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Gino CAPPONI - Storia di Pietro Leopoldo

Gino Capponi STORIA DI PIETRO LEOPOLDO di GINO CAPPONI CAPITOLO PRIMO. _____ INTRODUZIONE. - DE' PRINCIPI E DELLE MONARCHIE NEL SECOLO DICIOTTESIMO. Nella storia de' principi, fu raro e bellissimo esempio d'animo retto e di volontà sincera ed operosa, quello che dimostrò al tempo de' padri nostri Pietro Leopoldo I granduca di Toscana. Quindi è che scrivere di lui e del suo governo mi parve fatica non disutile, come documento per comporre la gran contesa in cui si travaglia questa età nostra, tra le paure del principato e le ambizioni del popolo. Dirò di Leopoldo ciò ch'ei fece e ciò ch'ei volle e non potè fare; le poche colpe sue, le molte del secolo, ancora restìo a intendere il retto e l'utile, e ad accoglierlo. E se l'esempio ch'ei diede al mondo con quel suo benefico modo di governo è in oggi meno ricordato, se le istituzioni sembrano imperfette, le innovazioni scarse, e troppo lento il progresso della civiltà a confronto degli ansiosi desiderii di questo nostro secolo, io voglio trarre argomento della importanza de' fatti che ora m'accingo a scrivere, da quegli avvenimenti stessi i quali ne scolorarono la memoria. Imperocchè la rivoluzione che sopravvenne ricuoprì tutto, e mostrando quanto si potesse in fatto di politica, allargò smisuratamente le speranze degli uomini, volgendo in dispregio anche ogni migliore istituzione de' tempi addietro, come rozzi e manchevoli ritrovati di secoli troppo disuguali a questo nostro. Ma, per mio avviso, ne' tempi che precedono le rivoluzioni e ne' primi tentativi che le preparano, sta tutto il presagio di quegli effetti che per esse rimarranno irrevocabili. Quanto noi vedemmo di estremo ne' fatti che agitarono l'età nostra, quanto udimmo di più arrischiato nelle opinioni e nelle speranze, eccesso fugace delle passioni, svanì con esse; e distruggendosi vicendevolmente tutte le violenze che furono armi necessarie sinchè le nuove idee combatterono con le antiche, ora noi vediamo in quei paesi che più avanzarono nel cammino della civiltà, gli ultimi e durevoli effetti ravvicinarsi agli intendimenti di coloro che primi ubbidirono alla voce del tempo, e indovinarono il bisogno di nuove cose. Nè la importanza dell'argomento ha da misurarsi sulle piccolezze di quello Stato, intorno al quale si raggira la materia di questo scritto. Perchè io la ristringo alle cose di Toscana, e la breve storia di Leopoldo imperatore in Germania è fuora de' termini del subietto nostro. Quando egli salì all'Impero, la rivoluzione francese già adulta, avea fatto nascere pe' principi una nuova necessità di cose, e mutato di tutti l'animo e i consigli. Spenta per loro ad un tratto ogni sicurezza, dovevano essi volgere a difesa di sè stessi lo studio che avevano sino allora posto ad avvantaggiare le pubbliche condizioni. Le riforme di governo da loro eccitate, e delle quali pareva ristretto in loro soli il desiderio, ora si avanzavano minacciose di forza popolare, senza confino alle pretensioni, senza rispetto alle vecchie autorità. Quindi i principi tutti ad un punto solo temere smisuratamente quello che sino allora mostravano di bramare intensamente. La natura dei principati mutò per tutta Europa intorno all'anno 1790, al qual tempo Pietro Leopoldo cessò dal governo della Toscana. La potenza e la voglia di riformare passarono a quel tempo da' principi ai popoli; e fu breve singolarità del passato secolo questa d'avere avuto principi amici e promotori delle riforme. Fra' quali per la molta bontà dell'indole e la rara attitudine dell'ingegno, per le facilità stesse che gli dava il poco paese ch'egli ebbe da governare, Pietro Leopoldo potè riuscire il modello più compiuto e l'opera sua fra tutte efficacissima. Ma per ciò che le cagioni ond'egli fu mosso erano comuni per la maggior parte agli altri principi dell'Europa, e dipendevano dalle condizioni allora universali de' principati, gioverà sul principio di questo libro discorrere di queste cose largamente, e rifarsi alquanto da più lontani principii. Le monarchie per le quali si reggeva Europa nel passato secolo, erano, se alla origine si risguardi ed alla natura loro, tirannidi ammansite per lunga sicurezza. Innalzatesi fra' contrasti della feudalità o usurpate sulla fiacchezza delle democrazie, tutte, o per difendersi o per invadere, violente e smodate, serbarono lungamente l'istinto nativo, come volevano i tempi fieri e le società sconvolte. Erano strumento di vendetta o d'avarizia le leggi, premio o abuso di vittoria le taglie, il principe capo della parte prepotente, gli Stati senza unità di forza nè di giustizia: frantumi della unità politica, le fazioni, s'urtavano tra di loro con intestina discordia, l'amore di setta stava invece di quel di patria. Non era comune sentimento della libertà politica fuorchè ne' governi popolari pochi e dispersi, e sempre mal fermi, e la libertà civile non sapeva essere altro che un privilegio. Il popolo non interveniva mai per sè stesso nelle gare tra' potenti: anzi popolo non v'era ne' grandi Stati d'Europa; la plebe inasprita e dissennata usciva talvolta in campo con moti feroci, che presto finivano in più dolorosa servitù. Il mondo ubbidiva a pochi grandi, e i monarchi raccogliendo e in sè concentrando le sparse dominazioni, ereditavano la forza e l'abuso d'ogni tirannia de' pochi su' molti. La potestà regia si mantenne debole sino a che la feudalità fu armata, e il clero al di sopra d'ogni cosa. Questi due supremi ordini dello Stato prepotenti della forza che gli collegava ciascuno in sè stesso, fecero a' più deboli necessità dell'esempio; e in seno d'ogni Stato tante sètte o consorterie si formavano, quante erano per gli abitatori le differenze di schiatta o di grado o di professione. Era siffatto associarsi necessario, sinoacchè nelle provincie invase dai barbari si mischiavano senza confondersi famiglie difformi di nazione e di costumi e di lingua, e nel disfacimento degli ordini antichi e degli imperi, e nel contrasto degli elementi pei quali la società doveva ricomporsi, mancava la guardia di leggi comuni, mancava il cemento delle comuni persuasioni. In queste corporazioni era l'elemento d'una sociabilità più vasta, di quella universale fratellanza a cui l'umanità intende per legge santissima: esse toglievano gli uomini dal vivere solitari senz'altra cura che di sè stessi, come i malvagi o gl'infelicissimi, e in ciò furono benefiche; ma quando il progresso delle umane cose chiamava le nazioni a comporsi, questi frammenti di società, se il dirlo m'è lecito, resistevano a confondersi, per loro tenacità intrinseca, nel corpo universale dello Stato; ponevano ostacoli a quel maggiore incremento delle società ch'esse da principio aveano promosso. Per comporre gli elementi discordanti e per congiugnere saldamente le membra disperse di uno Stato, vi bisogna un centro di attività vigorosa, una forza inesorabile che tutto costringa. Tentarono primi con la potenza del sacerdozio quest'opera immensa i Pontefici, ma perchè l'ambirono con troppo smisurato concetto, a compierla non riuscirono. E coll'arrogarsi ch'e' facevano potenza mondana, distruggevano le fondamenta di loro vera grandezza, travolgendo le sante dottrine, le quali era ufficio loro di custodire illibate. E nel progresso de' tempi, anzi che condurre la crescente civiltà, la contrastavano; e camminando a ritroso, venivano a urtarsi nell'interesse de' popoli e negli affetti di nazione che i preti non riconoscono. Gli Stati ordinavansi per lingue e confini naturali, e l'intervento de' papi veniva importuno ad impedire o a turbare l'azione benefica di quel civile ordinamento. Il sentimento di nazionalità, che ovunque già prevaleva, represse le sconfinate e troppo presuntuose ambizioni de' pontefici. E il primo Stato che si ordinasse a civil forma, la Francia, percosse il papato di percossa tanto grave, che mai più non si riebbe, e poi sempre vidde assottigliare e declinare le mal distese sue forze. Rimanevano, benchè infiacchite, le pretensioni sacerdotali in corpo agli Stati a turbare il reggimento; e a queste principalmente dovevano i monarchi contrastare, dacchè assunsero l'impresa di comporre le nazioni, e di stabilire i primi fondamenti alla civiltà, indirizzando l'adolescenza de' popoli, ed insieme collegando le forze disperse. Le monarchie si ordinavano e la regia autorità cresceva sulla ruina delle corporazioni: questa per più secoli fu l'arte de' principi. Proteggevano e fomentavano le più deboli per abbattere le forti, rivali nella potenza. Davano franchigie ai Comuni e gli ampliavano di privilegi per contrapporgli a' baroni: e nelle città gli artefici e nelle campagne i servi, guardavano al principe per avere servitù meno aspra; dacchè la Chiesa era divenuta feudale pur essa. E allora non era chi temesse o chi nemmeno pensasse la gran società de' popoli, peranco impediti dall'affratellarsi o dall'intendersi. Le città potenti vivevano disgregate e ognuna per sè; In Francia non conseguirono altro che il diritto municipale; nè quelle di Fiandra o d'Allemagna ebbero sovranità intera. Nell'Inghilterra, le stesse immunità guarentite delle città o de' borghi, aveano feudale impronta. Le sole città d'Italia si alzarono a indipendenza vera; la quale però nella opinione degli uomini durava più veramente come un fatto, di quello che fosse professata e autenticata come assoluto diritto: bisognò che il Papa sancisse la ribellione da Cesare; ogni principe o signore che si accostasse, col solo prestigio del nome o del grado, metteva la libertà in pericolo: un sentimento invincibile di soggezione in faccia alle potestà maggiori, talvolta inceppava gli sforzi più generosi e le resistenze più legittime. Nelle dottrine del tempo, la libertà popolana era illegale, perchè violava le gerarchie che dominavano. Per questo i signori agevolmente la spensero, e presto la fecero tanto compiutamente dimenticare. Sin che ebbero a contrastare co' baroni, i monarchi esercitarono al confronto signoria mite pegli infimi; ma quando i baroni mansuefatti divennero strumento e corredo della grandezza de' re, allora ogni tirannia fu raccolta in mano di questi, e si distese su tutto il mondo una eguaglianza di servitù. Invero con lo scemare de' contrasti si raddolcivano le violenze, ed il popolo cresceva perchè s'allargavano l'industria e il sapere; ma nella nuova concordia tra' potenti della terra, era egli da ogni parte battuto, e la superbia de' principi, e il fasto inerte de' grandi, si nutrivano delle oppressioni sul popolo che taceva. Ed ogni cosa taceva: era domata quella vigoria torbida delle età passate, e la fede guasta in ubbidienza servile, e l'attività compressa, e le passioni senza ardimento, e ogni specie di libertà perduta. Ma gli Stati s'ordinavano sotto l'unità di leggi più universali, e le nazioni si componevano dentro a' confini di natura; e il cammino della civiltà, che insino allora procedeva rotto ed incerto, pigliava andamento più largo e più uniforme. E la stessa libertà si maturava poi per l'avvenire, per acquistarla all'universale, e averla associata con la grandezza e con la forza; per il che facevasi necessario distruggere prima quelle false libertà, che il mondo più non pativa, e ch'erano privilegi odiosi di pochi uomini o di ceti. Questo rivolgimento operarono quasi al tempo stesso negli ultimi anni del secolo quindicesimo, e in tre de' maggiori Stati d'Europa, Luigi XI di Francia, Enrico VII d'Inghilterra e Ferdinando di Spagna, principi fortunati ed accorti; i quali venuti in potenza quanto mai non ebbero gli antecessori loro, rafforzati dalla istituzione d'eserciti sempre in arme, e trovando per le guerre precedenti i popoli assuefatti a' tributi e i nobili alla militare ubbidienza, poterono abbattere con più efficacia le forze delle signorie feudali, ed in sè raccorre senza contrasto l'autorità. E poi nei primi anni del secolo decimosesto, maggiore incremento ebbe la potestà regia dalla smisurata potenza di Carlo V, che signore delle Spagne e delle Fiandre, imperatore in Germania, poderoso in sulle armi quanto nessun principe era stato per molti secoli innanzi, opprimendo nella servitù le glorie e le discordie d'Italia, tolse quivi l'ultimo asilo che rimanesse alle popolari libertà. E avrebbe egli forse oppresso anche l'Allemagna, se non era la riforma religiosa promossa in quegli anni stessi; la quale di per sè sfavorevole a ogni principio d'autorità, e trovando l'Imperatore avverso, armò i volonterosi a resistergli del nuovo zelo di religione, arme più d'ogni altra valida a rendere le nazioni tremende e intrattabili. Nelle armi de' riformati i principi combattevano per difesa di sè stessi, i nobili degli antichi privilegi, i popoli per la libertà. Tutte le contese in quella si confondevano; con la indipendenza religiosa quella civile si collegava; l'Europa faceva esperimento delle sue forze, ancora immature e discordanti. Que' moti durarono cento e trent'anni; finirono dopo aver diviso in due l'Allemagna, mutato i regni del settentrione, agitato la Inghilterra e la Pollonia e la Francia, fatto sorgere l'Olanda, aggravato un giogo di servitù più dura sopra l'Italia e la Spagna, infelicissime tra le nazioni d'Europa, e presso alle quali i moti per la riforma deboli, furono a' principi materia di sospetto, non di pericolo. Ne' popoli che mantennero la suggezione al Pontefice, questi sospetti alterarono e peggiorarono il governo e la natura de' principi; e Roma, paurosa di sè stessa, essendosi collegata a loro, e fatta serva, e ministra e istigatrice della servitù de' popoli; la potenza de' monarchi ne rimase senza freno e senza limite, e senza voce che si levasse contro. L'ubbidire parve come natura eterna de' popoli. Una composizione di società singolare affatto, e non più vista nel mondo, ma eccezione alle più costanti leggi che reggono l'uman genere, parve nell'Europa, che intanto s'inciviliva, destino durevole, fermezza delle nazioni; si chiamava ordine, si chiamava pace, universale equilibrio e quiete delle umane cose. E i principi si pensarono d'aver raggiunta la perfezione del reggimento civile, dacchè essi eran perno e fondamento dello Stato, e anima e vita di tutta la società. Nulla senz'essi poteva muoversi, nulla prosperare. La potenza stava nei principati assoluti, e le altre forme di governo a poco a poco cadevano. La Olanda stessa era sorretta da un principe, e gli Svizzeri invilivano, e già Venezia marciva. Ma le monarchie maggiori, benchè sostanzialmente si somigliassero, in sè racchiudevano notabili differenze; le quali giova accennare, siccome cagione degli effetti varii che dipoi da quelle uscirono. In Francia la monarchia ringiovanita in Enrico IV, uscì vigorosa dalle guerre mosse per causa di religione. Sicchè le forze de' grandi affrante per la discordia, perderono di reputazione più che mai durante quel regno, e poterono nel susseguente del cardinale di Richelieu, ministro animoso ed astuto, essere oppresse per via di violenze e d'artifizi, attemperati sagacemente. Il che quanto bene a lui succedesse, da ciò per mio avviso ottimamente si manifesta, che nelle civili commozioni, benchè lievi fossero, che subito poi si suscitarono contro al governo del Mazzarino, i primi tra' nobili e sinanche i principi del sangue, figurarono come ausiliari de' parlamenti, seguitando la parte e l'impulso di que' magistrati ch'erano di popolo, così per origini come per autorità. E quando ciò non avesse bastato a mostrare la bassezza nella quale erano i nobili rovinati, rimpetto alle forze del re, bastò la fiacchezza stessa di quel moto e la vanità de' sediziosi; essendo alla regia potestà gran prova di accrescimento, che ogni conato di resistenza fosse oramai divenuto, non che impotente, ridicolo. Mancava alla nobiltà francese ciò solamente che ella acconsentisse a diventar cortigiana, e vi corse tutta quanta a gara di splendido servaggio, tosto che Luigi XIV ebbe assunto in mano propria l'autorità. D'allora in poi ogni cosa in Francia era ubbidiente al cenno del monarca: da lui ogni cosa dipendeva, egli solo dispensava la reputazione, non meno che la fortuna; e se in alcun tempo mai la condizione di re assoluto comparve bella e invidiabile, fu certamente in quel lungo regno, durante il quale parve accomodata a' costumi gentili e benigni de' popoli dell'Europa, la sfrenatezza dispotica delle monarchie orientali. Era in Luigi ogni qualità per esercitare su popoli riverenti, grande e magnifica signoria, e ben potè dirsi nato all'impero; non ch'egli in qualunque luogo nato, avrebbe saputo da sè innalzarsi e procacciarsi grandezza; ma perchè al suo ingegno null'altro fuorchè il regnare parea s'addicesse, sicchè uomo volgare meritò in gran parte d'essere chiamato per eccellenza gran re. Ebbe egli in sè stesso coscienza pienissima di assoluto monarca; e rispondeva ne' sudditi, con maraviglioso accordo, la persuasione dell'obbedienza. Usò impero superbo anzichè violento, perchè non era chi resistesse; mantenne intera, quant'era in lui, sinanche nelle sventure da lui medesimo provocate, la maestà della sua corona con tal prestigio di maestà e di grandezza, che poi nè i bagordi del Reggente, nè la scostumata e supina trascuraggine di Luigi XV, furono sufficienti a distruggerlo, nè turbare i principi francesi da quella loro presuntuosa e spensierata beatitudine. Della quale felicità loro, è da attribuirne non poca parte al favore che incontrò in Francia più che altrove la monarchia, per esservi stata fondatrice, quasi essa sola, di civiltà. Anima de' francesi è la potenza; durarono rozzi e feroci sinchè i grandi feudatari tennero smembrato e in sè discorde lo Stato. Di qui, fazioni accanite, brutte guerre e interminabili, e la Francia serva agli Inglesi; le quali calamità non erano consolate da splendidi fatti, nè da glorie cittadine, perchè in quella confusione era ogni cosa fuori che la libertà; nè come in Italia e altrove, erano sorte città potenti, e grandezze o felicità di reggimenti municipali. Quindi la monarchia per consolidarsi non ebbe ad opprimere nè memorie illustri, nè abitudini generose, nè altra prosperità della quale nè popoli rimanesse desiderio; ma cacciare gli stranieri, combattere il disordine, del quale ogni parte dello Stato pativa egualmente. La civiltà in Francia fu tutta monarchica, e l'ultima perfezione del linguaggio e la gentilezza delle lettere, mossero più che altro dalla corte e da' signori; onde la letteratura anch'essa fu cortigiana, e pervenuta sotto Luigi quartodecimo a grande eccellenza, fece suo tema le adulazioni a re ignorante, ma ne' suoi fatti magnifico. Vivevano dunque i re francesi segno agli omaggi de' più raffinati uomini che allora fossero, ed in una corte oltre ogni esempio splendida, anche nelle pubbliche miserie lieta e festeggiante; dove le faccende dello Stato si governavano dalle regie amiche, e una elegante frivolezza velava la infamia de' costumi, e copriva la ruina stessa che alla monarchia minacciava. Nè a tanta dolcezza di bel vivere, nelle altre corti era paragone; perchè solamente in Francia si riputava a quel tempo essere ogni gentilezza in fiore, e risiedervi la eccellenza dei modi cortigianeschi. Onde Filippo V mal sopportava il vivere di Madrid, benchè signore si fosse di Spagna e d'America, e sempre desiderava il vivere di Versailles; e le principesse di sangue francese aborrivano dalle nozze forestiere, e costrette a regnare altrove, languivano misere, come in esiglio. Da queste seduzioni che attorniavano e corrompevano que' monarchi, mi è avviso doversi riconoscere che nel secolo decorso, quando il loro Stato già da ogni parte pericolava, serbassero essi soli una improvvida sicurezza, sconoscessero le forze cresciute al popolo; e quando ogni cosa intorno a loro gridava riforme, essi soli fossero avversi al concederle, e le combattessero, e sinchè poterono le impedissero; in ciò differenti dagli altri principi d'Europa, i quali promossero da sè le riforme non chieste da' popoli, e se ne fecero autori. Ma questi altri principi, e massimamente gli austriaci, vivendo sotto altre condizioni, avevano indole differente. Morto Carlo V, la maggior potenza della Casa d'Austria rimase in quel ramo che regnò in Ispagna; dove le male arti del re Filippo II, mentre fabbricavano la ruina dello Stato, gli crebbero fama di grandezza, e la sostentavano anche per più anni dopo, in un secolo devoto a tutte le ipocrisie. E frattanto l'altro ramo che successe in Alemagna, sbattuto da molte guerre e dalla crescente potenza de' riformati, mal fermo nei nuovi acquisti della Boemia e dell'Ungheria, e distretto in luoghi più rozzi e selvatici, ebbe minor lustro; a tal che l'Impero, retto per molti anni da imperatori di poco conto, cadde dall'antica stima; e la storia di esso rimase oscura al confronto de' maggiori movimenti che a quel tempo avvennero. Ma la Spagna presto invilì, guasta dall'oro d'America, e dagli abusi di religione, e dall'accidiosa superbia de' grandi; e superata da Richelieu nel vanto della politica, e da Condé nelle armi, si ridusse negli ultimi anni della cadente famiglia austriaca, a vivere a discrezione del suo potente vicino. E per lo contrario in Allemagna, venuto all'impero dalla signoria di Stiria Ferdinando II, principe malvagio, ma nelle avversità costante, parve che la monarchia nella guerra di trent'anni rinvigorisse nelle sconfitte, e de' suoi danni crescesse; perchè essendo meglio definita e alquanto ristretta nella pace la potestà degli imperatori, venne in maggior grazia de' popoli, che poi s'accrebbe sotto il benigno reggimento di Leopoldo I: e allora temendosi le aggressioni de' Francesi, comparve la casa d'Austria come un antemurale, e guardia d'Europa; la quale opinione fu poi sempre favorevole alla grandezza di quella casa. Tali erano le condizioni di queste monarchie, quando cominciò il secolo diciottesimo. Nei primi anni del qual secolo, con la guerra per la eredità spagnuola, rotti i disegni eccessivi e repressa l'ambizione a tutti i principi formidabile di Luigi quartodecimo, crebbe negli altri Stati la sicurezza, essendo il dominio d'Europa con più eguaglianza tra' potentati. I quali solleciti contro la prepotenza d'un solo, essendo convenuti in Utrecht l'anno 1713, fermarono tra di loro i patti di quella divisione di forze, alla quale dettero nome d'equilibrio; e consisteva nel bilanciare la grandezza dei potentati maggiori, sicchè niuno di questi potesse crescere con pericolo degli altri, avessero uniti l'arbitrio d'ogni cosa, obbligassero i deboli alla dipendenza. Pel qual modo dissero allora d'avere fondato il diritto pubblico d'Europa; perchè non riconoscendo alcun diritto là dove non fosse potenza temibile, bastava regolare i consigli e frenare le ambizioni de' re grandi, perchè quell'ordine universale si mantenesse, ch'era per le nazioni una servitù durevole. E infatti questo equilibrio, benchè attraversato e scosso dalle cupidità di molti, durò sino alla rivoluzione francese, e si rinnuovò sempre, divenuto la scienza de' politici e la norma de' trattati; sicchè niuna impresa fu sufficiente a romperlo, e tutte le guerre che per cinquant'anni poi si riaccesero, confermarono l'opera d'Utrecht, o poco mutandovi la perfezionarono; dimostrando essere stata colpa e stoltezza de' principi non fermarsi alle condizioni che da quella pace erano a loro assegnate. Imperocchè la monarchia spagnuola ridotta in Europa dentro a' suoi giusti confini, poteva sotto principe giovine e straniero, racquistare quel vigore che era oggimai spento nelle usanze inerti della nazione e nelle arti decrepite de' suoi reggitori. Ma il nuovo re non era da tanto; e le perdite sofferte rimanevano senza compenso, se l'audace ingegno del cardinale Alberoni, e la perseverante ambizione d'Elisabetta Farnese, nati ambedue nella provincia stessa d'Italia, non avessero alcun poco ravvivati i guerrieri spiriti della nazione spagnuola, e con l'acquisto di Parma e delle Sicilie, dato di due nuove corone lustro e potenza al nome borbonico. Sino al qual tempo nulla in Italia contrastava al predominio dell'Austria, fuorchè le speranze vaste e indomabili, ma lente e pazienti de' principi di Savoia; ed essi con tanta iniquità perdendo la pattovita Sicilia, aveano sperimentato nulla i minori principi avere sicuro dalle aggressioni d'un più potente. E tutti quegli anni che precessero la discesa in Italia di Carlo di Spagna, furono alla casa d'Austria felicissimi per nuovi acquisti di territorio: ebbe dell'eredità spagnuola i Paesi Bassi; e in Italia, Napoli, Sicilia, Milano, Mantova; e le vittorie d'Eugenio di Savoia (come agli Italiani non è dato vincere a pro loro) aveano conquistato sul Danubio a Carlo stesso nuovi possessi, assicuratigli nella pace di Passarovitz, con danno e ingiuria de' Veneziani; i quali perderono da quel punto ogni prodezza e ogni importanza tra' potentati. Ma lo stabilimento in Napoli della dinastia spagnuola di Carlo III, venne a contrapporsi alla grandezza di Cesare; e avendo bilanciato la possessione d'Italia tra le due case rivali, parve anche confermare l'universale equilibrio, come una preda divisa sopisce le discordie tra due violenti. Però le ambizioni non posarono; e nell'anno 1740, l'Europa da poco tempo rappacificata, andò tutta in fiamme un'altra volta a' danni della figlia di Carlo VI. Ma tanto incendio di guerra, e i faticosi avvolgimenti della diplomazia poco fruttarono agli ambiziosi. Ridonato al figlio minore d'Elisabetta Farnese lo Stato di Parma, e ridotte le speranze de' re piemontesi a contentarsi di un lembo angusto della adocchiata Lombardia, cessarono i principi dal contendersi l'Italia; poichè d'essa le migliori parti erano distribuite con proporzione accurata a' potentati stranieri, e tenuti in suggezione i piccoli e nazionali. Ciò si chiamava a quel tempo avere fondato l'indipendenza d'Italia, e fu l'opera della pace d'Aquisgrana nel 1748. Ogni cosa per quella pace potea fermarsi, sola Maria Teresa si addolorava della perduta Slesia, e la sorgente grandezza di Federigo di Prussia insospettiva i vecchi potentati; i quali tutti fuorchè l'Inghilterra, di nemici ch'erano, insieme contro lui collegatisi, un'altra e più fiera guerra nell'Allemagna si suscitava. Alla quale avendo Federigo per sette anni resistito con maravigliosa virtù, anche questa volta tornarono vane le imprese de' principi per mutare lo stato fermo d'Europa, e ogni cosa ritornò sul piede stesso, come innanzi tanto sangue sparso e tante nuove miserie de' popoli travagliati. I quali alla fine respirarono l'anno 1763, e fu quella pace stabile, perchè il disinganno de' principi s'accordava con la penuria de' popoli ad impedire la guerra. Erano di quiete fondamento e guarentigia, le case d'Austria e di Borbone tanto l'una all'altra contrapposte, che oramai disperate dell'offendersi, s'erano fra di loro strette con nuova e mirabile alleanza; l'Inghilterra fatta certa del suo dominio su tutti i mari, partigiana della quiete e della sonnolenza delle nazioni; la Russia volta con le armi all'oriente e per macchinare contro la Pollonia cercante amicizie e leghe; Federigo pago e glorioso della conquistata pace, tra per senno ed istanchezza risoluto a mantenerla. Già la fratellanza tra' principi era stabilita, i quali tutti fra loro legati di parentele come in una famiglia sola, contenti della presente condizione e desiderosi di consolidarla, avevano conosciuto nell'accordo essere la sicurezza, fidavano nelle arti della diplomazia più che nelle armi. Presedeva agli accordi e governava le relazioni tra' potentati, una generazione di ministri, i quali come addottrinati in una scienza comune a tutti, e quasi iniziati agli stessi misteri, l'uno dall'altro guardinghi e d'ogni novità diffidenti, troncavano in sul nascere le occasioni alle inimicizie, ponevano inciampi ad ogni ambizione pericolosa. Di tutti i maggiori potentati erano le forze misurate e poste in bilancia, ogni movimento allo scoperto, e spiate le intenzioni: la potenza del segreto già per i principi decadeva: onde l'ingannarsi vano, e la guerra negli ultimi mal tentati esperimenti provata inutile. Ridotti alla impotenza i deboli, aboliti da per tutto i magistrati del popolo ed ogni legale guarentigia; e più non s'udendo alcuna voce di libertà, tutta l'autorità era in pochi; e questi gelosi tra di loro, ma sciolti al di fuori d'ogni freno e d'ogni sospetto avevano l'arbitrio d'ogni cosa, la quale non dispiacesse agli altri potenti, e per comuni consigli si risolvesse. Tanto era fondata e si tenea sicura la padronanza che un picciolo numero di famiglie s'aveva arrogata su tutta l'Europa, tanto in loro il sentimento di potere qualunque cosa volessero, che in pochi anni poi la infelice Pollonia fu sbranata e spartita fra tre monarchi, per sola avidità di preda congiurati a' suoi danni; e a tanta iniquità gli altri principi consentirono e armi non si mossero. Ma non erano a guardia della Pollonia altro che i diritti delle nazioni, parola a quei tempi anche disusata, e i suoi re non avevano altro titolo che una elezione quasi popolare; e non sostegno di parentele, non privilegio di sangue, e non quel diritto che regia bestemmia osa appellar divino, dall'abusarne autenticato. Nell'anno 1776 le Colonie inglesi d'America essendosi vendicate in libertà, ebbero grande aiuto dalla Francia e dalla Spagna; ma la guerra che s'accese fu tutta sul mare, e i popoli del continente tranquilli ascoltavano il racconto delle lontane battaglie. E nell'anno 1778 contrastando il re di Prussia all'imperatore Giuseppe l'acquisto della Baviera, le armi appena mosse da questi due principi furono ad un tratto deposte; e le armi stesse per lo stesso motivo quasi riprese nel 1786, posarono anche questa volta: bastarono i negoziati a prevenire le novità. Onde quella pace confermata per tante prove, e munita da tanta uniformità di consigli, era poco da temere che si alterasse; e quella età d'uomini vidde la felicità dei principati, e la grandezza de' principati venute al colmo: congiunta nella opinione degli uomini, all'eccesso del potere la sicurezza di conservarlo; allora non essendo chi sospettasse che per le forze e la volontà de' popoli, nuovi e maggiori sovvertimenti si avvicinassero. Fu compiuta allora l'opera di tre secoli, nel corso dei quali l'inclinazione degli uomini sempre favorevole alle monarchie, aveva rimosso gradatamente tutti gli ostacoli che si frapponevano ad ingrandirla. Nè sia che l'età presente tanto magnifica nelle professioni e nei vanti della libertà, rampogni le generazioni antiche d'essersi da sè posto ed aggravato il giogo sul collo, e d'avere rinunziata e commessa in pochi ogni potestà politica. Così la grandezza e l'unione si assicuravano, così alla futura libertà si fabbricava un fondamento, e nel corso della civiltà a cui tutte le nazioni con passi ineguali procedevano, più durabile fortuna a quelle era riserbata, le quali ritardando a sè stesse il godimento della libertà, la fondavano per l'avvenire sulla equalità civile e sulla forza. Provammo noi popolo italiano e agli altri mostrammo con miserabile documento, quale sicurezza avesse, e quali effetti partorisse una libertà precoce e disordinata; abusare la sapemmo e non difendere, per la impazienza de' nostri ingegni la godemmo anticipata e la perdemmo. Con gli strani nomi di ghibellino e di guelfo era significato quel doppio modo, pel quale era dato alle nazioni di uscire dalla barbarie; sceglievano le maggiori la via più lunga e più sicura, preferirono la potenza alla libertà. La quale in quella condizione di tempi era impossibile che sorgesse altro che municipale: una città forte poteva acquistarsela, un popolo non poteva; e disgiunta dalla civile la libertà politica, e ristretta in breve spazio, e in sè stessa faziosa, ed agli altri cruda, disgregava le nazioni anzi che comporle; onde non reggendo allo scontro di forze meglio ordinate, quella mal difesa libertà disparve dal mondo, e non lasciò traccia. Certo pel confronto dei tempi scuri che sopravvennero, doveva l'immagine dei giorni gloriosi alla indipendenza delle terre italiche, risorgere nel pensiero nostro ornata d'ogni bellezza; e le antiche età invidiarsi, e l'attività conceduta agli animi, e l'ardire agli ingegni desiderarsi; ma chi più addentro guardando nei rivolgimenti degli Stati, legga il destino delle nazioni, dirà quelle glorie infauste, che poi finirono in tanta miseria. Una mano forte era necessaria per congiugnere gli sparsi elementi, per cementarli, per ordinarli. Le prepotenze e le cupidigie dei nobili e de' sacerdoti agitavano gli Stati; per esse e per le discordie erano i costumi inferociti, le forze interne logorate e respinte a consumarsi inutilmente dentro sè stesse. Bastarono le repubbliche a domare i nobili, anzi non contente a domargli, gli distrussero; e abusando la vittoria infermarono lo Stato, spegnendo i più avvezzi a trattare le armi, onde fu necessità ricorrere a soldati compri, che fu ruina d'Italia. Non bastarono a frenare i sacerdoti, perchè le libertà guelfe avevano bisogno del nome del papa; e il papa mantenne l'Italia divisa, perchè la voleva debole; e così rimase preda a' nemici interni ed esterni, e la difesa fu impossibile. Libere da questi impedimenti e più atte a fondar l'unità e la forza degli Stati, erano in quei primi tempi le monarchie. Vinsero la guerra contro a' nobili e poterono conciliarli all'obbedienza e alla servitù. Domarono il clero fino a tal punto, che rimasto senza autorità politica, fosse impotente di per sè a far nascere le mutazioni. Agguagliarono ogni altezza sotto alla maestà della corona; impedirono a' privati ogni importanza e grandezza; e tanto avvilirono le ambizioni, che le speranze della fortuna pendessero da' monarchi, e tutto lo Stato risiedesse in loro soli. Da tutti ubbiditi, e padroni d'ogni cosa, ambirono i principi le conquiste, e capaci alle esterne imprese, cercarono l'uno a danno dell'altro ingrandirsi; i forti sempre ai deboli minacciosi, la virtù più ardita pericolo agli inermi e trascurati. La Spagna e poi la Francia, tennero due secoli l'Europa in sospetto che un solo prepotente a sè tirando ogni cosa, negli altri Stati distruggesse i germi della prosperità. Di qui guerre sempre rinascenti e turbazioni de' popoli, l'Europa in travaglio per ordinarsi dentro sè stessa, e per trovare uno stato fermo. Ora queste guerre essendo quietate, ed i potentati più gagliardi, tra loro concordi e svogliati dell'offendersi, e i deboli meno pericolanti, era aperto a ciascuno ogni modo per correggere gli ordini interni con leggi migliori e avvantaggiare la prosperità pubblica; quanta n'è concessa alle nazioni che vivono senza guarentigia, soggette ad un uomo solo. Era per le assolute monarchie venuto il tempo del buon volere inverso i popoli. I principi non temevano che degli altri principi; in pace tra loro, vivevano sicuri; e in quella sicurezza, come avviene, fatti più umani, i re divenuti la sola provvidenza delle nazioni, cercarono il bene pubblico come loro proprio, e con ogni studio si volsero a promuovere l'industria e la civiltà che in ogni dove maturavano, e a pro loro sembrava fruttificassero. Credevano che da loro soli ogni progresso delle società umane dovesse e potesse dipartirsi, e che a loro fosse dato il correggere pacatamente e senza urto rinnovellare sino a quegli elementi, i quali nascosti nelle fibre più interne, sono tanto sottili a raggiungere, che toccare non si possono senza alterare la sostanza del corpo sociale e tutto rimescolarlo. Tanto i principi non volevano, sicchè l'opera delle riforme rimase imperfetta nelle mani loro. Nè compierla essi poterono, quale immaginata l'avevano, nè anche compiuta bastava. Una forza intrinseca muoveva le umane cose, e i principi furono tra' primi a sentirla. Sorgevano con la civiltà, rimasero in cima sinoacchè le basi non crollarono. Diressero i primi moti sinoacchè la forza non ebbe mutato luogo, ed essi furono cacciati fuori del centro d'attività. Non che essi con le riforme promuovessero la rivoluzione inevitabile: le andarono incontro, mentr'ella veniva incontro a loro; cercavano preoccuparla, ed a posta loro moderarla. Ed in ciò fare continuarono l'antico istituto delle monarchie; seguivano quella via sulla quale camminarono gloriosamente per tanti secoli. Volevano imporre alle nazioni una civiltà monarchica tanto perfetta e ordinata, che i popoli vi si adagiassero tranquilli e felici, e al di fuori non vedessero alcuna cosa desiderabile. Ed è forza riconoscere che laddove i principi si fecero capi alle riforme, trattennero le rivoluzioni, e impedirono ogni novità maggiore che si partisse da dentro; e quando la irruzione esterna gli percosse, poterono poi combatterla con armi più giuste, avendo ne' loro Stati tanto avanzata la materiale prosperità, da rendere ogni altra novità sospetta, o al certo meno desiderabile, per non avere l'appoggio d'un immediato profitto, d'un guadagno certo da offrire alle moltitudini. Le idee e le forme nuove volute dal tempo e dall'esempio insegnate, rimasero cosa astratta; bisogni della intelligenza sola, sentiti però da pochi, non bastano a suscitare popolari commozioni; il pensiero e l'interesse camminano per via contraria, e si contrastano tra loro; e la umanità procede a' suoi nuovi destini per via più lenta e più faticosa. Imperocchè questo incremento della prosperità materiale degli Stati promosso da' principi, tornò a danno gravissimo del valor morale e della energia degli animi, e affievolì grandemente la capacità de' popoli a conquistare la libertà e a perseverare nel godimento di essa. Era invero fondamento di libertà l'eguaglianza, era grande incamminamento alla salute de' popoli l'avergli affrancati da' vincoli che inceppavano i commerci, e dalla ferocia che imbarbariva le leggi; erano di civiltà strumenti tutti quegli ordini che frenavano le prepotenze de' papi, del clero e de' nobili, ed in qualche parte correggevano gli abusi di religione. Ma ne' mali organici ogni lenitivo nuoce, se avvezza gli uomini a contentarsene. Una sola idea potente, un nuovo principio animatore ritempera le nazioni, ringiovanisce l'umanità. Qual germe di vita, qual vigoria feconda in quella minuzia di regolamenti? Qual nerbo allo Stato da ricchi inerti e sommessi, quale incremento alla religione da preti disciplinati a modo secolaresco? Era pur segno di religione fiacca e impotente, ch'ella si lasciasse tarpare a quel modo. E dovevan pur essere caduti al basso que' popoli, i quali ubbidivano a leggi non bene intese, e udivano i principi senza paura ammonirgli de' stessi loro diritti, e a loro insegnare gli uffizi di cittadino e rimproverarne la pazienza. E intanto soffrivano vedersi spezzate le tradizioni, violate le usanze, estremi diritti della servitù, e a' quali s'inchinano le tirannie più violente. Io per me credo che non tanto in quelle leggi fosse un principio di risorgimento vero ed effettivo per le nazioni, come nell'abiezione de' popoli era quel confine ultimo dove non potendo più discendere, è trita sentenza che debbano le umane cose risalire, e un nuovo corso ricominciare. Ma quel corso procedeva in questo modo più interrotto, e nell'accozzo non mai più visto di re novatori e di popoli indolenti, gli uffici d'entrambi erano scambiati in modo stranissimo; e la libertà pigliava aspetto di servitù, e la servitù di libertà; tutte le nozioni si avvilupparono, la confusione cresceva: mentre le forze riparatrici, gli elementi organici, si disperdevano nella incertezza; e il vero incremento dell'umanità, anzi che anticiparlo si ritardava. Lo che mostrava che a' principi non era dato rigenerare sostanzialmente l'umanità; che il loro ufficio benefico per ordinare gli Stati, già era fornito; e già l'istituto loro decadeva, e ch'essi nell'avvenire sarebbero ingombro al corso della civiltà; dacchè il momento della forza non fosse più loro, ed in essi costretti a patirla, ma non capaci d'imprimerla, nella impassibile inerzia del mondo cercassero la salute. Leopoldo antivedeva queste cose e soleva dire che oramai fare il principe era mestiere fallito. Sin qui noi volemmo indicare come nella pace e nella sicurezza di cui godevano, potessero i principi assoluti attendere alle riforme senza disturbo e promuoverle senza tema. Ora è da mostrare come essi lo volessero, e come le riforme a quel tempo fossero divenute necessarie e i principi ne sentissero desiderio. Di che prime ed universali cagioni furono la decrepitezza degli ordini antichi, e le istituzioni non più d'accordo con la ragione de' tempi, e dalla persuasione de' sapienti già abbandonate. Le quali per l'addietro efficaci e rispettate, non per la intrinseca bontà loro, ma per la convenienza a' tempi, e quasi un compromesso tra' disordini degli andati secoli; ora si fondavano sopra tradizioni infievolite, richiamavano passioni da lungo tempo spente; e in luogo de' comuni diritti, avean posto i privilegi dalla universale opinione oggimai non consentiti, ed al bene pubblico ripugnanti. Nè a' privilegiati rimaneva alcun sostegno di potestà politica, nè tal forza nello Stato, che giustificasse a pro loro la preferenza delle leggi: deboli incontro a' re, neanche prevalevano tra' soggetti; dappoichè l'industria ogni giorno generava nuove ricchezze, e la civiltà crescente agguagliava i costumi e l'educazione, e nel popolo diffondeva anche la potenza del sapere. E siccome in antico la fiacchezza delle leggi e degli ordini di governo disciogliendo i comuni vincoli delle società, avea fatto sorgere le Corporazioni nello Stato, e da queste le civili diseguaglianze ed i privilegi; ora all'opposto la eguale soggezione di tutti i ceti, permetteva elle leggi riacquistar forza, e fondarsi sopra massime più generiche, onde provvedere al comun bene. E le scienze che intendono agli universali ora applicati alle cose di governo, rovesciavano dalle fondamenta quegli ordini parziali e alla nuova civiltà insufficienti, e vietavano si contrapponesse alla utilità comune un diritto anticipato a favor di pochi. La rivoluzione fu inevitabile, dappoichè ogni ordine stabilito fu aperto alle indagini e alle riprensioni de' malcontenti, e i diritti universali della umanità furono asseriti. Così la necessità de' tempi avea generato nuove dottrine, che dall'opera incessante degli scrittori erano promosse e divulgate con insolita e mirabile efficacia. Perchè rinnuovata ogni scienza gradatamente, e riscosse tutte dalla sonnolenza o dal vaneggiare di tanti secoli, ogni studio era volto alla utilità; e sinanche la filosofia più speculativa sottomessa alla prova dell'esperienza, e ritratta alla pratica delle umane cose. E le più astruse dottrine erano spianate e fatte popolari; e bandito l'infruttuoso dommatizzare delle scuole; e dalla certezza de' fatti, quasi da terreno fermo e produttivo, innalzato e nudrito l'albero d'una scienza universale, onde poi si diramassero come coerenti fra di loro, tutte quelle dottrine onde si provvede alla felicità degli uomini. Il qual magistero delle scienze sopra le civili istituzioni, basti aver notato in questo luogo, schivando come malagevole e vana la investigazione, se più avesse parte a stabilirlo la eccellenza de' metodi, che dalla risorta filosofia furono adoprati, o il concorso di tanti uomini, che mal soddisfatti del presente, ogni cosa richiamavano a' principii della ragione, e da questi facevano derivare le speranze e le norme dell'avvenire. Onde un filosofare facile e schietto e abbondante di applicazioni, ebbe suoi seguaci, oltre agli studiosi e speculativi, anche tutti quegli che unicamente volti alle cose pratiche della vita, dalle proprie sofferenze apprendevano a sentire i vizi e l'inefficacia delle istituzioni, ed avevano stimolo a combatterle. Pel quale modo si preparava ordinatamente la interna rinnovazione dell'ordine sociale; e fu caso nuovo nel mondo, e se non c'ingannano le speranze, ottima promessa per l'uman genere: perchè un'altra volta la filosofia nella decadenza del paganesimo, fu maestra della vita, ma ebbe meno appoggio di civiltà, e poi s'imbattè in tempi infelicissimi, e la filosofia stessa ricaduta nelle sottigliezze e in gran parte vana, nella propria indole serbava alcun che di astratto e di solitario, nè poteva tutta essere applicata alla universalità degli uomini e al governo pratico delle cose. Ma le massime che dominavano in cose politiche nel passato secolo, erano tali che a' più effettivi bisogni della società rispondevano; ed ogni ambizione degli uomini era volta a promuovergli con istanza incredibile e a disseminargli. Era vizio di quegli ordini di governo non far nulla per gli ambiziosi, in nulla lasciare che essi facessero; ed a questo modo anzi che aiutarsene, scontentargli e nemicargli. Nè fu questa forse l'ultima cagione onde quelle signorie tanto assolute, come ogni cosa giunta all'eccesso, in sè stesse contenevano la necessità della mutazione. Sta negli ambiziosi la vera e più naturale aristocrazia d'ogni paese; dico in quegli audaci che insofferenti d'un vivere quieto e ristretto, alle cose pubbliche si rivolgono come campo da spaziarvi e si fanno capi alle novità. Questi, se temerari e pericolosi, è uffizio giusto delle monarchie il contenergli; ma impedire ogni ardimento d'ingegno e di cuore, ogni generosa volontà comprimere, e contaminare la gloria che l'uomo s'acquisti ne' fatti civili col soggettarla alle pratiche della servitù, son queste le ultime colpe onde si fa rea la tirannia degli uomini, o quella anche più funesta che risiede nelle leggi e nelle usanze. Le quali quando una lunga abitudine le ha consacrate, sembra ti prescrivano ogni cosa, e ogni cosa agguaglino sino a' costumi e a' moti dell'animo più spontanei; perchè l'uomo vuol sempre serbarsi alcunchè di libero, gli uomini temprati con più indomabile vigore, pure in qualsiasi modo scuotono il freno, e se banditi dalla virtù nei vizi s'immergono, o cercano sfogo anche ne' misfatti. Quindi ne' governi più dispotici ebbero i vizi larga licenza, nè intera tirannia può reggersi, altro che tra popoli incivili, dove in lunga catena molti ad un tempo schiavi e tiranni da un lato pericolano, e dall'altro opprimono; e degli ambiziosi la vita è arrischiata e varia come e' la vogliono, e hanno le passioni dove agitarsi. Quindi noi vediamo tra' barbari le tirannidi dello stesso disordine sostentarsi, ed in quello vivere lungamente; ma in Europa erano tirannidi oramai miti e rimesse, come i costumi, e passate in abito; e la vita languida ed inerte, e chiusa ogni via pubblica d'innalzarsi, e vietata ogni splendida ambizione, e sinanche i vizi torpidi; pe' quali modi sarebbero le umane arti discese a estrema bassezza, se una possente civiltà non le avesse rette, e se non avesse la sapienza provveduto a ciò che mancava nella virtù. Nel silenzio d'una pace neghittosa e stagnante, poterono le idee nuove progredire senza essere disturbate da' fatti pubblici, e trovarono uomini trattabili e meglio disposti ad accoglierle, perchè la inerzia de' costumi scemava ogni resistenza a' lavori del pensiero. Certo a quel tempo ogni attività d'ingegno si poneva rifugiata tra gli scrittori, ed essi tra di loro collegati a far guerra alle vecchie istituzioni, sembravano essersi arrogata quella magistratura, ad esercitare la quale era agli ambiziosi impedito ogni altro modo. Si manifestarono queste cose più che altrove in Francia, dov'era più adulta la civiltà, la letteratura più fiorente, ed i vizi del governo saliti al colmo. Quindi più intenso studio a riprendere i disordini, tanto ivi difficili a correggere, quanto numerosi e potenti erano coloro che ne approfittavano. E come era stata in Francia più gagliarda che altrove la compressione dalla imperiosità di Luigi XIV esercitata, fu subito, morto lui, anche più violenta la reazione, ed in quelle cose massimamente che più andavano a ritroso al genio del secolo, e dalla durezza del comando erano state più dal loro natural corso allontanate. Aveva Luigi in un secolo già disposto alla incredulità, comandato sin ch'ei visse l'ipocrisia; ed ecco i costumi del Reggente ad un tratto mutare tutte le apparenze in quei de' cortigiani e dei grandi; la scostumatezza e l'irreligione venuta in moda; ed i primi ardimenti di Voltaire giovine, e quelle audacissime lettere persiane di Montesquieu, prenunziare un secolo già recalcitrante a ogni autorità, e che nulla doveva lasciare intatto. In ciò più che in ogni altra cosa ebbero gran parte gli scrittori, e fu effettiva l'opera loro, nell'avere divulgato l'incredulità. Le guerre e le profusioni avevano smunto l'erario, e la mala distribuzione delle ricchezze impediva allo Stato di riaversi. Già nella disperazione di buon rimedio, gli estremi rimedii soddisfacevano all'indole azzardata degli uomini di quel tempo; e ne' primi anni della reggenza, un sistema di pazze speculazioni, impostura di ricchezze immaginarie, crebbe il disordine sino all'eccesso, mentre prometteva di ripararvi. Spigneva i Francesi in quella vertigine la credulità d'ogni cosa nuova, che invasa i popoli quando le persuasioni sono sconvolte e non hanno le menti dove fermarsi; e d'altronde sperarono d'agguagliarsi all'Inghilterra, esempio in quel secolo ed invidia delle nazioni, e rapirle la potenza del credito e de' traffici d'oltremare, che l'avventuriere scozzese profferiva acquistare alla Francia col suo sistema. Il governo di Luigi XV non era tale che potesse correggere alcun disordine, ma poteva addormentargli. Si mantenne lo Stato senza perturbazioni gran corso d'anni; il più grande e il più universale di tutti i mutamenti con maravigliosa lentezza si maturava. Il popolo si mostrava quieto nella miseria, nella insolenza del fasto gli appaltatori e le favorite; ma raccolta la potenza in tanto sozze mani, cadde in discredito; e i migliori rifuggivano da' guadagni grandi e disonesti, spesso alternati con le rovine, e sempre accoppiati con la infamia della vita. Anche nel commercio aveva principiato a fidar poco, in ciò pure contradicendo alle cose fatte nel precedente regno, e alle massime economiche di Colbert altre nuove teorie contrapponendo. Perocchè quel ministro avea fatto per la opulenza della Francia, opera precaria e più apparente che solida, come la potenza del suo signore; e appoggiandosi nelle forze esterne, avea posto ogni studio in accrescere ed estendere il commercio, come cosa di più grandezza e più sotto la mano del monarca, per cavarne al bisogno prontezza di danaro, e sperando ampliarlo con le vittorie, ed accaparrarlo con le soperchierie. Ma nè il commercio alla lunga poteva prosperare dove gli mancavano pace e libertà, e le guerre infelici con la Inghilterra, e tante intraprese fallite, aveva disgustato i francesi dal riporre in esso il primario fondamento d'ogni ricchezza, e gli avevano volti all'agricoltura, negletta sin'allora oltremodo, e tenuta a vile. Sorgeva una nuova generazione d'uomini, che a poco a poco ripudiando la eredità dell'antica monarchia, e spogliandosi quelle che sembravano più intime proprietà del sangue francese, ad ogni altra cosa preferivano la semplicità del vivere domestico; ed i nobili stessi si onoravano ritornando campagnoli; mentre prima questi sotto nome di provinciali, dalla insolenza della corte e de' parigini, erano scherniti e fatti ridicoli sulle scene. La quale mutazione essenziale ne' francesi, buona a' costumi e alla libertà, era verso la metà del secolo, dagli scritti massimamente di Gian Giacomo Rousseau, aiutata ed espressa con la efficacia portentosa dello stile, in ciò che si riferisce alle cose morali ed alle politiche; ed in quanto alle economiche, una nuova scuola, quasi divenuta setta pel gran fervore e per la fiducia de' suoi seguaci, tendeva allo stesso scopo per via di calcoli, e con le persuasioni d'una scienza più positiva. Gli economisti (questo nome è rimasto specialmente a' primi che trattarono la dottrina delle ricchezze) benchè, come accade alle scienze nuove, troppo assoluti ne' sistemi in gran parte erronei, pure aiutarono grandemente a' progressi dei costumi e della civiltà; e se più mature dottrine han vinto le loro, non però le scienze economiche possono aspettarsi, procedendo, altra utilità maggiore di quella da quei benemeriti procacciata a' loro tempi. Perchè là pigliando i principi dove erano i bisogni, e donde era stato l'incitamento a' loro studi, troppo riferivano all'agricoltura ed in essa riponevano ogni ricchezza; ma vi richiamavano i popoli traviati a' guadagni ingiusti, e insegnavano un vivere più sicuro e virtuoso. Prescrivevano false norme alle pubbliche gravezze, ma le sottraevano alla tirannia d'un cieco arbitrio, e a' monarchi stessi imponevano leggi di ragione e di equità; e con ogni sforzo contrastavano a' privilegi de' nobili e degli ecclesiastici: le quali dottrine ebbero buon frutto e sollecito, perchè non dispiacquero a' monarchi, e i migliori tra i ministri le professarono. Avremo occasione più larga di discorrere quanta parte avessero le dottrine degli economisti ne' pensieri e nelle leggi di Leopoldo. E gli stessi filosofi e la maggior parte degli scrittori, che in Francia e altrove precederono la rivoluzione, sempre apparivano rispettosi alla monarchia, ed il rovesciarla affatto, che poi si fece, era al di là delle intenzioni loro e del desiderio. S'accordavano nel combattere pertinacemente gli ordini ecclesiastici, e generalmente ogni cosa che turbasse l'unità degli Stati, o ne peggiorasse la economia; ma in quanto alla libertà, o la deducevano da teoriche astratte, ed in quella stabilità apparente poco temute; o si limitavano solamente a difendere la libertà civile, che i principi stessi già recavansi a vanto di rispettare. Era fuori dalla mente di ciascheduno, che in tanta pace, una mutazione sostanziale negli ordini di stato potesse effettuarsi, e che la potestà regia vittoriosa de' nobili e del clero, una volta dovesse cedere al popolo; anzi la invocavano contro a' privilegi e ad essa chiedevano che finisse l'opera, debellasse la barbarie, distruggesse ogni ostacolo alla perfezione della felicità comune. Pareva in quel tempo la monarchia a molti benefica, ed a tutti necessaria; era tempo di speranza e di liete immaginazioni, e ogni cosa più bramata sembrando a quegli uomini praticabile, figuravano uno Stato sotto i re quasi democratico, la potenza innocua, e facili e pacifiche le riforme. Quindi molto concedevano a' monarchi, e se contro questi appariva resistenza, era tra' fautori dell'antico; ma i filosofi applaudivano a' principi, gli adulavano, compravano, incensandogli, tolleranza e anche protezione: erano negli uni e negli altri somiglianti le credenze e le immaginazioni, e una cieca confidenza nell'avvenire. Più spesso accadeva che i maggiori monarchi scendessero essi i primi quasi a mendicare il suffragio e gli incensi degli scrittori francesi, oramai divenuti arbitri della lode e sovrani della nuova e già formidabile potenza delle opinioni. La filosofia libera di quel secolo, ebbe a protettori ed a corifei i tre spartitori della Pollonia; e dal canto loro i predicatori di giustizia e di virtù, applaudivano svergognatamente all'abuso della forza, e in quella dissoluzione d'ogni cosa, facevano a' vizi campo larghissimo. Solo a far contrasto a queste bassezze della setta filosofica, era Giovan Giacomo Rousseau, e mentre la turba degli scrittori in sè molto sempre ritenevano dell'antico, ch'essi faticavano a distruggere, egli più ardito e più sincero, studiava alle umane società miglior fondamento di dottrine, e nel proprio istinto racchiudeva la forza e la giovinezza de' tempi nuovi. Insolita premessa dava quel secolo, dove Rousseau scrisse e fu inteso. Perch'egli sdegnò di piaggiare i grandi, oramai da loro nulla sperando; ma comprese nel popolo essere la somma d'ogni cosa, ed il popolo raccolse le sue sentenze, e ne trasse ammaestramento di virtù; non di quelle onde si restaura e si tollera uno Stato vecchio, ma di quelle più efficaci onde gli uomini sentendosi migliori e dappiù degli ordinamenti che gli reggono, diventano abili a ricomporgli. Le scritture che uscirono dalla setta filosofica, attivissime a distruggere, ma senza virtù per edificare, rimasero imperfette e ineguali al bisogno, quando l'opera del correggere gli ordini politici, da' grandi e da' governanti passò nel popolo. Ed io pongo tra le cause immediate della rivoluzione, prima la rovina delle finanze, poscia gli errori di governo e i vizi dei potenti, sicchè l'ultimo luogo è per gli scrittori. Allorquando il popolo chiede, poi rapisce le riforme a' re che le negano, presto esse si trasformano in rivoluzioni, riforme precipitose ma sostanziali. Lo che avvenne in Francia, dov'erano i re più che altrove affezionati all'abuso del potere, ed i preti e i nobili autori di malvagi esempi e consigli, erano ostacolo a' disegni buoni; e il popolo scontentato ne' suoi giusti desiderii, avea ne' bisogni una spinta e nella civiltà un mezzo onde provvedersi da per sè. Grandi erano le forze dalle due parti, e dovevano di necessità urtarsi tra di loro. Era dall'un lato nel popolo, (che allora chiamavano terzo stato) congiunta al bisogno di novità tanta forza di sapere, che scoppiata la rivoluzione si vidde ad un tratto uscir da quel terzo stato sin'allora inesperto di governo, uomini capaci di reggere da per sè la più poderosa mole di cose che mai vedesse il mondo, e fondar leggi sapientissime, e dar norma agli avvenire. E dall'altro lato a difesa delle antiche cose, era la recente memoria e l'eredità di quella magnificenza inarrivabile di Luigi XIV, e ne' grandi l'amore e la presunzione di quel loro splendore cortigianesco, e nel clero la ricchezza, e ne' molti un rispetto inveterato a quella grandezza della monarchia francese, onde non s'ardivano di toccarla, sinchè non la viddero per le proprie colpe rovesciarsi da per sè sotto a' piè del volgo. Tra queste due parti tanto possenti venute una volta a contrasto, non poteva essere fine alla discordia altro che per guerra; quando la più vecchia fosse abbattuta, ed ogni temperamento di riforme fosse impossibile, la Francia ebbe invece rivoluzione. Altrove il popolo non sapeva e non poteva, e ogni novità discendea dall'alto. Fu dunque la Francia sola dove le idee nuove si radicarono poderose e spontanee come in suo terreno, s'appresero a' popoli e vi penetrarono sino al fondo, ogni cosa commossero, e rianimarono. Effetto della civiltà e della grandezza compatta di quella nazione, onde le virtù, i vizi, i disordini, erano ingigantiti: e dalla mole istessa de' mali usciva il vigore de' rimedi. Ogni cosa era più fiacca negli altri Stati del continente d'Europa; minori le forze de' governi e de' popoli, o nella universale inerzia ancora preponderanti le forze dell'antico. Quelle società languivano, e le fondamenta loro indebolivano, ma niun moto intestino le aveva peranco scosse. Si reggevano per abitudini, delle quali è proprio quand'esse invecchiano, opprimere ogni vitalità nel bene e nel male, tutto assoggettare all'idea dell'ordine, e l'ordine far consistere nella permanenza immobile di ciò che la pace ha consacrato. La febbre degli ingegni operosi e scontenti genera negli animi irrequietezza, e gli spigne alle mutazioni; ma dove l'ingegno è inerte, l'uomo chiama pace anche la consuetudine delle sue miserie. Ristretto nel cerchio angusto del suo privato interesse, trascura le cose pubbliche come non più sue, teme ed aborre sopra ogni cosa le commozioni. Allora le forze individuali tacciono costrette dall'inerzia universale, le volontà isolate cadono, tutto cede all'autorità del fatto, tutto quello che esiste apparisce necessario come fosse una legge eterna: legittime le disuguaglianze nella condizione de' soggetti, legittima ogni ingiustizia passata in uso, e mute le sofferenze come inevitabili. La storia dimenticata non più ammonisce gli uomini, come i tempi che si dicono di quiete, preparino e annunzino la dissoluzione. Il moto e l'inerzia sono alterno bisogno degli uomini come delle società; ma in quegli si succedono per brevi intervalli, ed in queste durano per generazioni; e quando una generazione intera s'è adagiata nella pace, tanto è impossibile sommuoverla, quanto fermar quelle che irrequiete per natura ed ansiose di progresso, ripongono nell'attività il sommo bene. I contrasti e le incertezze de' tempi di passaggio e di mutazione, dipendono dall'interna lotta tra' due discordi elementi de' quali è composta la società, due generazioni disuguali e inconciliabili, che in nulla s'intendono e in ogni cosa si contrariano. Nel lento procedere della nuova civiltà negli stati d'Europa, a' quali ella giunse da lontano e come una luce riflessa, doveva da prima essa investire le sommità. I libri francesi, l'esempio inglese, giungevano ad ammaestrare solamente i più ingegnosi, e pochi de' grandi stimolati da maggiore animo, o noiati delle abitudini signorili. Ma in questi l'ammaestramento riusciva, come ne' beati della terra, incerto e incompleto; e intanto era accolto ed accetto, perchè le teoriche novelle peranco non rivelavano le ultime conseguenze, a cui camminavano con passo certissimo; ma venendo innanzi gradatamente, parevano innocue alla superiorità de' grandi; e le cose pubbliche riformando a più giustizia, e i privati godimenti accrescendo, mostravano voler pur lasciare il mondo a' padroni antichi. Onde molti poi di loro si pentirono, visto le riforme uscir tanto fuor de' termini in ch'essi credevano frenarle; odiarono il fine, e sè stessi ricusarono di averlo sconosciuto e favoreggiato ne' principii. Sinchè le rivoluzioni sono in corso, essere d'accordo con sè stessi; è unicamente dato a que' che professano le opinioni estreme: coloro tra' grandi i quali aborrivano ogni cosa nuova, che il bello trovavano solamente nell'antico, professavano di vivere come i padri loro, e in nulla si discostavano dalle vecchie costumanze; costoro erano guidati da istinto più sicuro di quei che in alcuna cosa cederono al tempo, mezzani fautori di novità. Un vecchio magnate in Vienna tenacissimo dell'antico, dicea non spiacergli le giubbe all'inglese senza spada, vestito comune a' grandi e a' plebei, ma tremare delle conseguenze di queste giubbe; ed avea ragione. Sorgente d'inganno a quei che volevano mantenere in piedi almeno le fondamenta degli ordini antichi, e subietto di speranze mal definite a tanti bisognosi di novità, era il grande esempio dell'Inghilterra; la quale in quel tempo essendo pervenuta al colmo di sua potenza, e godendo libertà senza commozioni, a' popoli si mostrava modello invidiabile di bel vivere civile, e i principi forzava a riconoscere in quell'ordine temperato di governo, maggiore efficacia a promuovere l'industria e la pubblica ricchezza. Onde nel passato secolo, quanti erano amici del sociale avanzamento, avevano sempre innanzi agli occhi l'Inghilterra, sempre in sulle bocche; nessuna altra forma di libertà più effettiva e migliore allora si conosceva e nemmen s'immaginava. La costituzione inglese varia e molteplice nelle sue combinazioni, come libertà composta con felice accordo da' rozzi elementi del mondo feudale, lasciando intatte tutte le sociali prerogative, anzi rafforzandole, a tutti prometteva secondo il desiderio loro; i più l'ammiravano senza intenderla, ognuno lodava quella parte che meglio s'accordava al proprio interesse o alle proprie immaginazioni. Bramavano tutti la libertà civile: tacitamente invidiavano quella di stampare, ma pochi sentivano pienamente ciò che ella valesse, pochi aspiravano a conseguirla, come cosa attinente più che altro a licenza religiosa, co' dommi cattolici affatto incompatibile, e dal clero impedita con freni più duri e più tenaci che non de' monarchi stessi. Ed anche nel resto ravvisavano in quella combinazione di governo (in ciò dimostrando miglior senno che non l'ebbero più tardi i suoi ciechi copiatori) anzi una specialità propria di quell'isola e delle venture di quel popolo, che un modo imitabile, una forma universale colla quale gli altri popoli europei dovessero un dì giugnere e fermarvisi; e piuttosto mirando alle franchigie private che non alle libertà politiche, speravano (qui era l'inganno) ottener quei beni senza tutto rovesciare, e senza scomporre gli ordini antichi e sostanziali. E per vero dire gli ordini inglesi fondati in sul vecchio, assai conservavano delle universali condizioni: lasciavano i nobili prepotenti, il re alla cima di ogni cosa, e la stessa gerarchia del clero ricca e autorevole, come tra' cattolici; e tutte le forme esteriori del governo e dei costumi composte a suggezione e a disuguaglianza, mostravano nel loro aspetto antiquato, come anche la macchina inglese tutta riposasse sopra la dottrina dei privilegi, per essa confermati e ridotti a miglior temperamento. Ai principi certamente piaceva poco l'esempio inglese, ma poco anche lo temevano; vedevano in quella libertà modi somiglianti agli usi della servitù, e tutte le apparenze regie; e la stessa aristocrazia, benchè nel potere effettivo avesse le prime parti, pure come le altre nobiltà europee, aulica oramai più che castellana, e quando anche resistente nei senati, sempre ossequiosa nelle anticamere, pendeva dal re, che potendo a sua posta crescere il novero dei pari del regno, e usando le nomine largamente, rompeva ogni volta ch'ei volesse co' suoi partigiani la lega de' grandi. E la forza popolare appariva poco da che la repubblica fu spenta: i nobili cacciarono gli Stuardi; il popolo contentandosi per allora d'avere accertato il diritto di cittadino; sicchè la rivoluzione che avvenne, o chiamasi tale, nel 1688, compimento e termine delle precedenti, fermò per gran tempo il corso alle innovazioni, e lasciò confini larghi alla regia potestà. Di poi la Casa annoverese regnò sicura e potente delle felicità pubbliche insino alla guerra americana; ed il lungo ministero di Roberto Walpole con la venalità dei Comuni, avea persuaso a' principi essere pur quella una libertà trattabile, e quasi una forma di monarchia poco differente dalle assolute. Il dissidio intestino foriero di mutazione negli ordini inglesi, cominciò più tardi: le Colonie americane presero, distaccandosi dagli oppressori loro, maggior vendetta ch'esse stesse non vollero e crederono; ed allora solamente nacque la guerra del popolo d'Inghilterra contro all'antica costituzione: guerra inavvertita e poco temuta ne' suoi principii: lenta e misurata nel suo procedere, perchè la sapienza pubblica e la libertà stavano dalle due parti quasi in bilancia; ma l'esito non incerto, e infine non meno intera la vittoria de' nuovi principii e delle forme nuove, sopra ogni vestigio di feudalità ed ogni maniera di privilegii. La perdita dell'America, primo danno e gravissimo dopo cento anni di acquisti, scemò la reputazione al governo, e l'esempio democratico degli Stati-Uniti dette animo al popolo; dovea la rivoluzione francese fare il resto, e lo ha fatto: se non che i danni per essa sofferti dall'Inghilterra, e la gelosia verso le vittorie de' Francesi e la tèma, ristrinsero la nazione inglese intorno al governo, sinchè per la pace e la sicurezza esterna, i moti intestini non riapparvero; e i disordini nella guerra accumulati, non vinsero l'efficacia de' rimedi ordinarii, e le forze riparatrici le quali abbondavano e pur sempre abbondano in quell'ordine sapiente e in quella libera manifestazione d'ogni forza e d'ogni soccorso alla pubblica salute. Il tempo nel quale io scrivo queste parole, vede per la prima volta ministri riformatori appoggiati sul popolo, prevalere contro all'aristocrazia, e vincerla con gran frutto. I popoli applaudiscono veggendo crollarsi la tanto lodata costituzione; ciò che era fondamento di libertà appare e riesce giogo intollerabile; ed io ripetendo gli encomi agli ordini inglesi dati da' più caldi novatori dell'età scorsa, oggi conterei tra' retrogradi partigiani di servitù. Stimai quindi necessario uscire, a proposito della Inghilterra, fuori de' tempi nei quali è ristretto questo discorso; e mostrando in essa arretrato il corso delle innovazioni, non pur sempre inevitabile e in gran parte somigliante a quello degli altri Stati, spiegare co' fatti e il mirabile ascendente che la Inghilterra aveva preso sulle opinioni ne' tempi dei quali io scrivo, e poi la freddezza verso lei di nuovi amatori di libertà, ed infine l'avversione. Di che è stato prova il vedere che dalle rivoluzione del continente (e tante ve n'ebbero in quaranta e più anni) non uscì mai per la volontà de' popoli, una forma somigliante alla forma inglese, ma sempre fu imposta da' re come transazione tollerabile, per la quale essi confidavano spignere addietro anzi che promuovere la corrente minacciosa delle innovazioni. Tanto le opinioni si voltano, e il mondo sociale camminando come per curva spirale, ogni tanto piega il corso, benchè egli non muti la direzione; tanto nel discorrere le antiche cose in mezzo agli avvenimenti che incalzano, le stesse parole che raffigurano il pensare antico, egualmente adoperate ma intese altrimenti dagli uomini d'oggidì, fanno inciampo allo scrittore anzichè facilità allo scrivere, e gli tolgono favore appo molti e forza di persuadere. Ma siccome il procedere dei tempi e de' fatti confonde con immensa forza i voleri e le cose discordanti, uffizio della storia è dapprima tutti annoverargli e distinguergli, poscia come fa il vero, insieme congiungergli nella rappresentazione e mostrare i modi onde si conciliano. Così anche l'esempio inglese valeva poco a spignere i popoli nella libertà e turbare la sicurezza degli altri principi. E questi frattanto avevano altrove esempio di novità benchè audacissime, pure ottimamente conciliabili al potere regio. Piace a' monarchi il bene che s'opera per modi assoluti, e vederono Federigo re di Prussia aver la potenza tutta in sè solo concentrata, libera d'appoggi e di ostacoli, temuta e benefica a un tempo stesso. Avrebb'egli ringiovanito in Europa l'assoluta monarchia, e quasi rifatta a nuovo, se rifarsi ella poteva; ma le diede, in quanto a sè, una forza vera e produttiva, e in gran parte adeguata a' nuovi bisogni del secolo, sinoacchè i bisogni del secolo non divennero troppo eccessivi ed urgenti. Fu maestro a' re del suo tempo, e meritò d'esserlo, tutti avanzandoli nell'altezza dell'ingegno o nelle occasioni d'adoperarlo. E fu tra le felicità singolari di Federigo, che i suoi predecessori ognuno a suo modo e con ordine mirabile gli agevolassero la grandezza, preparandogli le vie, ma senza troppo preoccuparle; l'ingegno instancabile del grande Elettore aveva fondato la potenza della Casa, e la vanità di Federigo I acquistato nel titolo regio un incitamento, e nelle opinioni del secolo, quasi anche un diritto a viepiù ingrandirsi; e il re che successe a questi, crudele al figlio in privato, sembrò nelle opere di re far tutto per lui, e a sè attribuire null'altro uffizio fuorchè di assicurargli un regno glorioso. Perchè ei gli temperò l'animo con le paterne durezze, e tenendo quelle grandi forze giovanili a lungo compresse e raccolte in sè stesse, anche con il duro esperimento dell'obbedienza, l'assuefece ad un impero più mite e più giusto; poi gli crebbe a gran copia tutti i maggiori nerbi della potenza, l'erario e i soldati, e i popoli educati a rigida disciplina. Così Federigo salendo al trono l'anno 1740, trovasi istruito ad ogni virtù ed agevolato a ogni grandezza. Subito si dichiarò nemico dell'Austria; e perocchè l'Austria s'era fatta straniera in gran parte alle cose germaniche, dovea Federigo almeno per questo farsi essenzialmente nazionale, essere null'altro che Tedesco, autore di nuova potenza germanica; a lui si avveniva raccorre intorno a sè le forze intellettuali di tutta l'Allemagna; monarca e filosofo, dovea riconoscerne l'incremento, dovea amarlo, dovea promuoverlo. Di ciò Federigo nulla fece; dispregiò i suoi come barbari e rozzi, e volse tutta l'eleganza del suo ingegno alla lingua ed alle cose francesi: di tutto i Francesi erano maestri; curava egli nei suoi ministri la purezza del dire e dello scrivere francese: quasi per gli uomini gentili non fosse in Allemagna altro idioma, e pure il tedesco era già in sulle penne di Schiller e di Goethe. Neglesse l'educazione del popolo, nel popolo non vedendo altro che un docile strumento, e contandolo per numero, e alla moltitudine credendo null'altro dovuto fuori che quella giustizia che viene dall'alto, e i frutti di quella sapienza generica, la quale pareva a Federigo dovesse fermarsi e ristringersi nelle sommità. Così egli scemò la forza intrinseca al suo stato e il favore in Allemagna, dove se le idee di nazionalità radicheranno, il nome di Federigo andrà maledetto, perch'egli non le promosse quanto era in lui. Vero è che la poesia, stata senza forma e confini naturali, ed il popolo prussiano stesso miscuglio di varie genti, senza memorie comuni, e avvezzo ad istruirsi dell'industria e del sapere degli altri, poco dava per formarne una nazione, molto per la forza del governo: è vero altresì che le forze libere allora non si contavano, ma quelle soltanto che stavano tutte intere nella dependenza de' monarchi. E questa maniera di potenza in Federigo fu somma; niuno insino allora l'aveva agguagliato nell'arte di ordinare e condurre gli eserciti. La guerra scientifica retta da un concetto solo, in lui e in Napoleone ha toccato il colmo e decaderà; ventura per gli avvenire. E dopo lui caddero que' suoi modi liberi e sicuri di monarchia, della quale come della guerra aveva egli fatto una scienza, ora impraticabile dacchè le nazioni ebbero coscienza di sè stesse. Sicchè poco rimarrà di Federigo, fuori che le forze materiali per lui cresciute alla Prussia, e la gloria incancellabile d'aver dato norma e movimento a tutt'una età d'uomini, d'aver illustrato gli ultimi anni felici da Dio concessi alla signoria dispotica: alla quale se il volger dei secoli un giorno riconducesse il capriccioso volere dei popoli, tale la invocherebbero quale la fondarono per una monarchia grande ed armata, Federigo in Prussia, per una ristretta e pacifica, Leopoldo in Toscana. In questi due principi tanto fra di loro differenti, tutta la sapienza governativa del loro secolo parve espressa: e se a Federigo fu gran vanto essere stato modello agli altri re, che del tempo suo vissero attivi e riformatori, a Leopoldo devesi questa lode di aver egli solo schivato l'imitazione di Federigo. Ambedue fecero fondamento delle opere loro non vane astrattezze, ma le condizioni vere dello stato ch'essi ebbero a governare: perciò differivano, adattandosi ciascuno a tanto diverse condizioni, ed a queste ottimamente ognuno di loro convenendo. Ebbe Federigo insin dal principio necessità di difendersi, l'ebbe anche di estendere gli antichi confini a fronte dell'Austria gelosa e prepotente; ma Leopoldo vidde bene che le armi non gli abbisognavano, o al bisogno non bastavano: da' re nulla temeva o chiedeva, purchè gli lasciassero a suo modo la Toscana prosperare. _____ Frammento d'un altro Capitolo. DEL GOVERNO DI LEOPOLDO IN MATERIA ECCLESIASTICA. Giunto Leopoldo in Toscana (ai 13 di settembre del 1765), trovò le cose ecclesiastiche in iscompiglio per la pervicacia del Torrigiani e del Rucellai, e molti disordini messi in luce dalle querele continove fra le due potestà. Quindi a riordinare questa parte di governo egli dovè volger le prime cure del nuovo principato. Fu voce che destinato agli onori del sacerdozio nei suoi primi anni, egli non fosse rozzo di studi sacri. Ma o ciò fosse vero (mancano a provarlo i documenti) o che da quella parte gli si appresentasse la prima necessità di riforma, o che le asprezze del Papa lo irritassero, o che passassero nell'animo suo le passioni de' suoi ministri; certo è ch'egli apparve tosto propenso a dar dentro animosamente nelle ecclesiastiche controversie. Esiste un compendio da lui dettato di tutti gli affari ecclesiastici occorsi dai primi giorni del suo governo; ottima guida a figurar l'animo di lui, e l'indole del tempo. Adunò appena giunto i vescovi di Toscana, e dichiarò loro esser egli come sovrano ed austriaco, protettore e volonteroso della cattolica religione; a lui ricorressero, e non sarebbe invano; sperava da loro che non si brigherebbero mai di cose di governo. Tacevano, e taluni de' più animosi, tornati alle loro sedi, tentavano con audaci pretese il nuovo principe; e nella eterna lite per le immunità, sempre chiamandosi offesi, sempre volendo cose nuove, pronti erano a rafforzar le loro ragioni con l'arme già vecchia, ma non dismessa, della scomunica contro a' ministri stessi del principe. Da Leopoldo, in una Nota scritta di mano sua, il vescovo è chiamato suddito, ardimento incomportabile a ogni sovrano. I preti dal canto loro, troppi e poco costumati, spesso e per vari modi facevansi turbatori dell'ordine sociale; e coperti dalla parzialità de' canoni, esenti per privilegio da ogni giurisdizione de' secolari, difesi o scusati da' tribunali degli ecclesiastici, sfuggivano alla regolarità de' processi e del gastigo; e nel conflitto delle autorità, si procedeva contro di loro ne' così detti processi camerali, per via di pene economiche. Nel primo anno di Leopoldo otto ecclesiastici rei di delitti gravi, ebbero con molti altri l'esiglio arbitrariamente inflitto; pena illegale, sproporzionata, creduta necessità di governo, ma certamente di pessimo esempio e distruggitrice d'ogni ordine civile. In questo tramescolarsi delle giurisdizioni, e per la volontà ch'avea il principe di miglior giustizia, continuavansi in lui più acerbamente gli umori già concepiti col Papa, e frivole dispute sul cerimoniale, svelavano il mal animo vicendevole e l'irritavano. Prima occasione di manifesta discordia, fu la sentenza intorno agli Asili. Quel natural sentimento per cui gli infelici rifuggono alla religione, suggerì agli uomini, nella tirannia o nell'impotenza delle leggi, la inviolabilità dell'asilo ne' luoghi sacri, omaggio alla maestà del culto. Questa pietosa osservanza, dal cristianesimo consacrata, incominciò ad essere inciampo troppo frequente agli ordini civili, quando la corporazione degli ecclesiastici avendo separate le sue ragioni da quelle dello Stato, venne a piantarsi in mezzo di esso, isolata, indipendente, soverchiatrice. Allora il diritto d'asilo volle sue leggi particolari e le ottenne, dopo che il Concilio di Trento ebbe riordinata e afforzata ne' paesi cattolici la potenza sacerdotale. Nel 1591 Gregorio XIV statuì, dipendere affatto ogni refugiato dai tribunali ecclesiastici, e a questi soli competere la decisione se debba esso, o no, godere del privilegio del luogo immune. Così, sottratti i terreni consacrati da ogni potestà delle leggi civili, divennero ricettacolo sicuro di chiunque ne temeva la vendetta o ne odiava il freno; nè solamente ricovero ai delinquenti, ma scuola e officina pubblica di misfatti. Ivi si conservavano le robe tolte per furto e di contrabbando, e si mercavano; ivi la dissolutezza di giovinastri fuggiti all'autorità de' parenti, si affratellava colla scelleratezza degli omicidi e de' ladroni. Viveano in sugli occhi di tutti con donne svergognate, e avean figli; perpetuavano nella casa di Dio famiglie di scellerati; uscivano di soppiatto a nuovi delitti, e vi tornavano a godersegli a viso franco. E tra nazioni che si dicevano civili, quasi non era portico di chiesa o cimitero che non mostrasse tanto spettacolo di barbarie. I refugiati frattanto, insieme coll'attività di mal fare, usurpavano il favore che ottiene dagli uomini la sventura. Erano compianti, assistiti da quei di fuori; talvolta per opportunità e per destrezza di servigi, divenivano familiari dei loro stessi raccettatori. Odio e discredito ricadea sulla forza pubblica che contro loro mostravasi ingiusta persecutrice; perchè impotente entro quei confini, studiavasi a estrarne per frode i malfattori. E non di rado accadeva che i rifugiati assalissero da dentro con armi da fuoco gli sbirri armati; le chiese erano macchiate di sangue: se ne tenevan lontani la notte i viandanti. Solleciti più del toscano, gli altri governi d'Italia si richiamavano dalla bolla di Gregorio inutilmente: altre pontificie costituzioni la confermavano, e contro ogni regolare intrapresa la premunivano. Si ottenne però in parecchi Stati di minorare il male per via di concordati, ora aggiungendo giudici laici agli ecclesiastici a decidere sul diritto de' refugiati, ora prescrivendo che posti in giudizio, andassero soggetti a pene men gravi delle dovute. Vergogna de' tempi e iniquità di ragion di Stato, lasciavasi ai governi braccio più libero contro i disertori della milizia, che non contro i rei più esecrandi; quasi la milizia di quei governi non fosse piuttosto a satellizio che a pubblica difesa, quasi importasse più tenere gli uomini obbligati al patto non libero d'un arruolamento arbitrario o carpito per seduzione, che non agli eterni fondamenti su' quali le società si mantengono vive e ordinate. Più discreta che altrove la osservanza degli asili era in Roma, dove le due potestà essendo unite, le pretese del sacerdozio non si contrapponevano al desiderio di pubblica sicurezza. Ma in Toscana i disordini avevano oltrepassato ogni misura. Erano più di trecento i luoghi immuni nel solo recinto di Firenze, e occupando oltre la metà dell'abitato, rammentavano ad ogni passo il clero avervi più potenza che non il principe. Il numero dei delitti era cresciuto sotto il governo della Reggenza; e trovo per documenti certi, dugento ventidue rei di non lievi colpe aver preso rifugio nei luoghi immuni, negli ultimi due anni che precederono il regno di Leopoldo: ve n'era circa ottanta al tempo dell'abolizione, tra' quali più di venti omicidi. La protezione delle leggi ecclesiastiche assicurava l'impunità ai minori delitti, eravi luogo a eccezione contro ai maggiori; ma anche per questi i curiali artifizi rendevano il procedere della giustizia lento, e le toglievano braccio e dignità. E allorquando pochissime enormità si colpivano di gastigo, qual prò allo Stato, qual medicina ai costumi? Sono i misfatti piccoli scala e incitamento ai maggiori, e ciò che verso i peggiori delinquenti è vendetta, ai meno indurati può riuscir correzione. Non poteva Leopoldo soffrir pazientemente un tanto ostacolo alla efficacia delle leggi. Ordì negoziati con Roma e consultò teologi: ma tutti, fuorchè il solo Giovanni Lami, seguivano ciecamente la vecchia autorità a detrimento della presente giustizia; e Clemente solito ad accusar di troppa larghezza i suoi predecessori, nemmeno voleva scendere a' concordati, pei quali nei principi si convalidassero diritti da contrapporre alla infallibilità delle Bolle; voleva solamente procedere per indulti, che i principi ricusarono come rimedi troppo tardi e inefficaci. Nel Torrigiani poi, Cardinale toscano, allora segretario di Stato, la naturale caparbietà pareva esercitarsi più volentieri contro l'antico principe: gli animi ogni dì più s'inasprivano; la faccenda degli asili occupò senza buono effetto i primi quattro anni di Leopoldo. Ma i tempi avanzavano, e nel 1769 ascese alla sedia pontificale Clemente XIV, dal quale i principi aspettavano più condiscendenza, e il secolo meno contrasto. Approvato dalla Imperatrice, ordinò il Granduca che in una stessa notte fossero estratti i refugiati in tutto lo Stato, e condotti in carcere. Si usasse dolcezza verso di loro, rispetto per gli ecclesiastici, si custodissero i rei con umanità. Scegliessero; se volevano vivere nelle carceri sicuri come in asilo e condannati come contumaci, o sottoporsi per libero giudizio a pene di un grado inferiori alle meritate. Il giorno stesso si spedì a Roma notizia dell'accaduto: il Papa tacque, il popolo vidde volentieri purgati i luoghi sacri dalle abominazioni, e lodò il fatto. Alla riforma degli asili successe poco di poi quella delle carceri claustrali, e fu il primo passo a innovazioni di gran momento. Fu stabilito con legge dovere i Conventi che avevano carceri, chiedere dentro due mesi al governo licenza di conservarle. Nè questa si negherebbe; dovevano bensì le carceri reputarsi soggette alla potestà sovrana, esser visitate dagli ufiziali di giustizia, dagli arrestati e delle loro colpe darsi notizia pronta. Ai bargelli fu ingiunto di tenere occhio vigilante sulle segrete persecuzioni de' chiostri. Era occorso alla mente di Leopoldo fin dal suo primo giungere in Toscana, averci gli ecclesiastici troppo stato, e attraversarsi a ogni bontà d'ordine civile. Vedeva la seduzione dell'esempio o la necessità del costume, spinger donzelle alla religione ignoranti ed immature; vedea giovinetti ambiziosi o scioperati fuggir ne' chostri la povertà, e cercarvi dall'ozio riputazione; e il chiericato abbracciarsi da molti non per la santità dell'uffizio, ma come veste di dignità, o strada a guadagni anche disdicevoli. Spingevalo l'animo a riformar le cose del culto di tal maniera, che gli ecclesiastici fossero in minor numero, ma più operosi e più esemplari; e a ciò segretamente lo confortavano non pochi del clero stesso, coperti seguaci delle dottrine giansenistiche; i quali veduto l'animo del principe e confidando ne' tempi, speravano potersi accomodare alle società presenti la stessa forma di gerarchia, che aveva mantenuto in santità onoranda i primi cultori del cristianesimo. Volevano si ricongiungesse la Chiesa allo Stato, allargando l'autorità del principe, e de' vescovi in cose di religione: la dignità de' parrochi si accrescesse, scemando numero e ricchezze ai regolari; e dell'altare non vivesse chi non servisse all'altare; alla istruzione de' preti si provvedesse; non ve ne fossero degli oziosi. Piaceva a Leopoldo aver tali consigli, e interrogava i suoi ministri se gli sapesser trovar modo per ottenerne un qualche effetto. Ma questi, esperti e diffidenti, rappresentavano, potersi forse con molto studio ottenere dal clero più sudditanza, al quale scopo miravano a quel tempo tutte le corti cattoliche, e non ripugnava la stessa Maria Teresa; ma non potere un piccolo principe, nè forse ai più grandi riescirebbe, invadere la potestà della Chiesa entro a' suoi confini, e dar nuove leggi al sacerdozio. Dipendere il numero de' preti dalle ricchezze che gli nutrivano, e al toccar queste, opporre ostacolo insuperabile la severità de' canoni e la credenza del popolo. Il quale anche con ragione si lagnerebbe, quando si ristringesse la sola via che avessero gl'infimi d'innalzarsi, il solo compenso che rimanesse alle ineguaglianze della fortuna e delle leggi. E poi qual danno al principe quando sotto qualsivoglia vestito tutti egualmente ubbidissero? quale allo Stato, dove tutti i beni concorrono alle gravezze pubbliche, qualunque sia il possessore? Avere la legge sopra le manimorte costretto dentro ai presenti confini il patrimonio degli ecclesiastici; aver quella sopra i fidecommissi tolto moltissimi dal bisogno di sostenere con le dignità del clero, ciò che si chiamava decoro del casato; eppure i costumi essersi mostrati meno civili che non le leggi; e di queste, molti ed i nobili specialmente, ogni giorno studiarsi a minorare i benefizi, eludendole con la sottigliezza delle interpretazioni. Confermasse egli l'efficacia di quei due statuti, sottoponesse il clero alle comuni leggi, più non poter fare un principe toscano. A tali consigli piegavasi facilmente l'animo misurato di Leopoldo; il quale aborrendo anche dal sospetto della ingiustizia, e più per la coscienza che per la fama, meglio credea conferisse a' suoi pensieri il lento riformare degli abusi, che non l'audacia e la subitezza delle innovazioni. Deliberò fissar più accuratamente lo stato di quelle leggi, per cui si proibiscono nuovi acquisti agli ecclesiastici. Sinchè la feudalità reggeva gli Stati, e i terreni pagavano tasse all'occasione de' passaggi dall'una all'altra mano, quegli di proprietà del clero, per la continuità del possesso, nulla contribuivano alla finanza; di qui venne il nome di manimorte. Vennero i governi regi e municipali; e quei beni anche allora sfuggivano alle gravezze, dappoichè il clero si ebbe arrogato immunità dal contribuire ai pesi dello Stato. Perciò in molti luoghi o si frenarono per legge i nuovi acquisti, o si gravarono per vie indirette: tutto moveva dall'interesse della finanza. Tardi e solamente in questa luce delle economiche dottrine, s'intese, da quella immobilità e da quei vincoli venirne altri e più gravi danni all'universale; volersi per la ricchezza pubblica possessioni non troppo grandi, frequenza di passaggi, proprietà libera. La legge imperiale del 1751 avea, come sopra ho dichiarato, ragioni di generale utilità, ma col riferir tutto al principe, dava campo a troppo arbitrio, e non fondava massime. La pratica del concedere la licenza variava co' tempi e co' ministri; dubitavasi soprattutto dovesse al divieto esser norma, o solamente l'utilità del modo dell'impiegar le rendite, o anche le condizioni del possedere; fossero alla legge sottoposte anche le corporazioni dei secolari. Due grandi massime di governo dettarono lo statuto del 1769. Promuovere le vendite e le allivellazioni de' terreni posseduti in società; chiudere affatto la via d'acquistar ricchezze a quelle fondazioni per cui lo Stato non prosperasse. Perciò si ordinava che tutti i beni, i quali per privilegi sconosciuti (tali erano quelli de' mercanti livornesi) potevano esser donati a' manimorte, dovessero dentro un anno vendersi, e il capitale impiegarsi in luoghi di Monte, sola maniera di stabile proprietà, alla quale il Granduca voleva ridurre col tempo i patrimoni pubblici e comunali. I beni obbligati per la soddisfazione di lasciti pietosi potessero sempre essere affrancati, trasportando in luoghi di Monte il capitale; e così liberando i terreni per essi vincolati. E di tutti i terreni di manimorte già allivellati, restasse l'util dominio proprietà libera dell'attuale livellario potesse disporne come di cosa sua, nè ritornassero mai al padron diretto; ma alla scadenza d'ogni contratto, dovesse questo esser rinnovato a favore degli eredi dell'ultimo possessore. La manomorta non si arricchisse mai dei miglioramenti fatti a' terreni dopo il giorno della pubblicazione di questa legge, i benefizi del tempo andassero tutti a guadagno dei livellarii. In questo modo si veniva in essi a trasferire, con salutare e ardito provvedimento, la miglior parte della proprietà, restava al padron diretto solamente un canone immutabile, per lo più stabilito in tempi lontanissimi, quindi non più in proporzione colle presenti entrate. Avrò sovente occasione di discorrere quanto benefizio arrecasse alla Toscana questo favore pe' livelli. E quanto alla licenza di nuove donazioni, essa concedevasi solamente a chi, mancando d'eredi prossimi, disponesse a favore della pubblica educazione, o per dotar fanciulle, o per inalzare edifizi di pietà pubblica. Con rigorose dichiarazioni rendeasi vano il supplicare contro al divieto passato in massima; vietavasi lo interpretar mai favorevolmente alle manimorte le incertezze o le dimenticanze della legge. Per tal modo questa materia sarebbe stata compiutamente ordinata, sennonchè l'arte tardiva di compor leggi, peranche non conoscevasi; e i discordanti pareri de' due principali consiglieri di Leopoldo, Pompeo Neri e Giulio Rucellai, tolsero certezza alle espressioni. Fu macchia alla sapienza del legislatore, il bisogno immediato di dichiarare con un altro editto, non essere comprese nelle proibizioni le comunità secolari; la quale esclusione fu poi nell'anno stesso rivocata pe' luoghi pii che sono amministrati da laici. Vacillamento in Leopoldo non infrequente, e che molte volte scemò ubbidienza e rispetto alle migliori sue leggi. Quindi nell'anno 1771, una istruzione ai Notari tolse le incertezze con una distinzione legale, e meglio col nominar quali manimorte fossero assoggettate al divieto, e quali esenti per legge o per privilegio. Fu libero l'acquistare a quelle corporazioni dove ha parte alla proprietà chiunque partecipi al benefizio della consorteria, vietossi a quelle nelle quali la proprietà è indivisibile: un membro isolato della consorteria non ha diritti proprii, e la rappresentanza e il dominio stanno nella persona immaginaria di una istituzione immutabile, governata da leggi primitive, non libera di sè stessa. A questo ordine appartenevano gli spedali, ed altre fondazioni di pietà pubblica, ma furono esenti per privilegio. Non si avea provveduto ai legati per messe o per suffragi. Ed anche questi però, benchè avessero effetto passeggiero, facevan patrimonio a' preti inutili; e la pietà immoderata, ristretta da ogni altro lato, si profondeva più cupidamente in queste divozioni. Vietaronsi poco dopo i legati di questa specie, i quali oltrepassassero l'importar di cento zecchini, o la ventesima parte dell'eredità. Ma non abbandonava Leopoldo il pensiero e la speranza di contenere la inconsideratezza delle donzelle che si precipitavano al chiostro. Imperocchè alle monache già rinchuse, amore d'istituto e bisogno di compagnia facevano parer bella ogni seduzione onde quel loro esilio si popolasse. E non le spaventava ridursi per l'accresciuto numero a vivere più ristrette in quei conventi ch'erano meno ricchi o peggio governati, perchè ad ogni godimento prevale necessità d'umano consorzio, e chi più sembra sdegnarlo più lo desidera. Avevano in ciò aiutatrice potente la mala educazione delle famiglie, per cui pareva sola buona quella dei monasteri, e la insipidezza de' famigliari contenti, indizio di secol guasto. Nè per esempi apprendevano le fanciulle ad onorare, nè per oneste discipline ad ambire il santo nome di madre di famiglia; vivevano nelle case peso e non cura de' loro maggiori; vedevano con la mente ne' soli chiostri virtù illibata e compagnia più amorevole. Ben conosceva Leopoldo le troppe monacazioni essere effetto di peggior male; educazione negligente, e volea correggerla; ma intorno a ciò, bench'ei molto bramasse, poco tentò, pochissimo ottenne. D'un ottimo principe può esser vanto frenar nella società gli amori viziosi, ma non è opera d'uomo benchè potente, torcere a posta sua quelle inclinazioni che lungo corso di secoli confermò. Il volger delle generazioni trae seco effetti lentissimi in bene o in male, e invano si vuol formare la generazione avvenire, ove la presente sia brutto specchio. E il seguito di quest'opera mostrerà, come Leopoldo comunicando poco cogli uomini del suo tempo, e male inteso da loro e poco creduto, presto perdesse l'animo a quelle cose che alla moral cultura direttamente risguardano. Certo egli amministrò lo Stato ottimamente, ma sui costumi e sulle opinioni ebbe poco impero. Tentò ben egli rivolgere a migliori studi ed a virtù più operosa l'educazione de' monasteri, e divisò chiamare a riformargli maestre d'oltremonti, dove parevagli alcuni Conservatorii intendere a scopo più sociale. Vana speranza: poichè d'istituzioni siffatte la immutabilità delle massime è vita e fondamento; regole ed usi vogliono obbedienza cieca, cercar d'infrangergli è apostasia. Ed a quel tempo pareva profana malizia il creder che mogli e madri potessero ammaestrar sui doveri di moglie e di madre, e che la scuola delle virtù del mondo altrove risedesse fuor che nel chiostro. Un editto della Reggenza aveva moderato la pompa de' vestimenti delle monache; trovò Leopoldo la pratica già trascorsa, siccome avviene di leggi senza confini certi, quindi inefficaci contro alla tirannia del costume. Rimase anche questo incentivo alla imprudente vanità di fanciulle ignote ancora a sè stesse, abbagliate dalla gloria di un giorno solo; in cui la solennità del rito, l'onore del sacrifizio, le lodi, la tenerezza de' circostanti, il nome di sposa, le monache allora liete e carezzevoli, seducono quelle vergini menti, e cuoprono a loro il dubbio tremendo del disinganno. Niun atto della vita civile era celebrato con più solennità. La Granduchessa assisteva ne' primi giorni del suo arrivo alle monacazioni di tre fanciulle sorelle di nobile famiglia, ed era ciò parte delle allegrezze pel nuovo regno. Ma opinavano taluni dei ministri, e Pompeo Neri era tra questi, il moderare le spese de' vestimenti dover produrre effetti contrari alla intenzione. Le figlie collocate nel chiostro più non farebbero paura di gravi spese, si compirebbe il voto de' padri avari. Così vacillavasi ne' consigli tra l'accrescere le doti delle novelle monache o torle affatto; del pari temendosi che aumentato il guadagno delle monacazioni pe' monasteri o per le famiglie, o quegli attirassero più fanciulle, o queste più volentieri ve le spignessero. Nè men dubitavasi se le monache forestiere fossero da ammettere o da rigettare, stando per l'una sentenza il desiderio di tôrre il luogo alle toscane, per l'altra l'indole di siffatte congregazioni, che dal numero stesso acquistano celebrità e riputazione, e maggiore attività a moltiplicarsi. Dapprima le doti furono ristrette, poi quando Leopoldo ebbe cominciato a procedere in queste cose con meno ritegno; vietò ai monasteri ricever doti, e gravò le vestizioni di forte tassa pagabile agli Spedali; secondo la condizione delle famiglie, e le forestiere doveano pagarla doppia; i monasteri che trasgredivano puniva con la proibizione di accettar novizie. Le gale de' vestimenti furono vietate molti anni dopo. Intanto l'amministrazione dell'economia dei monasteri era stata tolta ai superiori ecclesiastici, e attribuita gli Operai nominati dal principe, com'era per editto di Cosimo I, male osservato dipoi. A questi Operai chiedeva lo Stato delle rendite e delle spese di ogni monastero, e di quante persone fosse capace per poi fissarne il numero. Ma gli ecclesiastici si adombrarono, viddero l'intenzione, gridarono offesi i diritti della Chiesa; conobbe il Granduca nelle difficoltà opposte ai primi passi, quanta poca speranza fosse di conseguire l'intento. E Maria Teresa, tentata da lui e dal Rosenberg, difensore costante dell'autonomia regia, piuttosto si mostrò fredda alle cose nuove, che disposta a sostenerle con la potenza del nome imperiale. Ma fu delle riforme operate da Leopoldo sopra i conventi efficacissima quella, per cui nell'anno 1775, incoraggiato dall'esempio di molti Stati d'Italia e d'oltremonti, vietò alle fanciulle vestire abito religioso prima del ventesimo anno compito, ai maschi prima del diciottesimo; nè a questi era lecito professare, se non finito il ventiquattresimo. Apparve sapienza di legislatore nel prender cura solamente perché le monache si vestissero più tardi, e nulla innovar per esse quanto alla professione, siccome inutile. Le ha già legate l'addio dato al mondo, il consorzio delle persone religiose, il terrore della promessa che di sè stesse fecero a Dio quando si decise lor vocazione; gli esempi di fanciulle che siano uscite dal chiostro prima di professare, o son rarissimi o nulli. E fu, quantunque lodevole nella massima, per gli effetti vano, aver prescritto nel tempo stesso che le accettate nei monasteri dovessero prima di vestirsi essere esaminate da un ecclesiastico, il quale attestasse della sincerità della vocazione, e quindi per sei mesi vivessero nel mondo, e senza intera coscienza non eleggessero. Ma ciò riusciva piuttosto a pompa di sacrifizio che a libertà di scelta; poichè facendo di sè spettacolo per addobbo sfarzoso e singolare, e già portando sul petto il segno del voto fatto, e solo con gli ecclesiastici conversando e con le pietose amiche de' monasteri, mostravansi agli occhi di tutti come persone consacrate, e in nulla si accomunavano al vivere sociale. Fu poi necessario il moderar per editto i disordinati ornamenti delle spose monache. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Queste innovazioni erano a Leopoldo sorgente di molta invidia, che poi si spandeva su tuttociò ch'egli divisava a incremento della religione e de' costumi. Sicchè scarso frutto ebbero, e poco amore gli guadagnarono le sue cure a prò della parte più utile e più rispettabile del clero che sono i parrochi. Questo ministero di carità, che il Cristianesimo istituiva, e in cui quando si fondò la Chiesa, stava tutto quanto il sacerdozio (perchè i vescovi facevano da principio ufizio di parrochi), rimase, dopo trascorsa la disciplina, il più negletto in tutta la gerarchia; e mentre le monastiche associazioni e le congreghe de' canonici e degli altri benefiziati, crescevano in grandi ricchezze, i parrochi disgiunti tra loro, e per lo più rilegati nelle campagne e occupati in ufizio umile e faticoso, ebbero appena tanta mercede che sovvenisse, in molti luoghi, al necessario. Eppure il loro soperchio è de' poveri e non va in pompe; e nelle istruzioni a' fanciulli, nell'assistenza agli ammalati, e nelle consolazioni a' moribondi, esercitano essi quanto la religione ha di più santo e di più pietoso. E parmi avere essi in ogni tempo ben meritato sì della civiltà come de' costumi, e tanto degli Stati che della religione. Perchè essi aiutarono a mantenere nei tempi rozzi un vivere più civile nelle campagne; e nelle grandi monarchie d'Europa un impero più temperato. Le quali cose i popoli antichi ottenevano e conservavano solamente dove erano i governi municipali, ma negli Stati i quali reggevansi a volontà d'un solo, della servitù, necessaria compagna, era la barbarie. Imperocchè la potestà del signore continuata e trasmessa infino alla estremità del popolo per una catena lunghissima di satelliti e d'uffiziali, veniva in questo modo a opprimere e corromper tutto, intromettendosi in ogni atto del viver sociale. Ma dopo la istituzione delle Parrocchie, i Curati tennero negli imperi più assoluti un magistrato quasi cittadinesco, e in loro fidava il principe assai per la custodia dell'ordine e della pace dello Stato, cura o pretesto di ogni governo benchè malvagio. Onde essi poterono nelle campagne allontanar dal minuto popolo il peso della tirannide, e furono pur sempre popolo anch'essi, e tennero in ogni occasione la parte popolare. La storia gli mostra sempre utili ministri di un ordinato governo, non mai strumenti di dispotismo. E così santi conservatori del cristianesimo mantengono con la disciplina de' primi secoli anche la povertà stessa, con invidiosa disuguaglianza dagli altri membri del clero. E le ricchezze di alcune parrocchie sono piuttosto scandalo che compenso alla povertà di tante, e si distribuiscono infra i potenti e gli ambiziosi, non sono ricompensa dei parrochi benemeriti, non mercede attribuita al ministero. E Roma prese poca cura di loro, e i litigi co' principi secolari, e i concordati, e le proteste, e le bolle, e le scomuniche, furono solamente a prò di grassi beneficiati, o di monaci; nulla si provvidde per le parrocchie, nulla si chiese. Scampata a' dì nostri la Chiesa dalla tempesta della rivoluzione, noi vedemmo il Romano Pontefice nella improvvisa fortuna, incerto dell'avvenire, ripetere con discretezza avveduta da principi benevoli ciò che rimaneva del patrimonio antico e facilmente ottenerlo. Pareva rinascer la Chiesa e non le mancava la scuola delle sventure; poteva riordinarsi la disciplina e accomodarsi al tempo; ma il Pontefice sollecito più del fasto e della potenza del clero, che non delle necessità vere del cristianesimo, volle che risorgessero numerosi i conventi; prese a cuore che molti preti vagasser nelle città senza ministero, arricchiti dalle ufiziature; e neppur mosse la voce perchè si redimessero dalla miseria tanti Curati delle campagne, da' quali pure avrebbe avuto miglior soccorso la religione indebolita e vacillante. Quali sieno i motivi di tanto favore per gli uni, di tanta trascuratezza per gli altri, è agevole il ravvisarlo. Sta la potenza della moderna Roma in quell'esercito di ecclesiastici, che vivono dispersi in tutti i paesi cattolici, ma collegati tra loro da comunanza di interessi, e da necessità di scambievole appoggio; ordinati come a milizia ne' gradi della gerarchia, e obbedienti a ogni cenno del pontefice, come centro dell'unità e della forza, e da cui dipende ogni loro speranza, ogni ambizione. Qualunque legame essi serbino con lo Stato ove nacquero ed in cui risiedono, allenta i legami che gli ristringono alla corporazione di cui sono membri. I monaci tutti sottratti a ogni cittadinanza dalle istituzioni del loro ordine, hanno il solo Papa per principe supremo, e in nessun luogo la patria. E gli altri preti cui debil freno costringe all'obbedienza de' principi secolari, per la romana potenza, sono forti e ridottati; da Roma aspettano le ricchezze, a Roma hanno le speranze perfino del principato. Ma per i Parrochi non è campo all'ambizione, non interesse di ceto, non mire di avanzamento; e perfino che essi sieno traslocati a una migliore parrocchia accade di rado, e non è senza taccia, perchè si chiama negli infimi avarizia ciò che nei grandi si cuopre di nomi splendidi e onorati. In questo modo vivendo i parrochi abietti e disgregati, in nulla profittano, non fan della religione scala a secolare potenza. Quando nel secolo sedicesimo la riforma mutò il governo della Chiesa, e abbattè in molte parti d'Europa la monarchia papale, i parrochi abbracciarono il nuovo cristianesimo come divenuto la religione dello Stato, il loro ministero rimase intatto, la dignità non ne scapitò . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . _____ Altri frammenti. CONDIZIONI MORALI DELLA TOSCANA PRIMA DI PIETRO LEOPOLDO. È noto generalmente a' Toscani essere stato pensiero del buon granduca Pietro Leopoldo consolidar l'opera delle sue riforme, e porre egli stesso limiti alla sua sovranità per mezzo d'un patto costituzionale. La certa notizia di questo disegno di Leopoldo, e le voci discordi ed incerte intorno a' motivi, e gli eventi che a lui vietarono ridurlo in atto, corsero dapprima poco avvertite per la incuranza de' Toscani alle cose pubbliche, ma più si diffusero in questi ultimi tempi, dacchè i Toscani sentono anch'essi bisogno di guarentigie, e di fondare sul comun voto le istituzioni governative. E invero molte cagioni cospirarono perchè l'opera di Leopoldo rimanesse incompiuta. Già era necessità che tali dovunque rimanessero per loro difetto intrinseco le riforme più essenziali promosse da' principi nel passato secolo, e quelle massimamente che aveano in sè un qualche principio di libertà; concesse in un tempo d'indefinite speranze e di liete immaginazioni, sempre supponevano tra loro d'accordo, in ideale beatitudine, una paternità inestinguibile ne' monarchi assoluti, e un amoroso quietismo ne' popoli intelligenti. Ma i popoli allora contrastavano le non intese franchigie, doverono i principi presto diffidarsi delle vere libertà. Vero è che Leopoldo sembra aver mirato più oltre con franca securtà, e avere sinceramente ambito la signoria temperata; ma quella medesima dolcezza toscana che allora lo incoraggiava a infondere nei soggetti il sentimento di cittadino, frapponeva intanto nella inerzia degli animi, ostacoli ad ogni cosa ch'egli tentasse più risolutamente. La costituzione riusciva o monca o impossibile, se prima non si compivano quelle riforme parziali ch'essa doveva consolidare. E a queste non gli bastarono venticinque anni di regno; e più ch'egli progrediva, e più quei medesimi nei quali voleva fidarsi, svogliati o avversi lo abbandonarono, o si voltarono contro di lui: i suoi ministri lo contrariavano in tutte le cose più importanti. E all'ultimo del suo regno, sommosse risibili ma pure non infrequenti lo avevano ammonito, essere il popolo di Toscana strumento per anco inetto a quelle istituzioni che abbisognano di vigorosa sapienza, e allora, credo, s'accorse d'avere col mezzo della prosperità materiale poco aiutato alla coltura degli animi ed al morale risorgimento. Ma Leopoldo non disperava dell'avvenire; a molti parrà che egli vi fidasse troppo. Quanto meno i popoli chiedevano le buone istituzioni, tanto più parevagli ch'essi agevolmente vi si assueferebbero, e le userebbero con modestia; nè il tempo potrebbe altro che sempre più affezionargli a quella ubbidienza temperata, e in questa unanimità raccorgli sotto a quel benefico patrocinio. I Medici tanto dotti nelle arti dispotiche, aveano dunque ben meritato de' Toscani, se avevangli educati ad acquistarsi dopo dugento e cinquant'anni questa fiducia del principe. Sovr'essi tutta l'odiosità d'avere domato quegli animi torbidi che la repubblica generava, prostrato nella disperazione gli ingegni più audaci, adescate a servitù le ambizioni, avvezzato gli uomini a porre il quieto vivere in cima d'ogni felicità. Queste cose da lungo tempo eran fatte e dall'uso confermate; e ogni sospetto essendo svanito, spente con la dinastia le arti medicee, da' nuovi regnanti più virtuosi e civili, i popoli imparerebbero novelle virtù, quelle che s'addicono in giusta e discreta monarchia. E già i costumi pubblici non mai come altrove insalvatichiti, in qualche parte avvaloravano siffatte speranze. Era una lentezza a muoversi, una renitenza al bene, diffusa egualmente per tutte le membra dello Stato, piuttosto che una ruvida connessione o un intestino disordine da correggere con la violenza. Pessime le leggi, corrotte le abitudini, ma la composizione sociale non era per sè incapace dell'ideale risorgimento. Bastava eccitare gli ingegni scorati, ravvivare gli elementi che erano nel popolo inerti, ma non distrutti. Il popolo di Toscana per la civiltà più antica, e per la eguaglianza ivi più che altrove radicata, meno degli altri s'imbevve de' vizi spagnuoli che tanto infettarono l'Italia. Di vera feudalità non era vestigio da più secoli, fuorchè ne' feudi imperiali, pochi e dispersi su' confini dello Stato; e i nobili non avevano gran forza di privilegi da difendere, nè la plebe aveva ingiurie gravi da vendicare. Le concessioni feudali fatte da' Granduchi erano apparenze non sostanza, e le proprietà non tanto vaste, e la cultura per colonìa, in qualche parte alleviarono la sorte del campagnuolo. In tutto men aspra che altrove la condizione del povero, più umano e discreto il fare de' ricchi, e più scambievole simpatia nel vivere si manifestava. Quelle foggie signorili delle quali piacque a' medici d'attorniarsi, male ricuoprivano le origini mercantili della nobiltà fiorentina e del principe: ristretta la vastità de' traffici, rimase a' signori la bottega; e benchè i due primi Granduchi con grande studio imitassero la cupa alterigia del protettore spagnuolo, que' modi stranieri presto caddero, tornò benchè guasta l'antica domestichezza del vivere fiorentino, ed un fare più alla buona. Nè impero più crudo, o più guardinga sostenutezza bisognavano, dacchè ogni preminenza era abbattuta, ogni vera dignità prostrata; rara superbia ed innocua insorgeva fiaccamente sulla universale bassezza. Il regno lunghissimo di Cosimo III finì di corrompere ed impoverire ogni cosa, peggiorò sinanche i costumi ch'egli intendeva a correggere con discipline fratesche; ed egli visse più contegnoso; ma il figlio di lui Giovanni Gastone sciogliendo ogni freno, ricondusse l'antica facilità del vivere sino all'estrema licenza, sino alla più abietta trivialità. Poveri copisti non più d'esempi spagnuoli, ma di francesi, que' due ultimi granduchi di razza medicea, in sè ripetevano l'immagine smorta di Luigi XIV e del Reggente di Francia, ma senza prestigio di grandezza, senza velo d'eleganza. La fine di casa Medici essendo prevista da gran tempo, la successione al dominio su' Toscani, merce che rimaneva senza padrone, fu per molti anni avanti palleggiata su tutti i mercati dell'Europa, contrattata, disputata, ambita, ceduta dall'uno all'altro de' grossi potentati, gelosi che un piccolo peso non turbasse quella sempre cercata bilancia, ch'era studio de' politici, e calamità de' popoli. E quegli avanzi della famiglia moribonda, pure ancora vivevano, e avevano nome di regnare, e il popolo di Toscana muto, inconsapevole aspettava a quale ignaro e stranio signore, altri ignoti e stranii signori gli prescrivessero d'ubbidire. Era in Firenze un Senato, che in sè assumeva l'antica repubblica; ma questo Senato dichiarava in quelle solenni congiunture, d'avere avuto per 200 anni a sola sua guida l'esecuzione degli ordini sovrani, e umilmente ringraziava il Granduca quando con tanta benignità degnavasi consultarlo. Un ghiribizzo di Giovanni Gastone (non so bene se fosse generosità o dispetto, o celia, perch'egli di tutte queste cose era capace) fece che un giorno egli protestasse con atto legale, per la libertà del popolo Fiorentino, e che il popolo solo aveva diritto a succedergli, e che doveva tornare la repubblica: ma il Senato non lo seppe, perchè ebbe in consegna il foglio sigillato, e i Toscani non lo seppero, nè, credo, ancora lo sanno, benchè poi quel foglio fosse stampato; e se lo avessero saputo, male avrebbero gradito quel matto imbroglio nel quale il Granduca li poneva, di governarsi da sè. Infine, perchè Lorena andasse a rotondare la monarchia di Luigi XV, la sovranità della Toscana fu data a Francesco, che poi divenne imperatore. Eppure siffatto trabalzone sotto straniera dominazione, riebbe alquanto la Toscana dalla decrepitezza medicea, siccome il sangue lorenese aveva ringiovanita l'invecchiata casa d'Austria. Erano i principi lorenesi provati dalla fortuna, esercitati nelle difficoltà di regno, e l'ultimo di recente morto, aveva lasciato di sè ottima fama e nome di giusto. Vennero reggenti d'oltremonti (perchè il nuovo principe attendeva a maggiori ambizioni); vennero stranieri a sciami ad occupare gli uffici pubblici. L'Italia, e in ispecie la Toscana che aveva insegnato al mondo i primi elementi dell'aritmetica commerciale, ora imparava dagli oscuri stranieri, e poi nuovamante pochi anni dopo, riceveva più avanzata dai Francesi, l'arte di applicarla al governo degli Stati ed alla economia sociale. E alcuni toscani presto l'appresero, e come avvien sempre nelle mutazioni degli Stati, novelle forze si mossero, i dolori compressi parlarono, le speranze rianimate s'ingegnarono. E il Bandini scriveva, l'anno stesso della mutazione, quel suo celebrato discorso, primo documento in Italia e fuori, di buone e applicabili dottrine economiche. E il Neri e il Rucellai ed altri sursero ministri non inferiori al loro secolo. Era quel governo avaro, per le strettezze di guerra in Germania e per la cupidità del principe: ma la finanza fu più ordinata, e benchè malefica e rozza fosse, i Lorenesi istituirono ordinamenti migliori per tenere i conti pubblici, e con più certezza sindacarli. Altre e più importanti novità si fecero: la feudalità percossa, alcune riforme di cose ecclesiastiche concordate col Pontefice, altre nel silenzio fatte o preparate; parecchie feste abolite, l'inquisizione frenata, cercavasi modo acconcio a scemare il numero de' preti; il secolo lampeggiava. Due leggi gravissime, una che ristringeva i fidecommessi, l'altra che vietava le donazioni alla Chiesa, furono gran fondamento a tutte le novità maggiori che poi facesse Leopoldo. E allora i Toscani che non avevano da quasi due secoli visto mai fumo di guerra, almeno in Germania combatterono, si mescolarono ad altre genti. E i nobili fatti cortigiani d'un imperatore, andavano a Vienna, lo seguivano ne' campi, vedevano guerre, udivano cose nuove, pascevansi d'ambizioni misere, ma pure non tanto grette, non tanto municipali. Queste buone cose faceva il governo lorenese nei ventotto anni della reggenza: più forse ne uscivano, se, come i migliori fecero, il popolo avesse mostrato più vivo sentimento e maggiore zelo nel promuovere il nazionale interesse: la svogliatezza delle cure pubbliche, nudrita da' Medici cresceva in quella avversione agli stranieri dominatori; e un disdegno non ingiusto più che mai confermava i Toscani in quella inerte superbia miseramente avanzata alle antiche glorie, e fatta ostacolo ad ogni risorgimento. Niun altro fra' popoli d'Italia mostrava a quel tempo e poi, più contentezza di sè medesimo, più tenacità nelle abitudini, più voglia di segregarsi. Viveva indolente nella sua mediocrità, rifuggiva dall'accomunarsi, non che allo straniero anche a' suoi vicini stessi, a' suoi fratelli d'Italia. Morto l'imperatore Francesco, l'anno 1765, il figlio di lui Pietro Leopoldo venne in Toscana Granduca. Si rallegravano i Toscani della racquistata indipendenza: d'avere una corte, un principe a casa loro, di non più soffrire delle viennesi avarizie. Ma fu contentezza inoperosa, fu quiete d'un desiderio soddisfatto; e i Toscani non si mossero per attorniare bramosi il nuovo Granduca, benchè gradito egli fosse: discrete cupidità, modeste ambizioni, poca e fredda cura pel nazionale incremento; quest'era a quei tempi natura dei popoli. E avevano soggezione ad accostarsegli siccome a straniero, e in molte famiglie tuttora vivevano tradizioni guelfe e certi simulacri di parte, male inclinata verso un principe tedesco. Leopoldo ebbe indole tutta popolare, voglie che non soverchiavano gli angusti confini del suo Stato, divenne ben presto sinceramente toscano, ma i Toscani poco gli risposero; lasciarono il principe quasi solo a intraprendere non chieste le più essenziali riforme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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