua  qualunque  osservazione.
Non osaron però di metterlo alla tortura sulla deposizion  del  Piazza,  ma  che
fecero? ricorsero all'espediente degl'inverisimili; e, cosa da non credersi, uno
fu il negar che faceva d'avere amicizia col Piazza, e che questo  praticasse  in
casa sua; mentre asseriva d'avergli promesso il preservativo!  L'altro  che  non
rendesse  un  conto  soddisfacente  del  perché  aveva  fatta  in  pezzi  quella
scrittura. Ché il Mora seguitava a dire d'averlo  fatto  senza  badarci,  e  non
credendo che una tal cosa potesse  importare  alla  giustizia;  o  che  temesse,
povero infelice! d'aggravarsi confessando che  l'aveva  fatto  per  trafugar  la
prova d'una contravvenzione, o che infatti non sapesse ben  render  conto  a  sé
stesso di ciò che aveva fatto in que' primi momenti di confusione e di spavento.
Ma sia come si sia, que' pezzi  gli  avevano:  e  se  credevano  che  in  quella
scrittura ci potesse esser  qualche  indizio  del  delitto,  potevan  rimetterla
insieme, e leggerla come prima: il Mora stesso gliel aveva suggerito. Anzi,  chi
mai crederà che non l'avessero già fatto? Intimaron dunque al Mora, con minaccia
della tortura, che dicesse la verità su que' due punti. Rispose: già ho detto
quello che passa intorno alla scrittura; et puole il Commissario dir quello  che
vole, perché dice un'infamità, perché io non gli ho dato niente.  Credeva (e
non doveva crederlo?) che questa fosse in ultimo la verità che volevan  da  lui;
ma no signore; gli dicono che non se gli ricerca questa particolarità, perché
sopra di essa non s'interroga, né si vole per adesso altra verità da lui, che di
sapere il fine perché ha scarpato (stracciato) la detta scrittura, et perché  ha
negato et neghi che il detto Commissario sia stato alla bottega  sua,  mostrando
quasi di non hauer cognitione di lui. Non si  troverebbe,  m'immagino,  così
facilmente un altro esempio d'un  così  sfrontatamente  bugiardo  rispetto  alle
formalità legali. Essendo troppo manifestamente mancante il diritto d'ordinar la
tortura per l'oggetto principale, anzi unico, dell'accusa, volevano far constare
ch'era per altro. Ma il mantello dell'iniquità è corto; e non si può tirarlo per
ricoprire una parte, senza scoprirne un'altra. Compariva così di  più,  che  non
avevano, per venire a quella violenza, altro che due iniquissimi  pretesti:  uno
dichiarato tale in fatto da loro medesimi, col non voler chiarirsi  di  ciò  che
contenesse la scrittura; l'altro, dimostrato tale, e peggio, dalle testimonianze
con cui avevan tentato di farlo diventare indizio legale. Ma  si  vuol  di  più?
Quand'anche i testimoni avessero pienamente  confermato  il  secondo  detto  del
Piazza su quella circostanza particolare e accessoria; quand'anche non ci  fosse
stata di mezzo l'impunità; la deposizion di costui non poteva più  somministrare
nessun indizio legale.  «Il  complice  che  varia  e  si  contradice  nelle  sue
deposizioni, essendo perciò anche spergiuro, non può fare,  contro  i  nominati,
indizio alla tortura... anzi nemmeno all'inquisizione... e questa  si  può  dire
dottrina comunemente ricevuta dai dottori.(65) » Il Mora fu messo alla  tortura!
L'infelice non aveva la robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però,
il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste  d'aver
detta la verità. Oh Dio mio; non ho cognitione di colui,  né  ho  mai  hauuto
pratica con lui, et per questo non posso dire... et per questo dice la bugia che
sia praticato in casa mia, né che sia mai stato nella mia  bottega.  Son  morto!
misericordia, mio Signore! misericordia! Ho stracciato  la  scrittura,  credendo
fosse la ricetta del mio elettuario... perché voleuo il guadagno  io  solamente.
 Questa non  è  causa  sufficiente,  gli  dissero.  Supplicò  d'esser
lasciato giù, che direbbe la verità! Fu lasciato giù, e disse:  La  verità  è
che il Commissario non ha pratica alcuna meco. Fu ricominciato e accresciuto
il tormento: alle spietate istanze  degli  esaminatori,  l'infelice  rispondeva:
V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò: la risposta di Filota a  chi
lo faceva tormentare,  per  ordine  d'Alessandro  il  grande,  «il  quale  stava
ascoltando pur anch'esso dietro  ad  un  arazzo(66)  »:  dic  quid  me  velis
dicere(67)  è la  risposta  di  chi  sa  quant'altri  infelici.  Finalmente,
potendo più lo spasimo che il ribrezzo di calunniar sé stesso, che  il  pensiero
del supplizio, disse: ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco,  acciò
imbrattasse le muraglie, al Commissario. V.S. mi lasci giù, che dirò la  verità.
 Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del  birro,  come
al Piazza l'immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso  con  una
tortura illegale, come nel primo con un'illegale  impunità.  L'armi  eran  prese
dall'arsenale della giurisprudenza; ma i  colpi  eran  dati  ad  arbitrio,  e  a
tradimento.  Vedendo  che  il  dolore  produceva  l'effetto  che  avevan   tanto
sospirato, non esaudiron la  supplica  dell'infelice,  di  farlo  almeno  cessar
subito. Gl'intimarono che cominci a dire.  Disse: era  sterco  humano,
smojazzo  (ranno;  ed  ecco  l'effetto  di  quella  visita  della   caldaia,
cominciata con tanto apparato, e troncata con tanta perfidia); perché  me  lo
domandò lui, cioè il Commissario, per imbrattare le case, et di  quella  materia
che esce dalla bocca dei morti, che son sui carri. E nemmen  questo  era  un
suo ritrovato. In un esame posteriore, interrogato dove ha imparato  tal  sua
compositione, rispose: diceuano così in barbarìa, che  si  adoperaua  di  quella
materia che esce dalla bocca de' morti... et io  m'ingegnai  ad  aggiongervi  la
lisciuia et il sterco. Avrebbe potuto rispondere:  da'  miei  assassini,  ho
imparato; da voi altri e dal pubblico. Ma c'è qui qualche altra  cosa  di  molto
strano. Come mai uscì fuori con una confessione che non  gli  avevan  richiesta,
che avevano anzi esclusa da quell'esame, dicendogli che non  se  gli  ricerca
questa particolarità, perché sopra di essa non s'interroga? Poiché il dolore
lo strascinava a mentire, par naturale che la bugia  dovesse  stare  almeno  ne'
limiti delle domande. Poteva dire d'essere  amico  intrinseco  del  commissario;
poteva inventar qualche motivo colpevole, aggravante, dell'avere  stracciata  la
scrittura; ma perché andar più in là di quello che lo spingevano? Forse,  mentre
era sopraffatto dallo spasimo, gli andavan  suggerendo  altri  mezzi  per  farlo
finire? gli facevano altre interrogazioni, che non furono scritte nel  processo?
Se fosse così, potremmo esserci ingannati noi a dir  che  avevano  ingannato  il
governatore col lasciargli credere che il Piazza  fosse  stato  interrogato  sul
delitto. Ma se allora non abbiam messo in campo il sospetto che la  bugia  fosse
nel processo, piuttosto che nella lettera, fu perché i fatti non ce ne davano un
motivo bastante. Ora è la difficoltà d'ammettere un fatto  stranissimo,  che  ci
sforza quasi a fare una supposizione  atroce,  in  aggiunta  di  tante  atrocità
evidenti. Ci troviam, dico, tra  il  credere  che  il  Mora  s'accusasse,  senza
esserne interrogato, d'un delitto orribile, che non aveva commesso,  che  doveva
procacciargli  una  morte  spaventosa,  e  il  congetturar  che  coloro,  mentre
riconoscevan col fatto di non avere un titolo  sufficiente  di  tormentarlo  per
fargli confessar quel delitto, profittassero della tortura datagli con un  altro
pretesto, per cavargli di bocca una tal confessione. Veda il  lettore  quel  che
gli pare di dovere scegliere. L'interrogatorio che succedette alla  tortura  fu,
dalla parte de' giudici, com'era stato quello del commissario dopo  la  promessa
d'impunità, un misto o, per dir meglio, un contrasto d'insensatezza e d'astuzia,
un  moltiplicar  domande  senza  fondamento,  e  un   ometter   l'indagini   più
evidentemente  indicate  dalla  causa,  più  imperiosamente   prescritte   dalla
giurisprudenza. Posto il  principio  che  «nessuno  commette  un  delitto  senza
cagione»; riconosciuto il fatto che  «molti  deboli  d'animo  avevan  confessato
delitti che poi, dopo la condanna, e al momento del supplizio, avevan protestato
di non aver commessi, e s'era trovato infatti, quando non era più tempo, che non
gli avevan commessi», la giurisprudenza aveva stabilito che «la confessione  non
avesse valore, se non c'era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione
non era verisimile e grave, in  proporzion  del  delitto  medesimo(68)  ».  Ora,
l'infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per  confermar  quella
che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in  quell'interrogatorio,  che
la bava de' morti di peste l'aveva avuta dal commissario, che questo  gli  aveva
proposto il delitto, e che il motivo del  fare  e  dell'accettare  una  proposta
simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato
molto tutt'e due: uno, nel suo posto di commissario; l'altro, con lo spaccio del
preservativo. Non domanderemo al lettore se, tra l'enormità e  i  pericoli  d'un
tal delitto, e l'importanza di tali guadagni (ai quali,  del  resto,  gli  aiuti
della natura non mancavan di certo), ci fosse proporzione. Ma  se  credesse  che
que' giudici, per esser del secento, ce la trovassero, e  che  una  tal  cagione
paresse loro verisimile, li sentirà essi medesimi dir di no, in un altro  esame.
Ma c'era di più: c'era contro la cagione addotta dal  Mora  una  difficoltà  più
positiva, più materiale, se non più forte. Il lettore  può  rammentarsi  che  il
commissario, accusando sé stesso, aveva addotta anche lui la cagione da cui  era
stato mosso al delitto; cioè che il barbiere gli aveva  detto:  ungete...  et
poi venete da me,  che  hauerete  una  mano,  o  come  disse  nel  costituto
seguente, una buona mano de danari. Ecco dunque  due  cagioni  d'un  solo
delitto: due cagioni, non solo  diverse,  ma  opposte  e  incompatibili.  l'uomo
stesso che, secondo una  confessione,  offre  largamente  danari  per  avere  un
complice; secondo l'altra, acconsente al delitto per la speranza d'un miserabile
guadagno. Dimentichiamo quel che s'è visto  fin  qui:  come  sian  venute  fuori
quelle due cagioni, con  che  mezzi  si  siano  avute  quelle  due  confessioni;
prendiam le cose al punto dove sono arrivate. Cosa facevano, trovandosi a un tal
punto, de' giudici ai  quali  la  passione  non  avesse  pervertita,  offuscata,
istupidita la coscienza?  Si  spaventavano  d'essere  andati  (foss'anche  senza
colpa) tanto avanti; si consolavano di non essere almeno andati fino all'ultimo,
all'irreparabile affatto; si fermavano  all'inciampo  fortunato  che  gli  aveva
trattenuti dal precipizio; s'attaccavano a quella difficoltà, volevano scioglier
quel nodo; qui adopravan  tutta  l'arte,  tutta  l'insistenza,  tutti  i  rigiri
dell'interrogazioni; qui ricorrevano ai confronti; non facevano un  passo  prima
d'aver trovato (ed era forse cosa difficile?) qual de' due mentisse, o se  forse
mentissero tutt'e due. I nostri esaminatori, avuta quella risposta del  Mora:
perché lui hauerebbe guadagnato assai, poiché si sarian ammalate  delle  persone
assai, et io hauerei guadagnato assai con il mio  elettuario,  passarono  ad
altro. Dopo ciò, basterà, se non è anche troppo, il toccar di fuga, e in  parte,
il rimanente di quel costituto. Interrogato, se vi  sono  altri  complici  di
questo negotio, risponde: vi saranno li suoi compagni del Piazza, i quali
non so chi siano. Gli si  protesta  che  non  è  verisimile  che  non  lo
sappi.  Al  suono  di  quella  parola,  terribile  foriera  della   tortura,
l'infelice afferma subito, nella forma più positiva: sono li Foresari  et  il
Baruello: quelli che gli erano stati nominati e così indicati, nel costituto
antecedente. Dice che il veleno lo teneva nel fornello, cioè dove  loro  s'erano
immaginati che potesse essere; dice come lo componeva,  e  conclude:  buttavo
via il resto nella Vedra. Non possiam tenerci qui  di  non  trascrivere  una
postilla del Verri. «E non  avrebbe  gettato  nella  Vetra  il  resto,  dopo  la
prigionia del Piazza!» Risponde a  caso  ad  altre  domande  che  gli  fanno  su
circostanze di luogo, di tempo e di cose simili, come se si trattasse d'un fatto
chiaro e provato in sostanza, e non ci mancassero  che  delle  particolarità;  e
finalmente, è messo di nuovo alla tortura, affinché la sua  deposizione  potesse
valer contro i nominati, e segnatamente contro il commissario. Al  quale  avevan
data la tortura per convalidare  una  deposizione  opposta  a  questa  in  punti
essenziali! Qui non potremmo allegar testi di leggi,  né  opinioni  di  dottori;
perché in verità la giurisprudenza  non  aveva  preveduto  un  caso  simile.  La
confessione fatta nella tortura non valeva, se non era ratificata senza tortura,
e in un altro luogo, di dove non si potesse vedere l'orribile strumento,  e  non
nello stesso giorno. Eran ritrovati della scienza, per rendere, se  fosse  stato
possibile, spontanea una confessione  forzata,  e  soddisfare  insieme  al  buon
senso, il quale diceva troppo chiaro che la parola estorta dal  dolore  non  può
meritar fede, e alla legge romana che consacrava la tortura. Anzi la ragione  di
quelle precauzioni, la ricavavano gl'interpreti dalla legge  medesima,  cioè  da
quelle strane parole: «La tortura è cosa  fragile  e  pericolosa  e  soggetta  a
ingannare; giacché molti, per forza d'animo  o  di  corpo,  curan  così  poco  i
tormenti, che non si può, con un tal mezzo, aver da loro la verità;  altri  sono
così intolleranti  del  dolore,  che  dicon  qualunque  falsità,  piuttosto  che
sopportare i tormenti(69) ». Dico: strane parole, in una legge che manteneva  la
tortura; e per intendere come non ne cavasse altra conseguenza, se non  che  «ai
tormenti non si deve creder sempre», bisogna rammentarsi che  quella  legge  era
fatta in origine per gli schiavi, i quali, nell'abiezione e nella perversità del
gentilesimo, poterono esser considerati come cose e non persone, e sui quali  si
credeva quindi lecito qualunque esperimento, a segno  che  si  tormentavano  per
iscoprire i delitti degli altri. De' nuovi interessi  di  nuovi  legislatori  la
fecero poi applicare anche alle persone libere; e la forza dell'autorità la fece
durar tanti secoli più del gentilesimo: esempio non raro, ma notabile, di quanto
una legge, avviata che sia, possa estendersi al  di  là  del  suo  principio,  e
sopravvivergli. Per adempir dunque una tale formalità, chiamarono il Mora  a  un
nuovo esame, il giorno seguente. Ma siccome in  tutto  dovevan  metter  qualcosa
d'insidioso, d'avvantaggioso, di suggestivo, così, in  vece  di  domandargli  se
intendeva di ratificar la sua confessione, gli domandarono se ha cosa  alcuna
d'aggiongere all'esame et confessione sua, che fece hieri, doppo che fu  ommesso
di tormentare. Escludevano  il  dubbio:  la  giurisprudenza  voleva  che  la
confessione della tortura fosse rimessa in questione; essi la davan per ferma, e
chiedevan soltanto che fosse accresciuta. Ma in quell'ore (direm noi di riposo?)
il sentimento dell'innocenza, l'orror del supplizio, il pensiero  della  moglie,
de' figli, avevan forse data al povero Mora la speranza d'esser più forte contro
nuovi tormenti; e rispose: Signor no, che non ho cosa  d'aggiongerui,  et  ho
più presto cosa da sminuire. Dovettero pure domandargli, che cosa  ha  da
sminuire.   Rispose   più   apertamente,   e   come   prendendo    coraggio:
quell'unguento che ho detto, non ne ho fatto minga (mica), et quello  che  ho
detto, l'ho detto per i tormenti.  Gli  minacciaron  subito  la  rinnovazion
della tortura; e ciò (lasciando da parte tutte  l'altre  violente  irregolarità)
senza aver messe in chiaro le contradizioni tra lui e il commissario, cioè senza
poter dire essi medesimi se quella nuova tortura gliel'avrebbero data sulla  sua
confessione, o sulla deposizion dell'altro; se come a complice,  o  come  a  reo
principale; se per un delitto commesso ad istigazione altrui, o  del  quale  era
stato l'istigatore; se per un delitto che lui aveva voluto pagar  generosamente,
o dal quale aveva sperato un miserabile guadagno.  A  quella  minaccia,  rispose
ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per
li tormenti. Poi riprese: V.S. mi lasci un puoco dire  un'Aue  Maria,  et
poi farò quello che il Signore me inspirarà; e si mise in ginocchio  davanti
a un'immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un  giorno  giudicare  i
suoi giudici. Alzatosi dopo qualche momento, e  stimolato  a  confermar  la  sua
confessione, disse: in conscienza mia, non è vero niente. Condotto subito
nella stanza della tortura, e legato, con quella crudele  aggiunta  del  canapo,
l'infelicissimo disse: V.S. non mi stij a dar più tormenti, che la verità che
ho  deposto,  la  voglio  mantenere.  Slegato  e  ricondotto  nella   stanza
dell'esame, disse di nuovo: non è vero niente.  Di  nuovo  alla  tortura,
dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli il  dolore  consumato  fino
all'ultimo quel poco resto di coraggio,  mantenne  il  suo  detto,  si  dichiarò
pronto a ratificar la sua confessione; non voleva nemmeno che gliela leggessero.
A questo non  acconsentirono:  scrupolosi  nell'osservare  una  formalità  ormai
inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti  e  più  positive.
Lettogli l'esame, disse: è la verità tutto.  Dopo  di  ciò,  perseveranti
nel metodo di non proseguir le ricerche, di non affrontar le difficoltà, se  non
dopo i tormenti (ciò che la  legge  medesima  aveva  creduto  di  dover  vietare
espressamente, ciò che Diocleziano e Massimiano avevan voluto  impedire!(70)  ),
pensaron finalmente a domandargli se non aveva avuto altro fine che di guadagnar
con la vendita del suo elettuario. Rispose: che sappia mi, quanto  a  me,
non ho altro fine. Che sappia mi! Chi, se non lui,  poteva  sapere
cosa fosse passato nel suo interno?  Eppure  quelle  così  strane  parole  erano
adattate alla circostanza: lo sventurato non avrebbe potuto trovarne  altre  che
significassero meglio a che segno aveva, in  quel  momento,  abdicato,  per  dir
così, sé medesimo, e  acconsentiva  a  affermare,  a  negare,  a  sapere  quello
soltanto, e tutto quello che  fosse  piaciuto  a  coloro  che  disponevan  della
tortura. Vanno avanti, e gli dicono:  che  ha  molto  dell'inuerisimile  che,
solamente  per  hauer  occasione  il  Commissario  di  lavorare  assai,  et  lui
Constituto di vendere il suo elettuario habbino procurato,  con  l'imbrattamento
delle porte, la destruttione et morte della gente; perciò dica a  che  fine,  et
per che rispetto si sono mossi loro duoi a così  fare,  per  un  interesse  così
legiero.    Ora  vien  fuori  quest'inverisimiglianza?  Gli  avevan   dunque
minacciata e data a più riprese la tortura per fargli ratificare una confessione
inverisimile! L'osservazione era giusta, ma  veniva  tardi,  diremo  anche  qui;
giacché il rinnovarsi delle circostanze medesime, ci  sforza  quasi  a  usar  le
medesime parole. Come non s'erano accorti che ci fosse  inverisimiglianza  nella
deposizione del Piazza, se non quando ebbero, su quella  deposizione,  carcerato
il Mora; così ora non s'accorgono che ci sia inverisimiglianza nella  confession
di questo, se non dopo avergli estorta una  ratificazione  che,  in  mano  loro,
diventa un mezzo sufficiente per condannarlo. Vogliam supporre che realmente non
se  n'accorgessero  che  in  questo  momento?  Come  spiegheremo  allora,   come
qualificheremo  il  ritener  valida  una  tal   confessione,   dopo   una   tale
osservazione? Forse il Mora diede una risposta più soddisfacente che  non  fosse
stata quella del Piazza? La risposta del Mora fu questa:  se  il  Commissario
non lo sa lui, io non lo so; et bisogna che lui lo sappia, et  da  lui  V.S.  lo
saprà, per essere stato lui l'inuentore. E si vede  che  questo  rovesciarsi
l'uno sull'altro la colpa principale, non era tanto per diminuire ognuno la sua,
quanto per sottrarsi all'impegno di spiegar cose che  non  erano  spiegabili.  E
dopo una risposta simile, g'intimarono che per hauer lui Constituto fatto  la
suddetta compositione et unguento, di concerto del detto Commissario, et  a  lui
doppo dato per ontare  le  muraglie  delle  case,  nel  modo  et  forma  da  lui
Constituto et dal detto Commissario, deposto, a fine di far morire la gente,  si
come il detto Commissario ha confessato d'hauere per  tal  fine  eseguito,  esso
Constituto si fa reo d'hauer procurato in tal modo la morte della gente, et  che
per hauer così fatto, sij incorso nelle pene imposte dalle leggi a  chi  procura
et tenta di così fare.  Ricapitoliamo. I giudici  dicono  al  Mora:  come  è
possibile che vi siate determinati a commettere  un  tal  delitto,  per  un  tal
interesse? Il Mora risponde: il commissario lo deve sapere, per sé,  e  per  me:
domandatene a lui. Li  rimette  a  un  altro,  per  la  spiegazione  d'un  fatto
dell'animo suo, perché possan chiarirsi come un motivo sia stato  sufficiente  a
produrre in lui una deliberazione. E a qual altro? A uno che  non  ammetteva  un
tal motivo, poiché attribuiva il delitto  a  tutt'altra  cagione.  E  i  giudici
trovano che la difficoltà è sciolta,  che  il  delitto  confessato  dal  Mora  è
diventato verisimile; tanto che  ne  lo  costituiscono  reo.  Non  poteva  esser
l'ignoranza quella che faceva loro vedere inverisimiglianza in  un  tal  motivo;
non era la giurisprudenza quella che li  portava  a  fare  un  tal  conto  delle
condizioni trovate e imposte dalla giurisprudenza.

Cap.5

L'impunità e la tortura avevan prodotto due storie; e benché questo  bastasse  a
tali  giudici  per  proferir  due  condanne,  vedremo  ora  come  lavorassero  e
riuscissero, per quanto era possibile, a rifonder le due  storie  in  una  sola.
Vedremo poi, in ultimo, come  mostrassero,  col  fatto,  d'esser  persuasi  essi
medesimi, anche di questa. Il senato confermò e estese  la  decisione  de'  suoi
delegati. «Sentito ciò che risultava  dalla  confessione  di  Giangiacomo  Mora,
riscontrate le cose antecedenti, considerato ogni cosa,» meno l'esserci, per  un
solo delitto, due autori principali diversi, due diverse  cagioni,  due  diversi
ordini di fatti, «ordinò che il Mora  suddetto...  fosse  di  nuovo  interrogato
diligentissimamente, però senza tortura,  per  fargli  spiegar  meglio  le  cose
confessate, e ricavar da lui gli altri autori, mandanti, complici del delitto; e
che dopo l'esame fosse costituito  reo,  con  la  narrativa  del  fatto,  d'aver
composto l'unguento  mortifero,  e  datolo  a  Guglielmo  Piazza;  e  gli  fosse
assegnato il termine di tre giorni per far le sue difese. E in quanto al Piazza,
fosse interrogato se aveva altro da aggiungere alla sua confessione, la quale si
trovava  mancante;  e,  non  n'avendo,  fosse  costituito  reo  d'avere   sparso
l'unguento suddetto, e assegnatogli il medesimo termine per  le  difese.»  Cioè:
vedete di cavar dall'uno e dall'altro quello che si potrà:  a  ogni  modo,  sian
costituiti rei, ognuno sulla  sua  confessione,  benché  siano  due  confessioni
contrarie. Cominciaron dal Piazza, e in quel giorno medesimo. Da aggiungere, lui
non aveva nulla,  e  non  sapeva  che  n'avevan  loro;  e  forse,  accusando  un
innocente, non aveva preveduto che si creava un accusatore. Gli domandano perché
non ha deposto d'aver dato al barbiere  della  bava  d'appestati,  per  comporre
l'unguento. Non gli ho dato niente, risponde;  come  se  quelli  che  gli
avevan  creduta  la  bugia,  dovessero  credergli  anche  la  verità.  Dopo   un
andirivieni d'altre interrogazioni, gli protestano che, per non  hauer  detta
la verità intera, come hauea promesso, non può né deue godere della impunità che
se gli era promessa. Allora dice subito: Signore, è vero che il  suddetto
Barbiero mi ricercò a portargli quella materia, et io glie la portai,  per  fare
il detto onto. Sperava, con l'ammetter tutto, di ripescar la  sua  impunità.
Poi, o per farsi sempre più merito, o  per  guadagnar  tempo,  soggiunse  che  i
danari promessigli dal barbiere dovevan venire da una persona  grande,  e
che l'aveva saputo dal barbiere medesimo, ma senza potergli mai cavar  di  bocca
chi fosse. Non aveva avuto tempo d'inventarla. Ne domandarono al Mora, il giorno
dopo; e probabilmente il poverino l'avrebbe inventata lui, come avrebbe  potuto,
se fosse stato messo alla tortura. Ma, come  abbiam  visto,  il  senato  l'aveva
esclusa per quella volta, affine, si vede, di render meno sfrontatamente estorta
la nuova ratificazione che volevano della sua confessione  antecedente.  Perciò,
interrogato se lui Constituto fu il primo a ricercare il detto Commissario...
et gli promise quantità de danari; rispose: Signor no; e doue  vole  V.S.
che pigli  mi  (io)  questa  quantità  de  danari?  Potevano  infatti
rammentarsi che, nella minutissima visita fattagli in casa quando l'arrestarono,
il tesoro che gli avevan trovato, era un baslotto (una ciotola),  con  dentro
cinque parpagliole  (dodici  soldi  e  mezzo).  Domandato  della  persona
grande, rispose: V.S. non vole già se non la verità, e la verità io  l'ho
detta quando sono stato tormentato, et ho detto anche d'avantaggio.  Ne' due
estratti non è fatto menzione che abbia ratificata la  confessione  antecedente;
se, come è da credere, glielo fecero fare, quelle  parole  erano  una  protesta,
della quale lui forse non conosceva la forza; ma essi la  dovevan  conoscere.  E
del rimanente, da Bartolo, anzi dalla Glossa, fino al Farinacci, era  stata,  ed
era sempre dottrina  comune,  e  come  assioma  della  giurisprudenza,  che  «la
confessione fatta ne' tormenti che fossero dati senza indizi legittimi, rimaneva
nulla e invalida, quand'anche fosse poi ratificata mille volte  senza  tormenti:
etiam quod millies sponte sit ratificata(76) ».  Dopo di ciò, fu a lui  e
al Piazza pubblicato, come allora si diceva, il processo  (cioè  comunicati  gli
atti), e dato il termine di due giorni a far le  loro  difese:  e  non  si  vede
perché uno di meno di quello  che  aveva  decretato  il  senato.  Fu  all'uno  e
all'altro assegnato un difensore d'ufizio: quello assegnato al Mora se ne scusò.
Il Verri attribuisce, per congettura, quel rifiuto a una cagione che pur  troppo
non è strana in quel complesso di cose. «Il furore», dice, «era giunto al segno,
che si credeva un'azione cattiva e disonorante il  difender  questa  disgraziata
vittima.(77) » Ma nell'estratto stampato, che il Verri non doveva aver visto,  è
registrata la cagion vera, forse non meno strana, e, da  una  parte,  anche  più
trista. Lo stesso giorno, due di luglio, il notaio Mauri, chiamato  a  difendere
il detto Mora, disse: io non posso accettare  questo  carico,  perché,  prima
sono Notaro criminale, a chi non conviene  accettar  patrocinij,  et  poi  anche
perché non sono né Procuratore, né Avocato; anderò bene a  parlarli,  per  darli
gusto (per fargli piacere), ma non accettarò il patrocinio. A un uomo
condotto ormai appiè del supplizio (e di qual supplizio! e in qual maniera!),  a
un uomo privo d'aderenze, come di lumi, e che non poteva aver soccorso se non da
loro, o per mezzo loro, davano per  difensore  uno  che  mancava  delle  qualità
necessarie  a  un  tal  incarico,  e  n'aveva  delle  incompatibili!  Con  tanta
leggerezza procedevano! mettiam pure che non c'entrasse malizia. E toccava a  un
subalterno a richiamarli all'osservanza delle regole più note, e più sacrosante!
Tornato, disse: sono stato dal Mora, il quale mi ha detto liberamente che non
ha fallato, et che quello che ha detto, l'ha detto per i tormenti; et perché gli
ho detto liberamente  che  non  voleuo  né  poteuo  sostener  questo  carico  di
diffenderlo, mi ha detto che almeno  il  Sig.  Presidente  sij  servito  (si
degni) di prouederli d'un diffensore, et che non voglia permettere che  habbi
da morire  indiffeso.  Di  tali  favori,  e  con  tali  parole,  l'innocenza
supplicava l'ingiustizia! Gliene nominarono infatti un altro.  Quello  assegnato
al Piazza, «comparve e chiese a voce che gli fosse fatto vedere il processo  del
suo cliente; e avutolo, lo lesse». Era questo il comodo che davano alle  difese?
Non sempre, poiché l'avvocato del Padilla, che divenne, come or ora vedremo,  il
concreto della persona grande buttata là in astratto e in  aria,  ebbe  a
sua disposizione il processo medesimo, tanto da farne copiar quella buona  parte
che è venuta per quel mezzo a nostra notizia. Sullo spirar del  termine,  i  due
sventurati chiesero una proroga:  «il  senato  concesse  loro  tutto  il  giorno
seguente, e  non  più:  et  non  ultra».  Le  difese  del  Padilla  furon
presentate in tre volte: una parte il 24 di luglio 1631; la  quale  «fu  ammessa
senza pregiudizio della facoltà di presentar più tardi il rimanente»; l'altra il
13 d'aprile 1632; e l'ultima il 10 di  maggio  dell'anno  medesimo:  era  allora
arrestato da circa due anni. Lentezza dolorosa davvero, per  un  innocente;  ma,
paragonata alla precipitazione usata col Piazza e col Mora, per i quali  non  fu
lungo che il supplizio, una tal lentezza  è  una  parzialità  mostruosa.  Quella
nuova invenzione del Piazza sospese però il supplizio per alcuni  giorni,  pieni
di bugiarde speranze, ma insieme di nuove crudeli torture, e  di  nuove  funeste
calunnie. L'auditore della Sanità fu incaricato di ricevere, in gran segreto,  e
senza presenza di notaio, una nuova deposizione di costui; e questa volta fu lui
che promosse l'abboccamento, per mezzo del suo difensore, facendo intendere  che
aveva qualcosa di più da rivelare  intorno  alla  persona  grande.  Pensò
probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete,  così  chiusa  alla
fuga, così larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un
tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli. E  siccome,  tra  le
molte e varie congetture ch'eran girate per le bocche della gente, intorno  agli
autori di quel funesto imbrattamento del 18  di  maggio  (ché  la  violenza  del
giudizio  fu  dovuta  in  gran  parte  all'irritazione,  allo   spavento,   alla
persuasione prodotta da quello: e  quanto  i  veri  autori  di  esso  furon  più
colpevoli di quello che conoscessero loro  medesimi!),  s'era  anche  detto  che
fossero ufiziali spagnoli, così lo sciagurato inventore trovò anche qui qualcosa
da attaccarsi. L'esser poi il Padilla figliuolo del comandante del  castello,  e
l'aver  quindi  un  protettor  naturale,  che,  per  aiutarlo,  avrebbe   potuto
disturbare il processo, fu probabilmente ciò che mosse il Piazza a  nominar  lui
piuttosto che  un  altro:  se  pure  non  era  il  solo  ufiziale  spagnolo  che
conoscesse,  anche  di  nome.  Dopo  l'abboccamento,  fu  chiamato  a  confermar
giudizialmente la sua nuova deposizione. Nell'altra aveva detto che il  barbiere
non gli aveva voluto nominar la persona grande. Ora veniva a sostenere il
contrario; e per diminuire, in qualche maniera, la contradizione, disse che  non
gliel'aveva nominata subito. Finalmente mi disse doppo il spatio di quattro o
cinque giorni, che questo capo grosso era un tale di Padiglia, il cui  nome  non
mi raccordo, benché me lo disse; so bene, et mi raccordo precisamente che  disse
esser figliolo del Sig. Castellano nel Castello di Milano. Danari, però, non
solo non disse d'averne ricevuti dal barbiere, ma protestò di non saper  nemmeno
se questo n'avesse avuti dal Padilla. Fu fatta sottoscrivere  al  Piazza  questa
deposizione,  e  spedito  subito  l'auditore  della  Sanità  a  comunicarla   al
governatore,  come  riferisce  il  processo;  e  sicuramente  a  domandargli  se
consentirebbe, occorrendo, a consegnare all'autorità civile il  Padilla,  ch'era
capitano di cavalleria,  e  si  trovava  allora  all'esercito,  nel  Monferrato.
Tornato l'auditore, e fatta subito confermar di nuovo la deposizione al  Piazza,
s'andò di nuovo addosso all'infelice Mora. Il quale, all'istanze per fargli dire
che lui aveva promesso danari al  commissario,  e  confidatogli  che  aveva  una
persona grande, e dettogli  finalmente  chi  fosse,  rispose:  non  si
trouarà mai in eterno: se io lo sapessi, lo direi,  in  conscienza  mia.  Si
viene a un nuovo confronto, e si domanda al Piazza, se è vero che il Mora gli ha
promesso danari, dichiarando che tutto ciò faceua d'ordine et commissione del
Padiglia, figliolo del signor Castellano di Milano. Il difensor del  Padilla
osserva, con gran ragione, che,  «sotto  pretesto  di  confronto»,  fecero  così
conoscere al Mora «quello che si desiderava dicesse». Infatti, senza  questo,  o
altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori  quel
personaggio. La tortura poteva bensì renderlo  bugiardo,  ma  non  indovino.  Il
Piazza sostenne quel che aveva deposto. E voi volete dir questo?  esclamò
il Mora. Sì, che lo voglio dire, che è la verità, replicò  lo  sventurato
impudente: et sono a questo mal termine  per  voi,  et  sapete  bene  che  mi
diceste questo sopra l'uschio della vostra bottega. Il Mora, che aveva forse
sperato di poter, con l'aiuto del difensore, mettere in chiaro la sua innocenza,
e ora prevedeva che nuove torture gli avrebbero estorta una  nuova  confessione,
non ebbe nemmeno la forza d'opporre un'altra volta la verità alla  bugia.  Disse
soltanto: patientia! per amor di voi, morirò. 
 Infatti, rimandato subito il Piazza, intimano a  lui,  che  dica  hormai  la
verità; e appena ha risposto: Signore,  la  verità  l'ho  detta;  gli
minacciano la tortura: il che si farà sempre senza pregiuditio di quello  che
è convitto, et confesso, et non  altrimenti.  Era  una  formola  solita;  ma
l'averla adoprata in questo caso fa  vedere  fino  a  che  segno  la  smania  di
condannare  gli  avesse  privati  della  facoltà  di  riflettere.  Come  mai  la
confessione d'avere indotto il Piazza al delitto con la promessa de' danari  che
si avrebbero dal Padilla, poteva non far pregiudizio alla confessione  d'essersi
lasciato indurre al delitto  dal  Piazza,  per  la  speranza  di  guadagnar  col
preservativo? Messo alla tortura, confermò subito tutto quello che  aveva  detto
il commissario; ma non bastando questo ai giudici, disse che infatti il  Padilla
gli aveva proposto di fare un ontione da ongere le  Porte  et  Cadenazzi,
promessigli danari quanti ne volesse,  datigliene  quanti  n'aveva  voluti.  Noi
altri, che non abbiamo, né timor d'unzioni, né furore contro  untori,  né  altri
furiosi da soddisfare, vediamo chiaramente, e senza fatica, come sia  venuta,  e
da che sia stata mossa  una  tal  confessione.  Ma,  se  ce  ne  fosse  bisogno,
n'abbiamo  anche  la  dichiarazione  di  chi  l'aveva  fatta.   Tra   le   molte
testimonianze che il difensor del Padilla  poté  raccogliere,  c'è  quella  d'un
capitano Sebastiano Gorini, che si trovava, in quel tempo (non si  sa  per  qual
cagione)  nelle  stesse  carceri,  e  che  parlava  spesso  con   un   servitore
dell'auditor della Sanità, stato messo  per  guardia  a  quell'infelice.  Depone
così: «mi disse detto servitore, sendo se  non  (appena)  all'hora  stato
detto Barbiere rimenato dall'esame: V.S. non  sa  che  il  Barbiere  m'ha  detto
adesso adesso, che nell'esame che ha fatto, ha dato fuori (buttato fuori)
il Sig. Don Gioanni figliolo del Sig. Castellano? Et io,  ciò  sentendo,  restai
stupito, et li dissi: è vero questo? Et esso servitore mi replicò che era  vero;
ma che era anche vero che lui protestava di non raccordarsi di non  hauer  forsi
mai parlato con alcuno spagnuolo, et che se li hauessero mostrato detto Sig. Don
Gioanni, non l'haurebbe né anche conosciuto. Et  soggiongendo,  esso  servitore,
disse: io li dissi perché dunque lo haueua dato fuori? et lui disse che l'haueua
dato fuori per hauerlo sentito nominare là, et che  perciò  rispondeua  a  tutto
quello che sentiva, o che li veniua così in  bocca.»  Questo  valse  (e  ne  sia
ringraziato il cielo) a favor del Padilla; ma vogliam noi credere che i giudici,
i quali avevan messo, o lasciato mettere per guardia al  Mora  un  servitore  di
quell'auditor così attivo, così investigatore, non  risapessero,  se  non  tanto
tempo dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle parole  così  verisimili,
dette senza speranza, un momento dopo quelle così strane che gli  aveva  estorte
il dolore? E perché, tra tante cose dell'altro  mondo,  parve  strana  anche  ai
giudici quella relazione tra il barbier milanese  e  il  cavaliere  spagnolo;  e
domandarono chi c'era stato di mezzo, alla prima disse ch'era stato  uno  de'
suoi, fatto e vestito così e così. Ma incalzato a nominarlo,  disse:  Don
Pietro di Saragoza. Questo almeno era un personaggio immaginario.  Ne  furon
poi fatte (dopo il supplizio del Mora,  s'intende)  le  più  minute  e  ostinate
ricerche. S'interrogarono soldati e ufiziali, compreso il comandante stesso  del
castello, don Francesco de  Vargas,  succeduto  allora  al  padre  del  Padilla:
nessuno l'aveva mai sentito nominare. Se non  che  si  trovò  finalmente,  nelle
carceri del podestà, un Pietro Verdeno, nativo di Saragozza, accusato di  furto.
Costui, esaminato, disse che in quel tempo era a  Napoli;  messo  alla  tortura,
sostenne il suo detto; e non si parlò più di Don  Pietro  di  Saragozza.  Sempre
incalzato da nuove domande, il Mora aggiunse che lui aveva poi fatto la proposta
al commissario, il quale aveva anche lui avuto danari per questo, da  non  so
chi. E certo non lo sapeva; ma vollero saperlo  i  giudici.  Lo  sventurato,
rimesso  alla  tortura,  nominò  pur  troppo  una  persona  reale,   un   Giulio
Sanguinetti, banchiere: «il primo venuto in mente all'uomo che inventava per  lo
spasimo(73) ». Il Piazza, che aveva sempre detto di non  aver  ricevuto  danari,
interrogato di nuovo, disse subito di  sì.  (Il  lettore  si  rammenterà,  forse
meglio de' giudici, che, quando visitaron  la  casa  di  costui,  danari  gliene
trovaron meno che al Mora, cioè  punto.)  Disse  dunque  d'averne  avuti  da  un
banchiere; e non avendogli i giudici nominato il Sanguinetti, ne nominò  lui  un
altro: Girolamo Turcone. E questo e quello e vari loro agenti furono  arrestati,
esaminati, messi alla tortura; ma,  stando  fermi  a  negare,  furon  finalmente
rilasciati. Il 21 di luglio, furono al Piazza e  al  Mora  comunicati  gli  atti
posteriori alla ripresa del processo, e dato un nuovo termine di  due  giorni  a
far le loro difese. L'uno e l'altro scelsero  questa  volta  un  difensore,  col
consiglio probabilmente di quelli ch'erano stati loro assegnati d'ufizio. Il  23
dello stesso mese, fu arrestato il Padilla; cioè, come  è  attestato  nelle  sue
difese, gli fu detto dal commissario generale della cavalleria, che, per  ordine
dello Spinola, dovesse andare a costituirsi prigioniero nel castello di  Pomate;
come fece. Il padre, e si rileva dalle difese medesime, fece istanza, per  mezzo
del suo luogotenente, e del suo segretario, perché si  sospendesse  l'esecuzione
della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che fossero stati confrontati con
don Giovanni. Gli fu fatto rispondere «che non si poteva sospendere,  perché  il
popolo esclamava...» (eccolo nominato  una  volta  quel  civium  ardor  prava
jubentium; la sola volta che si poteva senza  confessare  una  vergognosa  e
atroce deferenza, giacché si trattava  dell'esecuzion  d'un  giudizio,  non  del
giudizio medesimo. Ma cominciava allora soltanto a esclamare il popolo? o allora
soltanto cominciavano i giudici a far conto delle sue grida?) «...ma che in ogni
caso il signor Don Francesco non si pigliasse  fastidio,  perché  gente  infame,
com'erano questi duoi, non potevano col suo detto pregiudicare alla  reputatione
del signor Don Giovanni». E il detto d'ognuno di que' due  infami  valse  contro
l'altro! E i giudici l'avevan tante volte  chiamato  verità!  E  nella  sentenza
medesima decretarono che, dopo l'intimazion di essa,  fossero  l'uno  e  l'altro
tormentati di nuovo su ciò che riguardava i  complici!  E  le  loro  deposizioni
promossero torture, e quindi confessioni, e quindi supplizi;  e  se  non  basta,
anche supplizi  senza  confessioni!  «Et  così»,  conclude  la  deposizione  del
segretario suddetto, «tornassimo dal  signor  Castellano,  et  li  facessimo  la
relatione di quant'era passato; et lui non disse altro, ma restò mortificato; la
qual mortificatione fu tale, che fra pochi giorni se ne morse.»  Quell'infernale
sentenza portava che,  messi  sur  un  carro,  fossero  condotti  al  luogo  del
supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata  loro  la  mano
destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con la rota, e in  quella
intrecciati vivi, e  alzati  da  terra;  dopo  sei  ore,  scannati;  bruciati  i
cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio
di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in  perpetuo  di
rifabbricare in quel luogo. E se qualcosa potesse accrescer l'orrore, lo sdegno,
la compassione, sarebbe il veder que' disgraziati, dopo l'intimazione d'una  tal
sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e per la  forza  delle
cagioni medesime che gliele avevano estorte. La speranza non ancora  estinta  di
sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa
sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li  fecero,  e
ripeter le menzogne di prima,  e  nominar  nuove  persone.  Così,  con  la  loro
impunità, e con la loro  tortura,  riuscivan  que'  giudici,  non  solo  a  fare
atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto  dipendeva  da  loro,  a  farli
morir colpevoli. Nelle difese del Padilla, si trovano,  ed  è  un  sollievo,  le
proteste che fecero della loro e dell'altrui innocenza,  appena  furono  affatto
certi di dover morire, e di non dover più rispondere. Quel capitano citato  poco
fa, depose che, trovandosi vicino alla cappella dov'era stato messo  il  Piazza,
lo sentì che «strepitava, et diceva che  moriva  al  torto,  et  che  era  stato
assassinato sotto promessa», e rifiutava il ministero di due  cappuccini  venuti
per disporlo a morir cristianamente. «Et in quanto a me,» soggiunge, «m'accorgei
che lui haueua speranza che si douesse retrattare la sua causa... et  andai  dal
detto Commissario, pensando di far atto di carità col persuaderlo a  disporsi  a
ben morire in gratia di Dio; come in effetto posso dire che mi riuscì; poiché li
Padri non toccorono il punto che toccai io, qual fu che l'accertai di non  hauer
mai visto, né sentito dire che il Senato retrattasse cause simili, dopo  seguita
la condanna... Finalmente  tanto  dissi,  che  s'acquietò...  et  doppo  che  fu
acquietato,  diede  alcuni  sospiri,  et  poi  disse  come  haueua  dato   fuori
indebitamente molti innocenti.» Tanto lui, quanto il Mora, fecero  poi  stendere
dai religiosi che gli assistevano una ritrattazion formale di tutte l'accuse che
la speranza o il dolore gli avevano estorte. L'uno e l'altro  sopportarono  quel
lungo supplizio, quella serie e varietà di  supplizi,  con  una  forza  che,  in
uomini vinti tante volte dal timor della morte e dal dolore; in uomini  i  quali
morivan vittime, non di qualche gran causa, ma d'un miserabile  accidente,  d'un
errore sciocco, di facili e basse  frodi;  in  uomini  che,  diventando  infami,
rimanevano oscuri, e all'esecrazion pubblica non avevan da opporre altro che  il
sentimento d'un'innocenza volgare, non creduta, rinnegata tante  volte  da  loro
medesimi; in uomini (fa male il pensarci, ma si  può  egli  non  pensarci?)  che
avevano una famiglia, moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere,  se  non  si
sapesse che fu rassegnazione: quel dono che, nell'ingiustizia degli  uomini,  fa
veder la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la caparra,  non  solo
del perdono, ma  del  premio.  L'uno  e  l'altro  non  cessaron  di  dire,  fino
all'ultimo, fin sulla rota, che accettavan la morte  in  pena  de'  peccati  che
avevan commessi davvero. Accettar quello che non si potrebbe  rifiutare!  parole
che possono parer prive di senso a chi  nelle  cose  guardi  soltanto  l'effetto
materiale; ma parole d'un senso chiaro e profondo per  chi  considera,  o  senza
considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser  più  difficile,
ed è più importante, la persuasion della mente, e il piegarsi della  volontà,  è
ugualmente difficile, ugualmente importante, sia che l'effetto dipenda da  esso,
o no; nel consenso, come nella scelta. Quelle  proteste  potevano  atterrire  la
coscienza de' giudici; potevano irritarla. Essi riusciron  pur  troppo  a  farle
smentire in parte, nel modo che sarebbe stato il  più  decisivo,  se  non  fosse
stato il più illusorio; cioè col far che accusassero sé medesimi, molti  che  da
quelle  proteste  erano  stati  così  autorevolmente  scolpati.  Di  quest'altri
processi toccheremo soltanto, come abbiam detto, qualcosa, e soltanto  d'alcuni,
per venire a quello del Padilla; cioè a quello che, come  per  l'importanza  del
reato è il principale, così, per la  forma  e  per  l'esito,  è  la  pietra  del
paragone per tutti gli altri.

Cap.6

I due arrotini, sciaguratamente nominati dal Piazza, e poi dal Mora, erano stati
imprigionati fino dal 27 di giugno; ma non furon mai confrontati, né  con  l'uno
né con l'altro, e neppure esaminati, prima dell'esecuzione della  sentenza,  che
fu il primo d'agosto. L'undici fu esaminato il padre; il giorno dopo, messo alla
tortura, col solito pretesto di contradizioni e  d'inverisimiglianze,  confessò,
cioè inventò una storia, alterando, come il Piazza, un fatto vero. Fecero  l'uno
e l'altro come que' ragni, che attaccano i capi del  loro  filo  a  qualcosa  di
solido, e poi lavoran per aria. Gli avevan  trovata  un'ampolla  d'un  sonnifero
datogli, anzi composto in casa sua, dal Baruello  suo  amico;  disse  ch'era  un
onto per fare che moressero la gente; un estratto di rospi  e  di  serpi,
con certe polvere che io non so che polvere  siano.  Oltre  il  Baruello,
nominò come complice qualche altra persona di comune conoscenza, e per  capo  il
Padilla. Avrebbero i giudici voluto attaccar questa storia a quella de' due  che
avevano assassinati, e far per ciò dire a costui, che  aveva  ricevuto  da  loro
onto et danari. Se avesse negato semplicemente, avevan la tortura; ma  la
prevenne con questa singolare risposta: Signor no, che non è vero; ma  se  mi
date li tormenti perché io neghi questa particolarità, sarò forzato a dire che è
vero, benché non sij. Non potevan più, senza farsi troppo apertamente  beffe
della giustizia e dell'umanità, adoprar come esperimento un mezzo del quale eran
così solennemente avvertiti che l'effetto sarebbe certo. Fu  condannato  a  quel
medesimo supplizio; dopo l'intimazion della sentenza, torturato, accusò un nuovo
banchiere, e altri; in cappella, e sul  patibolo,  ritrattò  ogni  cosa.  Se  di
questo disgraziato, il Piazza e il Mora avessero detto solamente ch'era un  poco
di buono, si vede  da  vari  fatti  che  saltan  fuori  nel  processo,  che  non
l'avrebbero calunniato. Calunniaron però  anche  in  questo,  il  suo  figliuolo
Gaspare; del quale è bensì riferito un fallo, ma è riferito da lui,  e  in  tali
momenti, e con tal sentimento, che ne risulta come una  prova  dell'innocenza  e
della rettitudine di tutta la sua vita. Ne' tormenti, in faccia alla  morte,  le
sue parole furon tutte meglio che da uom forte; furon  da  martire.  Non  avendo
potuto renderlo calunniator di sé stesso, né d'altri, lo  condannarono  (non  si
vede con quali pretesti) come convinto;  e  dopo  l'intimazion  della  sentenza,
l'interrogarono, come al solito, se aveva altri delitti,  e  chi  erano  i  suoi
compagni in quello per cui era stato condannato.  Alla  prima  domanda  rispose:
io non ho fatto né questo, né altri delitti; et moro perché una  volta  diedi
d'un pugno sopra d'un occhio ad uno, mosso dalla collera.  Alla  seconda:
io non ho alcuni compagni, perché attendeuo a far li fatti miei; et se non  l'ho
fatto, non ho né anche hauuto compagni.  Minacciatagli  la  tortura,  disse:
V.S. facci quello che vole, che non dirò mai quello che non ho fatto, né  mai
condannarò l'anima mia; et è molto meglio che patisca  tre  o  quattro  hore  de
tormenti, che andar nell'inferno a patire eternamente. Messo  alla  tortura,
esclamò  nel  primo  momento:  ah,  Signore!  non  ho  fatto   niente:   sono
assassinato. Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là
bisogna starui sempre. Furono accresciute le torture,  di  grado  in  grado,
fino all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la verità.  Sempre  rispose:
l'ho già detta;  voglio  saluar  l'anima.  Dico  che  non  voglio  grauar  la
conscienza mia: non ho fatto niente. Non si  può  qui  far  a  meno  di  non
pensare che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la stessa costanza,
il povero Mora  sarebbe  rimasto  tranquillo  nella  sua  bottega,  tra  la  sua
famiglia; e, al pari di lui, questo giovine ancor più degno  d'ammirazione,  che
di compassione, e tant'altri innocenti non avrebbero nemmen  potuto  immaginarsi
che spaventosa sorte sfuggivano. Lui medesimo, chi sa?  Certo  per  condannarlo,
non confesso, e su que' soli indizi, e quando, non essendoci altre  confessioni,
il  delitto  stesso  non  era  che  una  congettura,   bisognava   violare   più
svelatamente, più arditamente, ogni principio di giustizia, ogni prescrizion  di
legge. A ogni modo, non potevano condannarlo a un più mostruoso  supplizio;  non
potevano almeno farglielo  soffrire  in  compagnia  d'uno,  guardando  il  quale
dovesse dire ogni momento a sé stesso: l'ho condotto qui io. Di tanti orrori  fu
cagione la debolezza... che dico? l'accanimento,  la  perfidia  di  coloro  che,
riguardando come una calamità, come una  sconfitta,  il  non  trovar  colpevoli,
tentarono quella debolezza con  una  promessa  illegale  e  frodolenta.  Abbiamo
citato sopra l'atto solenne con cui una promessa simile fu fatta al Baruello,  e
abbiamo anche accennato di voler far vedere il conto diverso che  i  giudici  ne
facevano. Per ciò principalmente racconterem qui in succinto la storia anche  di
questo meschino. Accusato in aria, come s'è visto, prima dal Piazza d'essere  un
compagno del Mora, poi dal Mora d'essere un compagno del Piazza; poi dall'uno  e
dall'altro d'aver ricevuto danari per isparger l'unguento composto dal Mora  con
certe porcherie e peggio (e prima avevan protestato di non  saper  questo);  poi
dal Migliavacca, d'averne composto uno lui,  con  altre  peggio  che  porcherie;
costituito reo di tutte queste cose, come se ne facessero una, negò  e  sostenne
bravamente i tormenti. Mentre pendeva la sua causa, un prete (che  fu  un  altro
de' testimoni fatti  citar  dal  Padilla),  pregato  da  un  parente  di  questo
Baruello, lo raccomandò a un fiscale del senato; il quale venne poi a dirgli che
il suo raccomandato  era  sentenziato  a  morte,  con  tutta  quell'aggiunta  di
carnificine; ma insieme, che «il senato s'accontentava di  proccurarli  da  S.E.
l'impunità».  E  incaricò  il  prete  che  andasse  a  trovarlo,  e  vedesse  di
persuaderlo a dir la verità: «poiché il  Senato  vol  sapere  il  fondamento  di
questo negocio, e pensa di saperlo da  lui».  Dopo  averlo  condannato!  e  dopo
quelle esecuzioni! Il Baruello, sentita la crudele notizia, e  la  proposizione,
disse: «faranno poi di me come hanno fatto del Commissario?» Avendogli il  prete
detto che la promessa gli pareva sincera, cominciò una storia: che un  tale  (il
quale era morto) l'aveva condotto dal barbiere; e questo,  alzato  un  telo  del
parato della stanza, che nascondeva un uscio, l'aveva  introdotto  in  una  gran
sala, dov'eran molte persone a sedere, tra le quali il Padilla.  Al  prete,  che
non aveva l'impegno di trovar de' rei, parvero cose strane; sicché l'interruppe,
avvertendolo che badasse di non perdere il corpo e l'anima insieme; e se n'andò.
Il Baruello accettò l'impunità, corresse  la  storia;  e  comparso  l'undici  di
settembre davanti ai giudici, raccontò loro che un maestro di scherma (vivo  pur
troppo) gli aveva detto esserci una buona occasione di diventar ricchi,  facendo
un servizio al Padilla; e  l'aveva  poi  condotto  sulla  piazza  del  castello,
dov'era arrivato il Padilla medesimo con altri, e  l'aveva  subito  invitato  ad
essere uno di quelli che ungevano sotto i suoi ordini, per  vendicar  gl'insulti
fatti a don Gonzalo de Cordova, nella sua partenza da Milano; e gli  aveva  dato
danari, e un vasetto di quell'unto micidiale. Dire che in questa  storia,  della
quale qui accenniam soltanto il principio, ci fossero delle  cose  inverisimili,
non sarebbe parlar propriamente; era tutto un  monte  di  stravaganze,  come  il
lettore ha potuto vedere da questo solo saggio. Dell'inverisimiglianze  però  ce
ne trovarono anche i giudici e, per di più, delle contradizioni: per  ciò,  dopo
varie interrogazioni, seguite da risposte che imbrogliavan la cosa  sempre  più,
gli dissero, che si esplichi meglio, perché si possa cavar cosa accertata  da
quello che dice. Allora, o fosse un suo ritrovato per  uscir  d'impiccio  in
qualunque maniera, o fosse un vero accesso di frenesia, che ce n'era  abbastanza
cagioni, si mise a tremare, a storcersi, a  gridare:  aiuto!  a  voltolarsi  per
terra, a volersi  nascondere  sotto  una  tavola.  Fu  esorcizzato,  acquietato,
stimolato  a  dire;  e  cominciò  un'altra  storia,  nella  quale  fece  entrare
incantatori e circoli e parole magiche e il diavolo, ch'egli aveva  riconosciuto
per padrone. Per noi basta l'osservare ch'eran cose nuove; e che,  tra  l'altre,
ritrattò quello che aveva detto del vendicar l'ingiuria fatta a don  Gonzalo,  e
asserì in vece che il fine del Padilla era di farsi padrone di Milano; e  a  lui
prometteva di farlo uno de' primi. Dopo varie interrogazioni, fu chiuso l'esame,
se pure merita un tal  nome;  e  dopo  quello,  n'ebbe  tre  altri;  ne'  quali,
essendogli detto che il tal suo asserto non era verisimile, che il tal altro non
era credibile, o rispose che infatti, la prima volta, non aveva detta la verità,
o diede una spiegazione qualunque; e venendogli almen cinque  volte  buttata  in
faccia la deposizione del Migliavacca, in cui era accusato d'aver dato  unguento
da spargere ad altrettante persone delle quali, nella sua,  non  aveva  parlato,
rispose sempre che non era vero; e sempre  i  giudici  passarono  ad  altro.  Il
lettore che si rammenta come, alla prima inverisimiglianza che  credettero  bene
di trovar nella deposizione del Piazza, lo minacciarono di levargli  l'impunità;
come alla prima aggiunta che fece a quella deposizione, al primo fatto  allegato
dal Mora contro di lui, e da lui negato, gliela levarono in effetto, per  non
hauer detta la verità intera, come haueua promesso; vedrà ancor più,  se  ce
n'è bisogno, quanto servisse a coloro l'aver voluto piuttosto fare una giunteria
al governatore, che chiedergli una facoltà, l'aver fatta una promessa in  parole
e di parole a quel Piazza, che doveva esser le primizie del  sacrifizio  offerto
al furor popolare, e al loro. Vogliam dir forse che sarebbe stata cosa giusta il
mantener quell'impunità? Dio liberi! sarebbe come dire che colui  aveva  deposto
un fatto vero. Vogliam dir soltanto che fu violentemente ritirata, com'era stata
illegalmente promessa; e che questo fu  il  mezzo  di  quello.  Del  resto,  non
possiamo se non ripetere che non potevan far nulla di giusto  nella  strada  che
avevan presa, fuorché tornare indietro, fin  ch'erano  a  tempo.  Quell'impunità
(lasciando da parte la mancanza de' poteri) non  avevano  avuto  il  diritto  di
venderla al Piazza, come il ladro non ha il diritto di dar la vita al viandante:
ha il dovere  di  lasciargliela.  Era  un  ingiusto  supplimento  a  un'ingiusta
tortura: l'una e l'altra volute, pensate, studiate dai  giudici,  piuttosto  che
far quello ch'era prescritto, non dico dalla  ragione,  dalla  giustizia,  dalla
carità, ma dalla  legge:  verificare  il  fatto,  facendolo  spiegare  alle  due
accusatrici, se pur la loro era accusa e non piuttosto  congettura;  lasciandolo
spiegare all'imputato, se  pur  si  poteva  dire  imputato;  mettendo  questo  a
confronto con quelle. L'esito dell'impunità promessa al  Baruello  non  si  poté
vedere, perché costui morì di peste il 18 di settembre, cioè il giorno  dopo  un
confronto sostenuto impudentemente contro quel maestro di scherma, Carlo Vedano.
Ma quando sentì avvicinarsi la sua fine, disse a un carcerato che l'assisteva, e
che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla: «fatemi a piacere di dire
al Sig. Podestà, che tutti quelli che ho incolpati gli ho incolpati al torto; et
non è vero ch'io habbi chiapato danari dal figliuolo del Sig.  Castellano...  io
ho da morire di questa infermità: prego quelli che  ho  incolpati  al  torto  mi
perdonino; et di gratia ditelo al Sig. Podestà, se io ho d'andar  saluo.  Et  io
subito», soggiunge il testimonio, «andai a referire al Sig. Podestà  quello  che
il Baruello m'haueua detto.» Questa ritrattazione poté valere per il Padilla; ma
il Vedano, il quale non era fin allora stato nominato che dal solo Baruello,  fu
atrocemente tormentato, quel giorno medesimo. Seppe  resistere;  e  fu  lasciato
stare (in prigione, s'intende) fino alla metà  di  gennaio  dell'anno  seguente.
Era, tra que' meschini, il solo che conoscesse  davvero  il  Padilla,  per  aver
tirato due volte di spada con lui, in castello; e si vede che questa circostanza
fu quella che suggerì al Baruello di dargli una  parte  nella  sua  favola.  Non
l'aveva però accusato  d'aver  composto,  né  sparso,  né  distribuito  unguenti
mortiferi; ma solamente d'essere stato di  mezzo  tra  lui  e  il  Padilla.  Non
potevan quindi i  giudici  condannar  come  convinto  un  tale  imputato,  senza
pregiudicar la causa di quel signore; e questo fu probabilmente  quello  che  lo
salvò. Non fu interrogato di nuovo, se non dopo il primo esame  del  Padilla;  e
l'assoluzion di  questo  tirò  dietro  la  sua.  Il  Padilla,  dal  castello  di
Pizzighettone, dov'era stato trasferito, fu condotto a Milano il 10  di  gennaio
del 1631, e messo nelle carceri del capitano di  giustizia.  Fu  esaminato  quel
giorno medesimo; e se ci fosse bisogno d'una prova di fatto per esser certi  che
anche que' giudici  potevano  interrogar  senza  frodi,  senza  menzogne,  senza
violenze, non trovare  inverisimiglianze  dove  non  ce  n'era,  contentarsi  di
risposte ragionevoli, ammettere, anche in una causa d'unzioni venefiche, che  un
accusato potesse dir la verità, anche dicendo  di  no,  si  vedrebbe  da  questo
esame, e dagli altri due che furon fatti al Padilla. I soli che avessero deposto
d'essersi abboccati con lui, il Mora e il Baruello,  avevano  anche  indicati  i
tempi; il primo all'incirca, il secondo più precisamente.  Domandaron  dunque  i
giudici al Padilla, quando fosse andato al campo:  indicò  il  giorno;  di  dove
fosse partito per  andarci:  da  Milano;  se  a  Milano  fosse  mai  tornato  in
quell'intervallo: una volta sola, e c'era rimasto un giorno solo, che  specificò
ugualmente.  Non  concordava  con  nessuna   dell'epoche   inventate   dai   due
disgraziati. Allora gli dicono, senza minacce,  con  buona  maniera,  che  si
metta a memoria se non si trovò in Milano nel  tal  tempo,  nel  tal  altro:
risponde ogni volta di no, rapportandosi sempre alla sua prima risposta. Vengono
alle persone, e ai luoghi. Se aveva conosciuto un Fontana  bombardiere:  era  il
suocero del Vedano, e il Baruello l'aveva nominato come uno di quelli che s'eran
trovati al primo abboccamento. Risponde di sì. Se conosceva  il  Vedano:  di  sì
ugualmente. Se sa dove sia la Vetra de' Cittadini e l'osteria de' sei ladri: era
lì che il Mora aveva detto esser venuto il Padilla, condotto da  don  Pietro  di
Saragozza, a fargli la proposta d'avvelenar Milano. Rispose che non conosceva né
la strada, né l'osteria,  neppur  di  nome.  Gli  domandano  di  don  Pietro  di
Saragozza: questo  non  solo  non  lo  conosceva,  ma  era  impossibile  che  lo
conoscesse. Gli domandano di certi due, vestiti alla francese; d'un  cert'altro,
vestito da prete: gente che il Baruello aveva detto  esser  venuti  col  Padilla
all'abboccamento sulla piazza del castello. Non sa di  chi  gli  si  parli.  Nel
secondo  esame,  che  fu  l'ultimo  di  gennaio,  gli  domandan  del  Mora,  del
Migliavacca, del Baruello, d'abboccamenti avuti con loro,  di  danari  dati,  di
promesse fatte; ma senza parlargli ancora della trama  a  cui  tutto  questo  si
riferiva. Risponde che non ha mai avuto che far con costoro, che non gli ha  mai
nemmen sentiti nominare; replica che non era a Milano  in  que'  diversi  tempi.
Dopo più di tre mesi, consumati in ricerche dalle quali, come doveva essere, non
si cavò il minimo costrutto, il senato decretò che il Padilla  fosse  costituito
reo con la narrativa del fatto, pubblicatogli il processo, e datogli un  termine
alle difese. In esecuzione di quest'ordine, fu chiamato ad un  nuovo  ed  ultimo
esame, il 22 di maggio. Dopo varie domande espresse, su tutti i  capi  d'accusa,
alle quali rispose sempre un no, e per lo più asciutto, vennero  alla  narrativa
del fatto, cioè gli spiattellarono quella pazza novella,  anzi  quelle  due.  La
prima, che lui costituto aveva detto al barbiere  Mora,  vicino  all'hostaria
detta delli sei ladri, che facesse un ontione... et che dovesse prender la detta
ontione, et andar a bordegare (impiastrare); e che, in ricompensa, gli aveva
dato molte doppie; e don Pietro di Saragozza, per suo ordine, aveva poi  mandato
il detto barbiere a riscotere altri danari dai tali e tali banchieri. Ma  questa
è ragionevole in paragon dell'altra: che esso Sig. Constituto aveva fatto
chiamar sulla piazza del castello Stefano Baruello,  gli  aveva  detto:  buon
giorno, Sig. Baruello; è molto tempo che desideravo parlar con voi; e,  dopo
qualche altro complimento, gli aveva dato venticinque ducatoni veneziani,  e  un
vaso d'unguento, dicendogli ch'era di quello che si faceva in Milano, ma che non
era perfetto, e bisognava prendere delli ghezzi et zatti (de'  ramarri  e
de' rospi) et del vino bianco, e metter tutto in una pentola, et farla
bollire a concio a concio (adagino adagino), acciò questi animali possino
morire arrabbiati. Che un prete, qual viene  nominato  per  Francese  dal
detto Baruello, e  era  venuto  in  compagnia  del  costituto,  aveva  fatto
comparire uno in forma d'huomo, in habito  di  Pantalone,  e  fattolo  al
Baruello riconoscere per suo signore; e, scomparso che  fu,  il  Baruello  aveva
domandato al costituto chi era colui, e quello  gli  aveva  risposto  ch'era  il
diavolo; e che, un'altra volta, lui costituto aveva dati al Baruello degli altri
danari, e promessogli di farlo tenente della sua compagnia, se l'avesse  servito
bene. A questo punto, il Verri (tanto un intento sistematico può  far  travedere
anche i più nobili ingegni, e anche dopo che hanno veduto) conclude così:  «Tale
è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale,  sebbene
smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre  disgraziati  Mora,
Piazza e Baruello, che alla violenza della tortura sacrificarono  ogni  verità),
servì di base a un vergognosissimo(74) reato.» Ora, il lettore sa,  e  il  Verri
medesimo racconta che, di questi tre, due furon mossi a mentire  dalle  lusinghe
dell'impunità, non dalla  violenza  della  tortura.  Sentita  quell'indegnissima
filastrocca, il Padilla disse:  di  tutti  questi  huomini  che  V.S.  mi  ha
nominato, io non conosco  altro  che  il  Fontana  et  il  Tegnone  (era  un
soprannome del Vedano); et tutto quello che V.S. ha detto  che  si  legge  in
Processo per bocca di costoro, è la maggior falsità et mentita che  si  trouasse
mai al mondo; né è da credere che un Cavagliero par mio hauesse, né trattato, né
pensato attione tanto infame come è questa; et prego Dio et sua Santa Madre,  se
queste cose sono vere, che mi confondano  adesso;  et  spero  in  Dio  che  farò
conoscere la falsità di questi huomini, et che sarà palese al  mondo  tutto.
Gli replicarono, per formalità e senza insistenza, che si risolvesse di  dir  la
verità; e gl'intimarono il decreto del  senato  che  lo  costituiva  reo  d'aver
composto e distribuito unguento venefico, e assoldato  de'  complici.  Io  mi
meraviglio molto, riprese, che il Senato sij venuto a  resoluttione  così
grande, vedendosi et trouandosi che questa è  una  mera  impostura  et  falsità,
fatta non solo a me, ma alla Giustitia istessa. Come! un huomo di  mia  qualità,
che ho speso la vita in seruitio di Sua Maestà, in diffesa di questo stato, nato
da huomini che hanno fatto l'istesso, haueuo io da fare, né da pensar cosa che a
loro, né a me portasse tanta nota et infamia? et  torno  a  dire  che  questo  è
falso, et è la più grande impostura che ad huomo sij mai stata  fatta.    Fa
piacere il sentir l'innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma  fa  orrore
il rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata, confusa,
disperata,  bugiarda,   calunniatrice;   l'innocenza   imperterrita,   costante,
veridica, e condannata ugualmente. Il Padilla fu assolto, non si sa  quando  per
l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poiché l'ultime sue difese  furono
presentate nel maggio del 1632. E, certo,  l'assolverlo  non  fu  grazia;  ma  i
giudici, s'avvidero che, con questo, dichiaravano essi medesimi  ingiuste  tutte
le loro condanne? giacché non  crederei  che  ce  ne  siano  state  altre,  dopo
quell'assoluzione. Riconoscendo che il Padilla non aveva punto dato  danari  per
pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che avevan condannati  per
aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si rammentarono d'aver detto  al
Mora che una tal cagione ha  più  del  verisimile...  che  non  è  per  hauer
occasione di vendere, lui  Constituto  il  suo  elettuario,  et  il  Commissario
d'hauer modo di più lavorare?  Si  rammentarono  che,  nell'esame  seguente,
persistendo lui a negarla, gli avevan detto  che  si  troua  pure  essere  la
verità? Che avendola negata ancora, nel confronto  col  Piazza,  gli  avevan
data  la  tortura,  perché  la  confessasse,  e  un'altra  tortura,  perché   la
confessione estorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in  poi,  tutto
il processo  era  camminato  su  quella  supposizione?  Ch'era  stata  espressa,
sottintesa in tutte le loro interrogazioni, confermata  in  tutte  le  risposte,
come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion
del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri  condannati?  Che  la  grida
pubblicata, pochi  giorni  dopo  il  supplizio  di  que'  due  primi,  dal  gran
cancelliere, col parer del senato, li diceva «arrivati a stato  tale  d'empietà,
di tradir per danari la propria Patria»?  E  vedendo  finalmente  svanir  quella
cagione (giacché nel processo non s'era mai fatto menzione d'altri danari che di
quelli del Padilla), pensarono che del delitto non  rimanevano  altri  argomenti
che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, e  ritrattate  tra  i
sacramenti e la morte? confessioni, prima in  contradizion  tra  loro,  e  ormai
scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo,
conobbero che avevan condannati, come complici, degl'innocenti?
 Tutt'altro, almeno per quel  che  comparve  in  pubblico:  il  monumento  e  la
sentenza rimasero; i  padri  di  famiglia  che  la  sentenza  aveva  condannati,
rimasero infami; i figli  che  aveva  resi  così  atrocemente  orfani,  rimasero
legalmente spogliati. E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici,
chi può sapere a quali nuovi  argomenti  sia  capace  di  resistere  un  inganno
volontario, e già agguerrito contro l'evidenza? E dico un inganno  divenuto  più
caro e prezioso che mai; giacché, se prima il  riconoscerli  innocenti  era  per
que' giudici un  perder  l'occasione  di  condannare,  ormai  sarebbe  stato  un
trovarsi terribilmente colpevoli; e le frodi, le  violazioni  della  legge,  che
sapevano d'aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla  scoperta  di
così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero ricomparse nel  loro  nudo  e
laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma sarebbero  comparse  come
produttrici  d'un  orrendo  assassinio.  Un  inganno  finalmente,  mantenuto   e
fortificato da un'autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso
stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che  su  quella  de'
giudici  medesimi:  voglio  dire  l'autorità  del  pubblico  che  li  proclamava
sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.
 La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata
una casa; e in  quell'occasione,  fu  anche  demolito  il  cavalcavia,  di  dove
Caterina Rosa,

L'infernal dea che alla eletta stava(75) ,

 intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo
spaventoso effetto, né la miserabile causa. Allo sbocco di via della  Vetra  sul
corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda  dal
corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora. Vediamo ora, se
il lettore ha la bontà di seguirci in quest'ultima  ricerca,  come  un  giudizio
temerario di colei, dopo aver tanto potuto sui tribunali, abbia, per loro mezzo,
regnato anche ne' libri.

Cap.7

Tra i molti scrittori contemporanei all'avvenimento, scegliamo il solo  che  non
sia oscuro, e che non n'abbia parlato a seconda affatto della  credenza  comune,
Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato. E ci par che possa essere un esempio
curioso della tirannia che un'opinion dominante esercita spesso sulla parola  di
quelli  di  cui  non  ha  potuto  assoggettar  la  mente.  Non  solo  non   nega
espressamente la reità di quegl'infelici (né,  fino  al  Verri,  ci  fu  chi  lo
facesse in uno scritto destinato al pubblico); ma pare più d'una  volta  che  la
voglia espressamente affermare; giacché, parlando del primo  interrogatorio  del
Piazza, chiama «malizia» la sua, e «avvedutezza» quella de' giudici;  dice  che,
«con le molte contradizioni, palesava il delitto nell'atto che voleva  negarlo»;
del Mora dice parimenti, che, «fin che poté reggere  alla  tortura,  negava,  al
solito di tutti i rei, e che finalmente raccontò la  cosa  com'era:  exposuit
omnia cum fide». E nello stesso tempo, cerca di fare intendere il contrario,
accennando,  timidamente  e  di  fuga,  qualche  dubbio  sulle  circostanze  più
importanti; dirigendo, con una  parola,  la  riflession  del  lettore  al  punto
giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più atte a dimostrar la  sua
innocenza, di quelle che aveva sapute trovar lui medesimo; mostrando  finalmente
quella compassione che non si prova se  non  per  gl'innocenti.  Parlando  della
caldaia trovata in casa del Mora, dice: «fece  principalmente  grand'impressione
una cosa forse innocente e accidentale, del resto schifosa, e che  poteva  parer
qualcosa di quello che si cercava». Parlando del primo confronto,  dice  che  il
Mora «invocava la  giustizia  di  Dio  contro  una  frode,  contro  una  maligna
invenzione, contro  un'insidia  nella  quale  si  poteva  far  cadere  qualunque
innocente». Lo chiama «sventurato padre di famiglia, che, senza saperlo, portava
su quell'infausto capo  l'infamia  e  la  rovina  sua  e  de'  suoi».  Tutte  le
riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più  che  si  posson  fare,
sulla contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la  condanna  degli
altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: «gli untori furon puniti ciò non
ostante: unctores  puniti  tamen».  Quanto  non  dice  quell'avverbio,  o
congiunzione che sia! E aggiunge: «la città sarebbe rimasta inorridita di quella
mostruosità di supplizi, se tutto non fosse parso meno del delitto». Ma il luogo
dove fa intender più chiaramente il suo  sentimento,  è  dove  protesta  di  non
volerlo dire. Dopo aver raccontato vari  casi  di  persone  cadute  in  sospetto
d'untori, senza che ne seguissero  processi,  «mi  trovo»,  dice,  «a  un  passo
difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli così a  torto  presi
per untori, io creda che ci siano stati untori davvero... Né la difficoltà nasce
dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà di far quello
che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi  veri  sentimenti.
Ché se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a  immaginar
malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe subito che  la
storia è empia, che l'autore non rispetta un giudizio solenne.  Tanto  l'opinion
contraria è radicata nelle menti, e la plebe credula al  solito,  e  la  nobiltà
superba son pronti a difenderla, come quello che possano aver di più caro  e  di
più sacro. Mettersi in guerra con tanti, sarebbe un'impresa dura  e  inutile;  e
per ciò, senza negare, né affermare, né pender più da una parte che  dall'altra,
mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui(76).» Chi domandasse se  non  sarebbe
stata cosa più ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto, sappia che
il Ripamonti era istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini, ai  quali,
in qualche caso, può essere comandato e proibito di scriver la storia. Un  altro
istoriografo, ma in un campo più vasto, Batista Nani, veneziano, che  in  questo
caso non poteva esser condotto da nessun riguardo a dire il falso, fu condotto a
crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un  monumento.  «Se  ben  veramente»,
dice, «l'immaginazione de'  popoli,  alterata  dallo  spavento,  molte  cose  si
figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando ancora in  Milano
l'iscrizioni  e  le  memorie  degli  edifici  abbattuti,  dove  que'  mostri  si
congregavano.(77)» Chi, non conoscendo  altro  di  quello  scrittore,  prendesse
questo ragionamento per misura del suo giudizio,  s'ingannerebbe  di  molto.  In
varie ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche, aveva avuto campo di
conoscer gli uomini e le cose;  e  dà  prova  nella  sua  storia  d'esserci  non
volgarmente riuscito. Ma i giudizi criminali, e la povera gente,  quand'è  poca,
non si riguardano come materia propriamente della storia;  sicché,  non  c'è  da
maravigliarsi che, occorrendo al Nani di parlare incidentemente di  quel  fatto,
non ci guardasse tanto per la minuta.  Se  alcuno  gli  avesse  citata  un'altra
colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova  d'una  sconfitta  ricevuta
da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di que' mostri), certo il
Nani si sarebbe messo a ridere. Fa più maraviglia e più dispiacere il trovar  lo
stesso argomento e gli stessi improperi, in uno  scritto  d'un  uomo  molto  più
celebre, e con gran ragione.  Il  Muratori,  nel  «Trattato  del  governo  della
peste», dopo avere accennato diverse storie di quel genere,  «ma  nessun  caso»,
dice, «è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese
parecchie persone, che confessarono un sì enorme delitto,  e  furono  aspramente
giustiziate. Ne esiste tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella
Colonna infame posta ov'era la casa  di  quegli  inumani  carnefici.  Il  perché
grande attenzion ci vuole affinché non  si  rinnovassero  più  simili  esecrande
scene.» E quello che, non toglie il dispiacere, ma lo muta, è il  veder  che  la
persuasione del Muratori non era così risoluta  come  queste  sue  parole.  Ché,
venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli preme  davvero)  de'  mali
orribili che posson  nascere  dal  figurarsi  e  dal  credere  tali  cose  senza
fondamento, dice: «si giunge ad  imprigionar  delle  persone,  e  per  forza  di
tormenti a cavar loro di bocca la confession  di  delitti  ch'eglino  forse  non
avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici
patiboli». Non par egli che voglia alludere ai nostri disgraziati? E quello  che
lo fa creder di più, è che attacca subito  con  quelle  parole  che  abbiam  già
citate nello scritto antecedente, e che, per esser  poche,  trascriviam  qui  di
nuovo: «Ho trovato gente savia in Milano, che aveva  buone  relazioni  dai  loro
maggiori, e non era molto persuasa che  fosse  vero  il  fatto  di  quegli  unti
velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e  fecero  tanto  strepito
nella peste del 1630(78) .» Non si può, dico, fare a meno di non sospettare  che
il Muratori credesse piuttosto sciocche  favole  quelle  che  chiama  «esecrande
scene», e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli che chiama «inumani
carnefici». Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro
che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche errore  pernicioso,  e
temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima
la bugia, per poter poi insinuare la verità.  Dopo  il  Muratori,  troviamo  uno
scrittore più rinomato di lui come storico, e (ciò che in  un  fatto  di  questa
sorte parrebbe dover  rendere  il  suo  giudizio  più  degno  d'osservazione  di
qualunque altro) storico giureconsulto,  e,  come  dice  di  sé  medesimo,  «più
giureconsulto che politico(79) »,  Pietro  Giannone.  Noi  però  non  riferiremo
questo giudizio, perché è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello  del  Nani
che il lettore ha veduto poco fa, e che  il  Giannone  ha  copiato,  parola  per
parola, citando questa volta il suo autore appiè  di  pagina(80).  Dico:  questa
volta; perché il copiarlo che ha fatto  senza  citarlo,  è  cosa  degna  d'esser
notata, se, come credo, non lo fu ancoral(81)i . Il racconto, per esempio, della
sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo,  nel  1640  è,
nella storia del Giannone, trascritto da quella  del  Nani,  per  più  di  sette
pagine in 4°, con  pochissime  omissioni,  o  aggiunte,  o  variazioni,  la  più
considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in  capoversi  un  testo
che  nello  scritto  originale  andava  tutto  di  seguito(82).   Ma   chi   mai
s'immaginerebbe   che   l'avvocato   napoletano,   dovendo   raccontare    altre
sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma quella di Palermo, del  1647,
e quella di Napoli, contemporanea e  più  celebre,  per  la  singolarità  e  per
l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far meglio, né
da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera
del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a  pensare  soprattutto
dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son
queste: «Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti  da
più autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor  del  corso  della
natura: altri con troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non  ne  fecero
nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento, ed  il  fine:
noi per ciò, seguendo gli scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla  lor
giusta e natural positura.» Eppure ognuno  può  vedere,  facendo  il  confronto,
come, subito dopo queste sue  parole,  il  Giannone  metta  mano  a  quelle  del
Nani(83)  ,  frammischiandoci  ogni  tanto,  e   specialmente   sul   principio,
qualcheduna delle sue, facendo qua e là  qualche  cambiamento,  alle  volte  per
necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva
il segno dell'antico padrone, e ci mette il suo. Così, dove il  veneziano  dice:
«in  quel  regno»,  il  napoletano  sostituisce:  «in  questo  regno»;  dove  il
contemporaneo dice che vi «restano le fazioni quasi che  intiere»,  il  postero,
che vi «restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni». È  vero  che,  oltre
queste piccole aggiunte o variazioni,  si  trovano  anche  in  quel  lunghissimo
squarcio, come pezzi messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non  son  del
Nani. Ma, cosa veramente da non credersi, son presi da un altro quasi  tutti,  e
quasi parola per parola: è  roba  di  Domenico  Parrino(84)  ,  scrittore  (alla
rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di  quello  che
sperava lui medesimo, se, in Italia e fuori, è letta quanto  lodata  la  «Storia
civile del regno di Napoli», che porta il nome di Pietro  Giannone.  Ché,  senza
allontanarci da que' due periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se,
dopo le sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal  Nani  la
caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca  di
Medina vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di  questo  per
cedere il più tardi che fosse possibile  il  posto  al  successore  Enriquez  de
Cabrera. Dal Parrino ugualmente, in gran parte, il  governo  di  questo;  e  poi
dall'uno e dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca  d'Arcos,  per  tutto
quel tempo che precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come  abbiam
detto, il progresso e la fine  di  queste,  sotto  il  governo  di  D.  Giovanni
d'Austria, e del conte d'Oñatte. Poi dal Parrino solo, sempre a lunghi pezzi,  o
a  pezzettini  frequenti,  la  spedizione  di  quel  vicerè  contro  Piombino  e
Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del
1656. Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove
sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli(85). Voltaire,  parlando,
nel «Secolo di Luigi XIV», de' tribunali istituiti da quel  re,  in  Metz  e  in
Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie pretensioni sopra
territori di stati vicini, nomina, in una  nota,  il  Giannone  con  gran  lode,
com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica. Ecco la traduzione  di  quella
nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli, dice che questi
tribunali erano stabiliti a Tournay. Sbaglia frequentemente negli affari che non
son del suo paese. Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la pace  con
la Svezia; e in vece questa era sua alleata(86) .» Ma,  lasciando  da  parte  la
lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il  quale,  come  in
tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare. È vero  che  nel  libro
dell'uomo «così celebre», si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace fra la
Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore» (nelle quali, del  rimanente,  non
saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e  quest'altre:  «Aprirono
poscia», i francesi, «due tribunali, l'uno in Tournay, e  l'altro  in  Metz;  ed
arrogandosi una giurisdizione non mai udita  nel  mondo  sopra  i  principi  lor
vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze,
tutto il paese  che  saltò  loro  in  capriccio  ne'  confini  della  Fiandra  e
dell'Imperio, ma se ne posero per via di fatto in possessione, costringendo  gli
abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano,  prescrivendo  termini,
ed esercitando tutti quegli atti di signoria  che  sono  soliti  i  principi  di
praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato  Parrino(87)  ,  e
non già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma portate via insieme con esso:
ché spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un frutto qua  e  uno  là,
leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino. Tutta, si può  dire,
la relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e  con
molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del  marchese  de
los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale  il  Parrino
chiude la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua. E probabilmente
(stavo per dir di certo), chi si divertisse a farne  il  confronto  intero,  per
tutto il periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la  quale
comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per  tutto,  quello  che  noi  abbiam
trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza veder mai citato il  nome  di
quel tanto saccheggiato scrittore(88) . Così dal  Sarpi,  senza  citarlo  punto,
prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua  digressione;  come
mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona. E chi sa quali altri furti
non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel  tanto
che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non  dico  la  scelta  e
l'ordine de' fatti, non dico  i  giudizi,  l'osservazioni,  lo  spirito,  ma  le
pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso  e  lodato,  quel
che si dice un fenomeno. Sia  stata,  o  sterilità,  o  pigrizia  di  mente,  fu
certamente rara, come fu raro il coraggio; ma  unica  la  felicità  di  restare,
anche con tutto ciò (fin  che  resta),  un  grand'uomo.  E  questa  circostanza,
insieme con l'occasione che ce ne dava  l'argomento,  ci  faccia  perdonare  dal
benigno lettore una digressione(89) , lunga, per dir la  verità,  in  una  parte
accessoria d'un piccolo scritto. Chi non conosce il frammento del  Parini  sulla
colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta  menzione  in
questo luogo? Ecco dunque i pochi versi di quel frammento ne' quali  il  celebre
poeta fa pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione:

Quando, tra vili case e in mezzo a poche Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi.
Quivi romita una colonna sorge In fra l'erbe infeconde e i  sassi  e  il  lezzo,
Ov'uom mai non penetra, però ch'indi Genio propizio  all'insubre  cittade  Ognun
rimove, alto gridando: lungi, O buoni cittadin, lungi, che il  suolo  Miserabile
infame non v'infetti.

Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa,  così
affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché  allora
era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le
credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a  produrre  un'impressione,  o
forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore,
un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un  tal  inconveniente  non  poteva
nascere, perché i poeti, nessun  credeva  che  dicessero  davvero.  Non  c'è  da
replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti  del  permesso  e
del  motivo.   Venne   finalmente   Pietro   Verri,   il   primo,   dopo   cento
quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici,  il  primo
che richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente
abborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che?  le  sue
«Osservazioni», scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804,  con  altre
sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli  «Scrittori  classici  italiani
d'economia politica».  E  l'editore  rende  ragione  di  questo  ritardo,  nelle
«Notizie» premesse all'opere suddette. «Si credette», dice,  «che  l'estimazione
del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia.» Effetto comunissimo, a
que' tempi, dello  spirito  di  corpo,  per  il  quale,  ognuno,  piuttosto  che
concedere che i suoi  predecessori  avessero  fallato,  faceva  suoi  anche  gli
spropositi che non aveva fatti. Ora un tale spirito non  troverebbe  l'occasione
d'estendersi tanto nel passato, giacché, in quasi tutto il continente  d'Europa,
i corpi son di data recente, meno pochi, meno uno  soprattutto,  il  quale,  non
essendo stato istituito dagli uomini, non può essere né abolito,  né  surrogato.
Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito
d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi.  E  in  questa
parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto. A ogni modo, Pietro  Verri
non era uomo da sacrificare a un riguardo  di  quella  sorte  la  manifestazione
d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più  ancora  dal
fine a cui intendeva di farla servire; ma  c'era  una  circostanza  per  cui  il
riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre scrittore  era  presidente  del
senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato  aiuto
alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità,  dopo  aver
tardato un bel pezzo a  nascere,  abbia  dovuto  rimanere  per  un  altro  pezzo
nascosta.

(1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere, Tacit. Ann. I, 39.

(2) Verri, Osservazioni sulla tortura, § VI.

(3) Staututa criminalia; Rubrica generalis de forma citiationis in criminalibus;
De tormentis, seu quaestionibus.

(4) Cod. Lib. IX; Tit. XLI, De quaestionibus, 1. 8.

(5) Verri, Osservazioni sulla tortura, § XIII.

(6) La pratica criminale dell'Inghilterra, non cercando la prova del  delitto  o
dell'innocenza  nell'interrogatorio  del   reo,   escluse   indirettamente,   ma
necessariamente, quel  mezzo  fallace  e  crudele  d'aver  la  sua  confessione.
Francesco  Casoni  (De  tormentis,  cap,  I,  3)  e  Antonio   Gomez   (Variarum
resolutionum etc., tom. 3, cap. 13, de tortura reorum  cap.  4)  attestano  che,
almeno al loro tempo, la tortura non era in uso nel  regno  d'Aragona.  Giovanni
Loccenio (Synopsis juris Sueco-gothici), citato da  Ottone  Taber  (Tractat.  de
tortura, et indiicis delictorum, cap. 2, 18) attesta il medesimo  della  Svezia;
né so se alcun altro  paese  d'Europa  sia  andato  immune  da  quel  vergognoso
flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso.

(7) Verri, Oss. § VIII. - Farin. Praxis et Theor. criminalis,  Quaest.  XXXVIII,
56.

(8) Fran. a Bruno, De indiciis et tortura, part. II, quaest. II, 7.

(9) Guid. de Suza, De Tormentis, 1. - Cod. IX, tit. 4, De custodia reorum; 1.

(10) Baldi, ad lib. IX Cod. tit XIV, De emendatione servorum, 3.

(11) Par. de Puteo, De syndicatu; in verbo: Crudelitas officialis, 5.

(12) J. Clari, Sementiarum receptarum, Lib V, § fin. Quaest. LXIV, 36.

(13) Gomez, Variar. resol. t. 3, c. 13, De tortura reorum, 5.

(14) Oss. § XIII.

(15) Hipp. de Marsiliis, ad Tit. Dig. de quaestionibus; leg. In criminibus, 29.

(16) Praxis, etc. Quaest. XXXVIII, 54.

(17) Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.

(18) Quaest. XXXVIII, 38.

(19) Oss. § VIII.

(20) Sent. rec. lib. V, quaest, LXIV, 12. Venet. 1640;  ex  typ.  Barietana,  p.
537.

(21) Ven. apud Hier. Polum, 1580, f. 172 - Ibid. apud P. Ugolinum, 1595. f. 180.

(22) Verri, loc. cit. - Clar, loc. cit. 13.

(23) Ibid., Quaest. XXXI, 9.

(24) Bartol. ad Dig. lib. XLVIII, tit. XVIII, I. 22.

(25) Et generaliter omne quod non  determinatur  a  iure,  relinquitur  arbitrio
iudicantis. De tormentis, 30.

(26) Et deo lex super indiciis gravat  coscientias  iudicum.  De  Syndicatu,  in
verbo: Mandavit, 18.

(27) Ægid Bossii, Tractatus varii; tit. de indiciis ante torturam, 32.

(28) Ibid. Quaest. XXXVII, 193 ad 200.

(29) Francisci Casoni, Tractatus de tormentis; cap. I, 10.

(30) Oss. § VIII.

(31) Ibid.

(32) Paradis de Puteo, De syndicatu, in verbo: Et advertendum est;  Judex  debet
esse subtilis in investiganda maleficii veritate.

(33) Ad Clart. Sentent. recept. Quaest. LXIV, 24, add. 80, 81.

(34) Istoria civile, etc., lib. 28, cap. ult.

(35) Praxis et Theoricae criminalis, Quaest. LII, 11, 13, 14.

(36) Ibid. Quaest. XXXVII, 2, 3, 4.

(37) P. Follerii, Pract. Crim., Cap. Quod suffocavit, 52.

(38) Quando crimen est gravius, tanto praesumptiones debent esse  vehementiores;
quia ubi majus periculum,  ibi  cautius  est  agendum.  -  Abbatis  Panormitani,
Commentarium in libros decretalium, De praesumptionibus, Cap. XIV, 3.

(39) Clar. Sent. Rec. lib. V § 1, 9.

(40) Hipp. Riminaldi, Consilia; LXXXVIII, 53. - Farin. Quaest. XXXVII, 79.

(41) Clar. Ib. Lib. V, § fin. Quaest. LXIV, 9.

(42) Reus evidentioribus argumentis oppressus,  repeti  in  quaestionem  potest.
Dig. lib. XLVIII, tit. 18, 1, 18.

(43) Numquid potest repeti quaestio? Videtur quod sic; ut Dig.  eo.  1.  Repeti.
Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi  indiciis.  Odofredi,  ad  Cod.
lib. IX, tit. 41, 1. 18.

(44) Cyni Pistoriensis, super Cod. lib. IX, tit. 41, l. de tormetis, 8.

(45) Bart. ad Dig. loc. cit.

(46) V. Farinac. Quest. XXXVIII, 72, et seq.

(47) Oss. § III.

(48) Tractat. var.; tit. De tortura, 44.

(49) V. Farinac. Quest. LXXXI, 277.

(50) Constitutiones dominii mediolanensis; De Senatoribus.

(51) Op. cit. tit. De confessis per torturam, II.

(52) De peste, etc. pag. 84.

(53) Oss. § IV.

(54) Quaest. XLIII, 192. V. Summarium.

(55) Tractat. var., tit. De oppositionibus contra testes; 21.

(56) Et si consanguinei erant, pag. 87.

(57) Oss. § IV

(58) Dig. Lib. XXII, tit. V, De testibus; I, 21, 2.

(59) V. Farinacci, Quaest. XLIII, 134, 135.

(60) Op. cit. Quaest. XXI, 13.

(61) Op. cit. De indiciis et considerationibus ante torturam; 152.

(62) Arrotini di forbici per tagliar l'oro filato. L'esserci una  professione  a
parte  per  quell'industria  secondaria,  fa  vedere  come  fiorisse  ancora  la
principale.

(63) Antica interiezion milanese, corrispondente al toscano  madiè,  «particella
usata dagli antichi, alla provenzale», dice la Crusca.  Significava  in  origine
mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento,  entrate  per  abuso  nel
discorso ordinario. Ma in questo caso il Nome  non  sarebbe  stato  nominati  in
vano.

(64) Quaest. XLIII, 172-174.

(65) Farinacci, Quaest. XLIII; 185, 186 .

(66) Plutarco, Vita d'Alessandro; traduzione del Pompei .

(67) Q. Curtii, VI, II .

(68) Farinacci, Quaest. L. 31; LXXXI; 40; LII, 150, 152.

(69) Res est (quaestio) fragilis et periculosa, et quae  veritatem  fallat.  Nam
plerique, patientia  sive  duritia  tormentorum,  ita  tormenta  contemnunt,  ut
exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt  impatientia,  ut  quovis
mentiri quam pati tormenta velint. Dig. , Lib. XLVIII, tit. XVIII, 1, I, 23.

(70) Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766.

(71) Farinacci, Quaest. XXXVII, 110.

(72) Oss. § IV.

(73) quorum capita... fingenti inter dolores gemitusque occurrere. Liv. XXIV, 5.

(74) Oss. § V, in fine.

(75) Caro, trad. dell'Eneide, lib. VII.

(76) pag. 107, 108.

(77) Nani, Historia veneta; parte I, lib. VIII, Venezia, Lovisa, 1720, pag. 473.

(78) Lib. I, cap X.

(79) Istoria civile, etc. Introduzione.

(80) Istoria civile, lib. XXXVI, cap 2.

(81) Il Fabroni (Vitae Italorum, etc., Petrus Jannonius),  cita  come  scrittori
dai quali il Giannone «ha preso i passi interi, invece di ricorrere ai documenti
originali, e senza confessarlo  schiettamente,  il  Costanzo,  il  Summonte,  il
Parrino, e principalmente il Bufferio». Ma par  difficile  che  da  quest'ultimo
(che non abbiam potuto trovare chi sia) prenda più che dal Costanzo, del  quale,
se «al principio risponde il fine e il mezzo», deve aver intarsiata mezza, a dir
poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo dir qualcosa
or ora.

(82) Giannone. Ist. Civ. lib. XXXVI, cap V, e il primo capoverso del VI -  Nani,
Hist. Ven. parte I, lib. XI, pag 651-661 dell'edizione citata.

(83) Giannone, lib. XXXVII, cap. II, III e IV. - Nani, parte II,  lib  IV,  pag.
146-157.

(84) Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del regno di  Napoli,  etc.
Napoli, 1692, tom. 2°; Duca d'Arcos. Il testo del Nani corre, con  pochissimi  e
minuti cambiamenti,  come  abbiam  detto,  per  sette  capoversi  del  Giannone,
l'ultimo de' quali termina con le  parole:  «si  richiedevano,  e  per  supplire
altrove, e per difendere il regno,  grandissime  provvisioni».  E  lì  entra  il
Parrino con le parole: «Il viceré  duca  d'Arcos,  trovandosi  angustiato  dalla
necessità del denaro», e via via, paucis mutatis, al solito, per due  capoversi,
e per mezzo circa il seguente. Dopo, ritorna il Nani e va  avanti,  prima  solo,
per un bel pezzo, poi alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino. E  c'è
fino de' periodi, messi insieme bene o male, ma con pezzi dell'uno e dell'altro.
Eccone un esempio: «Così in un momento s'estinse quell'incendio  che  minacciava
l'eccidio al regno; e ciò che apporto maggior maraviglia, fu la subita mutazione
degli animi, che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantinente
a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici,  o
d'inimici (Parrino, tom. II, pag. 425): fuorché alcuni pochi,  i  quali  guidati
dalla mala coscienza, si sottrassero colla fuga, tutti gli altri  restituiti  a'
loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con  giubilo  la
quiete presente (Nani, parte II, lib. IV, pag 157 dell'ediz.  cit.)».  Giannone,
lib. XXXVII, cap IV, secondo capoverso.

(85) V. Giannone, lib. XXXVI, cap VI, e ultimo; tutto il  lib.  XXXVII,  che  ha
sette capitoli; e il preambolo del lib. seg. - Nani, parte I, lib XII, pag. 738;
parte II, lib. III; IV; VIII - Parrino, t. II, pag. 296 e seg., t. III, pag I  e
seg.

(86) Siecle de Louis XIV; chap. XVII, Paix de Wyswick, not. c.

(87) Giannone, lib. XXXIX, cap. ultimo, pag.  461  e  463  del  t.  IV,  Napoli,
Niccolò Naso, 1723. - Parrino, t. III, pag. 553 e 567.

(88) Fu poi citato spesso appiè di pagina in  qualche  edizione  fatta  dopo  la
morte del Giannone; ma il lettore che non sa altro,  deve  immaginarsi  che  sia
citato come testimonio de' fatti, non come autore del testo.

(89) Sarpi, Discorso dell'origine, etc.  dell'Uffizio  dell'inquisizione;  Opere
varie, Helmstat (Venezia) t. I, pag 340. - Giannone, Ist.  Civ.  lib.  XV,  cap.
ultimo.
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