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Vittorio Alfieri - vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso

Vittorio Alfieri

VITA DI VITTORIO ALFIERI DA ASTI SCRITTA DA ESSO

Pianta effimera noi, cos'è il vivente? Cos'è l'estinto? -  Un  sogno  d'ombra  è
l'uomo. PINDARO, Pizia VII, V. 135


Parte prima

INTRODUZIONE

Plerique suam ipsi vitam  narrare,  fiduciam  potius  morum,  quam  arrogantiam,
arbitrati sunt. Tacito, Vita di Agricola

Il parlare, e molto piú lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun  dubbio  dal
molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né
deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi  verrebbero  a  ogni
modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo  mio  scritto
assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che  allo  stendere
la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie  piú
gagliardo d'ogni altra, l'amore di me medesimo: quel dono cioè, che la natura in
maggiore o minor dose concede agli uomini  tutti,  ed  in  soverchia  dose  agli
scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali  si  tengono.
Ed è questo dono una preziosissima  cosa;  poiché  da  esso  ogni  alto  operare
dell'uomo proviene, allor quando all'amor di sé stesso congiunge  una  ragionata
cognizione dei propri suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed  bello,
che non son se non uno. Senza proemizzare dunque piú a lungo  sui  generali,  io
passo ad assegnare le ragioni per cui questo mio amor di me stesso mi  trasse  a
ciò fare: e accennerò quindi il modo con  cui  mi  propongo  di  eseguir  questo
assunto. Avendo io oramai scritto molto,  e  troppo  piú  forse  che  non  avrei
dovuto, è cosa assai naturale che  alcuni  di  quei  pochi  a  chi  non  saranno
dispiaciute le mie opere (se non tra' miei contemporanei tra quelli  almeno  che
vivran dopo) avranno qualche curiosità di sapere qual io mi fossi. Io ben  posso
ciò credere, senza neppur troppo lusingarmi, poichè, di ogni altro autore  anche
minimo quanto al valore, ma voluminoso quanto all'opere, si vede ogni  giorno  e
scrivere e leggere, o vendere almeno  la  vita.  Onde  quand'anche  nessun'altra
ragione vi fosse, è certo pur sempre che,  morto  io,  un  qualche  libraio  per
cavare alcuni piú  soldi  da  una  nuova  edizione  delle  mie  opere,  ci  farà
premettere una qualunque mia vita. E quella, verrà verisimilmente scritta da uno
che non mi aveva o niente o mal conosciuto, e che avrà radunato  le  materie  di
essa da fonti o dubbi o parziali; onde codesta vita per certo verrà  ad  essere,
se non altro, alquanto meno verace di quella che posso  dar  io  stesso.  E  ciò
tanto piú, perché lo scrittore a soldo dell'editore suol sempre fare uno  stolto
panegirico dell'autore che si ristampa, stimando amendue di dare cosí piú  ampio
smercio alla loro comune mercanzia. Affinchè questa mia vita venga dunque tenuta
per meno cattiva e alquanto piú vera, e non meno imparziale di qualunque  altra,
verrebbe scritta da altri dopo di me; io, che assai piú  largo  mantenitore  che
non promettitore fui sempre, m'impegno qui  con  me  stesso,  e  con  chi  vorrà
leggermi, di disappassionarmi per quanto all'uomo sia dato;  e  mi  vi  impegno,
perché esaminatomi e conosciutomi bene, ho ritrovato, o mi pare, essere in me di
alcun poco maggiore la somma del bene a quella del male. Onde, se  io  non  avrò
forse il coraggio o l'indiscrezione di  dir  di  me  tutto  il  vero,  non  avrò
certamente la viltà di dir cosa che vera non sia. Quanto poi al  metodo,  affine
di tediar meno  il  lettore,  e  dargli  qualche  riposo  e  anche  i  mezzi  di
abbreviarsela col tralasciare quegli anni di essa che gli parranno meno curiosi;
io mi propongo di ripartirla in cinque Epoche, corrispondenti  alle  cinque  età
dell'uomo e da esse intitolarne le divisioni: puerizia, adolescenza, giovinezza,
virilità e vecchiaia. Ma già dal modo con cui le tre prime parti e piú che mezza
la quarta mi son venute scritte, non mi lusingo piú oramai di venire a  capo  di
tutta l'opera con quella brevità, che piú d'ogni  altra  cosa  ho  sempre  nelle
altre mie opere adottata o tentata; e che tanto piú lodevole e necessaria  forse
sarebbe stata nell'atto, di parlar di me stesso. Onde tanto piú, temo che  nella
quinta parte (ove pure il mio destino mi  voglia  lasciar  invecchiare)  io  non
abbia di soverchio a cader nelle chiacchiere, che sono  l'ultimo  patrimonio  di
quella debole età. Se dunque, pagando io in ciò, come tutti, il  suo  diritto  a
natura, venissi nel fine a dilungarmi indiscretamente, prego anticipatamente  il
lettore di perdonarmelo, sí; ma, di castigarmene a  un  tempo  stesso,  col  non
leggere quell'ultima parte. Aggiungerò, nondimeno, che nel dire io  che  non  mi
lusingo di essere breve anche nelle quattro prime  parti,  quanto  il  dovrei  e
vorrei, non intendo perciò di permettermi delle risibili  lungaggini  accennando
ogni minuzia; ma intendo di estendermi su molte di  quelle  particolarità,  che,
sapute, contribuir potranno allo studio dell'uomo in genere; della  qual  pianta
non possiamo mai individuare meglio i segreti che osservando ciascuno sé stesso.
Non ho intenzione di dar luogo a  nessuna  di  quelle  altre  particolarità  che
potranno risguandare altre persone, le di cui  peripezie  si  ritrovassero,  per
cosí dire, intarsiate con le mie: stante che i fatti miei bensí, ma non già  gli
altrui,  mi  propongo  di  scrivere.  Non  nominerò  dunque  quasi  mai  nessuno
individuandone il nome, se non se  nelle  cose  indifferenti  o  lodevoli.  Allo
studio  dunque  dell'uomo  in  genere  è  principalmente  diretto  lo  scopo  di
quest'opera. E di qual uomo si può egli meglio e piú dottamente parlare, che  di
sé stesso? quale altro ci vien egli venuto fatto di  maggiormente  studiare?  di
piú addentro conoscere? di piú esattamente pesare? essendo, per cosí dire, nelle
piú intime di lui viscere vissuto tanti anni? Quanto poi allo stile, io penso di
lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella  triviale
e spontanea naturalezza, con cui ho scritto questa opera, dettata  dal  cuore  e
non dall'ingegno; e che sola può convenire a cosí umile tema.



Epoca Prima

PUERIZIA

ABBRACCIA i primi nove anni nella casa materna


CAPITOLO PRIMO Nascita e parenti.

Nella città d'Asti in Piemonte, il dí 17 di gennaio dell'anno 1749, io nacqui di
nobili, agiati ed onesti parenti. E queste tre  loro  qualità  ho  espressamente
individuate, e a gran ventura mia le ascrivo per le seguenti ragioni. Il nascere
della classe dei nobili, mi giovò appunto moltissimo per  poter  poi,  senza  la
taccia di invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà di per sé  sola,  svelarne
le ridicolezze, gli abusi ed i vizi; ma nel tempo stesso mi giovò  non  poco  la
utile e sana influenza di essa, per non contaminare  mai  in  nulla  la  nobiltà
dell'arte ch'io professava. Il nascere agiato, mi fece  libero  e  puro;  né  mi
lasciò servire ad altri che al vero. L'onestà, dei parenti fece sí, che  non  ho
dovuto mai arrossire dell'esser io nobile. Onde, qualunque di  queste  tre  cose
fosse mancata ai miei natali, ne sarebbe di necessità venuto  assai  minoramento
alle diverse mie opere; a sarei quindi stato per avventura o peggior filosofo, o
peggior uomo, di quello che forse  non  sarò  stato.  Il  mio  padre  chiamavasi
Antonio Alfieri; la madre, Monica Maillard di Tournon.  Era  questa  di  origine
savoiarda, come i barbari di lei cognomi dimostrano: ma i suoi erano già da gran
tempo stabiliti in Torino. Il mio  padre  era  un  uomo  purissimo  di  costumi,
vissuto sempre senza impiego nessuno, e non  contaminato  da  alcuna  ambizione;
secondo che ho inteso dir sempre da chi l'avea conosciuto. Provveduto di beni di
fortuna sufficienti al suo grado, e di una giusta moderazione nei desideri, egli
visse bastantemente felice. In età di oltre cinquantacinque anni invaghitosi  di
mia madre, la quale, benchè giovanissima, era allora già vedova del marchese  di
Cacherano, gentiluomo astigiano, la sposò. Una figlia femmina che avea di  quasi
due anni preceduto il mio nascimento, avea piú che mai invogliato e insperanzito
il mio buon genitore di aver prole maschia: onde fu oltre  modo  festeggiato  il
mio arrivo. Non so se egli si rallegrasse di questo come padre attempato, o come
cavaliere assai tenero del nome suo e della perpetuità di sua  stirpe:  crederei
che di questi due affetti si componesse in parte eguale la di lui  gioia.  Fatto
si è, che datomi ad allattare in un borghetto distante circa due miglia da Asti,
chiamato Rovigliasco, egli quasi ogni giorno ci  veniva  a  piedi  e  vedermivi,
essendo uomo alla buona e di semplicissime maniere. Ma  ritrovandosi  già  oltre
l'anno sessagesimo di sua età, ancorchè fosse vegeto e robusto, tuttavia  quello
strapazzo continuo, non badando egli né a rigor di stagione né ad altro, fe'  sí
che riscaldatosi un giorno oltre modo in quella  sua  periodica  visita  che  mi
faceva, si prese una puntura di cui in pochi giorni morí. Io non compiva  allora
per anco il primo anno della mia vita. Rimase mia  madre  incinta  di  un  altro
figlio maschio, il quale morí poi nella sua prima età. Le  restavano  dunque  un
maschio e una femmina di mio padre, e due femmine ed un maschio del di lei primo
marito, marchese di Cacherano. Ma essa, benchè vedova due volte, trovandosi pure
assai giovine ancora, passò alle terze nozze col cavaliere Giacinto  Alfieri  di
Magliano, cadetto di una casa dello stesso nome della mia,  ma  di  altro  ramo.
Questo cavaliere Giacinto, per la morte poi  del  di  lui  primogenito  che  non
lasciò figli, divenne col tempo erede di tutto il suo, e si ritrovò agiatissimo.
La mia ottima madre trovò una perfetta felicità con  questo  cavalier  Giacinto,
che era di età all'incirca alla sua, di  bellissimo  aspetto,  di  signorili  ed
illibati costumi: onde ella visse in una beatissima ed esemplare unione con lui;
e ancora dura,  mentre  io  sto  scrivendo  questa  mia  vita  in  età  di  anni
quarantuno. Onde da piú di 37 anni vivono questi due  coniugi  vivo  esempio  di
ogni  virtú  domestica,  amati,  rispettati,  e  ammirati  da   tutti   i   loro
concittadini; e massimamente mia madre, per la sua ardentissima eroica pietà con
cui si è assolutamente consecrata al sollievo e servizio  dei  poveri.  Ella  ha
successivamente in questo decorso di tempo perduti e il primo maschio del  primo
marito e la seconda femmina; cosí pure i due soli maschi del terzo,  onde  nella
sua ultima età io solo di maschi le rimango; e per le fatali mie circostanze non
posso star presso di lei; cosa di cui mi rammarico spessissimo: ma assai piú  mi
dorrebbe, ed a nessun conto ne vorrei stare continuamente lontano, se non  fossi
ben certo ch'ella e nel suo forte e sublime carattere, e nella sua vera pietà ha
ritrovato un amplissimo compenso a  questa  sua  privazione  dei  figli.  Mi  si
perdoni questa forse inutile digressione, in favor di una madre stimabilissima.



CAPITOLO SECONDO Reminiscenze dell'infanzia.

Ripigliando adunque a parlare della mia  primissima  età,  dico  che  di  quella
stupida vegetazione infantile, non mi è rimasta altra memoria se non  se  quella
d'uno zio paterno, il quale avendo io tre anni  in  quattr'anni,  mi  facea  por
ritto su un antico cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi
confetti. Io non mi ricordava quasi punto di lui,  né  altro  me  n'era  rimasto
fuorch'egli portava certi scarponi riquadrati in  punta.  Molti  anni  dopo,  la
prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che  portano  pure
la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo, né  mai
piú veduto da me da che io aveva uso di ragione, la subitanea  vista  di  quella
forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi  richiamava  ad  un  tratto  tutte
quelle sensazioni primitive ch'io aveva provate già nel ricevere le carezze e  i
confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino  dei  confetti
mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un  subito  nella  fantasia.  Mi  sono
lasciata uscir di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula
sul meccanismo delle nostre idee, e sull'affinità dei pensieri colle sensazioni.
Nell'età di cinque anni circa, dal mal de' pondi fui ridotto in fine; e mi  pare
di aver nella mente tuttavia un certo barlume de' miei patimenti;  e  che  senza
aver idea nessuna di quello che fosse la morte, pure la desiderava, come fine di
dolore; perché quando era morto quel  mio  fratello  minore  avea  sentito  dire
ch'egli  era  diventato  un  angioletto.  Per  quanti  sforzi  io  abbia   fatto
spessissimo per raccogliere le idee primitive,  o  sia  le  sensazioni  ricevute
prima de' sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne altre che queste due. La mia
sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre,  eramo  passati  dalla
casa paterna ad abitare con lei nella casa del patrigno, il quale pure ci fu piú
che padre per quel tempo che ci stemmo. La figlia ed il figlio del  primo  letto
rimasti, furono  successivamente  inviati  a  Torino,  l'uno  nel  collegio  de'
Gesuiti, l'altra nel monastero; e poco dopo fu anche posta in monastero,  ma  in
Asti stessa, la mia sorella  Giulia,  essendo  io  vicino  ai  sett'anni.  E  di
quest'avvenimento domestico mi ricordo benissimo, come del primo punto in cui le
facoltà mie sensitive diedero cenno di sé. Mi sono presentissimi i dolori  e  le
lagrime ch'io versai in quella  separazione  di  tetto  solamente,  che  pure  a
principio non impediva ch'io la visitassi ogni giorno. E speculando poi dopo  su
quegli effetti e sintomi del  cuore  provati  allora,  trovo  essere  stati  per
l'appunto quegli stessi che poi in appresso provai quando nel bollore degli anni
giovenili mi trovai costretto a dividermi da una qualche  amata  mia  donna;  ed
anche nel separarmi da un qualche vero amico, che tre o quattro  successivamente
ne ho pure avuti finora: fortuna che non sarà toccata a  tanti  altri,  che  gli
avranno forse meritati piú di me. Dalla reminiscenza di quel  mio  primo  dolore
del cuore, ne ho poi dedotta la prova che tutti gli  amori  dell'uomo,  ancorchè
diversi, hanno lo stesso motore. Rimasto dunque io solo di tutti i  figli  nella
casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete,  chiamato  Don  Ivaldi,  il
quale m'insegnò cominciando dal compitare e scrivere, fino alla  classe  quarta,
in cui io spiegava non male,  per  quanto  diceva  il  maestro  alcune  vite  di
Cornelio Nipote, e le solite favole di Fedro. Ma il buon prete era  egli  stesso
ignorantuccio, a quel ch'io combinai poi dopo; e se dopo i nov'anni mi  avessero
lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei imparato piú nulla.  I  parenti
erano anch'essi ignorantissimi, e spesso  udiva  loro  ripetere,  quella  usuale
massima dei nostri nobili di allora: che ad un signore  non  era  necessario  di
diventare un dottore. Io nondimeno aveva per natura una certa inclinazione  allo
studio, e specialmente dopo che uscí di casa  la  sorella,  quel  ritrovarmi  in
solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento.



CAPITOLO TERZO. Primi sintomi di carattere appassionato.

Ma qui mi occorre di notare un'altra particolarità  assai  strana,  quanto  allo
sviluppo delle mie  facoltà  amatorie.  La  privazione  della  sorella  mi  avea
lasciato addolorato per lungo tempo, e molto  piú  serio  in  appresso.  Le  mie
visite a quell'amata sorella erano sempre andate diradando, perché essendo sotto
il maestro, e dovendo attendere allo studio,  mi  si  concedeano  solamente  nei
giorni di vacanza o di festa, e non sempre. Una tal quale consolazione di quella
mia solitudine mi si era andata facendo sentire a poco a poco nell'assuefarmi ad
andare ogni giorno alla chiesa del  Carmine  attigua  alla  nostra  casa;  e  di
sentirvi spesso della musica, e di vedervi uffiziare quei frati, e far tutte  le
cerimonie della messa  cantata,  processione  e  simili.  In  capo  a  piú  mesi
nonpensava piú tanto alla sorella, ed in capo a piú altri, non ci pensava  quasi
piú niente, e non desiderava altro che di esser condotto  mattina  e  giorno  al
Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di mia sorella in poi,  la  quale  aveva
circa nov'anni quando uscí di casa, non avea piú veduto altro viso  di  ragazza,
né di giovane, fuorché certi fraticelli novizi del Carmine,  che  poteano  avere
tra i  quattordici  e  sedici  anni  all'incirca,  i  quali  coi  loro  roccetti
assistevano alle diverse funzioni di chiesa; questi loro visi giovanili,  e  non
dissimili da' visi donneschi, aveano lasciato nel mio tenero ed inesperto  cuore
a un di presso quella stessa traccia e quel desiderio di loro, che  mi  vi  avea
già impresso il viso della sorella. E questo insomma, sotto tanti e  sí  diversi
aspetti, era amore; come poi pienamente conobbi, e me ne accertai parecchi  anni
dopo, riflettendovi su; perché di quanto io  allora  sentissi  o  facessi  nulla
affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale.  Ma  questo  mio  innocente
amore per quei novizi giunse tant'oltre, che io sempre pensava ad essi  ed  alle
loro diverse funzioni; ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro  devoti
ceri in mano, servienti la messa con viso compunto ed angelico, ora coi turiboli
incensando l'altare; e tutto assorto in  codeste  immagini,  trascurava  i  miei
studi, ed ogni occupazione, o compagnia, mi noiava. Un  giorno  fra  gli  altri,
stando fuori di casa il mio maestro, trovatomi solo in camera,  cercai  ne'  due
vocabolari latino e italiano l'articolo  frati,  e  cassata  in  ambedue  quella
parola, vi scrissi Padri: cosí credendomi di nobilitare, o che  so  io  d'altro,
quei novizietti, ch'io vedeva ogni giorno, e da  cui  non  sapeva  assolutamente
quello ch'io mi volessi. L'aver  sentito  alcune  volte  con  qualche  disprezzo
articolare la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di  Padre,  erano  la
sola cagione per cui m'indussi a correggere quei dizionari: e codeste correzioni
fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre  con
gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, né  a  tal
cosa certamente pensando, non se n'avvide poi  mai.  Chiunque  vorrà  riflettere
alquanto su quest'inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni dell'uomo,  non
la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare. Da questi
siffatti effetti d'amore  ingnoto  intieramente  a  me  stesso,  ma  pure  tanto
operante  nella  mia  fantasia,  nasceva,  per  quanto  ora  credo,   quell'umor
malinconico assai, che a poco a poco s'insignoriva di me, e dominava poi  sempre
su tutte le altre qualità dell'indole mia. Fra i sette ed  ott'anni,  trovandomi
un giorno in queste disposizioni malinconiche,  occasionate  forse  anche  dalla
salute che era gracile anzi che no, visto uscire il  maestro,  e  il  servitore,
corsi fuori dal mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo  cortile,
dove eravi intorno intorno molt'erba. E tosto mi misi a  strapparne  colle  mani
quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingoiarne quanta piú  ne
poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so  da
chi, né come, né quando, che v'era un'erba detta cicuta che avvelenava e  faceva
morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il
morire si fosse; eppure, seguendo cosí un non so quale istinto naturale misto di
un dolore di cui m'era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a  mangiar  di
quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse  anco  essere  della  cicuta.  Ma
ributtato poi  dall'insopportabile  amarezza  e  crudità  d'un  tal  pascolo,  e
sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell'annesso giardino,  dove  non
veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente di tutta l'erba  ingoiata,  e
tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito  con  qualche  doloruzzo  di
stomaco e di corpo. Tornò frattanto il maestro, che di nulla si  avvide,  ed  io
nulla dissi. Poco dopo si dovè andare a tavola, e mia madre vedendomi gli  occhi
gonfi e rossi, come sogliono  rimanere  dopo  gli  sforzi  del  vomito,  domandò
insistendo e volle assolutamente sapere quel che fosse; ed oltre i comandi della
madre mi andavano anche sempre piú punzecchiando i dolori di corpo, sí ch'io non
potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a  tacere,  ed  a
vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi;
finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e  poi  le
labbra verdiccie, che io  non  avea  pensato  di  risciacquarmele,  spaventatasi
molto, s'alza, si approssima a me, mi parla dell'insolito  color  delle  labbra,
m'incalza e sforza a rispondere, finchè vinto  dal  timore  e  dolore  io  tutto
confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggiero  rimedio,  e  nessun
altro male ne segue; fuorché per piú giorni fui rinchiuso in camera per castigo;
e quindi nuovo pascolo, e fomento all'umor malinconico.



CAPITOLO QUARTO. Sviluppo dell'indole indicato da alcuni fattarelli.

L'indole, che io andava manifestando in quei primi anni della nascente  ragione,
era questa. Taciturno e placido  per  lo  piú;  ma  alle  volte  loquacissimo  e
vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrari;  ostinato  e  restío  contro
alla  forza,  pieghevolissimo  agli  avvisi  amorevoli;  rattenuto  piú  che  da
nessun'altra  cosa  di  essere  sgridato;  suscettibile  di   vergognarmi   fino
all'eccesso, e inflessibile se io veniva preso a  ritroso.  Ma  per  meglio  dar
conto ad altrui e a me stesso di quelle qualità primitive, che la natura mi avea
improntate nell'animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi in quella  prima
età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo  e  che  ritrarranno  al
vivo il mio carattere. Di quanti gastighi  mi  si  potessero  dare,  quello  che
smisuratamente mi addolorava, e da segno di farmi ammalare, e che perciò non  mi
fu dato che due volte sole, era di mandarmi alla messa colla reticella da  notte
in capo; assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta  ch'io
ci fui condannato (né mi ricordo piú del perché) venni  dunque  strascinato  per
mano dal maestro alla vicinissima Chiesa del Carmine; chiesa  abbandonata,  dove
non si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua  vastità:  tuttavia  sí
fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per  piú  di  tre  mesi  poi  rimasi
irreprensibile. Tra le ragioni ch'io sono andato cercando in appresso  entro  di
me medesimo, per ben conoscere il fonte d'un simile effetto, due  principalmente
ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L'una si era, che io  mi
credeva gli occhi di tutti  doversi  necessariamente  affissare  su  quella  mia
reticella, e ch'io doveva esser molto sconcio e difforme in codesto  assetto,  e
che  tutti  mi  terrebbero  per  un  vero  malfattore  vedendomi   punito   cosí
orribilmente. L'altra, si era ch'io temeva  di  esser  visto  cosí  dagli  amati
novizi; e questo mi passava veramente il  cuore.  Or  mira,  o  lettore,  in  me
omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomoni sono stati  o  saranno;  che
tutti  siam  pur  sempre,  a  ben  prendere,  bambini  perpetui.  Ma   l'effetto
straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito  di  gioia  i  miei
parenti e il  maestro;  onde  ad  ogni  ombra  di  mancamento,  minacciatami  la
reticella abborrita, io rientrava immediatamente  nel  dovere,  tremando.  Pure,
essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del  quale
mi occorse di articolare una solennissima bugia alla signora madre, mi fu di bel
nuovo sentenziata la reticella; e di piú, che in vece della deserta  Chiesa  del
Carmine, verrei condotto cosí a quella di S. Martino, distante  da  casa,  posta
nel bel centro della città e frequentatissima su l'ora del mezzo giorno da tutti
gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual  dolore  fu  il  mio!  pregai,  piansi,  mi
disperai, tutto invano. Quella notte ch'io mi credei dover essere l'ultima della
mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo  mai  poi  di  averne  in
nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne  alfin  l'ora;  inreticellato,
piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio,  e  spinto
innanzi dal servitore per di dietro, e in tal modo traversai due o  tre  strade,
dove non era gente nessuna; ma  tosto  che  si  entrò  nelle  vie  abitate,  che
s'avvicinavano alla piazza e chiesa di San Martino, io immediatamente cessai dal
piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi  tacito,
e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di  passare  inosservato,
nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco  appena
la mia statura giungeva. Arrivai nella piena chiesa, guidato per mano come  orbo
ch'io era; che in fatti chiusi gli occhi all'ingresso, non gli apersi piú finché
non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai
mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all'uscire,  tornai
a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per  sempre.  Non  volli  in
quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere. E fu tale in somma e
tanto il dolore, e la tensione d'animo, che mi ammalai per piú  giorni;  né  mai
piú si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era  lo  spavento
che cagionò alla amorosissima madre la disperazione  ch'io  ne  mostrai.  Ed  io
parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi  sa  s'io  non
devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito  in  appresso  un  degli
uomini i meno bugiardi ch'io conoscessi. Altra storietta. Era venuta in Asti  la
mia nonna materna, matrona di assai gran peso  in  Torino,  vedova  di  uno  dei
barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei  ragazzi
lasciano grand'impressione. Questa, dopo essere stata alcuni giorni con  la  mia
madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo,  io
non m'era per niente addimesticato con  lei,  come  selvatichetto  ch'io  m'era;
onde, stando essa poi per andarsene, mi  disse  ch'io  le  doveva  chiedere  una
qualche cosa, quella che piú mi potrebbe soddisfare, e  che  me  la  darebbe  di
certo. Io, a bella prima per  vergogna  e  timidezza  ed  irresoluzione,  ed  in
seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio sempre a rispondere la stessa e
sola parola: niente; e per quanto poi ci si provassero tutti  in  venti  diverse
maniere a rivoltarmi per pure estrarre  da  me  qualcosa  altro  che  non  fosse
quell'ineducatissimo niente, non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono  nel
persistere gl'interrogatori, se non che da  principio  il  niente  veniva  fuori
asciutto, e rotondo; poi verso il mezzo  veniva  fuori  con  voce  dispettosa  e
tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime,  interrotto  da  profondi
singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come io ben meritava, dalla loro  presenza,  e
chiusorni in camera, mi lasciarono godermi il mio cosí desiderato niente,  e  la
nonna partí. Ma quell'istesso io, che con tanta pertinacia aveva  ricusato  ogni
dono legittimo della nonna, piú giorni addietro le avea pure involato in un  suo
forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo
alcun tempo; ed io allora dissi, com'era vero, di averlo  preso  per  darlo  poi
alla mia sorella. Gran punizione mi toccò giustamente  per  codesto  furto;  ma,
benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure  non  mi  venne  piú  né
minacciato né dato il supplizio della reticella; tanta  era  piú  la  paura  che
aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi  riuscire  un
po' ladro; difetto, per il vero, da non temersi poi molto,  e  non  difficile  a
sradicarsi da qualunque ente non ha bisogno di esercitarlo.  Il  rispetto  delle
altrui proprietà, nasce e prospera prestissimo negl'individui che ne  posseggono
alcune legittime loro. E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la  mia  prima
confessione spirituale, fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro  mi  vi  andò
preparando, suggerendomi  egli  stesso  i  diversi  peccati  ch'io  poteva  aver
commessi, dei piú de' quali io ignorava persino i nomi. Fatto questo  preventivo
esame in comune con don Ivaldi, si fissò  il  giorno  in  cui  porterei  il  mio
fastelletto ai piedi del padre  Angelo,  carmelitano,  il  quale  era  anche  il
confessore di mia madre. Andai: né so quel che me gli dicessi, tanta era la  mia
natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti fatti e pensieri
ad una persona ch'io appena conosceva. Credo, che il frate facesse  egli  stesso
la  mia  confessione  per  me;  fatto  si  è  che  assolutomi  m'ingiungeva   di
prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal  atto
pubblicamente perdono di tutte le mie  mancanze  passate.  Questa  penitenza  mi
riusciva assai dura da ingoiare; non già, perché io avessi ribrezzo  nessuno  di
domandar perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di
chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque
a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti  in  sala,  mi
parve di vedere che gli occhi di tutti  si  fissassero  sopra  di  me;  onde  io
chinando i miei me ne stavo dubbioso e confuso  ed  immobile,  senza  accostarmi
alla tavola, dove ognuno andava pigliando il suo luogo; ma non mi  figurava  per
tutto ciò, che alcuno sapesse i  segreti  penitenziali  della  mia  confessione.
Fattomi poi un poco di coraggio, m'inoltro per sedermi  a  tavola;  ed  ecco  la
madre con occhio arcigno guardandomi, mi domanda se io  mi  ci  posso  veramente
sedere; se io ho fatto quel ch'era mio dovere di fare; e se in somma io  non  ho
nulla da rimproverare a me  stesso.  Ciascuno  di  questi  quesiti  mi  era  una
pugnalata nel cuore; rispondeva certamente per me l'addolorato mio viso;  ma  il
labbro non poteva proferir parola; né ci fu mezzo mai, che io  volessi  non  che
eseguire, ma né articolare né accennar pure la ingiuntami penitenza. E parimente
la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor  confessore.  Onde
la cosa finí, che ella perdé per quel giorno la prosternazione da  farglisi,  ed
io ci perdei il pranzo, e fors'anco l'assoluzione datami a  sí  duro  patto  dal
padre Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità di penetrare che  il
padre Angelo aveva concertato con mia madre la penitenza da ingiungermi.  Ma  il
core servendomi in ciò meglio assai dell'ingegno, contrassi d'allora in  poi  un
odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non  molta  propensione  in
appresso per quel sagramento ancorché  nelle  seguenti  confessioni  non  mi  si
ingiungesse poi mai piú nessuna pena pubblica.



CAPITOLO QUINTO Ultima storietta puerile.

Era venuto in  vacanza  in  Asti  il  mio  fratello  maggiore,  il  marchese  di
Cacherano, che da alcuni anni si stava  educando  in  Torino  nel  collegio  de'
Gesuiti. Egli era in età di circa anni quattordici al piú, ed io di otto. La  di
lui compagnia mi riusciva ad un tempo di sollievo e d'angustia. Siccome  io  non
lo avea mai conosciuto prima (essendomi  egli  fratello  uterino  soltanto),  io
veramente non mi sentiva quasi nessun amore per esso;  ma  siccome  egli  andava
pure un cotal poco ruzzando con me, una certa inclinazione per  lui  mi  sarebbe
venuta crescendo con l'assuefazione. Ma egli era tanto piú grande  di  me;  avea
piú libertà di me, piú danari, piú carezze dai genitori;  avea  già  vedute  piú
assai cose di me, abitando in Torino; aveva spiegato il Virgilio; e che  so  io,
tante altre cosarelle aveva egli, che io non  avea,  che  allora  finalmente  io
conobbi per la prima volta l'invidia. Ella non era però atroce,  poiché  non  mi
traeva ad odiare precisamente quell'individuo, ma  mi  faceva  ardentissimamente
desiderare di aver io le stesse cose, senza  però  volerle  togliere  a  lui.  E
questa credo io, che sia la diramazione delle due invidie, di cui,  l'una  negli
animi rei diventa poi l'odio assoluto contro chi ha  il  bene,  e  il  desiderio
d'impedirglielo, o toglierglielo, anche non lo acquistando per sé; l'altra,  nei
non rei, diventa sotto il nome di emulazione, o di gara, un'inquietissima  brama
di ottenere quelle cose stesse in eguale o maggior copia dell'altro. Oh quanto è
sottile, e invisibile quasi la differenza che passa fra  il  seme  delle  nostre
virtú e dei nostri vizi! Io dunque, con questo mio fratello  ora  ruzzando,  ora
bisticciando, e cavandone ora dei regalucci, ora dei  pugni,  mi  passava  tutta
quella state assai piú divertito del solito, essendo io fin allora stato  sempre
solo in casa; che non v'è pe' ragazzi maggior fastidio. Un giorno tra gli  altri
caldissimo, mentre tutti su la nona facevano la siesta, noi due stavamo  facendo
l'esercizio alla prussiana, che il mio fratello m'insegnava. Io,  nel  marciare,
in una voltata cado, e batto il capo sopra uno degli alari rimasti  per  incuria
nel camminetto sin dall'inverno precedente. L'alare, per essere tutto scassinato
e privo di quel pomo d'ottone  solito  ad  innestarvisi  su  le  due  punte  che
sporgono in fuori del camminetto, su una di esse mi venni quasi ad inchiodare la
testa un dito circa sopra l'occhio sinistro nel bel mezzo del sopraciglio. E  fu
la ferita cosí lunga e profonda, che tuttora  ne  porto,  e  porterò  sino  alla
tomba, la cicatrice visibilissima. Dalla caduta mi rizzai immediatamente  da  me
stesso, ed anzi gridai subito al fratello di non dir niente; tanto  piú  che  in
quel primo impeto non mi parea d'aver  sentito  nessunissimo  dolore,  ma  bensí
molta vergogna di essermi cosí mostrato un soldato male  in  gambe.  Ma  già  il
fratello era corso a risvegliare il maestro, e il romore era giunto alla  madre,
e tutta la casa era sottosopra. In quel frattempo, io che non avea punto gridato
né cadendo né rizzandomi, quando ebbi fatti alcuni passi verso il  tavolino,  al
sentirmi scorrere lungo il viso una cosa caldissima, portatevi  tosto  le  mani,
tosto che me le vidi ripiene di sangue cominciai allora  ad  urlare.  E  doveano
essere di semplice sbigottimento quegli urli, poiché mi ricordo  benissimo,  che
non sentii mai nessun dolore sinché non venne il chirurgo e cominciò a lavare  a
tastare e medicare la piaga. Questa durò alcune settimane, prima di rimarginare;
e per piú giorni dovei stare al buio, perché si temeva non  poco  per  l'occhio,
stante la infiammazione e gonfiezza smisurata, che vi si era messa. Essendo  poi
in convalescenza, ed avendo ancora gl'impiastri e le fasciature, andai pure  con
molto piacere alla messa al Carmine; benché certo  quell'assetto  spedalesco  mi
sfigurasse assai piú che non quella mia reticella  da  notte,  verde  e  pulita,
quale appunto  i  zerbini  d'Andalusía  portano  per  vezzo.  Ed  io  pure,  poi
viaggiando nelle Spagne la portai per civetteria ad imitazione di  essi.  Quella
fasciatura dunque non mi facea nessuna ripugnanza a  mostrarla  in  pubblico:  o
fosse, perché l'idea, di un pericolo corso mi lusingasse; o che,  per  un  misto
d'idee ancora informi nel mio capicino, io annettessi pure una qualche  idea  di
gloria a quella ferita. E cosí  bisogna  pure  che  fosse;  poiché,  senza  aver
presenti alla mente i moti dell'animo mio in quel punto, mi  ricordo  bensí  che
ogniqualvolta s'incontrava qualcuno che domandasse al prete  Ivaldi  cosa  fosse
quel  mio  capo  fasciato;  rispondendo  egli,  ch'io  era  cascato;  io  subito
soggiungeva del mio: facendo l'esercizio. Ed ecco, come nei giovanissimi  petti,
chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi  delle
virtú e dei vizi. Che questo certamente in me era un seme di amor di gloria; ma,
né il prete Ivaldi, né quanti altri mi  stavano  intorno,  non  facevano  simili
riflessioni. Circa un anno dopo, quel mio fratello maggiore, tornatosene in quel
frattempo in collegio a Torino,  infermò  gravemente  d'un  mal  di  petto,  che
degenerato in etisia, lo  menò  alla  tomba  in  alcuni  mesi.  Lo  cavarono  di
collegio, lo fecero tornare in Asti nella casa materna, e mi portarono in  villa
perché non lo vedessi; ed in fatti in quell'estate morí in Asti, senza ch'io  lo
rivedessi piú. In quel frattempo il mio  zio  paterno,  il  cavalier  Pellegrino
Alfieri, al quale era stata affidata la tutela de' miei beni sin dalla morte  di
mio padre, e che allora ritornava  di  un  suo  viaggio  in  Francia,  Olanda  e
Inghilterra, passando per Asti mi vide; ed avvistosi forse, come uomo  di  molto
ingegno ch'egli era, ch'io non imparerei  gran  cosa  continuando  quel  sistema
d'educazione, tornato a Torino, di lí a pochi mesi scrisse alla madre, che  egli
voleva assolutamente pormi nell'Accademia di Torino. La mia  partenza  si  trovò
dunque coincidere con la morte del fratello; onde io avrò sempre  presenti  alla
mente l'aspetto i gesti e le parole della mia addoloratissima madre, che  diceva
singhiozzando: "Mi è tolto l'uno da Dio, e per sempre: e quest'altro, chi sa per
quanto!". Ella non aveva allora dal suo terzo marito se non se una femmina;  due
maschi poi le nacquero successivamente, mentre io stavo in Accademia  a  Torino.
Quel suo dolore mi penetrò altamente; ma pure la  brama  di  veder  cose  nuove,
l'idea di dover tra pochi giorni viaggiar per le poste, io che usciva di  fresco
dall'aver fatto il primo mio viaggio in una villa distante  quindici  miglia  da
Asti, tirato da due placidissimi manzi; e cento altre simili  ideuzze  infantili
che la fantasia lusinghiera mi andava apprestando alla mente,  mi  alleggerivano
in gran parte il dolore del morto fratello, e dell'afflittissima madre. Ma pure,
quando si venne all'atto di dover partire, io mi ebbi  quasi  a  svenire,  e  mi
addolorò di dover abbandonare il maestro don  Ivaldi  forse  ancor  piú  che  lo
staccarmi dalla madre. Incalessato poi quasi per forza dal mio fattore, che  era
un vecchio destinato per accompagnarmi a Torino in casa dello  zio  dove  doveva
andare da prima, partii finalmente, scortato  anche  dal  servitore  destinatomi
fisso, che era un certo Andrea, alessandrino, giovine di  molta  sagacità  e  di
bastante educazione secondo il suo stato ed  il  nostro  paese,  dove  il  saper
leggere e scrivere non era allora comune. Era di luglio nel 1758,  non  so  qual
giorno, quando io lasciai la casa materna la mattina di buonissima  ora.  Piansi
durante tutta la prima posta; dove poi giunto,  nel  tempo  che  si  cambiava  i
cavalli, io volli scendere nel cortile, e sentendomi molto assetato senza  voler
domandare  un  bicchiere,  né  far  attinger  dell'acqua  per  me,   accostatomi
all'abbeveratoio de' cavalli, e tuffatovi rapidamente il maggior corno  del  mio
cappello, tanta  ne  bevvi  quanta  ne  attinsi.  L'aio  fattore,  avvisato  dai
postiglioni, subito vi accorse sgridandomi assai; ma io  gli  risposi,  che  chi
girava il mondo si doveva avvezzare a tai cose, e che un buon soldato non doveva
bere altrimente. Dove poi avessi io pescate  queste  idee  achillesche,  non  lo
saprei; stante che la madre mi aveva sempre educato assai  mollemente,  ed  anzi
con risguardi circa la salute affatto risibili. Era dunque anche questo in me un
impetino di natura gloriosa, il quale si sviluppava tosto che mi veniva concesso
di alzare un pocolino il capo da sotto il giogo. E qui darò fine a questa  prima
epoca della mia puerizia, entrando ora in un mondo alquanto men circoscritto,  e
potendo con maggior brevità, spero,  andarmi  dipingendo  anche  meglio.  Questo
primo squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi)  riuscirà
certamente inutilissimo  per  tutti  coloro,  che  stimandosi  uomini  si  vanno
scordando che l'uomo è una continuazione del bambino.


Epoca seconda

ADOLESCENZA Abbraccia otto anni d'ineducazione.

CAPITOLO PRIMO Partenza  dalla  casa  materna,  ed  ingresso  nell'Accademia  di
Torino, e descrizione di essa.

Eccomi or dunque per le poste correndo a quanto piú si poteva; in grazia che  io
al pagar della prima posta aveva intercesso presso al pagante fattore  a  favore
del primo postiglione per fargli  dar  grassa  mancia;  il  che  mi  avea  tosto
guadagnato il cuor del secondo. Onde costui andava come un fulmine, accennandomi
di tempo in tempo con l'occhio e un sorriso, che gli farei anche dare lo  stesso
dal fattore; il quale per esser egli vecchio ed obeso,  esauritosi  nella  prima
posta nel raccontarmi delle sciocche storiette per  consolarmi,  dormiva  allora
tenacissimamente e russava come un bue. Quel volar del calesse mi  dava  intanto
un piacere, di cui non avea mai provato l'eguale; perché nella carrozza  di  mia
madre, dove anche di radissimo avea posto il sedere, si andava di un  quarto  di
trotticello da far morire; ed anche in carrozza chiusa, non si gode  niente  dei
cavalli; ma all'incontro nel calesse nostro italiano uno ci si trova quasi su la
groppa di essi, e si gode moltissimo anche della vista del paese. Cosí dunque di
posta in posta, con una continua palpitazione  di  cuore  pel  gran  piacere  di
correre, e per la novità degli oggetti, arrivai finalmente a Torino verso  l'una
o le due dopo mezzo giorno. Era una giornata stupenda,  e  l'entrata  di  quella
città per la Porta Nuova, e la piazza di San Carlo  fino  all'Annunziata  presso
cui abitava il mio  zio,  essendo  tutto  quel  tratto  veramente  grandioso,  e
lietissimo all'occhio, mi aveva rapito, ed era come fuor di me  stesso.  Non  fu
poi cosí  lieta  la  sera;  perché  ritrovandomi  in  nuovo  albergo,  tra  visi
sconosciuti, senza la madre, senza il maestro,  con  la  faccia  dello  zio  che
appena aveva visto una altra volta, e che mi riusciva assai meno accarezzante, e
amoroso della madre; tutto questo mi fece ricadere nel dolore, e nel  pianto,  e
nel desiderio vivissimo di  tutte  quelle  cose  da  me  abbandonate  il  giorno
antecedente. Dopo alcuni dí, avvezzatomi poi alla novità, ripigliai e l'allegria
e la vivacità in un grado assai maggiore ch'io non avessi mostrata mai; ed  anzi
fu tanta, che allo zio parve assai troppa; e trovandomi  essere  un  diavoletto,
che gli metteva a soqquadro la casa, e che per non avere maestro che mi  facesse
far nulla, io perdeva assolutamente  il  mio  tempo,  in  vece  di  aspettare  a
mettermi in Accademia all'ottobre come s'era detto, mi  v'ingabbiò  fin  dal  dí
primo d'agosto dell'anno 1758. In età di nove anni e mezzo io mi ritrovai dunque
ad un tratto traspiantato in mezzo a persone  sconosciute,  allontanato  affatto
dai parenti, isolato, ed abbandonato per cosí dire a me  stesso;  perché  quella
specie di educazione pubblica (se chiamarla pur vorremo educazione)  in  nessuna
altra cosa fuorché negli studi, e anche Dio sa come, influiva su l'animo di quei
giovinetti. Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della  vita  ci
veniva dato. E chi ce l'avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il
mondo né per  teoria  né  per  pratica?  Era  quell'Accademia  un  sontuosissimo
edificio diviso in quattro lati, in mezzo di cui un immenso cortile. Due di essi
lati erano occupati dagli educandi; i due altri lati dal Regio teatro,  e  dagli
archivi del re. In faccia a questi per l'appunto era il lato che occupavamo noi,
chiamati del Secondo e Terzo Appartamento; in faccia al teatro stavano quei  del
Primo, di cui parlerò a suo  tempo.  La  galleria  superiore  del  lato  nostro,
chiamavasi Terzo Appartamento, ed era destinata ai piú ragazzi, ed  alle  scuole
inferiori; la galleria del primo piano, chiamata Secondo, era destinata  ai  piú
adulti; de' quali una metà od un terzo studiavano all'Università, altro edificio
assai prossimo all'Accademia; gli altri attendevano in casa agli studi militari.
Ciascuna  galleria  conteneva  almeno  quattro  camerate   di   undici   giovani
ciascheduna, cui presiedeva un pretuccio chiamato  assistente,  per  lo  piú  un
villan rivestito, a cui non si dava salario nessuno; e  con  la  tavola  sola  e
l'alloggio si tirava innanzi a  studiare  anch'egli  la  teologia,  o  la  legge
all'Università; ovvero  se  non  erano  anch'essi  studenti,  erano  dei  vecchi
ignorantissimi e  rozzissimi  preti.  Un  terzo  almeno  del  lato  ch'io  dissi
destinato al Primo Appartamento, era occupato dai paggi  del  re  in  numero  di
venti o venticinque, che erano totalmente separati da  noi,  all'angolo  opposto
del vasto, cortile, ed  attigui  agli  accennati  archivi.  Noi  dunque  giovani
studenti eramo assai male collocati cosí: fra un teatro, che non ci  toccava  di
entrarvi se non se cinque o sei sere in tutto il carnovale;  fra  i  paggi,  che
atteso il servizio di corte, le caccie, e le cavalcate, ci pareano godere di una
vita tanto piú libera e divagata della nostra; e tra i forestieri finalmente che
occupavano il Primo Appartamento, quasi ad esclusione dei paesani,  essendo  una
colluvie di tutti i  boreali,  inglesi  principalmente,  russi,  e  tedeschi,  e
d'altri stati d'Italia; e questa era piú una locanda che una educazione,  poiché
a niuna regola erano astretti, se non se al ritrovarsi la  sera  in  casa  prima
della mezza notte. Del resto, andavano, e a corte, e ai teatri, e nelle buone  e
nelle cattive compagnie, a loro intero piacimento. E per supplizio  maggiore  di
noi poverini del Secondo e Terzo Appartamento, la distribuzione  locale  portava
che ogni giorno per andare alla nostra cappella alla messa, ed  alle  scuole  di
ballo, e di scherma, dovevamo passare per le gallerie del Primo Appartamento,  e
quindi vederci continuamente in su gli occhi la sfrenata e insultante libertà di
quegli  altri;  durissimo  paragone  colla  severità  del  nostro  sistema,  che
chiamavamo andantemente galera. Chi fece quella distribuzione era uno stolido, e
non conosceva  punto  il  cuore  dell'uomo;  non  si  accorgendo  della  funesta
influenza che doveva avere in quei giovani animi quella continua vista di  tanti
proibiti pomi.



CAPITOLO SECONDO Primi, studi, pedanteschi, e malfatti.

Io era dunque collocato nel Terzo Appartamento, nella camerata detta  di  mezzo;
affidato alla guardia di quel servitore Andrea, che trovatosi cosí padrone di me
senza avere né la madre, né lo zio,  né  altro  mio  parente  che  lo  frenasse,
diventò un diavolo scatenato. Costui dunque mi tiranneggiava per tutte  le  cose
domestiche a suo pieno arbitrio. E cosí l'assistente  poi  faceva  di  me,  come
degli altri tutti, nelle cose dello studio, e della condotta usuale.  Il  giorno
dopo il mio ingresso nell'Accademia, venne da quei professori esaminata  la  mia
capacità negli studi, e fui giudicato per un forte quartano, da poter facilmente
in tre mesi di assidua applicazione entrare in terza. Ed in fatti mi vi  accinsi
di assai buon animo, e conosciuta ivi  per  la  prima  volta  l'utilissima  gara
dell'emulazione, a competenza di alcuni altri anche  maggiori  di  me  per  età,
ricevuto poi un nuovo esame nel novembre, fui assunto alla classe di terza.  Era
il maestro di quella un certo don Degiovanni; prete, di forse minor dottrina del
mio buon Ivaldi; e che aveva inoltre assai minore affetto e sollecitudine per  i
fatti miei, dovendo  egli  badare  alla  meglio,  e  badandovi  alla  peggio,  a
quindici, o sedici suoi scolari, che tanti ne avea. Tirandomi  cosí  innanzi  in
quella scoluccia, asino, fra asini, e sotto un asino, io vi spiegava il Cornelio
Nipote, alcune egloghe di Virgilio, e simili; vi si facevano certi temi sguaiati
e sciocchissimi; talché in ogni altro collegio di  scuole  ben  dirette,  quella
sarebbe stata al piú piú una pessima quarta. Io  non  era  mai  l'ultimo  fra  i
compagni; l'emulazione mi spronava finché avessi o superato o  agguagliato  quel
giovine che passava per il primo; ma pervenuto  poi  io  al  primato,  tosto  mi
rintiepidiva e cadea nel torpore. Ed era io forse  scusabile,  in  quanto  nulla
poteva agguagliarsi alla noia e insipidità di cosí fatti studi.  Si  traducevano
le Vite di Cornelio Nipote, ma nessuno di  noi,  e  forse  neppure  il  maestro,
sapeva chi si fossero stati quegli uomini di cui si traducevan le vite, né  dove
fossero i loro paesi, né in quali tempi, né in quali governi vivessero, né  cosa
si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte,  o  false,  o
confuse; nessuno scopo  in  chi  insegnava;  nessunissimo  allettamento  in  chi
imparava. Erano  insomma  dei  vergognosissimi  perdigiorni;  non  c'invigilando
nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo  si  viene  a
tradire senza rimedio la gioventú. Passato quasi che tutto l'anno 1759 in simili
studi, verso il novembre fui promosso  all'Umanità.  Il  maestro  di  essa,  don
Amatis, era un prete di molto ingegno e sagacità,  e  di  sufficiente  dottrina.
Sotto di questo, io feci assai maggior profitto; e per quanto quel metodo di mal
intesi studi lo comportasse, mi rinforzai  bastantemente  nella  lingua  latina.
L'emulazione mi si accrebbe, per l'incontro di un giovine che competeva  con  me
nel fare il tema; ed alcuna volta mi superava; ma vieppiú poi mi vinceva  sempre
negli esercizi della  memoria,  recitando  egli  sino  a  seicento  versi  delle
Georgiche di Virgilio d'un fiato, senza sbagliare una sillaba, e non potendo  io
arrivare neppure a quattrocento, ed anche non bene; cosa, di cui  mi  angustiava
moltissimo. E per quanto mi vo ora ricordando dei moti del mio animo  in  quelle
battaglie puerili, mi pare che la mia indole non fosse di cattiva natura; perché
nell'atto dell'essere vinto da quei dugento versi di piú, io  mi  sentiva  bensí
soffocar dalla collera,  e  spesso  prorompeva  in  un  dirottissimo  pianto,  e
talvolta anche in atrocissime ingiurie contro al rivale;  ma  pure  poi,  o  sia
ch'egli si fosse migliore di me, o anch'io mi placassi non so come, essendo  noi
di forza di mano uguali all'incirca, non ci disputavamo quasi mai, e sul  totale
eramo quasi amici. Io credo, che la mia  non  piccola  ambizioncella  ritrovasse
consolazione e compenso dell'inferiorità della memoria, nel premio del tema, che
quasi sempre era mio; ed inoltre, io non gli poteva portar odio, perché egli era
bellissimo; ed io, anche senza secondi fini, sempre sono  stato  assai  propenso
per la bellezza, sí degli animali che degli uomini, e d'ogni cosa; a  segno  che
la bellezza per alcun tempo nella mia mente preoccupa il giudizio, e  pregiudica
spesso al vero. In tutto quell'anno dell'Umanità, i miei costumi si conservarono
ancora innocenti e purissimi; se non in quanto la  natura  da  sé  stessa  senza
ch'io nulla sapessi, me li andava pure sturbando. Mi capitò in  quell'anno  alle
mani, e non mi posso ricordare il come, un Ariosto,  l'opere  tutte  in  quattro
tometti. Non lo comprai certo, perché danari non  avea;  non  lo  rubai,  perché
delle cose rubate ho conservata memoria vivissima; ho un certo barlume,  che  lo
acquistassi ad un tomo per volta per via di baratto da un altro compagno, che lo
scambiasse meco col pollo che ci era dato per lo piú ogni domenica, un  mezzo  a
ciascuno; sicché il mio primo Ariosto mi sarebbe costato la privazione di un par
di polli in quattro settimane. Ma tutto questo  non  lo  posso  accertare  a  me
stesso per l'appunto. E mi spiace; perché avrei caro di sapere se io ho bevuto i
primi primi sorsi di poesia  a  spese  dello  stomaco,  digiunando  del  miglior
boccone che ci toccasse mai. E non era questo il solo baratto ch'io mi  facessi,
perché quel benedetto semipollo domenicale, io mi ricordo benissimo  di  non  lo
aver mangiato mai per dei se' mesi continui, perché lo avea pattuito in iscambio
di certe storie che  ci  raccontava  un  certo  Lignàna,  il  quale  essendo  un
divoratore, aguzzavasi l'intelletto per ritondarsi la pancia;  e  non  ammetteva
ascoltatori dei suoi racconti, se non se a retribuzione di vettovaglie. Comunque
accadesse dunque questa mia  acquisizione,  io  m'ebbi  un  Ariosto.  Lo  andava
leggendo qua e là senza metodo, e non  intendeva  neppur  per  metà  quel  ch'io
leggeva. Si giudichi da ciò quali dovessero essere quegli studi da me fatti  fin
a quel punto; poiché io, il principe di codesti umanisti, che traduceva  pur  le
Georgiche, assai piú difficili dell'Eneide, in prosa italiana,  era  imbrogliato
d'intendere il piú facile dei nostri poeti. Sempre mi ricorderò, che  nel  canto
d'Alcina, a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava
facendo tutto intelletto per capir bene: ma troppi dati  mi  mancavano  di  ogni
genere per arrivarci. Onde i  due  ultimi  versi  di  quella  stanza,  Non  cosí
strettamente edera preme, non mi era  mai  possibile  d'intenderli;  e  tenevamo
consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente piú di  me,
e ci perdevamo in un mare di congetture. Questa furtiva lettura  e  commento  su
l'Ariosto finí, che l'assistente essendosi avvisto che andava per le mani nostre
un libruccio il quale veniva immediatamente occultato al  di  lui  apparire,  lo
scoprí, lo confiscò, e  fattisi  dar  gli  altri  tomi,  tutti  li  consegnò  al
sottopriore, e noi poetini restammo orbati d'ogni poetica guida, e scornati.



CAPITOLO TERZO

A quali de' miei parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza.

Nello spazio di questi due primi anni d'Accademia, io imparai dunque pochissimo,
e di gran lunga peggiorai la salute del corpo,  stante  la  total  differenza  e
quantità di cibi, ed il molto strapazzo, e il non abbastanza  dormire;  cose  in
tutto contrarie al primo metodo tenuto sino ai nove anni nella casa materna.  Io
non cresceva punto di statura, e pareva un candelotto  di  cera  sottilissimo  e
pallidissimo. Molti malanni successivamente mi andarono travagliando. L'uno, tra
gli altri, cominciò con lo scoppiarmi in piú di venti luoghi la testa, uscendone
un umore viscoso e fetente, preceduto da un tale dolor di capo, che le tempie mi
si annerirono, e la pelle come incarbonita sfogliandosi  piú  volte  in  diversi
tempi mi si cambiò tutta in su la fronte e le tempie.  Il  mio  zio  paterno  il
cavalier Pellegrino Alfieri, era stato fatto governatore della città  di  Cuneo,
dove risiedeva almeno otto mesi dell'anno; onde non mi rimaneva in Torino  altri
parenti che quei della madre, la casa Tornone, ed un cugino di  mio  padre,  mio
semi-zio, chiamato il conte Benedetto Alfieri. Era questi  il  primo  architetto
del re; ed alloggiava contiguamente a quello stesso  Regio  teatro  da  lui  con
tanta eleganza e maestria ideato, e fatto eseguire. Io andava  qualche  volta  a
pranzo  da  lui,  ed  alcune  volte  a  visitarlo;  il  che   stava   totalmente
nell'arbitrio di quel mio Andrea, che  dispoticamente  mi  governava,  allegando
sempre degli ordini e delle lettere dello zio di Cuneo. Era quel conte Benedetto
un veramente degn'uomo, ed ottimo di  visceri.  Egli  mi  amava  ed  accarezzava
moltissimo; era appassionatissimo dell'arte sua; semplicissimo di  carattere,  e
digiuno quasi d'ogni altra cosa, che non spettasse  le  belle  arti.  Tra  molte
altre cose, io argomento quella sua passione smisurata per  l'architettura,  dal
parlarmi spessissimo, e con entusiasmo, a me ragazzaccio ignorante  d'ogni  arte
ch'io m'era, del divino Michelangelo Buonarroti, ch'egli non nominava mai  senza
o abbassare il capo, o alzarsi la berretta, con un rispetto ed  una  compunzione
che non mi usciranno mai della mente. Egli aveva fatta gran parte della vita  in
Roma; era pieno del bello antico; ma pure poi alle volte  nel  suo  architettare
prevaricò dal buon gusto per adattarsi ai moderni. E di ciò fa fede  quella  sua
bizzarra chiesa di Carignano, fatta a foggia  di  ventaglio.  Ma  tali  picciole
macchie ha egli ben ampiamente  cancellate  col  teatro  sopracitato,  la  volta
dottissima ed audacissima della Cavallerizza del re, il Salone di  Stupinigi,  e
la soda e dignitosa facciata del tempio di San Pietro in Ginevra. Mancava  forse
soltanto alla di lui facoltà architettonica una piú larga borsa di quel  che  si
fosse quella del re di Sardegna e ciò testimoniano i molti e  grandiosi  disegni
ch'egli lasciò morendo, e che  furono  dal  re  ritirati,  in  cui  v'erano  dei
progetti variatissimi per diversi abbellimenti da farsi in  Torino,  e  tra  gli
altri per rifabbricare quel muro sconcissimo, che divide la piazza del  Castello
dalla piazza  del  Palazzo  Reale;  muro  che  si  chiama,  non  so  perché,  il
Padiglione. Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar di quel mio zio,  che  sapea
pure far qualche cosa; ed ora soltanto ne conosco tutto il pregio. Ma quando  io
era in Accademia, egli, benché amorevolissimo per me, mi riusciva pure noiosetto
anzi che no; e, vedi stortura di giudizio, e forza di false massime, la cosa che
di esso mi seccava il piú era il suo benedetto parlar toscano, ch'egli  dal  suo
soggiorno in Roma in poi mai piú non avea voluto smettere; ancorché  il  parlare
italiano sia un vero contrabbando in Torino, città anfibia. Ma tanta è  però  la
forza del bello e del vero, che la gente stessa che al principio quando  il  mio
zio ripatriò, si burlava del di lui toscaneggiare, dopo  alcun  tempo  avvistisi
poi ch'egli veramente parlava una lingua, ed essi smozzicavano un barbaro gergo,
tutti poi a prova favellando con lui  andavano  anch'essi  balbettando  il  loro
toscano; e massimamente quei tanti signori, che volevano rabberciare un poco  le
loro case e farle assomigliar dei palazzi: opere futili in cui gratuitamente per
amicizia quell'ottimo uomo buttava la metà del suo tempo compiacendo ad  altrui,
e spiacendo, come gli sentii dire tante volte, a sé  stesso  ed  all'arte.  Onde
molte e molte case dei primi di Torino da lui abbellite o accresciute, con atri,
e scale, e portoni, e comodi interni, resteranno un monumento della  facile  sua
benignità nel servire gli amici o quelli che se gli dicevano  tali.  Questo  mio
zio aveva anche fatto il viaggio di Napoli insieme con  mio  padre  suo  cugino,
circa un par d'anni prima che questi si accasasse con mia madre; e da lui  seppi
poi varie cose concernenti mio padre. Tra l'altre, che essendo  essi  andati  al
Vesuvio, mio padre a viva forza si era voluto far calar dentro sino alla  crosta
del cratere interno, assai ben profonda; il che praticavasi allora per mezzo  di
certe funi maneggiate da gente che stava sulla sommità della  voragine  esterna.
Circa vent'anni dopo, ch'io ci fui per la prima volta, trovai ogni cosa  mutata,
ed impossibile quella calata. Ma è tempo, ch'io ritorni a bomba.



CAPITOLO QUARTO

Continuazione di quei non-studi.

Non c'essendo quasi dunque nessuno de' miei che  badasse  altrimenti  a  me,  io
andava perdendo i  miei  piú  begli  anni  non  imparando  quasi  che  nulla,  e
deteriorando di giorno in giorno in  salute;  a  tal  segno,  ch'essendo  sempre
infermiccio, e piagato or qua or là in varie parti del corpo, io  era  fatto  lo
scherno continuo dei compagni, che mi denominavano col  gentilissimo  titolo  di
carogna; ed i piú spiritosi ed umani ci aggiungevano anco l'epiteto di fradicia.
Quello stato di salute mi cagionava delle fierissime  malinconie,  e  quindi  si
radicava in me sempre piú l'amore della solitudine. Nell'anno  1760  passai  con
tutto ciò in Rettorica, perché quei mali tanto mi lasciavano di quando in quando
studicchiare, e poco ci volea per far quelle classi. Ma il maestro di  Rettorica
trovandosi essere assai meno abile di  quello  d'Umanità,  benché  ci  spiegasse
l'Eneide, e ci facesse far dei versi latini, mi parve, quanto a me, che sotto di
lui io andassi piuttosto indietro che  innanzi  nell'intelligenza  della  lingua
latina. Ma pure, poiché io non era l'ultimo tra quegli  altri  scolari,  da  ciò
argomento che dovesse  esser  lo  stesso  di  loro.  In  quell'anno  di  pretesa
rettorica, mi venne fatto di ricuperare il mio Ariostino, rubandolo  a  un  tomo
per volta al sottopriore, che se l'era innestato fra gli altri suoi libri in  un
suo scaffale esposto alla vista. E mi prestò opportunità di ciò fare,  il  tempo
in cui andavamo in camera sua alcuni  privilegiati,  per  vedere  dalle  di  lui
finestre giuocare al pallon grosso, perché dalla camera sua situata di faccia al
battitore, si godeva assai meglio il giuoco che non dalle  gallerie  nostre  che
stavangli di fianco. Io aveva l'avvertenza di ben  restringere  i  tomi  vicini,
tosto che ne avea levato uno; e cosí mi riuscí in quattro giorni consecutivi  di
riavere i miei quattro tometti, dei quali feci gran festa in me stesso,  ma  non
lo dissi a chi che si fosse. Ma trovo pure, riandando quei tempi fra me, che  da
quella ricuperazione in poi, non lo lessi quasi piú niente;  e  le  due  ragioni
(oltre forse quella della poca salute che era la principale) per cui mi pare che
lo trascurassi, erano la difficoltà dell'intenderlo  piuttosto  accresciuta  che
scemata (vedi rettorico!) e l'altra era quella continua spezzatura delle  storie
ariostesche, che nel meglio del fatto ti pianta lí con un palmo  di  naso;  cosa
che me ne dispiace anco adesso,  perché  contraria  al  vero,  e  distruggitrice
dell'effetto  prodotto  innanzi.  E  siccome  io  non  sapeva  dove  andarmi   a
raccapezzare il seguito del fatto, finiva col lasciarlo stare. Del Tasso, che al
carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io  non  ne  sapeva  neppure  il
nome. Mi capitò allora, e non mi sovviene neppure  come,  l'Eneide  dell'Annibal
Caro, e la lessi con avidità e furore piú d'una volta, appassionandomi molto per
Turno, e Camilla. E me ne andava poi anche  prevalendo  di  furto,  per  la  mia
traduzione scolastica del tema datomi dal maestro; il che sempre piú  mi  teneva
indietro nel mio  latino.  Di  nessun  altro  poi  de'  poeti  nostri  aveva  io
cognizione;  se  non  se  di  alcune  opere  del  Metastasio,  come  il  Catone,
l'Artaserse, l'Olimpiade, ed altre che ci capitavano  alle  mani  come  libretti
dell'opera di questo, o di quel carnovale. E queste mi  dilettavano  sommamente;
fuorché al venir dell'arietta  interrompitrice  dello  sviluppo  degli  affetti,
appunto quando mi ci cominciava a internare io provava un dispiacere  vivissimo;
e piú noia ancora  ne  riceveva,  che  dagli  interrompimenti  dell'Ariosto.  Mi
capitarono anche allora varie commedie del Goldoni, e queste me le  prestava  il
maestro stesso; e mi divertivano molto. Ma il genio per le cose drammatiche,  di
cui forse il germe era in me, si venne tosto a ricoprire o ad estinguersi in me,
per mancanza di pascolo, d'incoraggiamento, e d'ogni altra cosa. E, somma fatta,
la ignoranza mia e di chi mi educava, e la trascuraggine di tutti in  ogni  cosa
non potea andar piú oltre. In quegli spessi e lunghi intervalli in cui  per  via
di salute io non poteva andare alla scuola  con  gli  altri,  un  mio  compagno,
maggiore di età, e di forze, e di asinità ancor piú, si faceva fare di quando in
quando il suo componimento da me, che era  o  traduzione,  o  amplificazione,  o
versi ecc.; ed egli mi ci costringeva con questo bellissimo argomento. Se tu  mi
vuoi fare il componimento, io ti do due palle da giuocare;  e  me  le  mostrava,
belline, di quattro  colori,  di  un  bel  panno,  ben  cucite,  ed  ottimamente
rimbalzanti; se tu non me lo vuoi fare, ti do due scappellotti, ed alzava in ciò
dire la prepotente sua mano, lasciandomela pendente sul capo. Io pigliava le due
palle, e gli faceva il componimento.  Da  principio  glie  lo  facea  fedelmente
quanto meglio sapessi; e il maestro si stupiva un poco dei progressi inaspettati
di costui, che erasi fin allora mostrato una talpa. Ma io teneva  religiosamente
il segreto; piú ancora perché la natura mia era di esser poco comunicativo,  che
non per la paura che avessi di quel ciclope. Con tutto ciò, dopo  avergli  fatto
molte composizioni, e sazio di tante palle, e noiato di quella fatica,  e  anche
indispettito un tal poco che colui si abbellisse del mio, andai a  poco  a  poco
deteriorando in tal guisa il componimento, che finii col frapporvi di quei  tali
solecismi, come il potebam,  e  simili,  che  ti  fanno  far  le  fischiate  dai
colleghi, e dar le sferzate dai maestri. Costui dunque, vistosi cosí sbeffato in
pubblico, e rivestito per forza della sua natural pelle d'asino,  non  osò  pure
apertamente far gran vendetta di me; non mi fece piú lavorare per lui, e  rimase
frenato e fremente dalla vergogna che gli avrei potuta fare scoprendolo. Il  che
non feci pur mai; ma io rideva veramente di cuore nel sentire  raccontare  dagli
altri come era accaduto il fatto del potebam nella scuola; nessuno però dubitava
ch'io ci avessi avuto parte. Ed io verisimilmente era anche contenuto nei limiti
della discrezione, da quella vista della mano alzatami sul capo, che mi rimaneva
tuttora sugli occhi, e che doveva essere il naturale ricatto di tante palle  mal
impiegate  per  farsi  vituperare.  Onde  io  imparai  sin  da  allora,  che  la
vicendevole paura era quella che governava il mondo. Fra queste puerili insipide
vicende, io spesso infermo, e sempre mal sano, avendo anche consumato quell'anno
di Rettorica, chiamato poi al solito esame fui giudicato capace  di  entrare  in
Filosofia. Gli studi di codesta  filosofia  si  facevano  fuori  dell'Accademia,
nella vicina Università, dove si andava due volte il giorno; la mattina  era  la
scuola di geometria; il giorno, quella di filosofia, o  sia  logica.  Ed  eccomi
dunque in età di anni tredici scarsi diventato filosofo; del  qual  nome  io  mi
gonfiava tanto piú, che mi collocava già quasi nella classe  detta  dei  grandi;
oltre poi il piacevolissimo balocco dell'uscire di casa due volte il giorno;  il
che poi ci somministrava spesso l'occasione di fare  delle  scorsarelle  per  le
strade della città cosí alla sfuggita, fingendo di uscire di scuola per  qualche
bisogno. Benché dunque io mi trovassi il piú piccolo di tutti  quei  grandi  fra
quali era sceso nella galleria del Secondo Appartamento, quella mia  inferiorità
di statura, di età e di forze mi prestava per l'appunto piú animo ed impegno  di
volermi distinguere. Ed in fatti da prima studiai quanto bisognava per  figurare
alle ripetizioni che si facevano poi in  casa  la  sera  dai  nostri  ripetitori
accademici. Io rispondeva ai quesiti quanto altri, e anche meglio  talvolta;  il
che doveva essere in me un semplice frutto di memoria, e non d'altro;  perché  a
dir vero io certamente non  intendeva  nulla  di  quella  filosofia  pedantesca,
insipida per sé stessa, ed avviluppata poi nel latino, col  quale  mi  bisognava
tuttavia contrastare, e vincerlo alla meglio a forza di vocabolario.  Di  quella
geometria, di cui io feci il corso intero, cioè spiegati i primi  sei  libri  di
Euclide, io non ho neppur mai intesa la quarta  proposizione;  come  neppure  la
intendo adesso; avendo io sempre avuta la testa  assolutamente  anti-geometrica.
Quella scuola poi di filosofia peripatetica che si faceva il  dopo  pranzo,  era
una cosa da dormirvi in piedi. Ed in fatti, nella prima mezz'ora si scriveva  il
corso a dettatura del professore; e nei tre  quarti  d'ora  rimanenti,  dove  si
procedeva poi alla spiegazione fatta in latino, Dio sa quale,  dal  catedratico,
noi  tutti  scolari,  inviluppati   interamente   nei   rispettivi   mantelloni,
saporitissimamente dormivamo; né altro suono si sentiva tra  quei  filosofi,  se
non se la voce del professore  languente,  che  dormicchiava  egli  pure,  ed  i
diversi tuoni dei russatori, chi alto, chi basso, e chi medio; il che faceva  un
bellissimo  concerto.  Oltre  il  potere  irresistibile  di  quella   papaverica
filosofia,  contribuiva  anche   molto   farci   dormire,   principalmente   noi
accademisti, che avevamo due o tre panche distinte alla destra  del  professore,
l'aver sempre i sonni interrotti la mattina dal doverci alzar troppo  presto.  E
ciò, quanto a me, era la principal cagione di tutti i miei incomodi,  perché  lo
stomaco non aveva tempo di smaltir la cena dormendo. Del che poi avvistisi a mio
riguardo i superiori, mi concederono finalmente in quest'anno  di  Filosofia  di
poter dormire fino alle sette, in vece delle cinque e tre quarti, che era  l'ora
fissata del doversi alzare, anzi essere alzati, per scendere in camerata a  dire
le prime orazioni, e tosto poi mettersi allo studio fino alle sette e mezzo.



CAPITOLO QUINTO

Varie insulse vicende, su lo stesso andamento del precedente.

Nell'inverno di quell'anno 1762, il mio zio, il governatore di Cuneo, tornò  per
alcuni mesi in Torino; e vistomi cosí tisicuzzo, mi ottenne anche alcuni piccoli
privilegi quanto al mangiare un po' meglio, cioè piú sanamente. Il che  aggiunto
ad alquanta piú dissipazione che mi procacciava quell'uscire ogni giorno di casa
per andare all'Università, e nei giorni di vacanza qualche pranzuccio dallo zio,
e quel sonnetto periodico  di  tre  quarti  d'ora  nella  scuola;  tutto  questo
contribuí a rimpannucciarmi un pochino, e cominciai allora a  svilupparmi  ed  a
crescere. Il mio zio pensò anche, come nostro tutore, di far venire in Torino la
mia sorella carnale, Giulia, che era la sola di padre; e di porla nel  monastero
di Santa Croce, cavandola da quello di Sant'Anastasio in Asti,  dove  era  stata
per piú di sei anni sotto gli auspici di una nostra  zia,  vedova  del  marchese
Trotti, che vi si era ritirata. La Giulietta cresceva in  codesto  monastero  di
Asti, ancor piú ineducata di me;  stante  l'imperio  assoluto,  ch'ella  si  era
usurpato su la buona zia, che non  se  ne  potea  giovare  in  nessuna  maniera,
amandola molto, e guastandola moltissimo. La ragazza si avvicinava  ai  quindici
anni, essendomi maggiore di due e piú anni. E quell'età, nelle  nostre  contrade
per lo piú non è muta, ed altamente anzi già parla d'amore al  facile  e  tenero
cuore delle donzelle. Un qualche suo amoruccio,  quale  può  aver  luogo  in  un
monastero, ancorché fosse pure  verso  persona  che  convenientemente  l'avrebbe
potuta sposare, dispiacque allo zio, e lo determinò a farla  venire  in  Torino;
affidandola alla zia materna, monaca in Santa Croce. La vista di questa sorella,
già da me tanto amata, come accennai, e che ora tanto era cresciuta in bellezza,
mi rallegrò anche molto; e confortandomi il cuore  e  lo  spirito,  mi  restituí
anche molto in salute. E la compagnia, o per dir meglio il rivedere di tempo  in
tempo la sorella, mi riusciva tanto piú  grato,  quanto  mi  pareva  che  io  la
sollevassi alcun poco dalla sua afflizione d'amore; essendo  stata  cosí  divisa
dal suo innamorato, che pure si ostinava in dire  di  volerlo  assolutamente  in
isposo. Io andava dunque ottenendo dal mio custode Andrea, di  visitare  la  mia
sorella quasi tutte le domeniche e giovedí, che erano i  nostri  due  giorni  di
riposo. E assai spesso io passava tutta la mia visita di un'ora e piú, a pianger
con essa alla grata; e quel piangere, parea che mi giovasse  moltissimo;  sicché
io tornava sempre a casa piú  sollevato,  benché  non  lieto.  Ed  io,  da  quel
filosofo ch'io m'era, le dava anche  coraggio,  e  l'incitava  a  persistere  in
quella sua scelta; e che finalmente essa poi la spunterebbe con lo zio, che  era
quello che assolutamente vi si opponeva il piú. Ma il  tempo,  che  tanto  opera
anco su i piú saldi petti, non tardò poi moltissimo a  svolgere  quello  di  una
giovanetta; e la lontananza, gl'impedimenti, le divagazioni, e oltre  ogni  cosa
quella nuova educazione di gran lunga migliore della prima sotto la zia paterna,
la guarirono e la consolarono dopo alcuni mesi. Nelle vacanze di  quell'anno  di
Filosofia, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si
davano le opere buffe. E questo fu un segnalato favore che mi volle fare lo  zio
architetto, che mi dové albergare quella notte in casa sua; stante  che  codesto
teatro non  si  poteva  assolutamente  combinare  con  le  regole  della  nostra
Accademia, per cui ogni individuo dev'essere restituito in casa al piú  tardi  a
mezz'ora di notte; e nessun altro teatro ci era permesso fuorché quello del  re,
dove andavamo in corpo una volta per settimana nel solo  carnevale.  Quell'opera
buffa ch'io ebbi dunque in sorte di sentire, mediante il sotterfugio del pietoso
zio, che fece dire ai superiori che mi porterebbe per un giorno e una  notte  in
una sua villa, era intitolata il Mercato di  Malmantile,  cantata  dai  migliori
buffi d'Italia, il Carratoli, il Baglioni, e le di lui figlie; composta  da  uno
dei piú celebri maestri. Il brio, e la varietà di quella divina musica  mi  fece
una profondissima impressione, lasciandomi per cosí dire  un  solco  di  armonia
negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni piú interna fibra,  a  tal
segno che per piú settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma
non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea  per
quei miei soliti studi, ma nel tempo stesso  un  singolarissimo  bollore  d'idee
fantastiche, dietro alle quali avrei potuto  far  dei  versi  se  avessi  saputo
farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso
ed a chi dicea di educarmi. E fu questa la  prima  volta  che  un  tale  effetto
cagionato in me dalla musica, mi  si  fece  osservare,  e  mi  restò  lungamente
impresso nella memoria, perch'egli fu assai maggiore d'ogni altro sentito prima.
Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di  quelle  recite  dell'opera
seria ch'io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo
tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno  dopo  un  certo  intervallo,
ritrovo sempre non vi essere il piú potente e indomabile  agitatore  dell'animo,
cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti e  specialmente  le
voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta piú affetti, e piú  vari,  e
terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell'atto del
sentir musica, o poche ore dopo. Essendo scorso cosí il mio primo anno di  studi
nell'Università, nel quale si disse, dai ripetitori (ed io non saprei né come né
perché) aver io studiato assai bene, ottenni dallo zio di Cuneo  la  licenza  di
venirlo trovare in codesta città per quindici giorni nel mese  d'agosto.  Questo
viaggetto, da Torino a Cuneo per quella fertilissima  ridente  pianura  del  bel
Piemonte, essendo il secondo ch'io faceva da che era al  mondo,  mi  dilettò,  e
giovò moltissimo alla salute, perché l'aria aperta ed il  moto  mi  sono  sempre
stati elementi  di  vita.  Ma  il  piacere  di  questo  viaggio  mi  venne  pure
amareggiato non poco dall'esser costretto di  farlo  coi  vetturini  a  passo  a
passo, io, che quattro o cinque anni prima, alla mia prima uscita di casa, aveva
cosí rapidamente percorso quelle cinque poste che  stanno  tra  Asti  e  Torino.
Onde, mi pareva di essere tornato  indietro  invecchiando,  e  mi  teneva  molto
avvilito di quella ignobile e gelida  tardezza  del  passo  d'asino  di  cui  si
andava; onde all'entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed in  ogni  anche
minimo borguzzo, io mi rintuzzava ben dentro nel piú intimo del  calessaccio,  e
chiudeva anche gli occhi per non vedere, né esser  visto;  quasi  che  tutti  mi
dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa  la  posta  con  tanto
brio, e sbeffarmi ora come condannato a sí umiliante lentezza. Erano  eglino  in
me questi moti il prodotto  d'un  animo  caldo  e  sublime,  oppure  leggiero  e
vanaglorioso? Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti.  Ma
so bene, che se io avessi  avuto  al  fianco  una  qualche  persona  che  avesse
conosciuto il cuor dell'uomo in esteso, egli avrebbe forse potuto cavare fin  da
allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell'amore  di  lode  e  di
gloria. In quel mio breve soggiorno in Cuneo, io feci il primo sonetto, che  non
dirò mio, perché egli era un rifrittume di versi o presi interi, o  guastati,  e
riannestati insieme, dal Metastasio, e l'Ariosto, che erano  stati  i  due  soli
poeti italiani di cui avessi un po' letto. Ma credo, che non vi  fossero  né  le
rime debite, né forse i piedi; stante che, benché avessi fatti dei versi  latini
esametri, e pentametri, niuno però mi avea insegnato mai niuna regola del  verso
italiano. Per quanto io ci abbia fantasticato  poi  per  ritornarmene  in  mente
almeno uno o due versi, non mi è mai piú stato possibile. Solamente so,  ch'egli
era in lode d'una signora che quel mio zio corteggiava, e che  piaceva  anche  a
me. Codesto sonetto, non poteva certamente esser altro che  pessimo.  Con  tutto
ciò mi venne lodato assai, e da quella signora, che non intendeva  nulla,  e  da
altri simili; onde io già già quasi mi credei un poeta. Ma lo zio, che era  uomo
militare, e  severo,  e  che  bastantemente  notiziato  delle  cose  storiche  e
politiche nulla intendeva né curava  di  nessuna  poesia,  non  incoraggí  punto
questa mia Musa nascente; e disapprovando anzi  il  sonetto  e  burlandosene  mi
disseccò tosto quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne piú voglia  di
poetare mai, sino all'età di venticinque anni passati. Quanti  buoni  o  cattivi
miei versi soffocò quel mio zio, insieme con quel mio sonettaccio primogenito! A
quella bestiale filosofia, succedé, l'anno  dopo,  lo  studio  della  fisica,  e
dell'etica; distribuite parimente come le due altre scuole anteriori; la  fisica
la mattina, e la lezione di etica per far la siesta. La  fisica  un  cotal  poco
allettavami; ma il continuo contrasto con la lingua  latina,  e  la  mia  totale
ignoranza della  studiata  geometria,  erano  impedimenti  invincibili  ai  miei
progressi. Onde con mia perpetua vergogna confesserò  per  amor  del  vero,  che
avendo io studiato un anno intero la fisica sotto  il  celebre  padre  Beccaria,
neppure una definizione me n'è rimasta in capo; e niente affatto so  né  intendo
del suo dottissimo corso su l'elettricità, ricco di  tante  nobilissime  di  lui
scoperte. Ed al solito accadde qui come mi era accaduto in  geometria,  che  per
effetto di semplice  memoria,  io  mi  portava  benissimo  alle  ripetizioni,  e
riscuoteva dai ripetitori piú lode che biasimo. Ed in  fatti,  in  quell'inverno
del 1763 lo zio si propose di farmi un regaluccio; il  che  non  m'era  accaduto
mai; e ciò, in premio di quel che gli veniva detto, che io studiava  cosí  bene.
Questo regalo mi fu annunziato tre mesi prima con enfasi profetica dal servitore
Andrea; dicendomi che egli sapeva di buon luogo che lo riceverei poi continuando
a portarmi bene; ma non mi venne mai individuato cosa sarebbe.  Questa  speranza
indeterminata, ed ingranditami dalla  fantasia,  mi  riaccese  nello  studio,  e
rinforzai molto la mia pappagallesca dottrina. Un giorno finalmente  mi  fu  poi
mostrato dal camerier dello zio, quel famoso regalo futuro;  ed  era  una  spada
d'argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta;  e  sempre
la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne  mai.  Per
quanto poi intesi, o combinai, in appresso, volevano che io la  domandassi  allo
zio; ma quel mio carattere stesso, che tanti anni prima nella  casa  materna  mi
aveva inibito  di  chiedere  alla  nonna  qualunque  cosa  volessi,  sollecitato
caldamente da lei di ciò fare, mi troncò anco qui la parola; e  non  vi  fu  mai
caso ch'io domandassi la spada allo zio; e non l'ebbi.



CAPITOLO SESTO

Debolezza della mia  complessione;  infermità  continue;  ed  incapacità  d'ogni
esercizio, e massimamente del ballo, e perché.

Passò in questo modo anche quell'anno della fisica; ed in  quell'estate  il  mio
zio essendo stato nominato viceré in Sardegna, si dispose  ad  andarvi.  Partito
egli dunque nel settembre, e lasciatomi raccomandato agli altri  pochi  parenti,
od agnati ch'io aveva in Torino, quanto ai miei interessi pecuniari rinunziò,  o
accomunò la tutela con un cavaliere suo amico; onde in allora incominciai subito
ad essere un poco piú allargato nella facoltà di spendere, ed ebbi per la  prima
volta una piccola mensualità fissatami dal nuovo tutore; cosa, alla quale lo zio
non avea voluto mai  consentire;  e  che  mi  pareva,  ed  anche  ora  mi  pare,
sragionevolissima. Forse vi si opponeva quel servo Andrea,  al  quale  spendendo
egli per conto mio (e suo, credo, ad un tempo) tornava piú comodo di  far  delle
note, e di tenermi cosí in maggiore dipendenza  di  lui.  Aveva  codesto  Andrea
veramente l'animo di un principe, quali ne vediamo ai nostri  tempi  non  pochi,
illustri anche quant'egli. Nel finire dell'anno '62,  essendo  io  passato  allo
studio del diritto civile, e canonico; corso, che in quattr'anní conduce poi  lo
scolare all'apice della gloria, alla laurea avvocatesca; dopo  alcune  settimane
legali, ricaddi nella stessa malattia già avuta due anni prima,  quello  scoppio
universale di tutta la pelle del cranio; e fu il doppio dell'altra volta,  tanto
la mia povera testa era insofferente di fare  in  sé  conserva  di  definizioni,
digesti, e  simili  apparati  dell'uno  e  dell'altro  gius,  né  saprei  meglio
assimilare lo stato fisico esterno di quel  mio  capo,  che  alla  terra  quando
riarsa dal sole si screpola per tutti i versi, aspettando  la  benefica  pioggia
che la rimargini. Ma dal mio screpolío usciva in copia un umore  viscoso  a  tal
segno, che questa volta non fu possibile ch'io salvassi i capelli  dalle  odiose
forfici; e dopo un mese uscii di quella sconcia malattia tosato ed imparruccato.
Quest'accidente fu uno dei piú dolorosi ch'io provassi in vita mia;  sí  per  la
privazione dei capelli, che pel funesto acquisto di  quella  parrucca,  divenuta
immediatamente lo scherno di tutti i compagni petulantissimi. Da prima io  m'era
messo a pigliarne apertamente le parti; ma vedendo poi ch'io non poteva a nessun
patto salvar la parrucca mia da quello  sfrenato  torrente  che  da  ogni  parte
assaltavala, e ch'io andava a rischio di perdere anche con essa me stesso, tosto
mutai di bandiera, e presi il partito il piú disinvolto, che era di sparruccarmi
da me prima che mi venisse fatto quell'affronto, e di palleggiare io  stesso  la
mia infelice parrucca per l'aria, facendone ogni vituperio. Ed  in  fatti,  dopo
alcuni giorni, sfogatasi l'ira pubblica in tal guisa,  io  rimasi  poi  la  meno
perseguitata, e direi quasi la piú rispettata parrucca, fra le due o  tre  altre
che ve n'erano in quella stessa galleria. Allora imparai, che  bisognava  sempre
parere di dare spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto.
In quell'anno mi erano anche stati accordati altri maestri;  di  cimbalo,  e  di
geografia. E questa, andandomi molto a genio quel balocco della  sfera  e  delle
carte, l'aveva imparata piuttosto bene, e  mista  un  pocolino  alla  storia,  e
massimamente all'antica. Il maestro, che me  l'insegnava  in  francese,  essendo
egli della Val d'Aosta, mi andava anche prestando  vari  libri  francesi,  ch'io
cominciava anche ad intendere alquanto; e tra gli altri ebbi il Gil Blas, che mi
rapí veramente e fu questo il primo libro ch'io leggessi tutto di  seguito  dopo
l'Eneide del Caro; e mi diverti assai piú. Da allora in poi caddi nei romanzi, e
ne lessi molti, come Cassandre, Almachilde, ecc.; ed i piú tetri e piú teneri mi
facevano maggior forza e diletto. Tra gli altri poi, Les mémoires d'un homme  de
qualité, ch'io rilessi almen dieci volte.  Quanto  al  cimbalo  poi,  benché  io
avessi una passione smisurata per la musica, e non fossi privo  di  disposizioni
naturali, con tutto ciò non vi feci quasi nessun progresso, fuorché  di  essermi
sveltita molto la mano su la tastiera.  Ma  la  musica  scritta  non  mi  voleva
entrare in capo; tutto era orecchia in me, e memoria, e non  altro.  Attribuisco
altresí la cagione di quella mia  ignoranza  invincibile  nelle  note  musicali,
all'inopportunità dell'ora in  cui  prendeva  lezione,  immediatamente  dopo  il
pranzo; tempo, che in ogni epoca della mia vita ho  sempre  palpabilmente  visto
essermi espressamente contrario ad ogni qualunque anche minima operazione  della
mente, ed anche alla semplice applicazione degli occhi  su  qualunque  carta  od
oggetto. Talché quelle note  musicali  e  le  lor  cinque  righe  cosí  fitte  e
parallele mi traballavano davanti alle pupille, ed io dopo quell'ora di  lezione
mi alzava dal cimbalo che non ci vedeva piú, e rimaneva ammalato e  stupido  per
tutto il rimanente del giorno. Le scuole parimente della scherma e del ballo, mi
riuscivano infruttuosissime; quella, perché io era assolutamente  troppo  debole
per poter reggere allo stare in guardia, e a tutte le attitudini di codest'arte;
ed era anche il dopo pranzo, e spesso usciva dal cimbalo e dava di  piglio  alla
spada; il ballo poi, perché io per natura lo abborriva, e vi si  aggiungeva  per
piú contrarietà il maestro, francese, nuovamente venuto di Parigi, che  con  una
cert'aria civilmente  scortese,  e  la  caricatura  perpetua  dei  suoi  moti  e
discorsi, mi quadruplicava l'abborrimento innato ch'era in  me  per  codest'arte
burattinesca. E la cosa andò a segno, ch'io dopo alcuni mesi abbandonai  affatto
la lezione; e non ho mai saputo ballare neppure  un  mezzo  minué;  questa  sola
parola mi ha sempre fin d'allora fatto ridere e fremere ad un tempo; che  son  i
due effetti che mi hanno fatto poi sempre in appresso i  francesi,  e  tutte  le
cose loro, che altro non sono che un perpetuo e spesso  mal  ballato  minué.  Io
attribuisco  in  gran  parte  a  codesto  maestro  di  ballo   quel   sentimento
disfavorevole, e forse anche un poco esagerato, che mi è rimasto nell'intimo del
cuore, su la nazion francese, che pure ha anche delle  piacevoli  e  ricercabili
qualità.  Ma  le  prime  impressioni  in  quell'età  tenera  radicate,  non   si
scancellano mai piú, e difficilmente s'indeboliscono,  crescendo  gli  anni;  la
ragione le va poi  combattendo,  ma  bisogna  sempre  combattere  per  giudicare
spassionatamente, e forse non ci si arriva. Due altre  cose  parimente  ritrovo,
raccapezzando cosí le mie idee primitive, che m'hanno persin  da  ragazzo  fatto
essere antigallo: l'una è, che essendo io ancora in  Asti  nella  casa  paterna,
prima che mia madre passasse alle terze nozze, passò di quella città la duchessa
di Parma, francese di nascita, la quale o andava  o  veniva  di  Parigi.  Quella
carrozzata di lei e delle sue dame e donne, tutte impiastrate di quel  rossaccio
che usavano allora esclusivamente le francesi, cosa ch'io non avea vista mai, mi
colpí singolarmente la fantasia,  e  ne  parlai  per  piú  anni,  non  potendomi
persuadere dell'intenzione né dell'affetto di  un  ornamento  cosí  bizzarro,  e
ridicolo, e contro la natura delle cose; poiché quando, o per  malattia,  o  per
briachezza, o per altra cagione, un viso umano dà in  codesto  sconcio  rossore,
tutti se lo nascondono potendo, o mostrandolo fanno ridere o si  fan  compatire.
Codesti ceffi francesi  mi  lasciarono  una  lunga  e  profonda  impressione  di
spiacevolezza, e di ribrezzo per la parte femminina di quella  nazione.  L'altro
ramo di disprezzo che germogliava in me per costoro, era nato, che imparando poi
la geografia  tanti  anni  dopo,  e  vedendo  su  la  carta  quella  grandissima
differenza di vastità e di popolazione  che  passava  tra  l'Inghilterra,  o  la
Prussia e la Francia, e sentendo poi sempre dire dalle nuove di  guerra,  che  i
francesi erano battuti e per mare e  per  terra,  aggiuntevi  poi  quelle  prime
notizie avute sin dall'infanzia, che i francesi erano stati padroni della  città
d'Asti piú volte; e che in ultimo vi erano poi stati fatti prigionieri in numero
di sei, o sette mila e piú, presi come dei vigliacchi senza  far  punto  difesa,
essendovisi portati, al solito, cosí arrogantemente e  tirannicamente  prima  di
esserne scacciati, queste diverse particolarità, riunite poi tutte, e poste  sul
viso di quel mio maestro di ballo, della di cui caricatura e ridicolezza  parlai
già sopra, mi lasciarono  poi  sempre  in  appresso  nel  cuore  quel  misto  di
abborrimento e disprezzo  per  quella  nazione  fastidiosa.  E  certamente,  chi
ricercasse poi in sé stesso maturo  le  cagioni  radicali  degli  odi  od  amori
diversi per gl'individui o per i corpi  collettizi,  o  per  i  diversi  popoli,
ritroverebbe forse nella sua piú acerba età i primi leggerissimi  semi  di  tali
affetti; e non molto maggiori, né diversi  da  questi  ch'io  ho  di  me  stesso
allegati. Oh, picciola cosa è pur l'uomo!



CAPITOLO SETTIMO

Morte dello zio paterno. Liberazione mia prima. Ingresso nel Primo  Appartamento
dell'Accademia.

Lo zio, dopo dieci mesi di soggiorno in Cagliari, vi morí.  Egli  era  di  circa
sessanta anni, ma di salute assai malandato, e sempre mi diceva prima di  questa
sua partenza per la Sardegna, che io non l'avrei piú riveduto.  Il  mio  affetto
per lui era tiepidissima cosa; atteso che io di  radissimo  lo  avea  veduto,  e
sempre mostratomisi severo, e duretto, ma non però mai  ingiusto.  Egli  era  un
uomo  stimabile  per  la  sua  rettitudine,  e  coraggio;  avea   militato   con
distinzione; aveva un carattere scolpito e fortissimo, e le  qualità  necessarie
al ben comandare. Ebbe anche fama di molto ingegno, alquanto però  soffocato  da
una erudizione disordinata, copiosa  e  loquacissima,  spettante  la  storia  sí
moderna che antica. Io non fui dunque molto afflitto  di  questa  morte  lontana
dagli occhi, e già preveduta da tutti gli amici suoi, e  mediante  la  quale  io
acquistava quasi pienamente la mia libertà, con tutto il sufficiente  patrimonio
paterno accresciuto anche dall'eredità non piccola di questo zio. Le  leggi  del
Piemonte all'età dei quattordici anni liberano il pupillo  dalla  tutela,  e  lo
sottopongono soltanto al curatore,  che  lasciandolo  padrone  dell'entrate  sue
annuali, non gli può impedire legalmente  altra  cosa  che  l'alienazione  degli
stabili. Questo nuovo mio stato di padrone del mio in età di  quattordici  anni,
mi innalzò dunque molto le corna, e mi fece con la fantasia spaziare  assai  per
il vano. In quel frattempo mi era anche stato tolto il servitore aio Andrea, per
ordine del tutore; e giustamente, perché costui si era dato  sfrenatamente  alle
donne, al vino, e alle risse, ed era diventato un pessimo  soggetto  pel  troppo
ozio, e non avere chi lo invigilasse. A me aveva sempre usato  mali  termini,  e
quando era briaco, cioè quattro, o cinque giorni per settimana, mi  batteva  per
anche, e sempre poi mi maltrattava;  e  in  quelle  spessissime  malattie  ch'io
andava facendo, egli, datomi da mangiare se n'andava, e mi  lasciava  chiuso  in
camera talvolta dal pranzo fino all'ora di cena; la qual cosa piú  d'ogni  altra
contribuiva a non farmi tornar sano, ed  a  triplicare  in  me  quelle  orribili
malinconie che già avea sortite dal naturale mio temperamento.  Eppure,  chi  'l
crederebbe? piansi e  sospirai  per  la  perdita  di  codest'Andrea  piú  e  piú
settimane; e non mi potendo opporre a chi giustamente voleva licenziarlo,  e  me
l'avea levato d'attorno, durai poi per piú mesi  ad  andarlo  io  visitare  ogni
giovedí e domenica, essendo egli inibito di porre i piedi in  Accademia.  Io  mi
facea condurre a vederlo dal nuovo cameriere che mi aveano dato, uomo  piuttosto
grosso, ma buono e di dolcissima indole. Gli somministrai anche  per  del  tempo
dei denari, dandogliene quanto ne aveva, il che non era  molto;  finalmente  poi
essendosi egli collocato in servizio d'altri, ed io distratto dal tempo, e dalla
mutazione di scena per me dopo la morte  dello  zio,  non  ci  pensai  poi  piú.
Dovendomi nei  seguenti  anni  render  conto  in  me  stesso  della  cagione  di
quell'affetto mio  sragionevole  per  un  sí  tristo  soggetto,  se  mi  volessi
abbellire, direi che ciò proveniva forse  in  me  da  una  certa  generosità  di
carattere; ma questa per allora non era la vera cagione, benché in appresso poi,
quando nella lettura di Plutarco io cominciai  ad  infiammarmi  dell'amor  della
gloria e della virtú, conobbi  ed  apprezzai,  e  praticai  anche,  potendo,  la
soddisfacentissima arte del rendere bene per male. Quel mio affetto  per  Andrea
che mi avea pur dato tanti dolori, era in me un misto della forza  abituale  del
vederlo da sett'anni sempre dintorno a me, e della predilezione da me  concepita
per alcune sue belle qualità; come  la  sagacità  nel  capire,  la  sveltezza  e
destrezza somma nell'eseguire; le lunghe storiette e novelle ch'egli  mi  andava
raccontando, ripiene di spirito, di affetti e d'imagini; cose  tutte,  per  cui,
passato lo sdegno delle durezze e vessazioni ch'egli mi andava facendo, egli  mi
sapea sempre tornare in grazia. Non capisco però, come abborrendo tanto per  mia
natura l'essere sforzato e malmenato,  mi  fossi  pure  avvezzato  al  giogo  di
costui. Questa riflessione in appresso mi ha  fatti  talvolta  compatire  alcuni
principi, che senza essere affatto imbecilli si lasciavano pure guidare da gente
che avea preso il sopravvento sovr'essi nell'adolescenza; età  funesta,  per  la
profondità delle ricevute impressioni. Il  primo  frutto  ch'io  raccolsi  dalla
morte dello zio, fu di poter andare alla Cavallerizza; scuola che sino allora mi
era sempre  stata  negata,  e  ch'io  desiderava  ardentissimamente.  Il  priore
dell'Accademia avendo saputa questa mia smaniosa brama d'imparare  a  cavalcare,
pensò di approfittarsene per mio utile; onde egli pose per premio de' miei studi
la futura equitazione, quand'io mi risolvessi a pigliare all'Università il primo
grado della scala dottoresca, chiamato il magistero, che  è  un  esame  pubblico
alla peggio dei due anni di logica, fisica e geometria. Io mi vi indussi subito;
e cercatomi un ripetitore  a  parte,  che  mi  tornasse  a  nominare  almeno  le
definizioni di codeste mal fatte scuole, in quindici o venti giorni misi assieme
alla diavola una dozzina di periodi latini tanto  da  rispondere  a  quei  pochi
quesiti, che mi verrebbero fatti dagli esaminatori. Divenni dunque,  io  non  so
come in meno d'un mese maestro matricolato dell'Arti, e quindi inforcai  per  la
prima volta la schiena di un cavallo: arte, nella quale  divenni  poi  veramente
maestro molti anni dopo. Mi trovavo allora essere di statura piuttosto piccolo e
assai graciletto, e di poca forza nei ginocchi che sono il perno del  cavalcare;
con tutto ciò la volontà e la molta passione supplivano alla forza, e  in  breve
ci feci dei progressí bastanti, massime nell'arte della mano, e  dell'intelletto
reggenti d'accordo, e nel  conoscere  e  indovinare  i  moti  e  l'indole  della
cavalcatura. A questo piacevole e nobilissimo  esercizio  io  fui  debitore  ben
tosto della  salute,  della  cresciuta,  e  d'una  certa  robustezza  che  andai
acquistando a occhio vedente, ed entrai si può  dire  in  una  nuova  esistenza.
Sepolto dunque lo zio, barattato il tutore in curatore, fatto maestro dell'Arti,
liberato dal giogo di Andrea, ed inforcato un destriero, non è credibile  quanto
andassi ogni giorno piú alzando la cresta. Cominciai a dire schiettamente  e  al
priore, ed al curatore, che quegli studi della legge mi  tediavano,  che  io  ci
perdevo il mio tempo, e che in una parola non li voleva  continuare  altrimenti.
Il curatore allora abboccatosi col governatore  dell'Accademia,  conchiusero  di
farmi passare al Primo Appartamento, educazione molto larga, di cui  ho  parlato
piú sopra. Vi feci dunque il mio ingresso il dí 8 maggio 1763.  In  quell'estate
mi ci trovai quasi che solo; ma nell'autunno si andò  riempiendo  di  forestieri
d'ogni paese quasi, fuorché francesi;  ed  il  numero  che  dominava  era  degli
inglesi. Una ottima tavola signorilmente servita; molta dissipazione; pochissimo
studio, il molto dormire, il cavalcare ogni giorno, e l'andar sempre piú facendo
a mio modo, mi aveano prestamente restituita e duplicata la salute,  il  brio  e
l'ardire. Mi erano ricresciuti i capelli, e sparruccatomi io mi andava  vestendo
a mio modo, e spendeva assai negli abiti, per isfogarmi dei panni neri  che  per
regola dell'Accademia impreteribile avea dovuti portare in quei cinque anni  del
Terzo e Secondo Appartamento di essa. Il  curatore  andava  gridando  su  questi
troppo ricchi e troppi abiti; ma il sarto sapendo ch'io poteva pagare  mi  facea
credito quanto i' volessi, e  rivestiva  credo  anche  sé  a  mie  spese.  Avuta
l'eredità, e la libertà, ritrovai  tosto  degli  amici,  dei  compagni  ad  ogni
impresa, e degli adulatori, e tutto  quello  insomma  che  vien  coi  danari,  e
fedelmente con essi pur se ne va. In mezzo a questo vortice nuovo e fervente, ed
in età di anni quattordici e mezzo, io non era  con  tutto  ciò  né  discolo  né
sragionevole quanto avrei potuto e dovuto fors'essere. Di tempo in  tempo  aveva
in me stesso dei taciti richiami a un qualche studio, ed un  certo  ribrezzo  ed
una mezza vergogna per  l'ignoranza  mia,  su  la  quale  non  mi  veniva  fatto
d'ingannare me stesso, né tampoco mi attentava di cercar d'ingannare gli  altri.
Ma non fondato in nessuno studio, non diretto da nessuno,  non  sapendo  nessuna
lingua bene, io non sapeva a quale applicazione darmi, né come.  La  lettura  di
molti romanzi francesi (ché degli italiani leggibili non ve  n'è);  il  continuo
conversare con forestieri, e il non aver occasione  mai  né  di  parlare  né  di
sentir parlare italiano, mi andavano a poco a poco scacciando dal capo quel poco
di tristo toscano ch'io avessi potuto intromettervi in quei due o  tre  anni  di
studi buffoni di umanità e rettoriche asinine. E sottentrava nel mio vuoto  capo
il francese a tal segno, che in un accesso di studio ch'io ebbi per  due  o  tre
mesi in quel prim'anno del Primo Appartamento, m'ingolfai nei  trentasei  volumi
della Storia ecclesiastica del Fleury, e li lessi quasi tutti con furore;  e  mi
accinsi a farne anche degli estratti in lingua francese,  e  di  questi  arrivai
sino al libro diciottesimo; fatica sciocca, noiosa, e risibile,  che  pure  feci
con  molta  ostinazione,  ed  anche  con  un  qualche  diletto,  ma  con   quasi
nessunissimo utile. Fu quella lettura che cominciò a farmi cader  di  credito  i
preti, e le loro cose. Ma presto posi da parte il Fleury, e non ci pensai piú. E
que' miei estratti che non ho buttati sul fuoco sin a questi anni  addietro,  mi
hanno fatto ridere assai quando li riscorsi un pocolino, circa venti  anni  dopo
averli stesi. Dall'istoria ecclesiastica mi ringolfai nei romanzi,  e  rileggeva
molte volte gli stessi, tra gli altri, Les Mille et une Nuit. Intanto, essendomi
stretto d'amicizia con parecchi giovanotti della città che stavano sotto  l'aio,
ci vedevamo ogni giorno, e si facevano delle gran cavalcate su certi  cavallucci
d'affitto, cose pazze da fiaccarcisi il collo migliaia di  volte  non  che  una;
come quella di far a correre all'ingiú dall'Eremo di  Camaldoli  fin  a  Torino,
ch'è una pessima selciata erta a picco, che non l'avrei fatta  poi  neppure  con
ottimi cavalli per nessun conto; e di correre pe' boschi che stanno tra il Po  e
la Dora, dietro a quel mio cameriere, tutti noi come cacciatori, ed egli sul suo
ronzino faceva da cervo; oppure si sbrigliava il di lui  cavallo  scosso,  e  si
inseguiva con grand'urli, e scoppietti di  fruste,  e  corni  artefatti  con  la
bocca, saltando fossi smisurati,  rotolandovi  spesso  in  bel  mezzo,  guadando
spessissimo la Dora, e principalmente nel luogo dove ella mette nel Po e facendo
insomma ogni sorte di simili scappataggini, e tali che  nessuno  piú  ci  voleva
affittar dei cavalli, per quanto  si  volessero  strapagare.  Ma  questi  stessi
strapazzi mi rinforzavano notabilmente il corpo, e m'innalzavano molto la mente;
e mi andavano preparando l'animo al meritare e sopportare, e forse a ben valermi
col tempo dell'acquistata mia libertà sí fisica che morale.



CAPITOLO OTTAVO Ozio totale. Contrarietà incontrate, e fortemente sopportate.

Non aveva altri allora che  s'ingerisse  de'  fatti  miei,  fuorché  quel  nuovo
cameriere, datomi dal curatore, quasi come  un  semi-aio,  ed  aveva  ordine  di
accompagnarmi sempre dapertutto. Ma a dir vero, siccome egli era un buon sciocco
ed anche interessatuccio, io col dargli molto ne faceva assolutamente  ogni  mio
piacere, ed egli non ridiceva nulla. Con tutto ciò, l'uomo  per  natura  non  si
contentando mai, ed io molto meno che niun altro, mi venne presto a  noia  anche
quella piccola suggezione dell'avermi sempre il cameriere alle reni, dovunque i'
m'andassi. E tanto piú mi riusciva gravosa questa servitú,  quanto  ch'ella  era
una  particolarità  usata  a  me  solo  di  quanti  ne  fossero  in  quel  Primo
Appartamento; poiché tutti gli altri uscivano da sé, e quante  volte  il  giorno
volevano. Né mi capacitai punto della ragione che mi si dava  di  questo,  ch'io
era il piú ragazzo di tutti, essendo sotto ai quindici anni. Onde m'incocciai in
quell'idea di voler uscir solo anche io, e senza dir nulla al  cameriere,  né  a
chi che sia, cominciai a uscir da me. Da prima fui ripreso dal governatore; e ci
tornai subito; la seconda volta fui messo in arresto in  casa,  e  poi  liberato
dopo  alcuni  giorni,  fui  da  capo  all'uscir  solo.   Poi   riarrestato   piú
strettamente, poi liberato, e riuscito di nuovo; e sempre  cosí  a  vicenda  piú
volte, il che durò forse un mese, crescendomisi  sempre  il  gastigo,  e  sempre
inutilmente. Alla per fine dichiarai in uno degli arresti,  che  mi  ci  doveano
tenere in perpetuo, perché appena sarei  stato  liberato,  immediatamente  sarei
tornato fuori da me; non volendo io nessuna particolarità né in bene né in male,
che mi facesse essere o piú o meno o diverso da tutti gli  altri  compagni;  che
codesta distinzione era ingiusta ed odiosa, e mi rendeva lo scherno degli altri;
che se pareva al signor governatore ch'io non fossi d'età né di costumi da poter
far come gli altri del Primo, egli mi poteva rimettere nel Secondo Appartamento.
Dopo tutte queste mie arroganze mi toccò un arresto cosí lungo, che ci stetti da
tre mesi e piú, e fra gli altri tutto l'intero carnevale del 1764. Io mi ostinai
sempre piú a non voler mai domandare d'esser  liberato,  e  cosí  arrabbiando  e
persistendo, credo che vi sarei marcito, ma non piegatomi mai.  Quasi  tutto  il
giorno dormiva; poi verso la sera mi alzava da  letto,  e  fattomi  portare  una
materassa vicino al caminetto, mi vi sdraiava su per terra; e  non  volendo  piú
ricevere il pranzo solito dell'Accademia, che mi facevano portar in  camera,  io
mi cucinava da me a quel fuoco della  polenta,  e  altre  cose  simili.  Non  mi
lasciava piú pettinare, né mi vestiva ed era ridotto come un ragazzo  salvatico.
Mí era inibito l'uscire di camera; ma lasciavano pure venire quei miei amici  di
fuori a visitarmi; i fidi compagni di quelle eroiche  cavalcate.  Ma  io  allora
sordo e muto, e quasi un corpo disanimato,  giaceva  sempre,  e  non  rispondeva
niente a nessuno qualunque cosa mi si dicesse. E stava cosí  delle  ore  intere,
con gli occhi conficcati in terra, pregni di  pianto,  senza  pur  mai  lasciare
uscir una lagrima.



CAPITOLO NONO Matrimonio della sorella.  Reintegrazione  del  mio  onore.  Primo
cavallo.

Da questa vita di vero bruto bestia, mi liberò  finalmente  la  congiuntura  del
matrimonio di mia sorella Giulia, col conte Giacinto di  Cumiana.  Seguí  il  dí
primo maggio 1764, giorno che mi restò impresso nella mente essendo  andato  con
tutto lo sposalizio alla bellissima  villeggiatura  di  Cumiana  distante  dieci
miglia da Torino; dove passai piú d'un mese allegrissimamente, come dovea essere
di uno scappato di carcere, detenutovi tutto l'inverno.  Il  mio  nuovo  cognato
avea impetrata la mia liberazione, ed a  piú  equi  patti  fui  ristabilito  nei
dritti  innati  dei  Primi  Appartamentisti  dell'Accademia;  e   cosí   ottenni
l'eguaglianza  con  i  compagni  mediante  piú  mesi   di   durissimo   arresto.
Coll'occasione di queste nozze aveva anche  ottenuto  molto  allargamento  nella
facoltà di spendere il mio, il che non mi si poteva oramai legalmente negare.  E
da questo ne nacque la compra del mio primo cavallo, che venne anche meco  nella
villeggiatura di Cumiana. Era questo cavallo un bellissimo  sardo,  di  mantello
bianco, di fattezze distinte, massime la testa, l'incollatura ed  il  petto.  Lo
amai con furore, e non me lo rammento mai senza una vivissima emozione.  La  mia
passione per esso andò al segno di guastarmi la quiete, togliermi la fame ed  il
sonno, ogni qual volta egli aveva alcuno incommoduccio; il che  succedeva  assai
spesso, perché egli era molto ardente e delicato  ad  un  tempo;  e  quando  poi
l'aveva fra le gambe, il mio affetto non m'impediva di tormentarlo e  malmenarlo
anche tal volta quando non volea fare a  modo  mio.  La  delicatezza  di  questo
prezioso animale mi serví ben tosto di pretesto per volerne un altro di  piú,  e
dopo quello due altri di carrozza, e poi uno di calessetto, e poi due  altri  di
sella, e cosí in men d'un anno arrivai sino  a  otto,  fra  gli  schiamazzi  del
tenacissimo curatore, ch'io lasciava pur cantare a suo  piacimento.  E  superato
cosí l'argine della stitichezza e parsimonia  di  codesto  mio  curatore;  tosto
traboccai in ogni sorte di spesa, e principalmente negli abiti, come già mi  par
d'avere piú sopra accennato. V'erano alcuni di quegli inglesi miei compagni, che
spendevano assai; onde io non volendo essere  soverchiato,  cercava  pure  e  mi
riusciva di soverchiare costoro. Ma, per altra parte, quei giovinotti miei amici
di fuori dall'Accademia, e coi quali io conviveva assai piú che  coi  forestieri
di dentro, per essere soggetti ai  lor  padri,  avevano  pochi  quattrini;  onde
benché a loro mantenimento fosse decentissimo, essendo essi dei primi signori di
Torino, pure le loro spese  di  capriccio  venivano  ad  essere  necessariamente
tenuissime. A risguardo dunque di questi, io debbo per amor del vero  confessare
ingenuamente di aver allora praticata una virtú, ed appurato che ella era in  me
naturale, ed invincibile: ed era di non  volere  né  potere  soverchiar  mai  in
nessuna cosa chi che sia, ch'io conoscessi o che si tenesse per minore di me  in
forza di corpo, d'ingegno, di generosità, d'indole, o di borsa. Ed in fatti,  ad
ogni abito nuovo, e ricco o di ricami, o di nappe, o  di  pelli  ch'io  m'andava
facendo, se mi veniva fatto di vestirmelo la mattina per andare  a  corte,  o  a
tavola con i compagni d'Accademia, che rivaleggiavano in queste vanezze con  me,
io poi me lo spogliava subito al dopo  pranzo,  ch'era  l'ora  in  cui  venivano
quegli altri da me; e li faceva anzi nascondere perché non li vedessero, e me ne
vergognava in somma con essi, come di un delitto; e tale in fatti nel mio  cuore
mi pareva, e l'avere, e molto piú il farne pompa, delle cose che  gli  amici  ed
eguali miei non avessero. E cosí pure, dopo avere con molte risse  ottenuto  dal
curatore di farmi fare una elegante  carrozza,  cosa  veramente  inutilissima  e
ridicola per un ragazzaccio di sedici anni in una città cosí  microscopica  come
Torino, io non vi saliva quasi mai, perché gli amici non l'avendo se ne dovevano
andare a sante gambe sempre. E quanto ai molti cavalli da sella, io me li  facea
perdonare da loro, accomunandoli  con  essi;  oltre  che  essi  pure  ne  aveano
ciascuno il suo, e mantenuto dai loro rispettivi genitori. Perciò questo ramo di
lusso mi dilettava anche piú di tutti altri,  e  con  meno  misto  di  ribrezzo,
perché  in  nulla  veniva  ad  offendere   gli   amici   miei.   Esaminando   io
spassionatamente e con l'amor del vero codesta mia prima gioventú,  mi  pare  di
ravvisarci fra le tante storture di un'età bollente, oziosissima,  ineducata,  e
sfrenata, una certa naturale pendenza alla giustizia, all'eguaglianza,  ed  alla
generosità d'animo, che mi paiono gli elementi d'un  ente  libero,  o  degno  di
esserlo.



CAPITOLO DECIMO Primo amoruccio. Primo viaggetto. Ingresso nelle truppe.

In una villeggiatura ch'io feci di circa un mese colla famiglia di due fratelli,
che erano dei principali miei amici, e compagni  di  cavalcate,  provai  per  la
prima volta sotto aspetto non dubbio la forza  d'amore  per  una  loro  cognata,
moglie del loro fratello maggiore. Era questa signorina, una brunetta  piena  di
brio, e di una certa protervia che mi facea  grandissima  forza.  I  sintomi  di
quella passione, di cui ho provato dappoi  per  altri  oggetti  cosí  lungamente
tutte le  vicende,  si  manifestarono  in  me  allora  nel  seguente  modo.  Una
malinconia profonda e ostinata; un ricercar sempre l'oggetto amato, e  trovatolo
appena, sfuggirlo; un non saper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi
momenti (non solo mai, che ciò non mi  veniva  fatto  mai,  essendo  ella  assai
strettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in disparte con essa; un correre
poi dei giorni interi (dopo che si ritornò di villa) in ogni angolo della città,
per vederla passare in tale o tal via, nelle passeggiate pubbliche del Valentino
e Cittadella; un non poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di  essa;
ed in somma tutti, ed alcuni piú, quegli effetti sí dottamente e affettuosamente
scolpiti dal nostro divino maestro  di  questa  divina  passione,  il  Petrarca.
Effetti, che poche persone intendono, e  pochissime  provano;  ma  a  quei  soli
pochissimi è concesso l'uscir dalla folla volgare in tutte le umane arti. Questa
prima mia fiamma, che non ebbe mai conclusione nessuna, mi restò poi  lungamente
semiaccesa nel cuore, ed in tutti i miei lunghi  viaggi  fatti  poi  negli  anni
consecutivi,  io  sempre  senza  volerlo,  e  quasi  senza  avvedermene   l'avea
tacitamente per norma intima d'ogni mio operare;  come  se  una  voce  mi  fosse
andata gridando nel piú segreto di esso: "Se tu acquisti tale, o tal pregio,  tu
potrai al ritorno tuo piacer maggiormente a costei; e cangiate  le  circostanze,
potrai forse dar corpo a  quest'ombra".  Nell'autunno  dell'anno  1765  feci  un
viaggietto di dieci giorni a Genova col mio curatore; e fu la mia  prima  uscita
dal paese. La vista del mare mi rapí veramente l'anima,  e  non  mi  poteva  mai
saziare di contemplarlo. Cosí pure la posizione magnifica e pittoresca di quella
superba città, mi riscaldò molto la fantasia. E se io allora avessi  saputa  una
qualche lingua, ed avessi avuti dei poeti per le mani,  avrei  certamente  fatto
dei versi; ma da quasi due anni io non apriva piú nessun  libro,  eccettuati  di
radissimo alcuni romanzi francesi, e qualcuna delle prose di  Voltaire,  che  mi
dilettavano assai. Nel mio andare a Genova ebbi un sommo piacere di rivedere  la
madre e la città mia, di dove mancava già da sette anni, che in quell'età paiono
secoli. Tornato poi di Genova, mi pareva di aver fatta una gran cosa,  e  d'aver
visto molto. Ma quanto io mi teneva di questo mio viaggio cogli amici  di  fuori
dell'Accademia  (benché  non  lo  dimostrassi  loro,  per   non   mortificarli),
altrettanto poi mi arrabbiava e rimpiccioliva in faccia ai compagni  di  dentro,
che tutti venivano di paesi lontani, come Inglesi,  Tedeschi,  Polacchi,  Russi,
etc.; ed a  cui  il  mio  viaggio  di  Genova  pareva,  com'era  in  fatti,  una
babbuinata. E questo mi dava una frenetica voglia di viaggiare, e di  vedere  da
me i paesi di tutti costoro. In quest'ozio e dissipazione  continua,  presto  mi
passarono gli ultimi diciotto mesi  ch'io  stetti  nel  Primo  Appartamento.  Ed
essendomi io fatto inscrivere nella lista dei postulanti  impiego  nelle  truppe
sin dal prim'anno ch'io v'era entrato, dopo esservi  stato  tre  anni,  in  quel
maggio del 1766, finalmente fui compreso in una  promozione  generale  di  forse
centocinquanta altri giovanotti.  E  benché  io  da  piú  d'un  anno,  mi  fossi
intiepidito  moltissimo  in  questa  vocazione  militare,  pure  non  avendo  io
ritrattata la mia petizione, mi convenne accettare; ed uscii  porta-insegna  nel
Reggimento Provinciale  d'Asti.  Da  prima  io  aveva  chiesto  d'entrare  nella
cavalleria, per l'amore innato dei cavalli; poi di lí  a  qualche  tempo,  aveva
cambiata  la  domanda,  bastandomi  di  entrare  in  uno  di   quei   Reggimenti
Provinciali, i quali in tempo di pace non si radunando all'insegne se non se due
volte l'anno, e per pochi giorni, lasciavano cosí una grandissima libertà di non
far nulla, che era appunto la sola cosa ch'io  mi  fossi  determinato  di  voler
fare.  Con  tutto  ciò,  anche  questa  milizia  di  pochi  giorni  mi  spiacque
moltissimo; e tanto piú, perché l'aver avuto  quell'impiego  mi  costringeva  di
uscire dall'Accademia, dove io mi trovava assai bene,  e  ci  stava  altrettanto
volentieri allora, quanto ci era stato  male  e  a  contragenio  nei  due  altri
Appartamenti, e i primi diciotto mesi del Primo. Bisognò pure ch'io m'adattassi,
e nel corrente di quel maggio lasciai  l'Accademia,  dopo  esservi  stato  quasi
ott'anni. E nel settembre mi presentai alla prima rassegna del mio reggimento in
Asti,  dove  compiei  esattissimamente  ogni   dovere   del   mio   impieguccio,
abborrendolo; e non  mi  potendo  assolutamente  adattare  a  quella  catena  di
dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente  l'anima  della
disciplina militare; ma non poteva esser l'anima mai d'un futuro poeta  tragico.
All'uscire dell'Accademia, aveva appigionato un piccolo  ma  grazioso  quartiere
nella casa stessa di mia sorella; e là attendeva a spendere il piú che  potessi,
in cavalli, superfluità d'ogni genere, e  pranzi  che  andava  facendo  ai  miei
amici,  ed  ai  passati  compagni  dell'Accademia.  La  smania   di   viaggiare,
accresciutasi  in  me  smisuratamente  col  conversare  moltissimo  con  codesti
forestieri, m'indusse contro la mia indole naturale ad intelaiare un  raggiretto
per vedere di strappare una licenza di viaggiare a Roma e a Napoli almeno per un
anno. E siccome era troppo certa cosa, che in età di anni diciassette  e  me  sí
ch'io allora mi aveva, non mi avrebbero mai lasciato andar solo, m'ingegnai  con
un aio inglese cattolico, che guidava un fiammingo, ed un olandese a far  questo
giro, e coi quali era stato già piú d'un anno nell'Accademia,  a  vedere  s'egli
voleva anche incaricarsi di me, e cosí fare  il  sudetto  viaggio  noi  quattro.
Tanto feci insomma, che  invogliai  anche  questi  di  avermi  per  compagno,  e
servitomi poi del mio cognato per ottenermi dal re la licenza di  partire  sotto
la condotta del sudetto aio inglese, uomo piú che maturo,  e  di  ottimo  grido,
finalmente restò fissata la partenza per i primi di  ottobre  di  quell'anno.  E
questo fu il primo, e in  seguito  poi  l'uno  dei  pochi  raggiri  ch'io  abbia
intrapresi  con  sottigliezza,  e  ostinazione  di  maneggio,   per   persuadere
quell'aio, e il cognato, e piú di  tutti  lo  stitichissimo  curatore.  La  cosa
riuscí, ma in me mi vergognava e irritava moltissimo di tutte le  pieghevolezze,
e simulazioni, e dissimulazioni che mi conveniva porre in opera per  ispuntarla.
Il re, che nel nostro piccolo paese di ogni piccolissima cosa  s'ingerisce,  non
si trovava essere niente propenso ai viaggi de' suoi nobili; e molto meno poi di
un ragazzo uscito allora del guscio, e che indicava un certo carattere.  Bisognò
insomma ch'io mi piegassi moltissimo. Ma grazie alla mia buona sorte, questo non
mi tolse poi di rialzarmi in appresso interissimo. E  qui  darò  fine  a  questa
seconda parte; nella quale m'avvedo benissimo che avendovi io intromesso con piú
minutezza cose forse anco piú insipide che nella  prima,  consiglierò  anche  al
lettore di non arrestarvisi molto, o anche di saltarla a  piè  pari;  poiché,  a
tutto ristringere in due parole, questi otto anni della  mia  adolescenza  altro
non sono che infermità, ed ozio, e ignoranza.


Epoca terza

GIOVINEZZA Abbraccia circa dieci anni di viaggi, e dissolutezze.

CAPITOLO PRIMO Primo viaggio. Milano, Firenze, Roma.

La mattina del dí 4 ottobre 1766, con mio indicibile trasporto, dopo aver  tutta
notte farneticato in pazzi pensieri senza mai chiuder occhio,  partii  per  quel
tanto sospirato  viaggio.  Eramo  una  carrozzata  dei  quattro  padroni,  ch'io
individuai, un calesse con due servitori, du'  altri  a  cassetta  della  nostra
carrozza, ed il mio cameriere a cavallo da corriere. Ma questi non era già  quel
vecchiotto datomi a guisa di aio tre anni prima, ché quello lo lasciai a Torino.
Era questo mio nuovo cameriere, un Francesco Elia, stato già quasi vent'anni col
mio zio, e dopo la di  lui  morte  in  Sardegna,  passato  con  me.  Egli  aveva
viaggiato  col  suddetto  mio  zio,  due  volte  in  Sardegna,  ed  in  Francia,
Inghilterra, ed Olanda. Uomo di sagacissimo ingegno, di un'attivítà non  comune,
e che valendo egli solo piú che tutti i nostri altri quattro servitori  presi  a
fascio, sarà d'ora in poi l'eroe protagonista  della  commedia  di  questi  miei
viaggi; di cui egli si trovò immediatamente essere il  solo  e  vero  nocchiero,
stante la nostra totale incapacità di tutti noi altri otto, o bambini, o  vecchi
rimbambiti. La prima stazione fu di circa quindici giorni in Milano.  Avendo  io
già visto Genova due anni prima, ed essendo abituato  al  bellissimo  locale  di
Torino, la topografia milanese non mi dovea, né potea piacer niente. Alcune cose
che vi sarebbero pur da vedersi, io o non vidi,  o  male  ed  in  fretta,  e  da
quell'ignorantissimo e svogliato ch'io era d'ogni utile o dilettevole arte, E mi
ricordo, tra l'altre, che  nella  Biblioteca  Ambrosiana,  datomi  in  mano  dal
bibliotecario non so piú quale  manoscritto  autografo  del  Petrarca,  da  vero
barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla. Anzi,  in
fondo del cuore, io ci aveva un  certo  rancore  con  codesto  Petrarca;  perché
alcuni anni prima, quando io era filosofo, essendomi capitato un  Petrarca  alle
mani, l'aveva aperto a caso da capo, da mezzo, e da piedi, e per tutto  lettine,
o compitati alcuni pochi versi, in nessun  luogo  aveva  inteso  nulla,  né  mai
raccapezzato il senso; onde l'avea sentenziato, facendo coro coi francesi e  con
tutti gli altri ignoranti presuntuosi; e tenendolo per un seccatore, dicitor  di
arguzie e freddure, aveva poi cosí ben accolto i suoi preziosissimi manoscritti.
Del resto, essendo io partito per quel viaggio d'un  anno,  senza  pigliar  meco
altri libri che alcuni Viaggi d'Italia, e questi tutti in lingua francese, io mi
avviava sempre piú alla total perfezione della mia già tanto inoltrata barbarie.
Coi compagni di viaggio si conversava sempre in francese, e cosí in alcune  case
milanesi dove io andava con essi, si parlava  pur  sempre  francese;  onde  quel
pochin pochino ch'io andava pur pensando e combinando nel mio povero capino, era
pure vestito di cenci francesi; e  alcune  letteruzze  ch'io  andava  scrivendo,
erano in francese; ed alcune memoriette ridicole ch'io andava  schiccherando  su
questi miei viaggi, eran pure in francese; e il tutto alla peggio,  non  sapendo
io questa linguaccia se non se a caso; non mi ricordando piú di  nessuna  regola
ove pur mai l'avessi saputa da prima; e molto meno  ancora  sapendo  l'italiano,
raccoglieva cosí il frutto dovuto della disgrazia primitiva del  nascere  in  un
paese anfibio, e della valente educazione ricevutavi. Dopo un soggiorno  di  due
settimane in circa, si partí di Milano. Ma siccome quelle mie  sciocche  Memorie
sul viaggio furono ben presto poi da me stesso corrette con  le  debite  fiamme,
non le rinnoverò io qui certamente, col particolarizzare oltre il dovere  questi
miei viaggi puerili, trattandosi di paesi tanto noti; onde, o nulla o pochissimo
dicendo delle diverse città, ch'io, digiuno di ogni bell'arte, visitai  come  un
Vandalo, anderò parlando di me stesso,  poiché  pure  questo  infelice  tema,  è
quello che ho assunto in quest'opera. Per la via di Piacenza, Parma,  e  Modena,
si giunse in pochi giorni a Bologna; né  ci  arrestammo  in  Parma  che  un  sol
giorno, ed in Modena poche ore, al solito senza veder  nulla,  o  prestissimo  e
male quello che ci era da vedersi. Ed il mio  maggiore,  anzi  il  solo  piacere
ch'io ricavassi dal viaggio, era di ritrovarmi correndo la posta  su  le  strade
maestre, e di farne alcune, e il piú che poteva, a cavallo da corriere. Bologna,
e i suoi portici e frati, non mi piacque gran cosa; dei suoi quadri non ne seppi
nulla; e sempre incalzato da una certa impazienza di luogo,  io  era  lo  sprone
perpetuo del nostro aio antico, che sempre lo instigava a partire.  Arrivammo  a
Firenze in fin d'ottobre; e quella fu la prima città, che a luoghi  mi  piacque,
dopo la partenza di Torino; ma mi piacque pur meno di Genova,  che  aveva  vista
due anni prima. Vi si fece soggiorno per un mese; e  là  pure,  sforzato,  dalla
fama del luogo, cominciai a visitare alla  peggio  la  Galleria,  e  il  Palazzo
Pitti, e varie chiese; ma il tutto con molta  nausea,  senza  nessun  senso  del
bello; massime in pittura; gli occhi miei essendo molto  ottusi  ai  colori;  se
nulla nulla gustava un po' piú era la  scoltura,  e  l'architettura  anche  piú;
forse era in me una reminiscenza del mio ottimo zio, l'architetto. La  tomba  di
Michelangelo in Santa Croce fu una delle poche cose che mi fermassero; e  su  la
memoria di quell'uomo di tanta fama feci una qualche riflessione; e fin da  quel
punto sentii fortemente, che non riuscivano veramente grandi fra gli uomini, che
quei pochissimi che aveano lasciata alcuna cosa stabile fatta da  loro.  Ma  una
tal riflessione isolata in mezzo a quell'immensa  dissipazione  di  mente  nella
quale io viveva continuamente, veniva ad essere per l'appunto come si suol dire,
una goccia di acqua nel mare. Fra le tante mie giovenili  storture,  di  cui  mi
toccherà di arrossire in eterno, non annovererò certamente come l'ultima  quella
di essermi messo in Firenze ad imparare la lingua inglese, nel  breve  soggiorno
di un mese ch'io vi feci, da un maestruccio inglese che vi era capitato; in vece
di imparare dal vivo esempio dei beati toscani a spiegarmi almeno senza barbarie
nella loro divina lingua, ch'io balbettante stroppiava, ogni qual  volta  me  ne
doveva prevalere. E perciò sfuggiva di parlarla, il piú che poteva;  stante  che
la vergogna di non saperla potea pur qualche cosa in me; ma vi potea pure  assai
meno che la infingardaggine del non volerla imparare. Con tutto ciò, io  mi  ero
subito ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile u  lombardo,  o  francese,
che sempre mi era spiaciuto moltissimo, per quella sua  magra  articolazione,  e
per quella boccuccia che fanno le labbra di chi  lo  pronunzia,  somiglianti  in
quell'atto moltissimo a quella rísibile smorfia che fanno le  scimmie,  allorché
favellano. E ancora adesso, benché di codesto u, da cinque e piú anni ch'io  sto
in Francia ne abbia pieni e foderati gli orecchi, pure egli mi  fa  ridere  ogni
volta che ci bado; e massime nella recita  teatrale,  o  camerale  (che  qui  la
recita è perpetua), dove sempre fra questi labbrucci contratti che paiono sempre
soffiare su la minestra bollente, campeggia principalmente la parola nature.  In
tal guisa io in Firenze, perdendo il mio tempo, poco vedendo, e nulla imparando,
presto tediandomivi, rispronaí l'antico nostro mentore, e si partí il  dí  primo
decembre alla volta di Lucca per Prato e Pistoia. Un giorno in Lucca mi parve un
secolo; e subito si ripartí per Pisa. E un  giorno  in  Pisa,  benché  molto  mi
piacesse il Camposanto, mi parve anche lungo. E subito, a Livorno. Questa  città
mi piacque assai e perché somigliava alquanto a Torino,  e  per  via  del  mare,
elemento del quale io non mi saziava mai. Il soggiorno nostro vi fu  di  otto  o
dieci giorni; ed io sempre barbaramente andava balbettando  l'inglese,  ed  avea
chiusi e sordi gli orecchi al toscano. Esaminando  poi  la  ragione  di  una  sí
stolta preferenza, ci trovai un falso amor proprio individuale,  che  a  ciò  mi
spingeva senza ch'io pure me ne avvedessi. Avendo per piú di  due  anni  vissuto
con inglesi; sentendo  per  tutto  magnificare  la  loro  potenza  e  ricchezza;
vedendone la grande influenza politica; e per  l'altra  parte  vedendo  l'Italia
tutta esser morta; gl'italiani, divisi, deboli, avviliti e servi; grandemente mi
vergognava d'essere, e di parere italiano, e nulla delle cose loro non voleva né
praticar, né sapere. Si partí di Livorno per Siena;  e  in  quest'ultima  città,
benché il locale non me ne piacesse gran fatto, pure, tanta è la forza del bello
e del vero, ch'io mi sentii quasiché un vivo raggio che  mi  rischiarava  ad  un
tratto la mente, e una dolcissima lusinga agli orecchi e al cuore, nell'udire le
piú infime persone cosí soavemente e con  tanta  eleganza  proprietà  e  brevità
favellare. Con tutto ciò non vi stetti che un  giorno;  e  il  tempo  della  mia
conversione letteraria e politica era ancora lontano assai; mi bisognava  uscire
lungamente d'Italia per conoscere ed apprezzar gli Italiani. Partii  dunque  per
Roma, con una palpitazione di cuore quasiché continua,  pochissimo  dormendo  la
notte, e tutto il dí ruminando in me stesso e il San Pietro, e il Coliseo, ed il
Panteon; cose che io aveva tanto udite esaltare; ed anche farneticava  non  poco
su alcune località della storia romana, la quale (benché senza  ordine  e  senza
esattezza) cosí presa in grande mi era bastantemente nota ed in  mente,  essendo
stata la sola istoria ch'io avessi voluto  alquanto  imparare  nella  mia  prima
gioventú. Finalmente, ai tanti di decembre  dell'anno  1766  vidi  la  sospirata
Porta del Popolo; e benché l'orridezza e miseria del paese da Viterbo in poi  mi
avesse fortemente indisposto, pure quella  superba  entrata  mi  racconsolò,  ed
appagommi l'occhio moltissimo. Appena eramo discesi alla piazza di  Spagna  dove
si albergò, subito noi tre giovanotti, lasciato l'aio riposarsi,  cominciammo  a
correre quel rimanente di giorno, e si visitò alla sfuggita, tra  l'altre  cose,
il Panteon. I miei compagni si mostravano sul totale piú maravigliati di  queste
cose, di quel che lo fossi io. Quando poi alcuni anni dopo ebbi  veduti  i  loro
paesi, mi son potuto dare facilmente ragione di quel loro stupore assai maggiore
del mio. Vi si stette allora otto giorni soli, in cui  non  si  fece  altro  che
correre per disbramare quella prima  impaziente  curiosità.  Io  preferiva  però
molto di tornare fin due volte il giorno a San Pietro, al veder  cose  nuove.  E
noterò, che quell'ammirabile riunione di cose sublimi non mi  colpí  alla  prima
quanto avrei desiderato e creduto, ma successivamente poi la maraviglia mia andò
sempre crescendo; e ciò,  a  tal  segno,  ch'io  non  ne  conobbi  ed  apprezzai
veramente il valore se  non  molti  anni  dopo,  allorché  stanco  della  misera
magnificenza oltramontana, mi venne fatto di dovermi trattenere  in  Roma  degli
anni.



CAPITOLO SECONDO Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dell'aio.

Incalzavaci  frattanto  l'imminente  inverno;  e  piú  ancora  incalzava  io  il
tardissimo aio, perché si partisse per  Napoli,  dove  s'era  fatto  disegno  di
soggiornare per tutto il carnevale. Partimmo dunque  coi  vetturini,  sí  perché
allora le strade di Roma a Napoli non erano quasi praticabili, sí  per  via  del
mio cameriere Elia, che a Radicofani essendo caduto sotto il cavallo di posta si
era rotto un braccio, e ricoverato poi nella  nostra  carrozza  avea  moltissimo
patito negli strabalzi di essa, venendo cosí  fino  a  Roma.  Molto  coraggio  e
presenza di spirito e vera fortezza d'animo  avea  mostrato  costui  in  codesto
accidente; poiché rialzatosi da sé, ripreso il ronzino per le redini,  si  avviò
soletto a piedi sino a Radicofani distante ancora piú d'un miglio. Quivi,  fatto
cercare un chirurgo, mentre lo  stava  aspettando  si  fece  sparare  la  manica
dell'abito, e visitandosi il braccio da sé, trovatolo rotto, si fece tenere  ben
saldamente la mano di esso stendendolo quanto piú poteva, e coll'altra, che  era
la mandritta, se lo riattò sí perfettamente, che il chirurgo, giunto  quasi  nel
tempo stesso che noi sopraggiungevamo con la carrozza,  lo  trovò  rassettato  a
guisa d'arte in maniera che, senza piú altrimenti toccarlo, subito lo fasciò,  e
in meno d'un'ora noi ripartimmo, collocando il ferito in carrozza, il quale pure
con viso baldo e fortissimo pativa non poco. Giunti ad Acquapendente,  si  trovò
rotto il timone della carrozza; del che trovandoci  noi  tutti  impicciatissimi,
cioè noi tre ragazzi, il vecchio aio, e gli  altri  quattro  stolidi  servitori,
quel solo Elia col braccio al collo, tre ore dopo la rottura, era piú in moto, e
piú efficacemente di noi tutti adoperavasi per risarcire il timone; e cosí  bene
diresse quella provvisoria rappezzatura,  che  in  meno  di  du'  altre  ore  si
ripartí, e l'infermo timone ci strascinò senz'altro accidente poi sino  a  Roma.
Io  mi  son  compiaciuto  d'individuare  questo  fatto  episodico,  come  tratto
caratteristico di un uomo di molto coraggio e gran presenza  di  spirito,  molto
piú che al suo  umile  stato  non  parea  convenirsi.  Ed  in  nessuna  cosa  mi
compiaccio maggiormente, che nel lodare ed ammirare  quelle  semplici  virtú  di
temperamento, che ci debbono pur tanto far piangere sovra i pessimi governi, che
le trascurano, o le temono e le soffocano. Si arrivò dunque a Napoli la  seconda
festa del Natale, con un tempo quasi di primavera. L'entrata da  Capo  di  China
per gli Studi e Toledo, mi presentò quella città in aspetto della  piú  lieta  e
popolosa ch'io avessi veduta mai fin allora, e mi rimarrà sempre  presente.  Non
fu poi lo stesso, quando mi toccò di albergare in una bettolaccia posta nel  piú
buio e sozzo chiassuolo della città: il che fu di necessità perché  ogni  pulito
albergo  ritrovavasi  pieno  zeppo  di  forestieri.  Ma  questa  contrarietà  mi
amareggiò assai quel soggiorno, stante che in me la località lieta  o  no  della
casa, ha sempre avuto una irresistibile influenza sul mio puerilissimo cervello,
sino alla piú inoltrata età. In pochi giorni per mezzo del nostro  ministro  fui
introdotto in parecchie case; e il carnovale, sí per  gli  spettacoli  pubblici,
che per le molte private feste e  varietà  d'oziosi  divertimenti,  mi  riusciva
brillante e piacevole piú ch'altro mai ch'io avessi veduto in Torino. Con  tutto
ciò in mezzo a quei nuovi e continui tumulti,  libero  interamente  di  me,  con
bastanti danari, d'età diciott'anni, ed una figura avvenente, io  ritrovava  per
tutto la sazietà, la noia, il dolore. Il mio piú  vivo  piacere  era  la  musica
burletta del Teatro Nuovo; ma sempre  pure  quei  suoni,  ancorché  dilettevoli,
lasciavano nell'animo mio una lunghissima romba di malinconia; e mi si  venivano
destando a centinaia le idee le piú funeste e lugubri, nelle quali mi compiaceva
non poco, e me le andava poi ruminando soletto alle sonanti spiagge di Chiaia  e
di Portici. Con parecchi  giovani  signori  napoletani  avea  fatto  conoscenza,
amicizia con niuno: la mia natura ritrosa anzi che no mi inibiva di ricercare; e
portandone la viva impronta sul viso, ella inibiva agli altri  di  ricercar  me.
Cosí delle donne, alle  quali  per  natura  era  moltissimo  inclinato,  non  mi
piacendo se non le modeste, io non piaceva pure che alle sole sfacciate; il  che
mi facea rimaner sempre col cuor vuoto. Oltre ciò, l'ardentissima  voglia  ch'io
sempre nutriva  in  me  di  viaggiare  oltre  i  monti,  mi  facea  sfuggire  di
allacciarmi in nessuna catena d'amore; e cosí in quel primo viaggio uscii  salvo
da ogni rete. Tutto il giorno io correva in quei  divertentissimi  calessetti  a
veder le cose piú lontane; e non per vederle, che di nulla avea curiosità  e  di
nessuna intendeva, ma per fare la strada, che dell'andare non mi saziava mai, ma
immediatamente mi addolorava lo stare.  Introdotto  a  corte,  benché  quel  re,
Ferdinando IV, fosse allora in età di quindici, o sedici anni, gli  trovai  pure
una total somiglianza di contegno con i tre altri sovrani ch'io avea veduti  fin
allora; ed erano il mio ottimo re Carlo Emanuele, vecchione; il duca di  Modena,
governatore  in  Milano;  e  il  granduca  di  Toscana  Leopoldo,   giovanissimo
anch'egli. Onde intesi benissimo fin da quel punto, che  i  principi  tutti  non
aveano fra loro che un solo viso, e che le corti tutte non erano  che  una  sola
anticamera. In codesto mio soggiorno di Napoli intavolai il mio secondo  raggiro
per mezzo del nostro ministro di Sardegna, per ottenere dalla corte di Torino la
permissione di lasciare il mio aio, e di continuare il mio viaggio da me. Benché
noi giovanotti vivessimo in perfetta armonia, e che l'aio non piú a  me  che  ad
essi cagionasse il  minimo  fastidio,  tuttavia  siccome  per  le  gite  da  una
all'altra città bisognava pure combinarci per muovere insieme,  e  siccome  quel
vecchio era sempre irresoluto, mutabile, e  indugiatore,  quella  dipendenza  mi
urtava. Convenne dunque ch'io mi piegassi a pregare il ministro di  scrivere  in
mio favore a Torino, e di testimoniare della mia buona condotta e  della  intera
capacità mia di regolarmi da me stesso, e di viaggiar solo. La  cosa  mi  riuscí
con mia somma soddisfazione, e ne contrassi molta gratitudine col  ministro,  il
quale avendomi preso anche a ben volere, fu il primo che  mi  mettesse  in  capo
ch'io dovrei tirarmi innanzi a  studiar  la  politica  per  entrare  nell'aringo
diplomatico. La cosa mi piacque assai; e mi parve allora, che  quella  fosse  di
tutte le servitú la men serva; e ci rivolsi  il  pensiero,  senza  però  studiar
nulla mai.  Limitando  il  mio  desiderio  in  me  stesso,  non  l'esternai  con
chicchessia, e mi contentai di tenere frattanto una condotta regolare e  decente
per tutto, superiore forse alla mia età. Ma in questo mi serviva la  natura  mia
assai piú ancora che il volere; essendo io stato sempre grave di  costumi  e  di
modi (senza impostura però), ed ordinato,  direi,  nello  stesso  disordine;  ed
avendo quasi sempre errato sapendolo. Io viveva frattanto in tutto e  per  tutto
ignoto a me stesso; non mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non
avendo nessunissimo impulso deciso, altro  che  alla  continua  malinconia,  non
ritrovando mai pace  né  requie,  e  non  sapendo  pur  mai  quello  che  io  mi
desiderassi. Obbedendo ciecamente alla natura mia,  con  tutto  ciò  io  non  la
conosceva né studiava per niente; e soltanto molti anni dopo mi avvidi,  che  la
mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch'era  in  me  di
avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente  da  un
qualche nobile lavoro; e ogniqualvolta l'una delle due cose mi mancò, io  rimasi
incapace dell'altra, e  sazio  e  infastidito  e  oltre  ogni  dire  angustiato.
Frattanto, per mettere in uso la mia nuova indipendenza totale, appena finito il
carnovale volli assolutamente partirmene solo per Roma, atteso che  il  vecchio,
dicendo di aspettar lettere di Fiandra, non fissava nessun tempo per la partenza
dei suoi pupilli. Io, impaziente di lasciar Napoli, di rivedere Roma; o, per dir
vero, impazientissimo di ritrovarmi solo e signore di me in una strada  maestra,
lontano trecento e piú miglia dalla mia  prigione  natia;  non  volli  differire
altrimenti, e abbandonai i compagni; ed in ciò feci bene, perché  in  fatti  poi
essi stettero tutto l'aprile in Napoli, e non furono per ciò piú  in  tempo  per
ritrovarsi all'Ascensione in Venezia, cosa che a me premeva allora moltissimo.



CAPITOLO TERZO Proseguimento dei viaggi. Prima mia avarizia.

Giunto a Roma, previo il mio fidato Elia, azzeccai a  piè  delle  scalere  della
Trinità de' Monti un grazioso quartierino molto gaio e pulito, che mi racconsolò
della sudiceria di Napoli. Stessa dissipazione, stessa noia, stessa  malinconia,
stessa smania di rimettermi in viaggio. E il peggio era,  stessissima  ignoranza
delle  cose  le  piú  svergognanti  chi  le  ignora;  e  maggiore  ogni   giorno
l'insensibilità per le tante  belle  e  grandiose  cose  di  cui  Roma  ridonda;
limitandomi a quattro e cinque delle principali che sempre ritornava  a  vedere.
Ogni giorno poi capitando dal conte di Rivera ministro di  Sardegna,  degnissimo
vecchio, il quale ancorché sordo non mi veniva per punto a noia, e mi dava degli
ottimi e luminosi consigli; mi accadde un giorno che si  trovò  da  lui  su  una
tavola un bellissimo Virgilio in folio, aperto spalancato al sesto  dell'Eneide.
Quel buon vecchio  vedendomi  entrare,  accennatomi  d'accostarmi,  cominciò  ad
intuonare con entusiasmo quei bellissimi versi  per  Marcello  cosí  rinomati  e
saputi da tutti. Ma io, che quasi piú punto non li intendeva, benché li avessi e
spiegati e tradotti e saputi a  memoria  circa  sei  anni  prima,  mi  vergognai
sommamente e me ne accorai per tal modo, che per piú giorni mi  ruminai  il  mio
obbrobrio in me stesso, e non capitai piú dal conte. Con tutto  ciò  la  ruggine
sovra il mio intelletto si andava incrostando sí densa,  e  tale  di  giorno  in
giorno sempre piú diveniva, che assai piú tagliente scalpello ci  volea  che  un
passeggiere rincrescimento, a volernela estirpare. Onde passò quella  sacrosanta
vergogna senza lasciare in me orma nessuna per allora, e non lessi altrimenti né
Virgilio, né alcun altro buon libro in nessuna lingua, per degli anni  parecchi.
In questa mia seconda dimora in Roma fui introdotto  al  papa,  che  era  allora
Clemente XIII, bel vecchio, e di una veneranda maestà; la quale,  aggiunta  alla
magnificenza locale del palazzo di Montecavallo, fece  sí  che  non  mi  cagionò
punto ribrezzo la solita prosternazione e il bacio del piede, benché  io  avessi
letta la storia ecclesiastica, e sapessi il giusto valore  di  quel  piede.  Per
mezzo poi del predetto conte di Rivera, io intavolai  e  riuscii  il  mio  terzo
raggiro presso la corte paterna di Torino, per ottenere  la  permissione  di  un
secondo anno di viaggi in cui destinava di vedere la  Francia,  l'Inghilterra  e
l'Olanda; nomi che mi  suonavano  maraviglia  e  diletto  nella  mia  giovinezza
inesperta. E anche questo terzo raggiretto mi riuscí, onde, ottenuto  quell'anno
piú, per tutto il 1768 in circa io mi trovava in piena  libertà  e  certezza  di
poter correre il mondo. Ma nacque allora una piccola  difficoltà,  la  quale  mi
contristò lungamente. Il mio curatore, col quale  non  si  era  mai  entrato  in
conti, e che non mi avea mai fatto vedere in chiaro con esattezza  quello  ch'io
m'avessi d'entrata; dandomi parole  diverse  ed  ambigue,  ed  ora  accordandomi
danari, ora no; mi scrisse in quell'occasione dell'ottenuta permissione, che pel
second'anno  mi  avrebbe  somministrata  una  credenziale  di   millecinquecento
zecchini, non me ne avendo dati che soli milleduecento pel primo viaggio. Questa
sua intimazione mi sbigottí assai, senza  però  scoraggirmi.  Udendo  io  sempre
mentovare la gran carezza dei paesi oltramontani, mi riusciva assai dura cosa di
dovermi trovare sprovvisto, e di esservi costretto a far  delle  triste  figure.
Per altra parte poi, io non mi arrischiava di scrivere di buon  inchiostro  allo
stitico curatore, perché a quel modo l'avrei subito avuto contrario; e m'avrebbe
intuonato la parola re, la quale in Torino nei piú interni affari  domestici  si
suole sempre intrudere, fra il ceto dei nobili; e gli sarebbe stato  facilissimo
di divolgarmi per discolo e scialacquatore,  e  di  farmi  come  tale  richiamar
subito in patria. Non feci dunque nessuna querela col curatore, ma presi  in  me
la risoluzione di risparmiare quanti piú danari potrei in quel primo viaggio dai
milleduecento zecchini già assegnatimi, per cosí accrescere quanto piú potrei ai
millecinquecento da esigersi, e che mi pareano scarsissimi per un anno di viaggi
oltramontani. In questo modo io per la prima volta, da  un  giusto  e  piuttosto
largo spendere, ristrettomi alla  meschinità,  provai  un  doloroso  accesso  di
sordida avarizia. Ed andò questa tant'oltre  che  non  solo  non  andava  piú  a
visitare nessuna delle curiosità di Roma per non dare le mancie, ma anche al mio
fidato e diletto Elia, procrastinandolo d'un giorno in  un  altro,  io  venni  a
negargli i danari del suo salario e vitto, a segno ch'egli mi si protestò  ch'io
lo sforzerei a rubarmeli per campare. Allora,  di  mal  animo,  glie  li  diedi.
Rimpicciolito cosí di mente e di cuore, partii verso  i  primi  di  maggio  alla
volta di Venezia; e la mia meschinità mi fece prendere il vetturino, ancorché io
abborrissi quel passo mulare: ma pure il divario  tra  la  posta  e  la  vettura
essendosi grande, io mi vi sottoposi, e mi avviai bestemmiando. Io lasciava  nel
calesse Elia col servitore, e me n'andava cavalcando un umile  ronzino,  che  ad
ogni terzo passo inciampava; onde io faceva  quasi  tutta  la  strada  a  piedi,
conteggiando cosí sotto voce e su le dita della mano quanto mi costerebbero quei
dieci o dodici giorni di viaggio; quanto,  un  mese  di  soggiorno  in  Venezia;
quanto sarebbe il risparmio all'uscir d'Italia, e quanto questa cosa,  e  quanto
quell'altra; e mi logorava il cuore  e  il  cervello  in  cotali  sudicerie.  Il
vetturino era patteggiato da me sino a Bologna per la via di Loreto;  ma  giunto
con tanta noia e  strettezza  d'animo  in  Loreto,  non  potei  piú  star  saldo
all'avarizia e alla mula, e non volli piú continuare di quel mortifero passo.  E
qui la nascente gelata avarizia rimase vinta e sbeffata dalla bollente indole  e
dalla giovanile insofferenza. Onde,  fatto  a  dirittura  un  grosso  sbilancio,
sborsai al vetturino quasi che tutto il pattuito importare di tutto  il  viaggio
di Roma a Bologna, e piantatolo in Loreto, me  ne  partii  per  le  poste  tutto
riavutomi; e l'avarizia diventò d'allora in  poi  un  giusto  ordine,  ma  senza
spilorceria. Bologna non mi piacque nulla piú, anzi meno al ritorno che  non  mi
fosse piaciuta all'andare; Loreto non mi compunse di divozione  nessuna;  e  non
sospirando altro che Venezia, della quale avea udito tante maraviglie già fin da
ragazzo, dopo un solo giorno di stazione  in  Bologna,  proseguii  per  Ferrara.
Passai anche questa città senza pur ricordarmi, ch'ella era la patria e la tomba
di quel divino Ariosto di cui pure avea letto in parte  il  poema  con  infinito
piacere, e i di cui versi erano stati i primi primissimi che mi fossero capitati
alle mani. Ma il mio povero intelletto dormiva allora di un sordidissimo  sonno,
e ogni giorno piú s'irruginiva quanto alle lettere. Vero è però, che quanto alla
scienza del mondo e degli uomini, io andava acquistando  non  poco  ogni  giorno
senza avvedermene, stante la gran quantità di continui e diversi  quadri  morali
che mi venivan visti e osservati giornalmente. Al ponte di Lagoscuro  m'imbarcai
su la barca corriera di Venezia; e mi vi trovai in compagnia d'alcune  ballerine
di teatro, di cui una era bellissima; ma questo non mi alleggerí punto  la  noia
di quell'imbarcazione, che durò due giorni e una notte, sino a  Chiozza,  atteso
che codeste ninfe faceano le Susanne, e che io non ho mai tollerato la  simulata
virtú. Ed eccomi finalmente in Venezia. Nei primi giorni l'inusitata località mi
riempí di maraviglia e diletto e me ne piacque perfino il  gergo,  forse  perché
dalle  commedie  del  Goldoni  ne  avea  sin  da  ragazzo  contratta  una  certa
assuefazíone d'orecchio; ed in fatti quel dialetto è grazioso, e manca  soltanto
di maestà. La  folla  dei  forestieri,  la  quantità  dei  teatri,  ed  i  molti
divertimenti e feste che, oltre le solite farsi per ogni fiera dell'Ascensa,  si
davano in quell'anno a contemplazione del duca di Wirtemberg, e tra  l'altre  la
sontuosa regata, mi fecero trattenere in Venezia sino a mezzo giugno, ma non  mi
tennero perciò divertito. La solita malinconia, la noia, e l'insofferenza  dello
stare, ricominciavano a darmi i loro aspri  morsi  tosto  che  la  novità  degli
oggetti trovavasi ammorzata. Passai piú giorni in Venezia solissimo senza  uscir
di casa; e senza pure far nulla che stare alla finestra, di dove andava  facendo
dei segnuzzi, e qualche breve dialoghetto con una signorina che  mi  abitava  di
faccia; e il rimanente del giorno lunghissimo, me lo passava o dormicchiando,  o
ruminando non saprei che, o il piú spesso anche piangendo, né so di  che;  senza
mai trovar pace, né investigare né  dubitarmi  pure  della  cagione  che  me  la
intorbidava o toglieva.  Molti  anni  dopo,  osservandomi  un  poco  meglio,  mi
convinsi poi che questo era  in  me  un  accesso  periodico  d'ogni  anno  nella
primavera, alle volte in aprile, alle volte anche sino a tutto giugno; e  piú  o
meno durevole e da me sentito, secondo che il cuore e la  mente  si  combinavano
essere allora piú o meno vuoti ed oziosi. Nell'istesso modo  ho  osservato  poi,
paragonando il mio intelletto ad un eccellente  barometro,  che  io  mi  trovava
avere ingegno e capacità al comporre piú o meno,  secondo  il  piú  o  men  peso
dell'aria; ed una totale stupidità nei gran venti solstiziali ed equinoziali;  e
una infinitamente minore perspicacità la  sera  che  la  mattina;  e  assai  piú
fantasia, entusiasmo, e attitudine all'inventare nel sommo inverno e nella somma
state che non nelle stagioni di mezzo. Questa mia materialità, che credo pure in
gran parte essere comune un po' piú un po' meno a  tutti  gli  uomini  di  fibra
sottile, mi ha poi col tempo scemato e annullato ogni  orgoglio  del  poco  bene
ch'io forse andava alle volte operando, come anche mi ha in gran parte diminuito
la vergogna del tanto piú male che avrò certamente fatto,  e  massime  nell'arte
mia; essendomi pienamente convinto che non era quasi in me  il  potere  in  quei
dati tempi fare altrimenti.



CAPITOLO QUARTO Fine del viaggio d'Italia, e mio primo arrivo a Parigi.

Riuscitomi dunque il soggiorno in Venezia sul totale  anzi  noioso  che  no;  ed
essendo perpetuamente incalzato dalla smania del  futuro  viaggio  d'oltramonti,
non ne cavai neppure il minimo frutto. Non visitai neppure la decima parte delle
tante maraviglie, sí di pittura che d'architettura e scoltura, riunite tutte  in
Venezia; basti dire con mio infinito rossore, che né pure l'Arsenale. Non  presi
nessunissima notizia, anco delle piú alla grossa, su quel governo  che  in  ogni
cosa differisce da ogni altro; e che, se non buono, dee  riputarsi  almen  raro,
poiché pure per tanti secoli ha  sussistito  con  tanto  lustro,  prosperità,  e
quiete. Ma io, digiuno sempre d'ogni bell'arte turpemente vegetava, e non altro.
Finalmente partii di Venezia al solito con mille volte assai maggior  gusto  che
non c'era arrivato. Giunto a Padova, ella mi  spiacque  molto;  non  vi  conobbi
nessuno dei tanti professori di vaglia, i quali desiderai poi di conoscere molti
anni dopo; anzi, allora al solo nome di professori, di studio, e di  Università,
io mi sentiva rabbrividire. Non mi ricordai (anzi neppur lo  sapeva)  che  poche
miglia distante da Padova giacessero le ossa del nostro gran  luminare  secondo,
il Petrarca; e che m'importava egli di lui, io che mai non l'avea né  letto,  né
inteso, né sentito,  ma  appena  appena  preso  fra  le  mani  talvolta,  e  non
v'intendendo nulla buttatolo? Perpetuamente cosí spronato e incalzato dalla noia
e dall'ozio, passai Vicenza, Verona, Mantova, Milano, e in fretta  in  furia  mi
ridussi in Genova, città che da me veduta alla sfuggita  qualch'anni  prima,  mi
avea lasciato un certo desiderio di sé. Io avea delle lettere di raccomandazione
in quasi tutte le suddette città, ma per lo piú non le ricapitava, o se  pur  lo
faceva, il mio solito era di non mi lasciar piú vedere; fuorché  quelle  persone
non mi venissero insistentemente a cercare; il che non accadea quasi mai, e  non
doveva in fatti accadere. Questa sí fatta selvatichezza era in me occasionata in
parte da fierezza e  inflessibilità  d'ineducato  carattere,  in  parte  da  una
renitenza naturale e quasi invincibile al veder visi  nuovi.  Ed  era  pur  cosa
impossibile davvero di andar sempre cangiando paese senza che mi si  cangiassero
le persone. Avrei voluto per la parte del cuore convivere sempre con  la  stessa
gente; ma sempre in luogo diverso. In Genova dunque, non vi  essendo  allora  il
ministro di Sardegna, e non conoscendovi altri che il mio banchiere, non  tardai
anche molto a tediarmi; e già aveva fissato di partirne verso il fine di giugno,
allorché un giorno quel  banchiere,  uomo  di  mondo  e  di  garbo,  venutomi  a
visitare, e trovatomi cosí solitario, selvatico,  e  malinconico,  volle  sapere
come io passassi il mio tempo; e vedendomi senza libri, senza conoscenze,  senza
occupazione altra che di stare al balcone, e correre tutto il giorno per le  vie
di Genova, o di passeggiare pel fido in barchetta, gli  prese  forse  una  certa
compassione di me e della mia giovinezza, e volle assolutamente portarmi  da  un
cavaliere suo amico. Questi era il signor Carlo Negroni, che avea  passata  gran
parte della sua vita in Parigi, e che vedendomi cotanto invogliato  di  andarvi,
me ne disse quel vero e schietto, al quale non prestai fede  se  non  se  alcuni
mesi dopo, tosto  che  vi  fui  arrivato.  Frattanto  quel  garbato  signore  mi
introdusse  in  parecchie  case  delle  primarie;  e  all'occasione  del  famoso
banchetto che si suol dare dal  doge  nuovo,  egli  mi  serví  d'introduttore  e
compagno. E là fui quasi sul punto d'innamorarmi d'una gentil signora, la  quale
mi si mostrava bastantemente benigna. Ma per altra parte smaniando io di correre
il mondo e di abbandonar l'Italia, Amore non poté per quella  volta  afferrarmi,
ma me la serbò per non molto dopo. Partito finalmente per mare in una feluchetta
alla volta di Antibo, pareva a me d'andare all'Indie. Non mi era mai scostato da
terra piú che poche miglia nelle mie passeggiate marittime; ma allora,  alzatosi
un venticello favorevole, si prese il largo; successivamente poi rinforzò  tanto
il vento, che fattosi pericoloso fummo costretti di pigliar porto in  Savona;  e
soggiornarvi due dí per aspettare buon tempo. Questo ritardo mi noiò ed afflisse
moltissimo; e non uscii mai di casa, neppure  per  visitare  quella  famosissima
Madonna di Savona. Io non  voleva  piú  assolutamente  vedere  né  sentir  nulla
dell'Italia; onde ogni istante di piú che mi ci dovea trattenere, mi pareva  una
dura difalcazione dai tanti diletti che mi aspettavano in Francia. Frutto in  me
di una sregolata fantasia, che tutti i beni e tutti i mali  m'ingrandiva  sempre
oltremodo, prima di provarli; talché poi gli uni e gli altri, e principalmente i
beni, all'atto pratico poi non mi parevano  nulla.  Giunto  pure  una  volta  in
Antibo, e sbarcatovi, parea che tutto mi racconsolasse l'udire altra lingua,  il
vedere altri usi, altro fabbricato, altre faccie; e benché tutto fosse piuttosto
diverso in peggio che in meglio, pure mi dilettava quella piccola varietà. Tosto
ripartii per Tolone; e appena in  Tolone,  volli  ripartir  per  Marsiglia,  non
avendo visto nulla in Tolone, città la cui faccia mi dispiacque moltissimo.  Non
cosí di Marsiglia, il cui ridente aspetto, le nuove, ben diritte e  pulite  vie,
il bel corso, il bel porto, e le leggiadre e  proterve  donzelle,  mi  piacquero
sommamente alla prima; e subito mi determinai di starvi un mesetto, per lasciare
sfogare anche gli eccessivi calori del luglio, poco opportuni al viaggiare.  Nel
mio albergo v'era giornalmente tavola rotonda, onde io trovandomi aver compagnia
a pranzo e cena, senza essere costretto di parlare (cosa  che  sempre  mi  costò
qualche sforzo, sendo di taciturna natura),  io  passava  con  soddisfazione  le
altre ore del giorno da me. E la mia taciturnità, di  cui  era  anche  in  parte
cagione una certa timidità che non ho mai vinta del tutto in appresso, si andava
anche raddoppiando a quella tavola, attesa la costante garrulità dei francesi, i
quali vi si trovavano di ogni specie; ma i piú erano  ufficiali,  o  negozianti.
Con nessuno però di essi né amicizia contrassi né famigliarità, non  essendo  io
in ciò mai stato di natura liberale né facile.  Io  li  stava  bensí  ascoltando
volentieri, benché non v'imparassi nulla; ma lo ascoltare è una cosa che non  mi
ha costato mai pena, anche i piú sciocchi discorsi, dai quali si apprende  tutto
quello che non va detto. Una  delle  ragioni  che  mi  aveano  fatto  desiderare
maggiormente la Francia, si era di poterne seguitatamente godere il  teatro.  Io
aveva veduto due anni prima in Torino una compagnia di comici  francesi,  e  per
tutta un'estate l'aveva assiduamente  praticata;  onde  molte  delle  principali
tragedie, e quasi tutte le piú celebri commedie, mi erano note.  Io  debbo  però
dire pel vero, che sí in Torino che in Francia; sí in quel primo  viaggio,  come
nel secondo fattovi due anni e piú dopo; non mi  cadde  mai  nell'animo,  né  in
pensiero pure, ch'io volessi o potessi mai scrivere delle composizioni teatrali.
Onde io ascoltava le altrui con attenzione sí, ma senza intenzione  nessuna;  e,
ch'è piú, senza sentirmi nessunissimo impulso al  creare;  anzi  sul  totale  mi
divertiva assai piú la commedia, di quello che mi toccasse la tragedia, ancorché
per natura mia fossi tanto piú inclinato al pianto che  al  riso.  Riflettendovi
poi in appresso, mi parve che l'una  delle  principali  ragioni  di  questa  mia
indifferenza per la tragedia, nascesse dall'esservi in quasi tutte  le  tragedie
francesi delle scene intere, e spesso  anche  degli  atti,  che  dando  luogo  a
personaggi  secondari  mi  raffreddavano  la  mente  ed  il  cuore   assaissimo,
allungando senza bisogno d'azione, o per  meglio  dire  interrompendola.  Vi  si
aggiungeva poi, che l'orecchio mio, ancorché io non volessi essere italiano, pur
mi serviva ottimamente malgrado mio, e  mi  avvertiva  della  noiosa  e  insulsa
uniformità di quel verseggiare a pariglia a pariglia di rime, e i versi a  mezzi
a mezzi, con tanta trivialità di modi, e sí spiacevole nasalità di suoni;  onde,
senza ch'io sapessi  pur  dire  il  perché,  essendo  quegli  attori  eccellenti
rispetto ai nostri iniquissimi; essendo le cose da  essi  recitate  per  lo  piú
ottime quanto all'affetto, alla condotta, e ai pensieri; io  con  tutto  ciò  vi
andava  provando  una  freddezza  di  tempo  in  tempo,  che  mi  lasciava   mal
soddisfatto. Le tragedie che mi andavano piú a genio, erano la Fedra,  l'Alzira,
il Maometto, e poche altre. Oltre il teatro, era anche uno de' miei divertimenti
in Marsiglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare.  Mi  era  venuto  trovato  un
luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del
porto, dove sedendomi su la rena con le  spalle  addossate  a  uno  scoglio  ben
altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me
non vedeva altro che mare e cielo; e cosí fra  quelle  due  immensità  abbellite
anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell'onde, io mi passava un'ora di
delizie fantasticando; e quivi avrei composto molte poesie, se io avessi  saputo
scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse. Ma tediatomi pure
anche del soggiorno di Marsiglia, perché ogni cosa presto tedia gli  oziosi;  ed
incalzato ferocemente dalla frenesia di Parigi; partii verso il 10  d'agosto,  e
piú come fuggitivo che come viaggiatore, andai notte e giorno senza posarmi sino
a Lione. Non Aix col suo magnifico e ridente passeggio; non Avignone,  già  sede
papale, e tomba della celebra Laura; non Valchiusa, stanza già sí gran tempo del
nostro divino Petrarca; nulla mi potea distornare dall'andar dritto a  guisa  di
saetta in verso Parigi. In Lione la stanchezza mi fece trattenere due notti e un
giorno; e ripartitone con lo stesso furore, in meno di tre  giorni  per  la  via
della Borgogna mi condussi in Parigi.



CAPITOLO QUINTO Primo soggiorno in Parigi.

Era, non ben mi ricordo il dí quanti di agosto, ma fra  il  15,  e  il  20,  una
mattinata nubilosa fredda e  piovosa;  io  lasciava  quel  bellissimo  cielo  di
Provenza e d'Italia, e non  era  mai  capitato  fra  sí  fatte  sudicie  nebbie,
massimamente in agosto; onde l'entrare in Parigi pel sobborgo miserrimo  di  San
Marcello, e il progredire poi quasi in un fetido fangoso sepolcro  nel  sobborgo
di San Germano, dove andava ad albergo, mi serrò sí fortemente il  cuore,  ch'io
non mi ricordo di aver provato in vita  mia  per  cagione  sí  piccola  una  piú
dolorosa impressione. Tanto affrettarmi, tanto anelare, tante pazze illusioni di
accesa fantasia, per poi inabissarmi in quella fetente  cloaca.  Nello  scendere
all'albergo, già mi trovava pienamente disingannato; e se non era la  stanchezza
somma, e la non picciola vergogna che me ne sarebbe ridondata, io immediatamente
sarei ripartito. Nell'andar  poi  successivamente  dattorno  per  tutto  Parigi,
sempre piú mi andai confermando nel mio  disinganno.  L'umiltà  e  barbarie  del
fabbricato; la risibile  pompa  meschina  delle  poche  case  che  pretendono  a
palazzi; il sudiciume e goticismo  delle  chiese;  la  vandalica  struttura  dei
teatri d'allora; e i tanti e tanti e tanti oggetti spiacevoli che  tutto  dí  mi
cadeano sott'occhio, oltre il piú amaro di tutti, le  pessimamente  architettate
faccie impiastrate delle bruttissime donne; queste cose tutte  non  mi  venivano
poi abbastanza rattemperate dalla bellezza dei tanti giardini,  dall'eleganza  e
frequenza degli stupendi passeggi pubblici, dal buon gusto e numero infinito  di
bei cocchi, dalla sublime facciata del Louvre, dagli innumerabili e quasi  tutti
buoni spettacoli, e da altre sí fatte cose. Continuava intanto  con  incredibile
ostinazione il mal tempo, a segno che da quindici e piú  giorni  d'agosto  ch'io
aveva passati in Parigi, non ne aveva ancora salutato il sole. Ed i miei giudizi
morali, piú assai  poetici  che  filosofici,  si  risentivano  sempre  non  poco
dell'influenza dell'atmosfera. Quella prima impressione di Parigi mi  si  scolpí
sí fortemente nel capo, che ancora adesso (cioè ventitré anni dopo) ella mi dura
negli occhi e nella fantasia, ancorché in  molte  parti  la  ragione  in  me  la
combatta e condanni. La corte stava in Compiegne, e ci si dovea  trattenere  per
tutto il settembre; onde non essendo allora in Parigi l'ambasciatore di Sardegna
per cui aveva delle lettere, io non vi  conosceva  anima  al  mondo,  altri  che
alcuni forestieri già da me incontrati e trattati in diverse città  d'Italia.  E
questi neppure conosceano nessuna onesta persona in Parigi. Dunque cosí  passava
io il mio tempo fra i passeggi, i teatri, le ragazze di mondo, e il dolore quasi
che  continuo:  e  cosí  durai  sino  al  fin  di  novembre,  tempo  in  cui  da
Fontainebleau si restituí l'ambasciatore  a  dimora  in  Parigi.  Introdotto  io
allora da esso in  varie  case,  principalmente  degli  altri  ministri  esteri,
dall'ambasciatore di Spagna dove c'era un faraoncino, mi posi per la prima volta
a giuocare. Ma senza notabile perdita né vincita mai, ben presto mi tediai anche
del giuoco, come d'ogni altro mio passatempo in Parigi; onde  mi  determinai  di
partirne in gennaio per Londra; stufo di Parigi, di cui non conoscea pure  altro
che le strade; e sul totale già molto raffreddato nella  smania  di  veder  cose
nuove; tutte sempre trovandole di  gran  lunga  inferiori,  non  che  agli  enti
immaginari ch'io mi era andati creando nella fantasia, ma  agli  stessi  oggetti
reali già da me veduti  nei  diversi  luoghi  d'Italia;  talché  in  Londra  poi
terminai d'imparare a ben conoscere e prezzare e Napoli, e Roma,  e  Venezia,  e
Firenze. Prima ch'io partissi per Londra, avendomi  proposto  l'ambasciatore  di
presentarmi a corte in Versailles, io accettai per una certa curiosità di vedere
una corte maggiore delle già vedute da me sin allora,  benché  fossi  pienamente
disingannato su tutte. Ci fui pel capo d'anno del 1768, giorno anche piú curioso
attese le varie funzioni che vi si praticano. Ancorché io fossi prevenuto che il
re non parlava ai forestieri comuni, e che certo poco m'importasse  di  una  tal
privazione, con tutto ciò non potei inghiottire il  contegno  giovesco  di  quel
regnante, Luigi XV, il quale squadrando l'uomo presentatogli da  capo  a  piedi,
non dava segno di riceverne impressione nessuna; mentre  se  ad  un  gigante  si
dicesse: "Ecco ch'io  gli  presento  una  formica":  egli  pure  guardandola,  o
sorriderebbe, o direbbe forse: "Oh che  piccolo  animaluzzo!";  o  se  anche  il
tacesse, lo direbbe il di lui viso per esso. Ma quella negativa di  sprezzo  non
mi afflisse poi piú allorquando, pochi momenti  dopo,  vidi  che  il  re  andava
spendendo la stessa moneta delle sue occhiate  sopra  degli  oggetti  tanto  piú
importanti che non m'era io. Fatta una breve preghiera fra due suoi prelati,  di
cui l'uno, se ben ricordo, era  cardinale,  il  re  si  avviò  per  andare  alla
cappella, e fra due porte gli si fece  incontro  il  preposto  della  Mercanzia,
primo uffiziale della Municipalità di Parigi, e gli balbettò un  complimentuccio
d'uso pel capo d'anno. Il taciturno sire gli rispose con un'alzata di  testa:  e
rivoltosi ad uno de' suoi cortigiani che  lo  seguivano,  domandò  dove  fossero
rimasti les echevins, che sono i consueti accoliti del suddetto preposto. Allora
una voce cortigianesca uscita cosí a mezzo  dalla  turba  di  essi,  facetamente
disse: Ils sont restés embourbés. Rise tutta  la  corte,  e  lo  stesso  monarca
sorrise, e passò oltre verso la messa che lo aspettava.  La  incostante  fortuna
poi volle, che in poco piú di vent'anni io vedessi in Parigi nel  Palazzo  della
Citta un altro Luigi re ricevere assai piú benignamente un altro  assai  diverso
complimento fattogli da altro preposto sotto il titolo di maire, il dí 17 luglio
1789: ed erano allora rimasti embourbés i cortigiani nel venir di  Versailles  a
Parigi, benché fosse di fitta estate; ma il fango su quella strada  era  fino  a
quel punto fatto perenne. E di aver visto tal cosa ne loderei forse Dio, se  non
temessi, e credessi pur troppo, che gli effetti e influenza di questi re  plebei
siano per essere ancor piú funestí alla Francia ed al mondo, che quelli  dei  re
capetini.



CAPITOLO SESTO Viaggio in Inghilterra e in Olanda. Primo intoppo amoroso.

Partii dunque di Parigi verso il mezzo gennaio, in compagnia di un cavaliere mio
paesano, giovine di bellissimo aspetto, di età circa dieci  o  dodici  anni  piú
avanzato di me, di un certo ingegno naturale; ignorante, quanto me;  riflessivo,
assai meno, e piú amatore del gran mondo che conoscitore o  investigatore  degli
uomini. Egli era cugino del nostro ambasciatore in Parigi, e nipote del principe
di Masserano allora ambasciatore di Spagna in Londra, in  casa  del  quale  egli
doveva alloggiare. Benché io non amassi gran fatto di legarmi di  compagnia  per
viaggio, pure per andare a un determinato luogo  e  non  piú,  mi  ci  accomodai
volentieri. Questo mio nuovo compagno era di un umore  assai  lieto  e  loquace,
onde con vicendevole  soddisfazione  io  taceva  e  ascoltava,  egli  parlava  e
lodavasi, essendo egli fortemente innamorato di sé, per aver piaciuto molto alle
donne; e mi andava annoverando con pompa i suoi trionfi amorosi, ch'io  stava  a
sentire con diletto, e senza invidia nessuna. La sera all'albergo, aspettando la
cena, giuocavamo a scacchi, ed egli sempre mi vinceva, essendo io  stato  sempre
ottusissimo a tutti i giuochi. Si fece un giro piú lungo per Lilla, e  Douay,  e
Sant'Oméro, per renderci a Calais; ed era il freddo  sí  eccessivo,  che  in  un
calesse stivatissimo coi cristalli, ed inoltre un  candelotto  che  ci  tenevamo
acceso,  ci  si  agghiacciò  in  una  notte  il  pane,  ed  il  vino  stesso;  e
quest'eccesso mi rallegrava, perché io per  natura  poco  gradisco  le  cose  di
mezzo. Lasciate finalmente le rive della Francia, appena sbarcavamo  a  Douvres,
che quel freddo, si trovò scemato per metà, e non trovammo quasi punta neve  fra
Douvres e Londra. Quanto mi era spiaciuto Parigi  al  primo  aspetto,  tanto  mi
piacque subito e l'Inghilterra, e Londra massimamente. Le strade, le osterie,  i
cavalli,  le  donne,  il  ben  essere  universale,  la  vita  e  l'attività   di
quell'isola, la pulizia e comodo delle case  benché  picciolissime,  il  non  vi
trovare pezzenti, un moto perenne di  danaro  e  d'industria  sparso  egualmente
nelle province che nella capitale; tutte queste doti  vere  ed  uniche  di  quel
fortunato e libero paese, mi rapirono l'animo a bella  prima,  e  in  due  altri
viaggi, oltre quello, ch'io vi ho fatti  finora,  non  ho  variato  mai  piú  di
parere, troppa essendo la differenza tra  l'Inghilterra  e  tutto  il  rimanente
dell'Europa in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal
miglior governo. Onde, benché  io  allora  non  ne  studiassi  profondamente  la
costituzione, madre di tanta prosperità, ne seppi però  abbastanza  osservare  e
valutare gli effetti divini. In Londra essendo molto maggiore la facilità per  i
forestieri di essere introdotti nelle case, di quel che non sia in  Parigi,  io,
che a quella difficoltà parigina non avea mai voluto  piegarmi  per  ammollirla,
perché non mi curo di vincere le difficoltà da cui non me ne ridonda niun  bene,
mi lasciai allora per qualche mesi strascicare da quella facilità, e da quel mio
compagno di viaggio, nel vortice del gran mondo. Contribuí  anche  non  poco  ad
infrangere  la  mia  naturale  rusticità  e  ritrosia  la  cortese   e   paterna
amorevolezza verso di me del principe  di  Masserano,  ambasciatore  di  Spagna,
ottimo vecchio, appassionatissimo dei piemontesi, essendo  il  Piemonte  la  sua
patria, benché il di lui padre si fosse già traspiantato  in  Ispagna.  Ma  dopo
circa tre mesi, avvedendomi che in quelle veglie e  cene  e  festini  io  mi  ci
seccava purtroppo, e niente imparavaci, scambiatami allora la parte, in vece  di
recitare da cavaliere nella veglia, mi elessi di far da cocchiere alla porta  di
essa, e incarrozzava e scarrozzava di qua e di là per tutto Londra  il  mio  bel
Ganimede compagno, a cui solo lasciava la gloria dei trionfi amorosi; e  mi  era
ridotto a far sí bene e disinvoltamente il mio servizio di cocchiere, che  anche
di alcuni di quei combattimenti a timonate che usano  tra  i  cocchieri  inglesi
all'uscire del Renelawgh, e dei teatri, ne uscii con  un  qualche  onore,  senza
rottura di legno né danno dei cavalli. In  tal  guisa  dunque  terminai  i  miei
divertimenti di quell'inverno, col cavalcare quattro o cinqu'ore ogni mattina, e
stare a cassetta due o tre ore ogni sera a guidare, per qualunque tempo facesse.
Nell'aprile poi col mio solito compagno si fece una  scorsa  per  le  piú  belle
province d'Inghilterra. Si andò a Portsmouth e Salsbury, a Bath, Bristol,  e  si
tornò per Oxford a Londra. Il paese mi piacque molto,  e  l'armonia  delle  cose
diverse, tutte concordanti in  quell'isola  al  massimo  ben  essere  di  tutti,
m'incantò sempre piú fortemente; e  fin  d'allora  mi  nascea  il  desiderio  di
potervi stare per sempre a dimora; non che gli individui me ne  piacessero  gran
fatto, (benché assai piú dei francesi, perché piú buoni e  alla  buona),  ma  il
local del paese, i semplici costumi, le belle e  modeste  donne  e  donzelle,  e
sopra tutto l'equitativo governo, e la vera libertà che n'è figlia; tutto questo
me ne faceva affatto scordare la spiacevolezza  del  clima,  la  malinconia  che
sempre vi ti accerchia, e la rovinosa carezza del vivere. Tornato  poi  da  quel
giretto che mi avea rimesso su  le  mosse,  io  già  di  bel  nuovo  mi  sentiva
incalzato dal furore dell'andare, e con gran pena differii ancora sino ai  primi
di giugno la mia partenza per l'Olanda. E allora poi,  per  la  via  di  Harwich
imbarcatomi per  Helvoetsluys,  con  un  rapidissimo  vento  in  dodici  ore  vi
approdai. La Olanda è nell'estate un  ameno  e  ridente  paese;  ma  mi  sarebbe
piaciuta anche piú, se l'avessi  visitata  prima  dell'Inghilterra;  atteso  che
quelle stesse cose che vi si ammirano, popolazione,  ricchezza,  lindura,  savie
leggi, industria ed attività somma, tutte vi si trovano alquanto minori  che  in
Inghitterra. Ed in fatti poi, dopo molti altri viaggi e molta piú esperienza,  i
due soli paesi dell'Europa che mi hanno sempre lasciato desiderio  di  sé,  sono
stati l'Inghilterra e l'Italia; quella, in quanto l'arte ne  ha  per  cosí  dire
soggiogata o trasfigurata la natura; questa, in quanto la  natura  sempre  vi  è
robustamente risorta a fare in mille  diversi  modi  vendetta  dei  suoi  spesso
tristi e sempre inoperosi governi. Nel mio soggiorno nell'Haia, che riuscí assai
piú lungo che non avea disegnato, io incappai finalmente nell'amore, che mai fin
allora non mi avea potuto raggiungere né afferrare. Una gentil signorina,  sposa
da un anno, piena di grazie naturali,  di  modesta  bellezza,  e  di  una  soave
ingenuità, mi toccò vivissimamente nel cuore; ed il  paese  essendo  piccolo,  e
poche le distrazioni, nel rivederla io assai piú spesso che non avrei voluto  da
prima, tosto poi mi venni a dolere di non poterla veder  abbastanza.  Mi  trovai
preso, senza quasi avvedermene, in  una  terribile  maniera;  talché  già  stava
ruminando in me stesso niente meno che di non mi muover mai piú né vivo né morto
dall'Haia,  persuadendomi  che  mi  sarebbe  impossibilissima  cosa  di   vivere
senz'essa. Apertosi il mio indurito cuore agli strali d'Amore, egli avea  ad  un
tempo stesso dato adito alle dolci insinuazioni dell'amicizia.  Ed  era  il  mio
nuovo amico, il signor Don Iosé  D'Acunha,  ministro  allora  di  Portogallo  in
Olanda. Egli era uomo di molto  ingegno  e  piú  originalità,  di  una  bastante
coltura, e di un ferreo carattere; magnanimo di  cuore,  di  animo  bollente  ed
altissimo. Una certa simpatia fra le nostre due taciturnità ci  avea  già  quasi
allacciati vicendevolmente, senza che ce ne avvedessimo; la franchezza poi e  il
calore dei nostri due animi ben tosto ebbe operato  il  di  piú.  Io  dunque  mi
trovava felicissimo nell'Haia, dove per la prima volta in vita mia mi  occorreva
di non desiderare altra cosa al mondo nessuna, oltre l'amica, e l'amico.  Amante
io ed amico, riamato da entrambi  i  soggetti,  traboccava  da  ogni  parte  gli
affetti, parlando dell'amata all'amico, e dell'amico all'amata; e  gustava  cosí
dei piaceri vivissimi incomparabili, e fino a quel punto ignoti  al  mio  cuore,
benché tacitamente pur sempre me li fosse egli andato richiedendo,  e  additando
come in confuso. Mille savi  consigli  mi  dava  continuamente  quel  degnissimo
amico; e quello massimamente, di cui non perderò mai la memoria, si fu del farmi
con destrezza ed efficacia arrossire della mia stupida oziosa vita, del non  mai
aprir un libro qualunque, dell'ignorar tante cose, e piú che altro i nostri, pur
tanti e sí ottimi, italiani poeti ed i piú distinti (ancorché pochi) prosatori e
filosofi. Tra questi, l'immortal Niccolò Machiavelli, di cui  null'altro  sapeva
io che il semplice nome, oscurato e trasfigurato  da  quei  pregiudizi  con  cui
nelle nostre educazioni ce lo definiscono senza mostrarcelo, e  senza  averlo  i
detrattori di esso né letto,  né  inteso  se  pur  mai  visto  l'hanno.  L'amico
D'Acunha me ne regalò un esemplare, che ancora conservo, e che poi molto  lessi,
e alcun poco postillai, ma dopo molti e molti anni. Una  stranissima  cosa  però
(la quale io notai molto  dopo,  ma  che  allora  vivamente  sentii  senza  pure
osservarla) si era, che io non mi sentiva mai ridestare in mente e nel cuore  un
certo desiderio di studi ed un certo impeto ed effervescenza  d'idee  creatrici,
se non se in quei tempi in cui mi trovava il cuore fortemente occupato  d'amore;
il quale, ancorché mi distornasse da ogni  mentale  applicazione,  ad  un  tempo
stesso me ne invogliava; onde io non mi teneva mai tanto capace di  riuscire  in
un qualche ramo di letteratura, che allorquando avendo un oggetto caro ed  amato
mi parea di potere a quello tributare anco i frutti del mio ingegno.  Ma  quella
mia felicità olandese non mi durò gran tempo. Il marito della mia donna, era  un
ricchissimo individuo il di cui padre era stato  governatore  di  Batavia;  egli
mutava spessissimo luogo, ed avendo  recentemente  comprata  una  baronia  negli
Svizzeri, voleva andarvi a villeggiare in quell'autunno. Nell'agosto  egli  fece
colla moglie un viaggietto all'acque di Spa; ed io dietro loro, non essendo egli
gran fatto geloso. Nel tornare poi di Spa verso l'Olanda, si venne insieme  sino
a Mastricht, e là mi fu forza lasciarla, perché ella dovea andar in villa con la
di lei madre, mentre il marito andava  egli  solo  verso  la  Svizzera.  Io  non
conosceva la di lei madre, e non v'era né pretesto né mezzo decente e plausibile
per intromettermi in casa altrui. Codesta prima separazione mi spaccò  veramente
il cuore; ma rimanevaci pure ancora una qualche speranza  di  rivederci.  Ed  in
fatti, tornato io all'Haia, e partito il marito per la Svizzera, di lí  a  pochi
giorni ricomparí l'adorata donna nell'Haia. La mia contentezza fu somma,  ma  fu
un lampo momentaneo. Dopo dieci giorni in cui veramente mi tenni  ed  era  beato
sopra ogni uomo, non sentendosi ella il  cuore  di  dirmi  qual  giorno  dovesse
ripartire per la villa, né avendo io il coraggio di domandarglielo; una  mattina
ad un tratto mi  venne  a  vedere  l'amico  D'Acunha,  e  nel  dirmi  ch'ell'era
sforzatamente dovuta partire, mi diede una sua letterina che mi colpí  a  morte,
benché tutta spirasse affetto  ed  ingenuità  nell'annunziarmi  l'indispensabile
necessità in cui si trovava, di non poter piú senza scandalo differire la di lei
partenza alla volta del marito, che le avea ingiunto  di  raggiungerlo.  L'amico
soavemente aggiungeva in voce, che non v'essendo rimedio,  bisognava  dar  luogo
alla necessità ed alla ragione. Non sarei forse reputato veridico, se io volessi
annoverare tutte le frenesie dell'addolorato disperato mio animo. A  ogni  conto
voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a  nessuno;
e fingendomi ammalato perché l'amico mi lasciasse,  feci  chiamare  il  chirurgo
perché mi cavasse sangue, venne, e me lo cavai. Uscito appena  il  chirurgo,  io
finsi di voler dormire, e chiusomi fra le cortine del  letto  io  stava  qualche
minuti fra me ruminando  a  quello  ch'io  stava  per  fare,  poi  principiai  a
sfasciare la sanguigna avendo fermo in me di cosí dissanguarmi e perire. Ma quel
non meno sagace che fido Elia, che mi vedea in tale violento stato, e che  anche
dall'amico era stato addottrinato prima di lasciarmi, simulando che io lo avessi
chiamato mi tornò alla sponda del letto rialzando la cortina ad un tratto;  onde
io sorpreso e vergognoso ad un tempo, forse anche pentito o mal  fermo  nel  mio
giovenile proposto, gli dissi che la fasciatura mi s'era disfatta; egli finse di
crederlo, e me la rifasciò, né piú mi volle perder di vista un momento. Ed anzi,
fatto di nuovo cercar l'amico, egli corse da me, ed ambedue quasi mi  sforzarono
ad alzarmi da letto, e l'amico mi volle portare a casa sua dove mi vi  trattenne
per piú giorni, nei quali mai non  mi  abbandonò.  Il  mio  dolore  era  cupo  e
taciturno; o  sia  che  mi  vergognassi,  o  che  mi  diffidassi,  non  l'ardiva
esternare; onde o taceami, ovvero piangeva. Frattanto ed il tempo, e i  consigli
dell'amico, e le piccole divagazioni a cui egli mi  costringeva,  e  un  qualche
raggio d'incerta speranza di poterla rivedere; di  ritornare  in  Olanda  l'anno
dopo, e piú ch'ogni cosa forse la natural  leggerezza  di  quella  età  di  anni
diciannove, mi andarono a poco a poco sollevando. Ed ancorché il mio  animo  non
si risanasse per assai gran tempo, la  ragione  mi  rientrò  pure  intera  nello
spazio di pochi giorni. Cosí alquanto  rinsavito,  ma  dolentissimo,  fermai  di
partire alla volta d'Italia, riuscendomi ingratissima la vista di un paese e  di
luoghi ai quali io ridomandava il  mio  bene  perduto  quasi  ad  un  tempo  che
posseduto. Mi doleva però assaissimo di staccarmi da  un  tale  amico;  ma  egli
stesso, vedendomi sí gravemente piagato, mi incoraggí al  partire,  essendo  ben
convinto che il moto, la varietà  degli  oggetti,  la  lontananza  ed  il  tempo
infallibilmente mi guarirebbero. Verso il mezzo settembre mi separai  dall'amico
in Utrecht, dove mi volle accompagnare, e di donde per la via di Brusselles, per
la Lorena, Alsazia, Svizzera, e Savoia non mi arrestai  piú  sino  in  Piemonte,
altro che per dormire; ed in meno di tre settimane mi ritrovai in Cumiana  nella
villa di mia sorella, dove andai subito da Susa senza  passar  per  Torino,  per
isfuggire ogni consorzio umano, avendo bisogno di digerire la mia  febbre  nella
piena solitudine. E durante tutto il viaggio, nulla vidi in tutte  quelle  città
di passo, Nancy, Strasborgo, Basilea, e Ginevra, altro che le mura; né mai aprii
bocca col fidato Elia, che adattandosi alla mia infermità, mi obbediva a  cenni,
e antiveniva ogni mio bisogno.



CAPITOLO SETTIMO Ripatriato per un mezz'anno, mi do agli studi filosofici.

Tale fu il primo mio viaggio, che durò due anni e qualche giorni. Dopo circa sei
settimane di villeggiatura con mia sorella, restituendosi ella in città,  tornai
in Torino con essa. Molti non mi riconoscevano quasi piú attesa la  statura  che
in quei due anni mi si era infinitamente accresciuta; tanto era il bene  che  mi
aveva fatto alla complessione quella vita variata, oziosa,  e  strapazzatissima.
Nel passar di Ginevra io avea comprato un pieno baule di libri. Tra quelli erano
le opere di Rousseau, di Montesquieu, di  Helvetius,  e  simili.  Appena  dunque
ripatriato, pieno traboccante il cuore di malinconia e d'amore,  io  mi  sentiva
una necessità assoluta di fortemente applicare la mente in un qualche studio; ma
non sapeva il quale, stante che la trascurata educazione coronata  poi  da  quei
circa sei anni di ozio e di dissipazione, mi avea fatto egualmente  incapace  di
ogni studio qualunque. Incerto di quel che mi farei, e se rimarrei in patria,  o
se viaggierei di bel nuovo, mi posi per quell'inverno a stare  in  casa  di  mia
sorella, e tutto il giorno leggeva,  un  pochino  passeggiava,  e  non  trattava
assolutamente con nessuno. Le mie letture erano sempre di libri francesi.  Volli
leggere l'Eloisa di Rousseau; piú volte mi ci provai; ma benché io fossi  di  un
carattere per natura appassionatissimo, e  che  mi  trovassi  allora  fortemente
innamorato, io trovava in quel libro tanta maniera,  tanta  ricercatezza,  tanta
affettazione di sentimento, e sí poco sentire, tanto calor comandato di capo,  e
sí gran freddezza di cuore, che mai non mi venne fatto di poterne  terminare  il
primo volume. Alcune altre sue opere politiche, come il  Contratto  sociale,  io
non le intendeva, e perciò le lasciai. Di Voltaire mi allettavano  singolarmente
le prose, ma i di lui versi mi tediavano. Onde non lessi mai la sua Enriade,  se
non se a squarcetti; poco piú la Pucelle, perché l'osceno non  mi  ha  dilettato
mai; ed alcune delle di lui tragedie. Montesquieu all'incontro lo lessi di  capo
in fondo ben due volte, con maraviglia, diletto, e forse anche  con  un  qualche
mio utile. L'Esprit di Helvetius mi  fece  anche  una  profonda,  ma  sgradevole
impressione. Ma il libro dei libri per  me,  e  che  in  quell'inverno  mi  fece
veramente trascorrere, dell'ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le  vite  dei
veri grandi. Ed alcune di  quelle,  come  Timoleone,  Cesare,  Bruto,  Pelopida,
Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto
di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella
camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All'udire  certi  gran
tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava  in  piedi  agitatissimo,  e
fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato  in
Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non  si  poteva  né  fare  né
dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e  pensare.  In  quello
stesso inverno studiai anche con molto calore il sistema planetario, ed i moti e
leggi dei corpi celesti, fin dove si può arrivare a capirle, senza  il  soccorso
della per me inapprendibile geometria. Cioè a dire ch'io  studiai  malamente  la
parte istorica di quella scienza tutta per sé  matematica.  Ma  pure,  cinto  di
tanta ignoranza, io ne intesi abbastanza per sublimare il  mio  intelletto  alla
immensità di questo tutto creato; e nessuno studio mi avrebbe rapito e riempiuto
piú l'animo che questo, se io avessi avuto i debiti principii  per  proseguirlo.
Tra queste dolci  e  nobili  occupazioni,  che  dilettandomi  pure,  accresceano
nondimeno notabilmente la mia taciturnità, malinconia  e  nausea  d'ogni  comune
divertimento, il mio  cognato  mi  andava  continuamente  istigando  di  pigliar
moglie. Io, per natura, sarei stato  inclinatissimo  alla  vita  casereccia;  ma
l'aver veduta l'Inghilterra in età di diciannove anni, e l'aver caldamente letto
e sentito Plutarco all'età di venti anni, mi ammonivano, ed inibivano di pigliar
moglie e di procrear figli in Torino. Con tutto  ciò  la  leggerezza  di  quella
stessa età mi piegò a poco a poco ai replicati consigli, ed acconsentii  che  il
cognato trattasse per me il matrimonio con una  ragazza  erede,  nobilissima,  e
piuttosto bellina, con occhi nerissimi che presto mi avrebbero fatto smettere il
Plutarco, nello stesso modo che Plutarco forse avea indebolito in me la passione
della bella olandese. Ed io confesserò di aver avuto in quel punto la  viltà  di
desiderare  la  ricchezza  piú  ancora  che  la  bellezza  di  codesta  ragazza;
speculando in me stesso, che l'accrescere  circa  di  metà  la  mia  entrata  mi
porrebbe in grado di maggiormente fare quel che si dice nel mondo buona  figura.
Ma la mia buona sorte mi serví in questo affare assai meglio che il mio debile e
triviale giudizio, figlio d'infermo animo. La  ragazza,  che  da  bel  principio
avrebbe inclinato a me, fu svolta da una sua zia  a  favore  d'altro  giovinotto
signore, il quale essendo figlio di famiglia con molti fratelli, e  zii,  veniva
ad essere allora assai men comodo di me, ma godeva di un certo favore  in  corte
presso il duca di Savoia erede presuntivo del trono, di cui era stato paggio,  e
dal quale ebbe in fatti poi quelle grazie che comporta il paese. Oltre  ciò,  il
giovine era di un'ottima indole, e di un'amabile costumatezza. Io, al contrario,
aveva taccia di uomo straordinario in mal senso, poco adattandomi al pensare, ai
costumi, al pettegolezzo, e al servire del mio paese, e non  andando  abbastanza
cauto nel biasimare e schernire quegli usi; cosa, che (giustamente a  dir  vero)
non si perdona. Io fui dunque  solennemente  ricusato,  e  mi  fu  preferito  il
suddetto giovine. La ragazza fece ottimamente  per  il  bene  suo,  poiché  ella
felicissimamente  passò  la  vita  in  quella  casa  dove  entrò;  e  fece  pure
ottimamente per l'util mio, poiché se io incappava in codesto legame di moglie e
figli, le Muse per me certamente eran ite. Io da quel rifiuto ne ritrassi ad  un
tempo pena e piacere; perché mentre si trattava la cosa io  spessissimo  provavo
dei pentimenti, e ne avea una certa vergogna di me stesso che non esternava,  ma
non la sentiva perciò meno; arrossendo in me medesimo di ridurmi  per  danari  a
far cosa che era contro il mio intimo modo di pensare. Ma una picciolezza ne  fa
due, e sempre poi si moltiplicano. Cagione di questa mia  non  certo  filosofica
cupidità, si era l'intenzione che già dal mio soggiorno in Napoli  avea  accolta
nell'animo di  attendere  quando  che  fosse  ad  impieghi  diplomatici.  Questo
pensiere veniva fomentato  in  me  dai  consigli  del  mio  cognato,  cortigiano
inveterato; onde a desiderio di quel ricco matrimonio era  come  la  base  delle
future ambascierie, alle quali meglio si fa fronte quanto piú si ha  danari.  Ma
buon per me, che il matrimonio  ito  in  fumo,  mandò  pure  in  fumo  ogni  mia
ambasciatoria velleità; né mai feci chiesta nessuna di tale impiego, e  per  mia
minor vergogna questo mio stupido e non alto desiderio  nato  e  morto  nel  mio
petto, non fu (toltone il mio cognato) noto a chicchessia. Appena  iti  a  vuoto
questi due disegni, mi rinacque subito il pensiero di proseguire i  miei  viaggi
per altri tre anni, per veder poi intanto quello che vorrei fare di me. L'età di
venti anni mi lasciava tempo a pensarci. Io aveva aggiustati  i  miei  interessi
col curatore, dalla di cui podestà si esce nel mio paese  al  suonar  dei  venti
anni. Venuto piú in chiaro delle cose mie, mi trovai esser molto piú agiato  che
non m'avea detto il curatore fino a quel punto. Ed egli in questo mi  giovò  non
poco avendomi piuttosto avvezzato al meno che al piú.  Perciò  d'allora  in  poi
quasi sempre fui giusto nello spendere. Trovandomi dunque allora  circa  duemila
cinquecento zecchini di effettiva spendibile  entrata,  e  non  poco  danaro  di
risparmio nei tanti anni di minorità, mi parve pel mio paese e per un uomo  solo
di essere ricco abbastanza, e deposta ogni  idea  di  moltiplico  mi  disposi  a
questo secondo viaggio, che volli fare con piú spesa e maggiori comodi.



CAPITOLO OTTAVO Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia.

Ottenuta la solita indispensabile e dura permissione del re, partii  nel  maggio
del 1769  a  bella  prima  alla  volta  di  Vienna.  Nel  viaggio,  abbandonando
l'incarico noioso del pagare al mio fidatissimo Elia, io cominciava a fortemente
riflettere su le cose del mondo; ed in vece  di  una  malinconia  fastidiosa  ed
oziosa, e di quella mera impazienza di luogo, che mi aveano sempre incalzato nel
primo  viaggio,  in  parte  da  quel  mio  innamoramento,  in  parte  da  quella
applicazione continua di sei mesi in cose di qualche rilievo, ne  avea  ricavata
un'altra malinconia riflessiva  e  dolcissima.  Mi  riuscivano  in  ciò  di  non
picciolo aiuto (e forse devo lor tutto, se  alcun  poco  ho  pensato  dappoi)  i
sublimi Saggi del familiarissimo Montaigne, i quali divisi in dieci  tometti,  e
fattisi  miei  fidi  e  continui  compagni  di  viaggio,  tutte   esclusivamente
riempivano le tasche della mia carrozza. Mi dilettavano ed  instruivano,  e  non
poco lusingavano anche la mia ignoranza e pigrizia, perché aperti cosí  a  caso,
qual che si fosse il volume, lettane una pagina o due, lo richiudeva,  ed  assai
ore poi su quelle due pagine sue io andava fantasticando del mio.  Ma  mi  facea
bensí molto scorno quell'incontrare ad ogni pagine di Montaigne uno o piú  passi
latini, ed essere costretto a cercarne  l'interpretazione  nella  nota,  per  la
totale impossibilità in cui mi era ridotto d'intendere neppure le  piú  triviali
citazioni di prosa, non che le tante dei piú sublimi poeti. E già  non  mi  dava
neppur piú la briga di provarmici, e asinescamente leggeva a dirittura la  nota.
Dirò piú; che quei sí spessi squarci dei nostri poeti primari  italiani  che  vi
s'incontrano, anco venivano da me saltati a  piè  pari,  perché  alcun  poco  mi
avrebbero costato fatica a benissimo intenderli. Tanta era in  me  la  primitiva
ignoranza, e la desuetudíne poi di questa divina lingua, la quale in ogni giorno
piú andava perdendo. Per la via di Milano  e  Venezia,  due  città  ch'io  volli
rivedere; poi per Trento, Inspruck, Augusta,  e  Monaco,  mi  rendei  a  Vienna,
pochissimo trattenendomi in tutti i suddetti luoghi. Vienna mi parve avere  gran
parte delle picciolezze di Torino, senza averne il bello della località.  Mi  vi
trattenni tutta l'estate, e non vi imparai nulla. Dimezzai il soggiorno, facendo
nel luglio una scorsa fino a Buda, per  aver  veduta  una  parte  dell'Ungheria.
Ridivenuto oziosissimo, altro non faceva che  andare  attorno  qua  e  là  nelle
diverse compagnie; ma sempre ben armato contro le insidie d'amore. E  mi  era  a
questa difesa un fidissimo usbergo il praticare il rimedio commendato da Catone.
Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare  il
celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro  ministro,  il
degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta  di
altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici  o
greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio  conte  di  Canale,  che  mi
affezionava, e moltissimo compativa i miei  perditempi,  mi  propose  piú  volte
d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere  di  natura  ritrosa,  era  anche  tutto
ingolfato nel  francese,  e  sprezzava  ogni  libro  ed  autore  italiano.  Onde
quell'adunanza di  letterati  di  libri  classici  mi  parea  dover  essere  una
fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a
Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la  genuflessioncella  di
uso, con una faccia sí servilmente  lieta  e  adulatoria,  ed  io  giovenilmente
plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto,  che  io  non  avrei
consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa  appigionata
o venduta all'autorità despotica da me sí caldamente abborrita. In tal guisa  io
andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e  queste
disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni  e  le
loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale
e risibile. Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi
trattenni da un mese; indi a  Berlino,  dove  dimorai  altrettanto.  All'entrare
negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo  corpo
di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l'orrore per quell'infame mestier
militare, infamissima e sola base dell'autorità  arbitraria,  che  sempre  è  il
necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti.  Fui  presentato  al
re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia  né  di  rispetto,  ma
d'indegnazione bensí e di rabbia;  moti  che  si  andavano  in  me  ogni  giorno
afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante  diverse  cose
che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano  pure  la
faccia e la fama di vere. Il conte di  Finch,  ministro  del  re,  il  quale  mi
presentava, mi domandò perché io, essendo pure  in  servizio  del  mio  re,  non
avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: "Perché in quella corte  mi
parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza". Il re mi  disse  quelle  quattro
solite parole di uso; io l'osservai profondamente,  ficcandogli  rispettosamente
gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi  aver  fatto  nascer  suo
schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso  il  mezzo  novembre,
abborrendola quanto bisognava. Partito alla volta di Amburgo, dopo tre giorni di
dimora, ne ripartii per la Danimarca. Giunto a Copenhaguen ai primi di decembre,
quel paese mi piacque  bastantemente,  perché  mostrava  una  certa  somiglianza
coll'Olanda; ed anche v'era una certa attività, commercio,  ed  industria,  come
non si sogliono vedere nei governi pretti monarchici: cose tutte, dalle quali ne
ridonda un certo ben essere universale, che a primo aspetto previene chi arriva,
e fa un tacito elogio di chi vi comanda; cose tutte, di cui  neppur  una  se  ne
vede negli stati prussiani; benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e
all'arti e alla prosperità, di fiorire sotto  l'uggia  sua.  Onde  la  principal
ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si era  il  non  esser  Berlino  né
Prussia; paese, di cui niun altro mi ha lasciato una piú spiacevole  e  dolorosa
impressione, ancorché vi siano, in Berlino  massimamente,  molte  cose  belle  e
grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li  posso  neppur  ora,
tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la  loro
vista mi cagionava in quel punto.  In  quell'inverno  mi  rimisi  alcun  poco  a
cinguettare italiano con il ministro di Napoli  in  Danimarca,  che  si  trovava
essere pisano; il conte Catanti, cognato del celebre primo ministro  in  Napoli,
marchese Tanucci, già professore nell'Università pisana. Mi dilettava  molto  il
parlare e la pronunzia toscana, massimamente paragonandola col piagnisteo nasale
e gutturale del dialetto danese che mi toccava di  udire  per  forza,  ma  senza
intenderlo, la Dio grazia. Io malamente mi spiegava col prefato  conte  Catanti,
quanto alla proprietà dei termini, e alla brevità ed efficacia delle frasi,  che
è somma nei toscani; ma quanto alla  pronunzia  di  quelle  mie  parole  barbare
italianizzate, ell'era bastantemente pura e toscana;  stante  che  io  deridendo
sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi  offendeano  l'udito,
mi ero avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la z, e gi, e ci,  ed
ogni altra toscanità. Onde alquanto inanimito dal suddetto conte Catanti  a  non
trascurare una sí bella lingua, e che era pure  la  mia,  dacché  di  essere  io
francese non acconsentiva  a  niun  modo,  mi  rimisi  a  leggere  alcuni  libri
italiani. Lessi, tra' molti altri, i Dialoghi dell'Aretino, i  quali  benché  mi
ripugnassero per le oscenità, mi rapivano pure  per  l'originalità,  varietà,  e
proprietà  dell'espressioni.  E  mi  baloccava  cosí  a   leggere,   perché   in
quell'inverno mi toccò di star  molto  in  casa  ed  anche  a  letto,  atteso  i
replicati incomoducci che mi sopravvennero  per  aver  troppo  sfuggito  l'amore
sentimentale. Ripigliai anche con piacere a rileggere  per  la  terza  e  quarta
volta il Plutarco; e sempre il Montaigne;  onde  il  mio  capo  era  una  strana
mistura di filosofia, di  politica,  e  di  discoleria.  Quando  gl'incomodi  mi
permetteano d'andar fuori, uno dei maggiori  miei  divertimenti  in  quel  clima
boreale era l'andare in  slitta;  velocità  poetica,  che  molto  mi  agitava  e
dilettava la non men celebre fantasia. Verso il  fin  di  marzo  partii  per  la
Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci,  indi
la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città  di  Norkoping,
ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i
laghi rappresi, a  segno  che  non  potendo  piú  proseguire  colle  ruote,  fui
costretto di smontare il legno e adattarlo come ivi s'usa sopra  due  slitte;  e
cosí arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la  greggia  maestosa
natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano;  e
benché non avessi mai letto  l'Ossian,  molte  di  quelle  sue  immagini  mi  si
destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte  allorché  piú
anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti.  La
Svezia locale, ed anche i suoi abitatori d'ogni  classe,  mi  andavano  molto  a
genio; o sia perché io mi diletto molto piú degli estremi, o altro sia ch'io non
saprei dire; ma fatto si è, che s'io mi eleggessi di  vivere  nel  settentrione,
preferirei quella estrema parte a tutte l'altre  a  me  cognite.  La  forma  del
governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo  tal  qual  modo  che
pure una semilibertà vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla  a
fondo. Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non  la  studiai
che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formare nel mio  capino  un'idea:
che stante la povertà delle quattro classi votanti, e l'estrema corruzione della
classe dei nobili e di quella dei cittadini, donde nasceano le venali  influenze
dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi  potea  allignare  né
concordia fra gli ordini, né efficacità di determinazioni, né giusta e  durevole
libertà. Continuai il divertimento della slitta  con  furore,  per  quelle  cupe
selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di  aprile;  ed  allora  in
soli quattro giorni con una rapidità  incredibile  seguiva  il  dimoiare  d'ogni
qualunque  gelo,  attesa  la  lunga  permanenza  del  sole  su  l'orizzonte,   e
l'efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate  forse  in
dieci strati l'una su l'altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente
bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.



CAPITOLO NONO Proseguimento di viaggi. Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda
e Inghilterra.

Io sempre incalzato dalla smania dell'andare, benché mi trovassi assai  bene  in
Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia  alla  volta  di
Pietroborgo. Nel fin d'aprile aveva fatto un  giretto  sino  ad  Upsala,  famosa
università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave  del  ferro,  dove  vidi
varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e  molto  meno  notate,  fu
come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia
su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell'entrata  del  golfo  di  Botnia,
trovai da capo l'inverno, dietro cui pareva ch'io avessi appostato  di  correre.
Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta
(che per cinque isolette si varca quest'entratura  del  suddetto  golfo)  attesa
l'immobilità totale dell'acque, riusciva per allora impossibile ad  ogni  specie
di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre  giorni,  finché
spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là,
e far crich, come dice il poeta nostro, quindi a poco a poco a  disgiungersi  in
tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza  pure  dischiudevano  a  chi  si  fosse
arrischiato d'intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò  a
Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a  cui
doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe,  ma  con
qualche stento. Io subito volli tentare,  benché  avendo  una  barca  assai  piú
spaziosa di quella peschereccia, poiché in  essa  vi  trasportava  la  carrozza,
l'ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però  era  assai  minore  il  pericolo,
poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea  piú  robustamente  far
fronte un legno grosso che non un piccolo. E cosí per l'appunto accadde.  Quelle
tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l'aspetto di quell'orrido mare
che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che  non  un  volume  di
acque; ma il vento essendo, la  Dio  mercè,  tenuissimo,  le  percosse  di  quei
tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro
gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti  alla
mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il  solco;  e  subito  altri  ed
altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente.
Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l'ascia, castigatrice  d'ogni
insolente. Piú d'una volta i marinai miei, ed anche io  stesso  scendemmo  dalla
barca sovra quei massi, e con delle scuri  si  andavano  partendo,  e  staccando
dalle pareti del legno, tanto che  desser  luogo  ai  remi  e  alla  prora;  poi
risaltati noi dentro coll'impulso della  risorta  nave,  si  andavano  cacciando
dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il  tragitto
primo di sette miglia svezzesi in dieci e piú ore. La novità di un  tal  viaggio
mi divertí moltissimo; ma forse  troppo  fastidiosamente  sminuzzandolo  io  nel
raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La  descrizione  di  cosa
insolita per gl'italiani, mi  vi  ha  indotto.  Fatto  in  tal  guisa  il  primo
tragitto, gli altri sei passi molto piú brevi, ed oltre  ciò  oramai  fatti  piú
liberi dai ghiacci, riuscirono assai piú facili. Nella sua  salvatica  ruvidezza
quello è un dei paesi d'Europa che mi siano andati piú a genio,  e  destate  piú
idee  fantastiche,  malinconiche,  ed  anche  grandiose,  per  un  certo   vasto
indefinibile silenzio che regna in quell'atmosfera, ove ti parrebbe quasi  esser
fuor del globo. Sbarcato per l'ultima volta in  Abo,  capitale  della  Finlandia
svezzese, continuai per ottime strade e con velocissimi cavalli il  mio  viaggio
sino a Pietroborgo, dove giunsi verso gli ultimi di maggio; e non saprei dire se
di giorno vi giungessi o di notte; perché sendo  in  quella  stagione  annullate
quasi le tenebre della notte in quel clima tanto boreale, e  ritrovandomi  assai
stanco del non aver per piú notti riposato se non se disagiatamente in carrozza,
mi si era talmente confuso il capo, ed entrata una tal  noia  del  veder  sempre
quella trista luce, ch'io non sapea piú né qual dí della settimana, né qual  ora
del giorno, né in qual parte del mondo mi fossi in quel punto; tanto piú  che  i
costumi, abiti, e barbe dei moscoviti mi rappresentavano assai piú  tartari  che
non europei. Io aveva letta la storia di Pietro il Grande nel Voltaire;  mi  era
trovato nell'Accademia di Torino con vari moscoviti, ed avea  udito  magnificare
assai quella nascente nazione. Onde, queste cose  tutte,  ingrandite  poi  anche
dalla mia fantasia che sempre mi andava accattando nuovi disinganni, mi tenevano
al  mio  arrivo  in  Pietroborgo  in  una   certa   straordinaria   palpitazione
dell'aspettativa. Ma, oimè, che  appena  io  posi  il  piede  in  quell'asiatico
accampamento di allineate trabacche, ricordatomi allora di Roma, di  Genova,  di
Venezia, e di Firenze mi posi a ridere. E da quant'altro poi ho  visto  in  quel
paese, ho sempre piú ricevuto la conferma di quella prima impressione; e  ne  ho
riportato la preziosa notizia ch'egli non meritava d'esser visto. E tanto mi  vi
andò a contragenio ogni cosa (fuorché le barbe e i cavalli), che  in  quasi  sei
settimane ch'io stetti fra quei barbari mascherati  da  europei,  ch'io  non  vi
volli conoscere chicchessia, neppure rivedervi due o tre giovani dei  primi  del
paese, con cui era  stato  in  Accademia  a  Torino,  e  neppure  mi  volli  far
presentare a quella famosa autocratrice Caterina Seconda; ed infine neppure vidi
materialmente il viso di codesta regnante,  che  tanto  ha  stancata  a'  giorni
nostri la fama. Esaminatomi poi dopo, per ritrovare il vero perché di  una  cosí
inutilmente selvaggia condotta, mi son ben convinto in me stesso che ciò fu  una
mera intolleranza di inflessibil carattere, ed un odio purissimo della tirannide
in astratto, appiccicato poi sopra una  persona  giustamente  tacciata  del  piú
orrendo delitto, la mandataria e proditoria uccisione dell'inerme marito.  E  mi
ricordava benissimo di aver udito narrare, che tra i molti pretesti addotti  dai
difensori di un tal delitto, si adduceva anche questo: che Caterina Seconda  nel
subentrare all'impero, voleva, oltre i tanti altri danni fatti dal  marito  allo
stato, risarcire anche in parte i diritti dell'umanità lesa sí crudelmente dalla
schiavitú universale e  totale  del  popolo  in  Russia,  col  dare  una  giusta
costituzione. Ora, trovandoli io in una servitú cosí intera dopo  cinque  o  sei
anni di regno di codesta Clitennestra filosofessa; e vedendo la maladetta  genía
soldatesca sedersi sul trono di Pietroborgo piú forse  ancora  che  su  quel  di
Berlino; questa fu senza dubbio la ragione che mi fe' pur tanto dispregiare quei
popoli, e sí  furiosamente  abborrirne  gli  scellerati  reggitori.  Spiaciutami
dunque ogni moscoviteria, non volli  altrimenti  portarmi  a  Mosca,  come  avea
disegnato di fare, e mi sapea mill'anni di rientrare in Europa. Partii nel finir
di giugno, alla volta di Riga per Narva, e  Rewel;  nei  di  cui  piani  arenosi
ignudi ed orribili scontai largamente i diletti che mi  aveano  dati  le  epiche
selve immense della Svezia scoscesa. Proseguii per Konisberga e Danzica;  questa
città, fin allora libera e ricca, in  quell'anno  per  l'appunto  cominciava  ad
essere straziata dal mal vicino despota prussiano, che già  vi  avea  intrusi  a
viva forza i suoi vili sgherri. Onde io bestemmiando e Russi e Prussi, e  quanti
altri sotto mentita faccia di uomini si lasciano piú che bruti malmenare in  tal
guisa dai loro tiranni; e sforzatamente seminando il mio nome, età,  qualità,  e
carattere, ed intenzioni (che tutte queste cose  in  ogni  villaggiuzzo  ti  son
domandate da un sergente all'entrare, al trapassare, allo stare, e  all'uscire),
mi ritrovai finalmente esser giunto una seconda volta in Berlino, dopo circa  un
mese di viaggio, il piú spiacevole, tedioso e oppressivo di  quanti  mai  se  ne
possano fare; inclusive lo  scendere  all'Orco,  che  piú  buio  e  sgradito  ed
inospito non può esser  mai.  Passando  per  Zorendorff,  visitai  il  campo  di
battaglia tra' russi e prussiani, dove  tante  migliaia  dell'uno  e  dell'altro
armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l'ossa. Le fosse sepolcrali
vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima  bellezza
del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi  era
cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista,  ma  pur  troppo  certa
riflessione; che gli schiavi son veramente  nati  a  far  concio.  Tutte  queste
prussianerie  mi  faceano  sempre  piú  e  conoscere  e  desiderare   la   beata
Inghilterra. Mi sgabellai dunque in tre giorni di questa mia berlinata  seconda,
né per altra ragione mi vi trattenni che  per  riposarmivi  un  poco  di  un  sí
disagiato viaggio.  Partii  sul  finir  di  luglio  per  Magdebourg,  Brunswich,
Gottinga, Cassel, e Francfort. Nell'entrare in Gottinga, città come tutti  sanno
di Università  fioritissima,  mi  abbattei  in  un  asinello,  ch'io  moltissimo
festeggiai per non averne piú visti da circa un anno dacché m'era ingolfato  nel
settentrione estremo dove quell'animale non può  né  generare,  né  campare.  Di
codesto incontro di un asino italiano con un asinello tedesco in una cosí famosa
Università, ne avrei fatto allora una qualche lieta e  bizzarra  poesia,  se  la
lingua e la penna avessero in me potuto servire alla mente, ma la mia  impotenza
scrittoria era ogni dí piú assoluta. Mi contentai dunque di fantasticarvi su fra
me stesso, e passai cosí festevolissima giornata soletto sempre, con me e il mio
asino. E le giornate festive per me eran rare, passandomele io di continuo  solo
solissimo, per lo piú anche senza leggere né far nulla,  e  senza  mai  schiuder
bocca. Stufo oramai di ogni  qualunque  tedescheria,  lasciai  dopo  due  giorni
Francfort, e avviatomi verso Magonza, mi v'imbarcai sopra il Reno, e disceso con
quell'epico fiumone sino a Colonia, un qualche diletto  lo  ebbi  navigando  fra
quelle amenissime sponde. Di Colonia per Aquisgrana ritornai  a  Spa,  dove  due
anni prima avea passato qualche settimane, e quel luogo mi avea sempre  lasciato
un qualche desiderio di rivederlo a cuor libero;  parendomi  quella  essere  una
vita adattata al mio umore, perché riunisce rumore e solitudine, onde vi si  può
stare inosservato ed ignoto infra le pubbliche veglie e  festini.  Ed  in  fatti
talmente mi vi compiacqui, che ci stetti sin quasi al fin di settembre dal mezzo
agosto; spazio lunghissimo di tempo per me che in nessun luogo  mi  potea  posar
mai. Comprai due cavalli da un irlandese, dei quali  l'uno  era  di  non  comune
bellezza, e vi posi veramente il cuore. Onde cavalcando mattina e giorno e sera,
pranzando in compagnia di otto o dieci altri forestieri d'ogni paese, e  vedendo
seralmente ballare gentili donne e  donzelle,  io  passava  (o  per  dir  meglio
logorava) il mio tempo benissimo. Ma  guastatasi  la  stagione,  ed  i  piú  dei
bagnanti cominciando ad andarsene, partii anch'io e volli  ritornare  in  Olanda
per rivedervi l'amico D'Acunha, e ben certo di non rivedervi la già tanto  amata
donna, la quale sapeva non essere piú all'Haia,  ma  da  piú  d'un  anno  essere
stabilita con marito in Parigi. Non mi potendo  staccare  dai  miei  due  ottimi
cavalli, avviai innanzi Elia con il legno, ed io, parte a piedi parte a cavallo,
mi avviai verso Liegi. In  codesta  città,  presentandomisi  l'occasione  di  un
ministro di Francia mio conoscente, mi lasciai da esso  introdurre  al  principe
vescovo di Liegi, per condiscendenza e stranezza; ché  se  non  avea  veduta  la
famosa Caterina Seconda, avessi almeno vista la corte del principe di  Liegi.  E
nel  soggiorno  di  Spa  era  anche  stato  introdotto  ad  un  altro   principe
ecclesiastico, assai piú microscopico ancora, l'abate di  Stavelò  nell'Ardenna.
Lo stesso ministro di Francia a Liegi mi avea presentato alla corte di  Stavelò,
dove allegrissimamente si pranzò, ed anche assai bene. E meno mi ripugnavano  le
corti del pastorale che quelle dello schioppo e tamburo, perché  di  questi  due
flagelli degli uomini non se ne può mai  rider  veramente  di  cuore.  Di  Liegi
proseguii in compagnia de' miei cavalli a  Brusselles,  Anversa,  e  varcato  il
passo del Mordick, a Roterdamo, ed all'Haia. L'amico, col quale io  sempre  avea
carteggiato dappoi,  mi  ricevé  a  braccia  aperte;  e  trovandomi  un  pocolin
migliorato di senno egli sempre piú mi andò assistendo de' suoi amorevoli, caldi
e luminosi consigli. Stetti con esso circa due mesi, ma poi infiammato  come  io
era della smania di riveder l'Inghilterra, e stringendo anche  la  stagione,  ci
separammo verso il fin di novembre. Per la stessa via fatta da me due e piú anni
prima giunsi, felicemente sbarcato in Harwich  in  pochi  giorni  a  Londra.  Ci
ritrovai quasi tutti quei pochi amici che io avea praticati nel  primo  viaggio;
tra i quali il principe di Masserano  ambasciator  di  Spagna,  ed  il  marchese
Caraccioli ministro di Napoli, uomo di alto sagace e faceto ingegno. Queste  due
persone mi furono piú che padre in amore nel secondo  soggiorno  ch'io  feci  in
Londra di circa sette mesi, nel quale mi trovai in alcuni frangenti straordinari
e scabrosi, come si vedrà.



CAPITOLO DECIMO Secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra.

Fin dal primo mio  viaggio  erami  in  Londra  andata  sommamente  a  genio  una
bellissima signora delle primarie, la di  cui  immagine  tacitamente  forse  nel
cuore mio introdottasi mi avea fatto in gran parte trovare sí bello e  piacevole
quel paese, ed anche accresciutami ora la voglia di rivederlo.  Con  tutto  ciò,
ancorché quella bellezza mi si fosse mostrata fin d'allora piuttosto benigna, la
mia ritrosa e selvaggia indole mi avea preservato dai di lei lacci. Ma in questo
ritorno, ingentilitomi io d'alquanto, ed essendo in età piú suscettibil d'amore,
e non abbastanza rinsavito dal primo accesso di  quell'infausto  morbo,  che  sí
male mi era riuscito nell'Haia, caddi allora  in  quest'altra  rete,  e  con  sí
indicibil furore mi appassionai, che ancora rabbrividisco, pensandovi adesso che
lo sto descrivendo nel  primo  gelo  del  nono  mio  lustro.  Mi  si  presentava
spessissimo l'occasione di veder quella bella inglese, massimamente in casa  del
principe di Masserano, con la di cui moglie essa era compagna di palco al Teatro
dell'Opera Italiana. Non la vedeva in casa sua, perché allora  le  dame  inglesi
non usavano ricevere visite, e  principalmente  di  forestieri.  Oltre  ciò,  il
marito ne era gelosissimo, per quanto il possa e sappia essere un  oltramontano.
Questi  ostacoletti  vieppiú  mi  accendevano;  onde   io   ogni   mattina   ora
all'Hyde-park, ora in qualche altro passeggio mi incontrava con essa; ogni  sera
in quelle affollate veglie, o al teatro, la vedea parimente; e la cosa si andava
sempre piú  ristringendo.  E  venne  finalmente  a  tale,  che  io,  felicissimo
dell'essere o credermi riamato, mi teneva pure infelicissimo,  ed  era  dal  non
vedere modo con cui  si  potesse  con  securità  continuare  gran  tempo  quella
pratica. Passavano, volavano i giorni;  inoltratasi  la  primavera,  il  fin  di
giugno al piú al piú era il termine, in cui, attesa la partenza per la  campagna
dove ella solea stare sette e piú mesi, diveniva  assolutamente  impossibile  il
vederla né punto né poco. Io quindi vedeva arrivare quel  giugno  come  l'ultimo
termine indubitalmente della mia vita; non ammettendo io mai nel mio  cuore,  né
nella mente mia inferma,  la  possibilità  fisica  di  sopravvivere  a  un  tale
distacco, sendosi in tanto piú lungo  spazio  di  tempo  rinforzata  questa  mia
seconda passione tanto superiormente alla prima. In questo funesto pensiere  del
dover senza dubbio  perire  quando  la  dovrei  lasciare,  mi  si  era  talmente
inferocito l'animo, ch'io non procedeva in quella  mia  pratica  altrimenti  che
come chi non ha oramai piú nulla che perdere. Ed a ciò contribuiva parimente non
poco il carattere  dell'amata  donna,  la  quale  pareva  non  gustar  punto  né
intendere i partiti di mezzo. Essendo le cose in tal termine,  e  raddoppiandosi
ogni giorno le imprudenze sí mie che sue, il di lei marito  avvistosene  già  da
qualche  tempo  avea  piú  volte  accennato  di  volermene   fare   un   qualche
risentimento; ed io nessun'altra cosa al mondo bramava quanto questa, poiché dal
solo uscir esso dei gangheri potea nascere per me o alcuna  via  di  salvamento,
ovvero una total perdizione. In tale orribile stato io vissi circa cinque  mesi,
finché finalmente scoppiò la bomba nel modo seguente. Piú volte già  in  diverse
ore del giorno con grave rischio d'ambedue noi  io  era  stato  da  essa  stessa
introdotto in casa; inosservato sempre,  attesa  la  piccolezza  delle  case  di
Londra, e il tenersi le porte chiuse, e la servitú stare per lo  piú  nel  piano
sotterraneo, il che dà campo di aprirsi la porta di strada da chi  è  dentro,  e
facilmente  introdursi  l'estraneo  ad  una  qualche  camera  terrena   contigua
immediatamente alla porta. Quindi quelle mie introduzioni di contrabbando  erano
tutte francamente riuscite; tanto piú ch'era in ore ove il marito  era  fuor  di
casa, e per lo piú la gente di servizio a mangiare.  Questo  prospero  esito  ci
inanimí a tentare maggiori rischi. Onde, venuto il maggio,  avendola  il  marito
condotta in una villa vicina, sedici miglia di Londra, per starci otto  o  dieci
giorni e non piú, subito si appuntò il giorno e l'ora  in  cui  parimente  nella
villa verrei introdotto di furto; e si  colse  il  giorno  d'una  rivista  delle
truppe a cui il marito, essendo uffiziale delle guardie, dovea intervenir  senza
fallo, e dormire in Londra. Io dunque mi ci avviai quella sera stessa soletto, a
cavallo; ed avendo avuto da essa l'esatta topografia del luogo, lasciato il  mio
cavallo ad un'osteria distante circa un miglio dalla villa, proseguii  a  piedi,
sendo già notte, fino alla porticella del parco,  di  dove  introdotto  da  essa
stessa passai nella casa, non essendo, o credendomi tuttavia non  essere,  stato
osservato da chi che fosse. Ma cotali visite erano zolfo sul fuoco, e  nulla  ci
bastava se non ci assicurava del sempre. Si presero  dunque  alcune  misure  per
replicare e spesseggiar quelle gite,  finché  durasse  la  villeggiatura  breve,
disperatissimi poi se si pensava alla villeggiatura imminente e lunghissima  che
ci sovrastava. Ritornato io la mattina  dopo  in  Londra,  fremeva  e  impazziva
pensando che altri due giorni dovrei stare senza vederla, e annoverava l'ore e i
momenti. Io viveva in un continuo delirio, inesprimibile quanto  incredibile  da
chi provato non l'abbia, e pochi certamente l'avranno provato a  un  tal  segno.
Non ritrovava mai pace se non se andando sempre, e senza saper dove;  ma  appena
quetatomi o per riposarmi, o per nutrirmi, o per tentar di  dormire,  tosto  con
grida ed urli orribili era costretto di ribalzare in piedi, e come un forsennato
mi dibatteva almeno per la camera, se l'ora non permetteva di uscire. Aveva  piú
cavalli, e tra gli altri quel bellissimo comprato a Spa, e fatto poi trasportare
in Inghilterra. E su quello io andava facendo le piú pazze cose, da atterrire  i
piú temerari cavalcatori di quel paese, saltando le piú alte e larghe  siepi  di
slancio, e fossi stralarghi, e barriere quante mi si affacciavano. Una di quelle
mattine intermedie tra una  e  l'altra  mia  gita  in  quella  sospirata  villa,
cavalcando io col marchese Caraccioli, volli fargli vedere quanto  bene  saltava
quel mio stupendo cavallo, e adocchiata una delle piú alte barriere che separava
un vasto prato dalla pubblica strada, ve lo cacciai di carriera; ma  essendo  io
mezzo alienato, e poco badando a dare in tempo i  debiti  aiuti  e  la  mano  al
cavallo, egli toccò coi  piè  davanti  la  sbarra,  ed  entrambi  in  un  fascio
precipitati sul prato, ribalzò egli primo in piedi,  io  poi;  né  mi  parve  di
essermi fatto male alcuno. Del resto il mio pazzo amore mi  aveva  quadruplicato
il coraggio, e pareva ch'io a bella posta mendicassi ogni occasione di  rompermi
il collo. Onde, per quanto il Caraccioli, rimasto su la strada di là  dalla  mal
per me saltata barriera, gridassemi di non far altro, e di andar cercar l'uscita
naturale del prato per riunirmi a lui, io che poco sapeva quel che  mi  facessi,
correndo dietro il cavallo che accennava di voler fuggire pel prato, ne afferrai
in tempo le redini, e saltatovi su di bel nuovo, lo rispinsi spronando contro la
stessa barriera, e ristorando egli ampiamente il mio onore ed il suo la passò di
volo. La giovenile superbia mia non godé lungamente di quel  trionfo,  che  dopo
fatti alcuni passi adagino, freddandomisi a poco a poco la  mente  e  il  corpo,
cominciai a provare un fiero dolore nella sinistra  spalla,  che  era  in  fatti
slogata, e rotto un ossuccio che collega la punta di essa col collo.  Il  dolore
andava crescendo, e le poche miglia che mi trovava esser  distante  da  casa  mi
parvero fieramente lunghe prima di ricondurmivi a cavallo  ad  oncia  ad  oncia.
Venuto il chirurgo, e straziatomi per assai tempo, disse di aver riallogato ogni
cosa, e fasciatomi, ordinò  ch'io  stessi  in  letto.  Chi  intende  d'amore  si
rappresenti le mie smanie e furore nel vedermi io cosí inchiodato in  un  letto,
la vigilia per l'appunto di quel beato giorno ch'era prefisso alla  mia  seconda
gita in villa. La slogatura del braccio era accaduta nella mattina  del  sabato;
pazientai per quel giorno, e la domenica, sino verso la sera, onde quel poco  di
riposo mi rendé alcuna forza nel braccio, e piú ardire nell'animo. Onde verso le
ore sei del giorno mi volli a ogni conto alzare, e per quanto mi dicesse il  mio
semi-aio Elia, entrai alla meglio in un carrozzino di posta soletto, e mi avviai
verso il mio destino. Il cavalcare mi si era fatto impossibile atteso il  dolore
del braccio, e l'impedimento della stringatissima fasciatura, onde  non  dovendo
né potendo arrivare sino alla villa  in  quel  carrozzino  col  postiglione,  mi
determinai di lasciare il legno alla distanza di circa due  miglia,  e  feci  il
rimanente della strada a piedi con l'un braccio impedito,  e  l'altro  sotto  il
pastrano con la spada impugnata, andando solo di notte in casa d'altri, non come
amico. La scossa del legno mi avea frattanto rinnovato e raddoppiato  il  dolore
della spalla, e scompostami la fasciatura a tal segno che la spalla in fatti non
si riallogò poi in appresso mai piú. Pareami  pur  tuttavia  di  essere  il  piú
felice uomo del mondo avvicinandomi al sospirato oggetto. Arrivai finalmente,  e
con non poco stento (non avendo l'aiuto di chicchessia,  poiché  dei  confidenti
non  v'era)  pervenni  pure  ad  accavalciare  gli  stecconi   del   parco   per
introdurmivi, poiché la porticella che la prima  volta  ritrovai  socchiusa,  in
quella seconda mi riuscí inapribile. Il marito,  al  solito  per  cagione  della
rivista dell'indomani lunedí, era ito anche quella sera  a  dormire  in  Londra.
Pervenni dunque alla casa, trovai chi mi vi aspettava, e senza molto  riflettere
né essa né io all'accidente dell'essersi ritrovata chiusa la porticella  ch'essa
pure avea già piú ore  prima  aperta  da  sé,  mi  vi  trattenni  fino  all'alba
nascente. Uscitone poi nello stesso modo, e tenendo  per  fermo  di  non  essere
stato veduto da anima vivente, per la stessa via fino al mio legno, e poi salito
in esso mi ricondussi in Londra verso le sette della mattina  assai  mal  concio
fra  i  due  cocentissimi  dolori  dell'averla  lasciata  e  di  trovarmi  assai
peggiorata la spalla. Ma lo stato dell'animo mio era sí pazzo e frenetico, ch'io
nulla curava qualunque cosa potesse accadere, prevedendole pure tutte.  Mi  feci
dal chirurgo ristringere di nuovo la  fasciatura  senza  altrimenti  toccare  al
riallogamento o slogamento che fosse. E martedí sera trovatomi alquanto  meglio,
non volli neppur piú stare in casa, e andai al Teatro Italiano nel solito  palco
del principe di Masserano, che vi era con la sua moglie, e che credendomi  mezzo
stroppio ed in letto, molto si maravigliarono di vedermi  col  solo  braccio  al
collo. Frattanto io me ne stava in apparenza tranquillo, ascoltando  la  musica,
che mille tempeste terribili mi rinnovava nel cuore; ma il mio  viso  era,  come
suol essere, di vero marmo. Quand'ecco ad  un  tratto  io  sentiva,  o  pareami,
pronunziato il mio nome da qualcuno, che sembrava contrastare con un altro  alla
porta del chiuso palco. Io, per un semplice moto machinale,  balzo  alla  porta,
l'apro, e richiudola dietro di me in un attimo, e agli occhi mi si  presenta  il
marito della mia donna, che stava aspettando che di fuori gli venisse aperto  il
palco chiuso a chiave da quegli usati custodi dei palchi, che nei teatri inglesi
si trattengono a tal effetto nei corridoi.  Io  già  piú  e  piú  volte  mi  era
aspettato a quest'incontro, e non potendolo  onoratamente  provocare  io  primo,
l'avea pure desiderato piú che ogni cosa al mondo.  Presentatomi  dunque  in  un
baleno fuori del palco, le parole furon queste brevissime, "Eccomi  qua"  gridai
io. "Chi mi cerca?" "Io," mi rispos'egli, "la cerco,  che  ho  qualche  cosa  da
dirle." "Usciamo," io replico; "sono ad udirla." Né altro aggiungendovi, uscimmo
immediatamente dal teatro. Erano circa le ore ventitré  e  mezzo  d'Italia;  nei
lunghissimi giorni di maggio cominciando in Londra i teatri verso  le  ventidue.
Dal Teatro dell'Haymarket per un assai buon tratto di strada andavamo  al  Parco
di San Giacomo, dove per un cancello  si  entra  in  un  vasto  prato,  chiamato
Green-Park. Quivi, già quasi annottando, in un cantuccio  appartato  si  sguainò
senza dir altro le spade. Era allor d'uso il portarla anch'essendo infrack, onde
io mi era trovato d'averla, ed egli appena tornato di villa  era  corso  da  uno
spadaio a provvedersela. A mezzo la via di Pallmall che ci guidava al Parco  San
Giacomo, egli due o tre volte mi andò rimproverando ch'io era stato piú volte in
casa sua di nascosto, ed interrogavami del come. Ma io, malgrado la frenesia che
mi dominava, presentissimo a me, e sentendo  nell'intimo  del  cuor  mio  quanto
fosse giusto e sacrosanto lo sdegno dell'avversario, null'altro  mai  mi  veniva
fatto di rispondere, se non se: "Non è vera tal  cosa;  ma  quand'ella  pure  la
crede son qui per dargliene buon conto". Ed egli ricominciava ad  affermarlo,  e
massimamente di quella mia ultima gita in villa egli ne sminuzzava sí bene  ogni
particolarità, ch'io rispondendo sempre, "Non  è  vero",  vedea  pure  benissimo
ch'egli era informato a puntino di tutto. Finalmente egli terminava  col  dirmi:
"A che vuol ella negarmi quanto  mi  ha  confessato  e  narrato  la  stessa  mia
moglie?". Strasecolai di un sí fatto discorso, e risposi (benché feci male, e me
ne pentii poi dopo): "Quand'ella il confessi, non  lo  negherò  io".  Ma  queste
parole articolai, perché oramai era stufo di stare sí lungamente sul negare  una
cosa patente e verissima; parte che troppo mi ripugnava in faccia ad  un  nemico
offeso da me; ma pure violentandomi, lo faceva per salvare, se era possibile, la
donna. Questo era stato il discorso tra noi prima di  arrivar  sul  luogo  ch'io
accennai. Ma allorché nell'atto di sguainar la spada, egli osservò  ch'io  aveva
il manco braccio sospeso al collo, egli ebbe  la  generosità  di  domandarmi  se
questo non m'impedirebbe di battermi. Risposi ringraziandolo, ch'io  sperava  di
no, e subito lo attaccai. Io sempre sono stato un  pessimo  schermidore;  mi  ci
buttai dunque fuori d'ogni regola d'arte come un disperato; e a dir vero io  non
cercava altro che di farmi ammazzare.  Poco  saprei  descrivere  quel  ch'io  mi
facessi, ma convien pure che assai gagliardamente lo investissi,  poiché  io  al
principiare mi trovava aver il sole,  che  stava  per  tramontare,  direttamente
negli occhi a segno che quasi non ci vedeva; e in forse sette o otto  minuti  di
tempo io mi era talmente spinto  innanzi  ed  egli  ritrattosi  e  nel  ritrarsi
descritta una curva sí fatta, ch'io  mi  ritrovai  col  sole  direttamente  alle
spalle. Cosí, martellando gran tempo,  io  sempre  portandogli  colpi,  ed  egli
sempre ribattendoli, giudico che egli non mi uccise perché non  volle,  e  ch'io
non lo uccisi perché non seppi. Finalmente egli nel  parare  una  botta,  me  ne
allungò un'altra e mi colse nel braccio destro tra l'impugnatura ed il gomito, e
tosto avvisommi ch'io era ferito; io non me n'era punto avvisto,  né  la  ferita
era in fatti gran cosa. Allora abbassando egli primo la punta in terra, mi disse
ch'egli era soddisfatto, e domandavami se lo era anch'io. Risposi,  che  io  non
era l'offeso, e che la cosa era in lui. Ringuainò egli allora, ed io pure. Tosto
egli se n'andò; ed io, rimasto un altro poco  sul  luogo  voleva  appurare  cosa
fosse quella mia ferita; ma osservando l'abito essere, squarciato per lo  lungo,
e non sentendo gran dolore, né sentendomi sgocciolare gran  sangue  la  giudicai
una scalfittura piú che una piaga. Del resto non mi potendo aiutare del  braccio
sinistro, non sarebbe stato possibile di cavarmi l'abito da me solo.  Aiutandomi
dunque co' denti mi contentai  di  avvoltolarmi  alla  peggio  un  fazzoletto  e
annodarlo sul braccio destro per diminuire cosí la perdita  del  sangue.  Quindi
uscito dal parco, per la stessa strada  di  Palmall,  e  ripassando  davanti  al
Teatro, di donde era uscito tre quarti d'ora  innanzi,  ed  al  lume  di  alcune
botteghe avendo veduto  che  non  era  insanguinato  né  l'abito,  né  le  mani,
scioltomi co' denti il fazzoletto dal braccio e non  provatone  piú  dolore,  mi
venne la pazza voglia puerile di rientrare al Teatro, e  nel  palco  donde  avea
preso le mosse. Tosto entrando fui interrogato dal principe di Masserano, perché
io mi fossi scagliato cosí pazzamente fuori del suo palco, e dove  fossi  stato.
Vedendo che non aveano udito nulla del breve diverbio  seguito  fuori  del  loro
palco, dissi che mi era sovvenuto a un tratto di dover parlar  con  qualcuno,  e
che perciò era uscito cosí: né altro dissi. Ma per quanto mi volessi far  forza,
il mio animo trovavasi pure in una estrema  agitazione,  pensando  qual  potesse
essere il seguito di un tal affare, e tutti i danni  che  stavano  per  accadere
all'amata mia donna. Onde dopo un quarticello me n'andai, non sapendo  quel  che
farei di me. Uscito dal Teatro mi venne in pensiero (già che quella  ferita  non
m'impediva di camminare) di portarmi in casa d'una cognata della mia  donna,  la
quale ci secondava, e in casa di  cui  ci  eramo  anche  veduti  qualche  volta.
Opportunissimo riuscí quel mio accidentale pensiero, poiché entrando  in  camera
di quella signora il primo oggetto che mi si presentò agli occhi, fu  la  stessa
stessissima donna mia. Ad una vista sí, inaspettata, ed in tanto  e  sí  diverso
tumulto di affetti, io m'ebbi quasi a svenire.  Tosto  ebbi  da  lei  pienissimo
schiarimento del fatto, come pareva dover essere stato; ma non come egli era  in
effetto; che la verità poi mi era  dal  mio  destino  riserbata  a  sapersi  per
tutt'altro mezzo. Ella dunque mi disse, che il marito sin dal primo mio  viaggio
in villa n'avea avuta la certezza, dalla persona in fuori;  avendo  egli  saputo
soltanto che qualcun c'era stato, ma  nessuno  mi  avea  conosciuto.  Egli  avea
appurato, che era stato lasciato un cavallo tutta la notte in tale albergo,  tal
giorno, e ripigliato poi in tal ora da persona che largamente  avea  pagato,  né
articolato una sola parola. Perciò all'occasione di questa seconda rivista, avea
segretamente appostato alcun suo  familiare  perché  vegliasse,  spiasse,  ed  a
puntino poi lunedí sera al suo ritorno gli desse buon conto  d'ogni  cosa.  Egli
era partito la domenica il giorno, per Londra; ed io come dissi, la domenica  al
tardi di Londra per la villa sua, dove era giunto a  piedi  su  l'imbrunire.  La
spia (o uno o piú ch'ei si fossero), mi vide traversare il cimitero  del  luogo,
accostarmi alla porticella del parco, e non potendola aprire, accavalciarne  gli
stecconi di cinta. Cosí poi m'avea visto uscire su l'alba, ed avviarmi  a  piedi
su la strada maestra verso Londra. Nessuno si era attentato  né  di  mostrarmisi
pure, non che di dirmi nulla; forse perché vedendomi venire in aria risoluta con
la spada sotto  il  braccio,  e  non  ci  avendo  essi  interesse  proprio,  gli
spassionati non si pareggiando mai cogli innamorati, pensarono esser  meglio  di
lasciarmi andare a buon viaggio. Ma certo si è, che se all'entrare o  all'uscire
a quel modo ladronesco dal parco, mi avessero voluto in due o tre arrestare,  la
cosa si riducea per me a mal partito; poiché se tentava fuggire, avea aspetto di
ladro, se attaccarli o difendermi, aveva aspetto di assassino: ed in  me  stesso
io era ben risoluto di non mi lasciar prender vivo. Onde bisognava subito  menar
la spada, ed in quel paese di savie e non mai deluse  leggi  queste  cose  hanno
immancabilmente severissimo gastigo. Inorridisco anche adesso,  scrivendolo:  ma
punto non titubava io nell'atto d'espormivi. Il marito dunque nel  ritornare  il
lunedí giorno in villa, già dallo stesso mio postiglione, che alle due miglia di
là mi avea aspettato tutta notte,  gli  venne  raccontato  il  fatto  come  cosa
insolita, e dal ritratto che gli avea fatto di mia statura,  forme,  e  capelli,
egli mi avea benissimo riconosciuto. Giunto poi a casa sua, ed avuto il  referto
della sua gente, ottenne al fine la tanto desiderata certezza dei danni suoi. Ma
qui, nel descrivere gli effetti stranissimi di una gelosia inglese,  la  gelosia
italiana si vede costretta di  ridere,  cotanto  son  diverse  le  passioni  nei
diversi caratteri e climi, e massime  sotto  diversissime  leggi.  Ogni  lettore
italiano qui sta aspettando pugnali, veleni,  battiture,  o  almeno  carcerazion
della moglie, e simili ben giuste smanie. Nulla  di  questo.  L'inglese  marito,
ancorché assaissimo al modo suo adorasse  la  moglie,  non  perdé  il  tempo  in
invettive, in minacce, in querele. Subito la raffrontò  con  quei  testimoni  di
vista, che facilmente la convinsero del fatto innegabile. Venuta la mattina  del
martedí, il marito non celò alla moglie, ch'egli già da quel punto non la  tenea
piú per sua, e che ben tosto  il  divorzio  legittimo  lo  libererebbe  di  lei.
Aggiunse, che non gli bastando  il  divorzio,  voleva  anche  che  io  scontassi
amaramente l'oltraggio fattogli; ch'egli in quel giorno ripartirebbe per Londra,
dove mi troverebbe senz'altro.  Allora  essa  immediatamente  per  mezzo  di  un
qualche suo affidato mi avea segretamente scritto, e spedito l'avviso di  quanto
seguiva. Il messaggiere, largamente pagato, avea quasi che ammazzato il  cavallo
venendo a tutt'andare in meno di du' ore a Londra, e certamente vi giunse  forse
un'ora prima che non giungesse il marito. Ma per mia somma fortuna, non avendomi
piú trovato in casa né il messaggiero, né il marito,  io  non  fui  avvisato  di
nulla, ed il marito vedendomi uscito, s'immaginò  ed  indovinò  ch'io  fossi  al
Teatro Italiano; e là, come io narrai, mi trovò. La fortuna  in  quest'accidente
mi fece due sommi benefici: che io non mi fossi slogato  il  braccio  destro  in
vece del manco; e ch'io non ricevessi quella lettera dell'amata donna, se non se
dopo l'incontro. Non so se non avrei in qualche parte forse  operato  men  bene,
ove l'una di queste due cose mi fosse accaduta. Ma intanto,  partito  appena  il
marito per Londra,  per  altra  via  era  anche  partita  la  moglie,  e  venuta
direttamente a Londra in casa di quella  sua  cognata,  che  non  molto  lontana
abitava dalla casa del suo marito; quivi già avea  saputo  che  il  marito  meno
d'un'ora prima era tornato a casa in un fiacre; dal quale slanciatosi dentro  si
era chiuso in camera, senza voler né vedere né favellare con chi che si fosse di
casa. Onde essa tenea per fermo ch'egli mi  avesse  contrato  ed  ucciso.  Tutta
questa narrazione a pezzi e bocconi mi veniva fatta da lei; interrotta, come  si
può credere, dall'immensa agitazione dei  sí  diversi  affetti  che  ambedue  ci
travagliavano. Ma  per  allora  però,  il  fine  di  tutto  questo  schiarimento
scioglievasi in una felicità per noi inaspettata e  quasi  incredibile;  poiché,
atteso l'imminente inevitabil divorzio, io mi trovava nell'impegno (e null'altro
bramava) di sottentrare ai lacci coniugali ch'ella stava per rompere. Ebro di un
tal pensiero, quasi non mi ricordava piú punto della mia ferituccia; ma in somma
poi, alcune ore dopo, visitatomi il braccio in  presenza  dell'amata  donna,  si
trovò la pelle scalfitta in lungo, e molto sangue raggrumato  nei  pieghi  della
camicia, senz'altro danno. Medicato il braccio, ebbi la giovenile  curiosità  di
visitare anche la mia spada, e la trovai, dalle gran ribattiture di colpi  fatte
dall'avversario, ridotta dai due terzi in giú della  lama  a  guisa  d'una  sega
addentellatissima; e la conservai poi quasi trofeo per  piú  anni  in  appresso.
Separatomi finalmente in quella notte del  martedí  assai  inoltrata  dalla  mia
donna, non volli tornare a casa mia senza passare dal marchese  Caraccioli,  per
informarlo d'ogni cosa. Ed egli pure, dal modo in cui avea saputo  il  fatto  in
confuso, mi tenea fermamente per ucciso, e che  fossi  rimasto  nel  parco,  che
verso la mezz'ora di notte suol chiudersi. Come risuscitato dunque  mi  accolse,
ed abbracciò caldamente, ed in vari discorsi si passarono ancora forse du' altre
ore piú della notte; talché arrivai a casa quasi al giorno. Corcatomi dopo tante
e sí strane peripezie d'un sol giorno, non ho dormito mai d'un sonno piú  tenace
e piú dolce.



CAPITOLO UNDECIMO Disinganno orribile.

Ecco intanto a puntino come erano veramente accadute le cose del giorno  dianzi.
Il fidato mio Elia, avendo veduto arrivare quel messaggiero col cavallo fradicio
di sudore e trafelatissimo, e che tanto e poi tanto  gli  avea  raccomandato  di
farmi avere immediatamente quella lettera, era subito uscito per  rintracciarmi;
e cercatomi prima dal principe di Masserano dove mi credeva esser ito,  poi  dal
Caraccioli, che abitavano a piú miglia di distanza, avea cosí consumato piú ore;
finalmente riaccostandosi verso casa mia che era in Suffolk street,  vicinissima
all'Haymarket dov'è il Teatro dell'Opera Italiana, gli venne in capo di veder se
io ci fossi; benché non lo credesse, atteso che avea tuttora il braccio  slogato
fasciato al collo. Appena entrato egli al teatro, e chiesto di me a que' custodi
dei palchi che benissimo mi conoscevano, gli fu detto che un dieci minuti  prima
era uscito con tal persona, che era venuta a cercarmi  espressamente  nel  palco
dov'io era. Elia sapeva benissimo  (benché  non  lo  sapesse  da  me)  quel  mio
disperato amore; onde udito appena il nome  della  persona  che  mi  era  venuta
cercare, e combinato la lettera di donde veniva, subito entrò in chiaro di  ogni
cosa. Allora Elia, sapendo benissimo quanto mal destro spadaccino io  mi  fossi,
ed  inoltre  vedendomi  impedito  il  braccio  sinistro,  mi  reputò   anch'egli
certamente per un uomo morto; e subito  corse  al  Parco  San  Giacomo,  ma  non
essendosi rivolto verso il Greenpark, non ci rinvenne; intanto annottò; ed  egli
fu costretto di uscir del parco, come ogni altra persona.  Non  sapendo  che  si
fare per venir in chiaro della mia sorte, si avviò verso  la  casa  del  marito,
credendo quivi poter  raccapezzare  qualcosa;  e  forse  avendo  egli  azzeccato
cavalli migliori al suo fiacre, che non erano stati quelli  del  marito;  o  che
questi forse in quel frattempo fosse andato in qualch'altro luogo; fatto  si  è,
che Elia si combinò di arrivar egli nel suo fiacre vicino alla porta del marito,
nel punto istesso in cui esso marito era giunto a casa sua; e  l'avea  benissimo
veduto ritornare colla spada, e slanciarsi in  casa,  e  far  chiuder  la  porta
subito, ed in aspetto e modi molto turbati. Sempre  piú  si  confermò  Elia  nel
sospetto ch'egli m'avesse ucciso, e non potendo piú far  altro,  era  corso  dal
Caraccioli, e gli avea dato conto di quanto sapeva, e di  quel  che  temeva.  Io
dunque, dopo una sí penosa giornata, rinfrancato da molte  ore  di  placidissimo
sonno, rimedicate alle meglio le mie due ferite, di cui quella della  spalla  mi
dolea piú che mai, e l'altra sempre meno, subito corsi dalla  mia  donna,  e  vi
passai tutto intero quel giorno. Per via dei servitori si andava sentendo quello
che faceva il marito, la di cui casa, come dissi, era  assai  vicina  di  quella
della cognata, dove abitava per allora la mia donna. E benché io riputassi in me
stesso ogni nostro guai terminato col prossimo divorzio; e ancorché il padre  di
lei (persona a me già notissima da piú anni) fosse venuto  in  quel  giorno  del
mercoledí a veder la figlia, e nella di lei disgrazia si congratulasse pur seco,
che almeno ad uom degno (cosí volle dire) le toccasse di riunirsi in un  secondo
matrimonio; con tutto ciò io scorgeva  una  foltissima  nube  su  la  bellissima
fronte della mia donna, che un qualche sinistro mi vi parea presagire. Ed  ella,
sempre piangente, e sempre protestandomi che mi amava piú d'ogni  cosa;  che  lo
scandalo dell'avvenimento suo e il disonore che glie ne ridondava nella  di  lei
patria, le venivano largamente compensati s'ella potea pur vivere per sempre con
me; ma ch'ella era piú che certa che io non l'avrei mai presa  per  moglie  mia.
Questa sua perseverante e  stranissima  asserzione  mi  disperava  veramente;  e
sapendo io benissimo ch'ella non mi  reputava  né  mentitore  né  simulato,  non
poteva assolutamente intendere questa sua diffidenza di me.  In  queste  funeste
perplessità, che purtroppo turbavano ed annichilivano ogni mia soddisfazione del
vederla liberamente dalla mattina alla sera; ed inoltre  fra  le  angustie  d'un
processo già intavolato ed assai spiacente per chiunque abbia  onore  e  pudore;
cosí si passarono i tre giorni dal mercoledí  a  tutto  il  venerdí,  finché  il
venerdí sera insistendo io fortemente per estrarre dalla mia donna  una  qualche
piú luce nell'orrido enimma  dei  di  lei  discorsi,  delle  sue  malinconie,  e
diffidenze; finalmente con grave e lungo  stento,  previo  un  doloroso  proemio
interrotto da sospiri e singhiozzi amarissimi, ella mi veniva dicendo che  sapea
purtroppo non poter essere in conto nessuno omai degna di me; e che  io  non  la
dovea né poteva né vorrei sposar mai... perché già prima... di amar  me...  ella
avea amato... "E chi mai?" soggiungeva io interrompendo con impeto. "Un  jockey"
(cioè un palafreniere) "che stava... in casa... di mio  marito."  "Ci  stava?  e
quando? Oh Dio, mi sento morire! Ma perché dirmi tal cosa? crudel donna;  meglio
era uccidermi." Qui mi interrompe ancor essa; e a poco a poco alla per fine esce
l'intera confessione sozzissima di quel brutto suo amore; di cui sentendo io  le
dolorose incredibili particolarità, gelido, immobile, insensato mi rimango  qual
pietra. Quel mio degnissimo rival precursore stava tuttavia in casa  del  marito
in quel punto in cui si parlava; egli era stato quello che avea primo spiato gli
andamenti della amante padrona; egli avea scoperto la mia prima gita in villa, e
il cavallo lasciato tutta notte nell'albergo di campagna; ed egli con  altri  di
casa, mi avea poi visto e conosciuto  nella  seconda  gita  fatta  in  villa  la
domenica sera. Egli finalmente,  udito  il  duello  del  marito  con  me,  e  la
disperazione di esso di dover far divorzio con una donna ch'egli  mostrava  amar
tanto, si era indotto nel giorno  del  giovedí  a  farsi  introdurre  presso  al
padrone, e per disingannar lui, vendicar sé stesso, e punire la infida  donna  e
il nuovo rivale, quell'amante palafreniere avea spiattellatamente  confessato  e
individuato tutta la storia de' suoi triennali amori con la padrona, ed esortato
avea caldamente il padrone a non si disperar piú a lungo per  aver  perduta  una
tal moglie, il che si dovea anzi recare a ventura.  Queste  orribili  e  crudeli
particolarità, le seppi dopo; da essa non seppi altro che il fatto,  e  menomato
quanto piú si potea. Il mio dolore e furore, le diverse mie risoluzioni, e tutte
false e tutte funeste e tutte  vanissime  ch'io  andai  quella  sera  facendo  e
disfacendo, e bestemmiando, e gemendo, e ruggendo, ed  in  mezzo  a  tant'ira  e
dolore amando pur sempre perdutamente un cosí indegno oggetto;  non  si  possono
tutti questi affetti ritrarre con parole: ed  ancora  vent'anni  dopo  mi  sento
ribollire il sangue pensandovi.  La  lasciai  quella  sera,  dicendole:  ch'ella
troppo bene mi conosceva nell'avermi detto e replicato  sí  spesso  che  io  non
l'avrei mai fatta mia moglie; e che se io mai fossi venuto  in  chiaro  di  tale
infamia dopo averla sposata, l'avrei certamente uccisa di mia mano, e me  stesso
forse sovr'essa, se pure l'avessi  ancor  tanto  amata  in  quel  punto,  quanto
purtroppo in questo l'amava. Aggiunsi che io pure la dispregiava  un  po'  meno,
per l'aver essa avuto la lealtà e il coraggio di confessarmi spontaneamente  tal
cosa; che non l'abbandonerei mai come amico, e che in qualunque  ignorata  parte
d'Europa o d'America io era pronto ad andare con essa e  conviverci,  purch'essa
non mi fosse né paresse mai d'esser moglie. Cosí  lasciatala  il  venerdí  sera,
agitato da mille furie alzatomi all'alba del sabato, e vistomi sul tavolino  uno
di quei tanti foglioni pubblici che usano in Londra, vi slancio cosí  a  caso  i
miei occhi, e la prima cosa che mi vi capita sotto è il mio nome. Gli  spalanco,
leggo un ben lunghetto articolo, in  cui  tutto  il  mio  accidente  è  narrato,
individuato minutamente e con verità, e vi imparo di piú le funeste  e  risibili
particolarità del rivale palafreniere, di cui leggo il nome, l'età, la figura, e
l'ampissima confessione da lui stesso fatta al padrone. Io ebbi a cader morto ad
una tal lettura; ed allora soltanto riacquistando la luce della mente, mi avvidi
e toccai con mano, che la perfida donna mi avea spontaneamente  confessato  ogni
cosa dopo che il gazzettiere, in data del  venerdí  mattina,  l'avea  confessata
egli al pubblico. Perdei allora ogni freno e misura, corsi a casa sua, dove dopo
averla invettivata con tutte le piú amare furibonde  e  spregianti  espressioni,
miste sempre di amore, di dolor mortalissimo, e di disperati partiti, ebbi  pure
la vile debolezza di ritornarvi qualche ore dopo averle giurato ch'ella  non  mi
rivedrebbe mai piú. E tornatovi, mi vi trattenni tutto quel giorno; e vi  tornai
il susseguente, e piú altri, finché risolvendosi essa  di  uscir  d'Inghilterra,
dove ell'era divenuta la favola di tutti, e di andare in  Francia  a  porsi  per
alcun tempo in un monastero, io l'accompagnai,  e  si  errò  intanto  per  varie
provincie dell'Inghilterra per  prolungare  di  stare  insieme,  fremendo  io  e
bestemmiando dell'esservi, e non me ne potendo pure a niun conto separare. Colto
finalmente un istante in cui poté piú la vergogna e lo sdegno  che  l'amore,  la
lasciai in Rochester, di dove essa con  quella  di  lei  cognata  si  avviò  per
Douvres in Francia, ed io me ne tornai a Londra. Giungendovi seppi che il marito
avea proseguito il processo divorziale in  mio  nome,  e  che  in  ciò  mi  avea
accordata la preferenza sul nostro triumviro terzo, il proprio palafreniere, che
anzi gli stava ancora in servizio, tanto è veramente generosa ed  evangelica  la
gelosia degli inglesi. Ma ed io pure mi debbo non poco lodare del  procedere  di
quell'offeso marito. Non mi volle uccidere, potendolo verisimilmente fare; né mi
volle multare in danari, come portano le leggi di quel paese, dove  ogni  offesa
ha la sua tariffa, e le corna ve l'hanno altissima; a segno che s'egli  in  vece
di farmi cacciare la spada mi avesse voluto far cacciar  la  borsa,  mi  avrebbe
impoverito o dissestato di molto; perché tassandosi l'indennità  in  proporzione
del danno, egli l'avea ricevuto sí  grave,  atteso  l'amore  sviscerato  ch'egli
portava alla  moglie,  ed  atteso  anche  l'aggiunta  del  danno  recatogli  dal
palafreniere, che per essere nullatenente non glie l'avrebbe  potuto  ristorare,
ch'io tengo per fermo che a recarla a zecchini io  non  ne  sarei  potuto  uscir
netto a meno di dieci o dodici mila zecchini, e forse anche piú. Quel bennato  e
moderato giovine si comportò dunque  meco  in  questo  sgradevole  affare  assai
meglio ch'io non avea meritato. E proseguitosi in mio nome il processo, la  cosa
essendo troppo palpabile dai molti testimoni, e dalle  confessioni  dei  diversi
personaggi, senza neppure il mio intervento, né il menomo impedimento  alla  mia
partenza dall'Inghilterra, seppi poi dopo  ch'era  stato  ratificato  il  totale
divorzio. Indiscretamente forse, ma pure a bell'apposta ho voluto sminuzzare  in
tutti i suoi amminicoli questo straordinario e per me importante  accidente,  sí
perché se ne fece gran rumore in quel tempo, sí perché essendo stata questa  una
delle principali occasioni in cui mi è venuto fatto di  ben  conoscere  e  porre
alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità  e
minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse piú intimamente conoscermi,  di
ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo.



CAPITOLO DUODECIMO Ripreso il viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo,  e
ritorno in patria.

Dopo aver sopportata una sí feroce borrasca, non  potendo  io  piú  trovar  pace
finché mi cadeano giornalmente sotto gli occhi quei luoghi stessi ed oggetti, mi
lasciai facilmente persuadere da quei pochi che sentivano una qualche amichevole
pietà del mio violentissimo stato, e  mi  indussi  al  partire.  Lasciai  dunque
l'Inghilterra verso il finir di giugno, e cosí  infermo  di  animo  come  io  mi
sentiva, ricercando pur qualche appoggio, volli  dirigere  i  miei  primi  passi
verso  l'amico  D'Acunha  in  Olanda.  Giunto  nell'Haia,  alcune  settimane  mi
trattenni con lui, e non vedeva assolutamente altri che lui solo; ed egli  alcun
poco mi consolava; ma era profondissima  la  mia  piaga.  Sentendomi  dunque  di
giorno in giorno anzi crescere la malinconia che scemare, e pensando che il moto
machinale, e la  divagazione  inseparabile  dal  mutar  luogo  continuamente  ed
oggetti, mi dovrebbero giovare non poco, mi rimisi  in  viaggio  alla  volta  di
Spagna; gita che fin da prima mi era prefisso di fare, essendo quel paese  quasi
il solo dell'Europa che mi rimanesse da vedere. Avviatomi verso  Brusselles  per
luoghi che rinacerbivano sempre piú le ferite del  mio  troppo  lacerato  cuore,
massimamente allorché io metteva a confronto quella mia  prima  fiamma  olandese
con  questa  seconda  inglese,  sempre  fantasticando,  delirando,  piangendo  e
tacendo, arrivai finalmente soletto  in  Parigi.  Né  quella  immensa  città  mi
piacque piú in questa seconda visita che  nella  prima;  né  punto  né  poco  mi
divagò. Ci stetti pure circa un mese per lasciare sfogare  i  gran  caldi  prima
d'ingolfarmi nelle Spagne. In questo  mio  secondo  soggiorno  in  Parigi  avrei
facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian-Giacomo Rousseau, per
mezzo  d'un  italiano  mio  conoscente  che  avea  contratto  seco   una   certa
familiarità, e  dicea  di  andar  egli  molto  a  genio  al  suddetto  Rousseau.
Quest'italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore  che
ci saremmo scambievolmente piaciuti l'uno l'altro, Rousseau ed io.  Ancorché  io
avessi infinita stima del Rousseau piú assai per il suo carattere puro ed intero
e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe' suoi libri, di  cui
que' pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di
affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io  per  mia  natura  molto
curioso, né punto sofferente, e con tanto minori  ragioni  sentendomi  in  cuore
tanto piú orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli  piegar  mai  a  quella
dubbia presentazione ad un uomo superbo  e  bisbetico,  da  cui  se  mai  avessi
ricevuta una mezza scortesia glie n'avrei restituite dieci, perché  sempre  cosí
ho operato per istinto ed impeto di natura di rendere con usura sí il  male  che
il bene. Onde non se ne fece altro. Ma in vece  del  Rousseau,  intavolai  bensí
allora una conoscenza per me assai piú importante  con  sei  o  otto  dei  primi
uomini dell'Italia e del mondo. Comprai in Parigi una  raccolta  dei  principali
poeti e prosatori italiani in trentasei volumi di picciol sesto, e  di  graziosa
stampa, dei quali neppur uno me ne trovava aver meco  dopo  quei  due  anni  del
secondo mio viaggio. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi  sempre  da
allora in poi da per tutto; benché in quei primi due o tre anni non ne facessi a
dir vero grand'uso. Certo che allora comprai la raccolta piú per averla che  non
per leggerla, non mi sentendo nessuna né voglia né possibilità  di  applicar  la
mente in nulla. E quanto alla lingua italiana sempre piú m'era uscita dall'animo
e dall'intendimento a tal segno, che ogni qualunque autore sopra  il  Metastasio
mi dava molto imbroglio ad intenderlo. Tuttavia,  cosí  per  ozio  e  per  noia,
squadernando alla sfuggita que' miei trentasei volumetti mi maravigliai del gran
numero di rimatori che in compagnia dei nostri quattro sommi poeti  erano  stati
collocati a far numero; gente, di cui (tanta era la mia ignoranza) io  non  avea
mai  neppure  udito  il  nome;  ed  erano:  un  Torracchione,  un  Morgante,  un
Ricciardetto, un Orlandino, un Malmantile, e che so io; poemi, dei  quali  molti
anni dopo  deplorai  la  triviale  facilità,  e  la  fastidiosa  abbondanza.  Ma
carissima mi riuscí la mia nuova compra, poiché mi misi d'allora in poi in  casa
per sempre que' sei luminari della lingua nostra, in cui tutto c'è; dico  Dante,
Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli; e di cui (pur troppo per  mia
disgrazia e vergogna) io era giunto all'età di circa ventidue anni senza  averne
punto mai letto, toltone alcuni squarci  dell'Ariosto  nella  prima  adolescenza
essendo in Accademia, come mi pare di aver detto a  suo  luogo.  Munito  in  tal
guisa di questi possenti scudi contro l'ozio e la noia (ma invano, poiché sempre
ozioso e noioso altrui e a me stesso rimanevami), partii per la Spagna verso  il
mezzo agosto. E per Orléans, Tours, Poitiers, Bordeaux e Toulouse,  attraversata
senza occhi la piú bella e ridente parte della Francia, entrai in Ispagna per la
via di Perpignano; e Barcellona  fu  la  prima  città  dove  mi  volli  alquanto
trattenere da Parigi in poi. In tutto questo lungo tratto di viaggio non facendo
per lo piú altro che piangere tra me e me soletto in carrozza, ovvero a cavallo,
di quando in quando andava pur ripigliando alcun tometto del mio  Montaigne,  il
quale da piú di un anno non avea piú guardato in viso. Questa  lettura  spezzata
mi andava restituendo un pocolino  di  senno  e  di  coraggio,  ed  una  qualche
consolazione anche me la dava. Alcuni giorni dopo essere arrivato a  Barcellona,
siccome i miei cavalli inglesi erano  rimasti  in  Inghilterra,  venduti  tutti,
fuorché il bellissimo lasciato in custodia al marchese Caraccioli; e siccome  io
senza cavalli non son neppur mezzo, subito  comprai  due  cavalli,  di  cui  uno
d'Andalusia della razza dei  certosini  di  Xerez,  stupendo  animale,  castagno
d'oro; l'altro un hacha cordovese, piú piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo.
Dacché era nato sempre avea desiderato cavalli di Spagna, che  difficilmente  si
possono estrarre: onde non mi parea vero di averne due sí  belli;  e  questi  mi
sollevavano assai piú che Montaigne. E su questi io disegnava di fare  tutto  il
mio viaggio di Spagna, dovendo la carrozza andare a corte giornate  a  passo  di
mula, stante che posta per le carrozze non v'è stabilita, né vi potrebbe  essere
attese  le  pessime  strade  di  tutto  quel   regno   affricanissimo.   Qualche
indisposizionuccia avendomi costretto di soggiornare in Barcellona sino ai primi
di novembre, in quel  frattempo  col  mezzo  di  una  grammatica  e  vocabolario
spagnuolo mi era messo da me a leggicchiare quella bellissima lingua, che riesce
facile a noi italiani; ed in fatti tanto leggeva il Don Quixote, e bastantemente
lo intendeva e gustava: ma in ciò molto mi riusciva di aiuto l'averlo già  altre
volte letto in francese. Postomi in via per Saragozza e Madrid, mi andava a poco
a poco avvezzando a quel nuovissimo modo di viaggiare per quei deserti; dove chi
non ha molta gioventú, salute, danari e pazienza, non ci può resistere. Pure  io
mi vi feci in quei quindici giorni di viaggio sino a Madrid in maniera  che  poi
mi tediava assai meno l'andare,  che  il  soggiornare  in  qualunque  di  quelle
semibarbare città: ma per me l'andare era sempre il massimo dei  piaceri;  e  lo
stare il massimo degli sforzi; cosí volendo  la  mia  irrequieta  indole.  Quasi
tutta la strada soleva farla a piedi  col  mio  bell'andaluso  accanto,  che  mi
accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due; ed  era
il mio gran gusto d'essere solo con lui in  quei  vasti  deserti  dell'Arragona;
perciò sempre facea precedere la mia gente col legno e le mule, ed io  seguitava
di lontano. Elia frattanto sovra un muletto andava con lo schioppo  a  dritta  e
sinistra della strada cacciando e tirando conigli, lepri, ed uccelli, che quelli
sono gli abitatori della Spagna; e  precedendomi  poi  di  qualch'ora  mi  facea
trovare di che sfamarmi alla posata del mezzogiorno, e cosí a quella della sera.
Disgrazia mia (ma forse fortuna  d'altri)  che  io  in  quel  tempo  non  avessi
nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in  versi  i  miei  diversi
pensieri ed affetti; ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un
diluvio di rime, infinite essendo le riflessioni  malinconiche  e  morali,  come
anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e  pazze,  che  mi  si  andavano
affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna  lingua,  e  non  mi
sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né  in
versi, io mi contentava di ruminar fra me  stesso,  e  di  piangere  alle  volte
dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se
non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute  per  mera  pazzia,  e  lo
sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono. In questo modo  me
la passai in quel primo viaggio sino a Madrid; e tanto  era  il  genio  che  era
andato prendendo per quella vita di zingaro, che subito in Madrid mi  tediai,  e
non mi vi trattenni che a stento un mesetto; né ci trattai né conobbivi anima al
mondo, eccetto un oriuolaio, giovine spagnuolo che  tornava  allora  di  Olanda,
dove era andato per l'arte sua. Questo giovinetto era pieno d'ingegno  naturale,
ed avendo un pocolino visto il mondo si mostrava meco addoloratissimo  di  tutte
le tante e sí diverse barbarie che ingombravano la di lui patria. E qui  narrerò
brevemente una mia pazza bestialità che mi accadde di fare contro il  mio  Elia,
trovandovisi in terzo codesto giovine spagnuolo. Una sera che  questo  oriuolaio
avea cenato meco, e che ancora si stava discorrendo a tavola dopo cenati,  entrò
Elia per ravviarmi al solito i capelli, per poi andarcene tutti a letto; e nello
stringere col compasso una ciocca di capelli, me ne tirò un  pochino  piú  l'uno
che l'altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi piú ratto che folgore, di
un man rovescio con uno dei candelieri ch'avea impugnato glie ne menai  un  cosí
fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad un  tratto  come  da
una fonte sin sopra il viso e tutta la persona di quel  giovine,  che  mi  stava
seduto in faccia all'altra parte di quella assai ben larga tavola  dove  si  era
cenati. Quel giovane, che mi credé  (con  ragione)  impazzito  subitamente,  non
avendo osservato né potendosi dubitare che un capello  tirato  avesse  cagionato
quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pure come per tenermi.  Ma  già
in quel frattempo l'animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi  era  saltato
addosso per picchiarmi; e ben fece. Ma io allora  snellissimo  gli  scivolai  di
sotto, ed era già saltato su la mia spada che  stava  in  camera  posata  su  un
cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia inferocito mi  tornava
incontro, ed io glie l'appuntava al petto; e lo spagnuolo a rattenere ora  Elia,
ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri saliti, e cosí separata  la
zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi
si entrò negli schiarimenti; io dissi che l'essermi sentito tirar i  capelli  mi
avea messo fuor di me; Elia  disse  di  non  essersene  avvisto  neppure;  e  lo
spagnuolo appurò ch'io non era impazzito, ma che pure savissimo  non  era.  Cosí
finí quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo  e  vergognosissimo  e
dissi ad Elia ch'egli avrebbe fatto benissimo ad  ammazzarmi.  Ed  era  uomo  da
farlo; essendo egli di statura quasi un palmo piú di me che sono altissimo; e di
coraggio e forza niente inferiore all'aspetto. La  piaga  della  tempia  non  fu
profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco piú in su che  l'avessi  colto,  io  mi
trovava aver ucciso un uomo che amavo moltissimo per via d'un capello piú o meno
tirato. Inorridii molto di un cosí bestiale eccesso di collera; e benché vedessi
Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure  né  mostrare  né
nutrire diffidenza alcuna di lui; e un  par  d'ore  dopo,  fasciata  che  fu  la
ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n'andai a letto, lasciando la  porticina
che metteva in camera di Elia, aderente alla mia,  aperta  al  solito,  e  senza
voler ascoltare lo spagnuolo che mi avvertiva  di  non  invitare  cosí  un  uomo
offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi  forte  ad
Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo  uccidermi  quella
notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era eroe per  lo
meno quanto me; né altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi  per
sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s'era rasciutta da  prima
la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che  li  serbò  per  degli
anni ben molti. Questo reciproco misto di ferocia e di generosità per  parte  di
entrambi noi, non si potrà facilmente  capire  da  chi  non  ha  esperienza  dei
costumi, e del sangue di noi piemontesi. Io, nel rendere poi dopo ragione  a  me
stesso del mio  orribile  trasporto,  fui  chiaramente  convinto,  che  aggiunta
all'eccessivo irascibile della natura mia l'asprezza occasionata dalla  continua
solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso,  e  fattolo
in quell'attimo traboccare. Del resto io non  ho  mai  battuto  nessuno  che  mi
servisse se non se come avrei fatto un mio eguale; e  non  mai  con  bastone  né
altr'arme, ma con pugni, o seggiole, o qualunque  altra  cosa  mi  fosse  caduta
sotto la mano, come accade quando da giovine altri, provocandoti,  ti  sforza  a
menar le mani. Ma nelle pochissime volte che tal cosa mi avvenne,  avrei  sempre
approvato e stimato  quei  servi  che  mi  avessero  risalutato  con  lo  stesso
picchiare; atteso che io non intendeva mai di battere il servo come padrone,  ma
di altercare da uomo ad uomo. Vivendo cosí  come  orso  terminai  il  mio  breve
soggiorno in Madrid, dove non  vidi  nessunissima  delle  non  molte  cose,  che
poteano eccitare qualche curiosità; né il palazzo dell'Escurial famosissimo,  né
Araniuez, né il palazzo pure del re in Madrid, non che  vedervi  il  padrone  di
esso. E cagione principale di questa straordinaria selvatichezza fu l'essere  io
mezzo guasto col nostro ambasciator di Sardegna; ch'io avea conosciuto in Londra
dal primo viaggio ch'io ci avea fatto nel 1768, dove egli era allora ministro, e
non c'eramo niente piaciuti l'un l'altro.  Nell'arrivare  io  a  Madrid,  saputo
ch'egli era con la corte in una di quelle ville reali,  colsi  subito  il  tempo
ch'egli non v'era, e lasciai il polizzino di visita con una commendatizia  della
Segreteria di Stato che avea recato meco com'è d'uso. Tornato egli in Madrid  fu
da me, non mi trovò; né io piú mai cercai di lui, né egli di me. E tutto  questo
non contribuiva forse poco a sempre  piú  inasprire  il  mio  già  bastantemente
insoave ed irto carattere. Lasciai dunque Madrid verso i primi del  dicembre,  e
per Toledo, e Badaioz, mi avviai a passo a passo verso Lisbona, dove dopo  circa
venti giorni di viaggio arrivai la vigilia del Natale. Lo spettacolo  di  quella
città, la quale a chi vi approda, come io, da oltre  il  Tago,  si  presenta  in
aspetto teatrale e  magnifico  quasi  quanto  quello  di  Genova,  con  maggiore
estensione e varietà, mi rapí veramente,  massime  in  una  certa  distanza.  La
maraviglia poi e il diletto andavano  scemando  all'approssimar  della  ripa,  e
intieramente poi mi si trasmutavano in oggetto di  tristezza  e  squallore  allo
sbarcare fra certe strade,  intere  isole  di  muriccie  avanzi  del  terremoto,
accatastate e spartite allineate a guisa di  isole  di  abitati  edifizi.  E  di
cotali strade se ne vedevano ancora moltissime nella parte  bassa  della  città,
benché  fossero  già  oramai  trascorsi  quindici  anni  dopo   quella   funesta
catastrofe. Quel mio breve soggiorno in Lisbona di circa cinque settimane,  sarà
per me un'epoca sempre memorabile e cara, per avervi  io  imparato  a  conoscere
l'abate Tommaso di Caluso, fratello minore del conte Valperga di  Masino  allora
nostro ministro in Portogallo. Quest'uomo, raro per l'indole,  i  costumi  e  la
dottrina, mi rendé delizioso codesto soggiorno, a segno che,  oltre  al  vederlo
per lo  piú  ogni  mattina  a  pranzo  dal  fratello,  anche  le  lunghe  serate
dell'inverno io preferiva pure di passarmele intere da  solo  a  solo  con  lui,
piuttosto che correre attorno pe' divertimenti sciocchissimi del gran mondo. Con
esso io imparava sempre qualche cosa, e tanta era la di lui bontà e  tolleranza,
che egli sapea per cosí dire alleggerirmi la  vergogna  ed  il  peso  della  mia
ignoranza estrema, la quale tanto piú fastidiosa e stomachevole  gli  dovea  pur
comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere. Cosa  che,  non  mi
essendo fin allora accaduta con nessuno dei non  molti  letterati  ch'io  avessi
dovuti trattare, me li avea fatti tutti prendere a  noia.  E  ben  dovea  essere
cosí, non essendo in me niente minore l'orgoglio, che l'ignoranza. Fu in una  di
quelle dolcissime serate, ch'io provai nel piú intimo della mente e del cuore un
impeto veramente febeo, di rapimento entusiastico per l'arte  della  poesia;  il
quale pure non fu che  un  brevissimo  lampo,  che  immediatamente  si  tornò  a
spegnere, e dormí poi sotto cenere ancora degli anni ben molti. Il degnissimo  e
compiacentissimo abate mi stava leggendo quella grandiosa  ode  del  Guidi  alla
Fortuna, poeta, di cui sino a quel giorno io non avea neppur mai udito il  nome.
Alcune stanze di quella canzone, e specialmente  la  bellissima  di  Pompeo,  mi
trasportarono a un segno indicibile, talché il buon abate si persuase e mi disse
che io era nato per far dei versi, e che avrei potuto,  studiando,  pervenire  a
farne degli ottimi. Ma io,  passato  quel  momentaneo  furore,  trovandomi  cosí
irrugginite tutte le facoltà della mente, non la credei oramai cosa possibile, e
non ci pensai altrimenti. Intanto l'amicizia e la soave compagnia di  quell'uomo
unico, che è un Montaigne vivo, mi  giovò  assaissimo  a  riassestarmi  un  poco
l'animo; onde, ancorché non mi sentissi del tutto guarito, mi riavvezzai pure  a
poco a poco a leggicchiare, e riflettere, assai piú che non avessi ciò fatto  da
circa diciotto mesi. Quanto poi  alla  città  di  Lisbona,  dove  non  mi  sarei
trattenuto neppur dieci giorni, se non fosse stato l'abate, nulla me ne  piacque
fuorché in generale le donne, nelle quali veramente abonda il  lubricus  adspici
di Orazio. Ma, essendomi ridivenuta mille volte piú cara  la  salute  dell'animo
che quella del corpo, io mi studiai e riuscii  di  sfuggire  sempre  le  oneste.
Verso i primi di febbraio partii alla volta di Siviglia e di Cadice;  né  portai
meco altra cosa di Lisbona, se non se una stima ed amicizia somma  pel  suddetto
abate di Caluso, ch'io sperava di riveder poi, quando che fosse, in  Torino.  Di
Siviglia  me  ne  andò  a  genio  il  bel  clima,  e  la  faccia  originalissima
spagnuolissima che tuttavia conservavasi codesta  città  sovra  ogni  altra  del
regno. Ed io sempre ho preferito originale anche  tristo  ad  ottima  copia.  La
nazione spagnuola, e la portoghese, sono in fatti quasi oramai le sole di Europa
che conservino i loro costumi, specialmente nel basso e medio ceto. E benché  il
buono vi sia quasi naufrago in un  mare  di  storture  di  ogni  genere  che  vi
predominano, io credo tuttavia quel popolo  una  eccellente  materia  prima  per
potersi addirizzar facilmente ad  operar  cose  grandi,  massimamente  in  virtú
militare;  avendone  essi  in  sovrano  grado  tutti  gli  elementi;   coraggio,
perseveranza, onore, sobrietà, obbedienza,  pazienza,  ed  altezza  d'animo.  In
Cadice terminai il carnevale bastantemente lieto. Ma  mi  avvidi  alcuni  giorni
dopo esserne partito alla volta di Cordova,  che  riportato  n'avea  meco  delle
memorie gaditane, che alcun tempo mi durerebbero. Quelle ferite poco gloriose mi
amareggiarono  assai  quel  lunghissimo  viaggio  da  Cadice  a  Torino,   ch'io
intrapresi di fare d'un sol fiato cosí ad oncia ad oncia per tutta la  lunghezza
della Spagna sino ai confini di Francia, di dove già v'era entrato.  Ma  pure  a
forza di robustezza, ostinazione e sofferenza, cavalcando, sfangando a piedi,  e
strapazzandomi d'ogni  maniera,  arrivai,  assai  mal  concio,  a  dir  vero,  a
Perpignano, di dove poi continuando per le poste ebbi a soffrir molto  meno.  In
quel gran tratto di  terra  i  due  soli  luoghi  che  mi  diedero  una  qualche
soddisfazione, furono Cordova e Valenza: massimamente  poi  tutto  il  regno  di
Valenza, che misurai per lo lungo sul finir di  marzo,  ed  era  per  tutto  una
primavera tepida e deliziosissima, di quelle veramente descritte dai  poeti.  Le
adiacenze poi e i passeggi, e le limpide acque,  e  la  posizione  locale  della
città di Valenza, e il bellissimo azzurro del di lei cielo, e un non so  che  di
elastico ed amoroso nell'atmosfera; e donne i di cui occhi protervi  mi  faceano
bestemmiare le gaditane; e un tutto, insomma, sí fatto mi si appresentò in  quel
favoloso paese, che nessun'altra terra mi ha lasciato un tale desiderio  di  sé,
né mi si riaffaccia sí spesso alla fantasia quanto codesta. Giunto per la via di
Tortosa una seconda volta in Barcellona, e tediatissimo  del  viaggiare  a  cosí
lento passo, feci il gran distacco dal mio bellissimo cavallo andaluso, che  per
essere  molto  affaticato  da  quest'ultimo  viaggio  di  trenta  e  piú  giorni
consecutivi da Cadice a Barcellona, non lo  volea  strapazzar  maggiormente  col
farmelo trottar dietro il legno quando sarei partito  per  Perpignano  a  marcia
duplicata. L'altro  mio  cavallo,  il  cordovesino,  essendomisi  azzoppito  fra
Cordova e Valenza, piuttosto che trattenermi due giorni  che  forse  si  sarebbe
riavuto,  lo  avea  regalato  alle  figlie  di  una   ostessa   molto   belline,
raccomandandolo che se lo curavano e gli davano un po' di riposo,  rinsanito  lo
venderebbero  benissimo;  né  mai  piú  ne  seppi  altro.  Quest'ultimo   dunque
rimastomi, non lo volendo io vendere, perché sono  per  natura  nemicissimo  del
vendere, lo regalai ad un banchiere francese domiciliato in Barcellona, già  mio
conoscente sin dalla mia prima dimora in codesta città. E qui,  per  definire  e
dimostrare quel che sia il cuore di un pubblicano, aggiungerò una particolarità.
Essendomi rimaste di piú forse un trecento doppie d'oro di Spagna, che attese le
severe perquisizioni che si fanno alle dogane di frontiera all'uscire di Spagna,
difficilmente forse le avrei potute estrarre, sendo cosa proibita;  richiesi  al
su detto banchiere, dopo avergli regalato il cavallo, che mi desse una  cambiale
di codesta somma pagabile a vista in Monpellieri di dove mi toccava passare.  Ed
egli, per testificarmi la sua gratitudine, ricevute le mie  doppie  sonanti,  mi
concepí la cambiale in tutto quel massimo rigore di cambio che facea  in  quella
settimana; talché poi a Monpellieri riscotendo la somma in luigi, mi trovai aver
meno circa il sette per cento di  quello  ch'io  avrei  ricavato  se  vi  avessi
portate e scambiate le mie doppie effettive. Ma io non avea  neppur  bisogno  di
aver provato questa cortesia banchieresca per fissare la mia opinione su codesta
classe di gente, che sempre mi è sembrata l'una delle piú  vili  e  pessime  del
mondo sociale; e ciò tanto piú, quanto essi si van  mascherando  da  signori,  e
mentre vi danno un lauto pranzo in casa loro per fasto,  vi  spogliano  per  uso
d'arte al loro banco; e sempre poi sono pronti  ad  impinguarsi  delle  calamità
pubbliche. A fretta in furia, facendo con danari bastonare le  tardissime  mule,
mi portai dunque in due giorni soli da Barcellona a Perpignano, dove  ce  n'avea
impiegati quattro al venire. E la fretta poi  mi  era  sí  fattamente  rientrata
addosso, che di Perpignano in Antibo volando per le poste, non mi trattenni mai,
né in Narbona, né in Monpellieri, né in Aix. Ed in Antibo subito imbarcatomi per
Genova, dove solo per riposarmi soggiornai tre giorni, di lí  mi  restituiva  in
patria due altri giorni trattenendomi presso mia madre in Asti; e  quindi,  dopo
tre anni di assenza, in Torino, dove giunsi il dí  quinto  di  maggio  dell'anno
1772. Nel passare di Monpellieri io avea consultato un chirurgo di  alto  grido,
su i miei incommodi incettati in Cadice. Costui mi ci volea far  trattenere;  ma
io, fidandomi alquanto su l'esperienza  che  avea  oramai  contratta  di  simili
incommodi, e sul parere del mio Elia, che di queste cose intendeva benissimo,  e
mi avea già altre volte perfettamente guarito in Germania, ed altrove; senza dar
retta all'ingordo chirurgo di Monpellieri, avea proseguito, come dissi,  il  mio
viaggio rapidissimamente. Ma lo strapazzo stesso di due  mesi  di  viaggio  avea
molto aggravato il male. Onde al mio arrivo in Torino, sendo assai mal  ridotto,
ebbi che fare quasi tutta l'estate per rimettermi in  salute.  E  questo  fu  il
principal frutto dei tre anni di questo secondo mio viaggio.



CAPITOLO DECIMOTERZO Poco dopo essere  rimpatriato,  incappo  nella  terza  rete
amorosa. Primi tentativi di poesia.

Ma benché agli occhi dei piú, ed  anche  ai  miei,  nessun  buon  frutto  avessi
riportato da quei cinque anni di  viaggi,  mi  si  erano  con  tutto  ciò  assai
allargate le idee, e rettificato non poco il  pensare;  talché,  quando  il  mio
cognato mi volle riparlare d'impieghi diplomatici che avrei dovuto  sollecitare,
io gli risposi: che avendo veduti un pochino piú da presso ed i re, e coloro che
li rappresentano, e non li potendo stimare un iota nessuni, io non avrei  voluto
rappresentarne né anche il Gran Mogol, non che prendessi mai a rappresentare  il
piú piccolo di tutti i re dell'Europa, qual era il nostro; e  che  non  rimaneva
altro compenso a chi si trovava nato in simili paesi, se non se di camparvi  del
suo, avendovelo, e d'impiegarsi da sé in una qualche lodevole occupazione  sotto
gli auspici favorevolissimi sempre della beata indipendenza. Questi  miei  detti
fecero torcere moltissimo il muso a quell'ottimo uomo che trovavasi  essere  uno
dei gentiluomini di camera del re; né mai piú avendomi egli parlato di  ciò,  io
pure sempre piú mi confermai nel mio proposito. Io mi trovava allora in  età  di
ventitré anni; bastantemente ricco, pel mio paese;  libero,  quanto  vi  si  può
essere; esperto, benché cosí alla peggio, delle cose  morali  e  politiche,  per
aver veduti successivamente tanti diversi paesi e tanti uomini;  pensatore,  piú
assai che non lo comportasse quell'età; e presumente anche  piú  che  ignorante.
Con questi dati mi rimaneano necessariamente da farsi molti altri errori,  prima
che dovessi pur ritrovare un qualche lodevole ed utile sfogo al bollore del  mio
impetuoso intollerante e superbo  carattere.  In  fine  di  quell'anno  del  mio
ripatriamento, provvistomi in Torino una  magnifica  casa  posta  su  la  piazza
bellissima di San Carlo, e ammobigliatala con lusso e gusto  e  singolarità,  mi
posi a far vita di gaudente con gli amici, che allora me ne  ritrovai  averne  a
dovizia. Gli  antichi  miei  compagni  d'Accademia,  e  di  tutte  quelle  prime
scappataggini di gioventú, furono di nuovo i miei intimi; e tra quelli, forse un
dodici e piú persone, stringendoci piú assiduamente insieme, venimmo a stabilire
una società permanente, con admissione od esclusiva ad essa per via di  voti,  e
regole, e buffonerie diverse, che poteano forse somigliare, ma non  erano  però,
Libera Muratoreria. Né  di  tal  società  altro  fine  ci  proponevamo,  fuorché
divertirci, cenando spesso insieme (senza però  nessunissimo  scandalo);  e  del
resto nell'adunanze periodiche settimanali la  sera,  ragionando  o  sragionando
sovra ogni cosa. Tenevansi queste auguste sessioni in casa mia, perché era e piú
bella e piú spaziosa di quelle dei compagni,  e  perché  essendovi  io  solo  si
rimanea piú liberi. C'era fra questi giovani (che tutti erano  ben  nati  e  dei
primari della città) un po' d'ogni cosa; dei ricchi e dei poveri, dei buoni, dei
cattivucci, e degli ottimi, degli ingegnosi, degli  sciocchetti,  e  dei  colti;
onde da sí fatta mistura, che il  caso  la  somministrò  ottimamente  temperata,
risultava che io né vi potea, né avrei voluto  potendolo,  primeggiare  in  niun
modo, ancorché avessi veduto piú cose  di  loro.  Quindi  le  leggi  che  vi  si
stabilirono  furono  discusse  e  non  già  dettate;  e  riuscirono  imparziali,
egualissime, e giuste; a segno che un corpo di persone  come  eramo  noi,  tanto
potea  fondare  una  ben  equilibrata  repubblica,  come  una  ben   equilibrata
buffoneria. La sorte e le  circostanze  vollero  che  si  fabbricasse  piuttosto
questa che quella. Si era stabilito un ceppo assai  ben  capace,  dalla  di  cui
spaccatura superiore vi si introducevano scritti d'ogni specie, da leggersi  poi
dal presidente nostro elettivo ebdomadario, il quale  tenea  di  esso  ceppo  la
chiave. Fra quegli scritti se ne sentivano talvolta alcuni  assai  divertenti  e
bizzarri; se ne indovinavano per lo piú gli autori, ma non portavano  nome.  Per
nostra comune e piú mia particolare sventura, quegli scritti erano tutti in (non
dirò lingua), ma in parole francesi. Io ebbi la sorte d'introdurre  varie  carte
nel ceppo, le quali divertirono assai la brigata; ed erano cose facete miste  di
filosofia e d'impertinenza, scritte in un francese che dovea essere  almeno  non
buono, se pure non pessimo, ma riuscivano pure intelligibili e passabili per  un
uditorio che non era piú dotto di me in quella lingua. E fra gli altri,  uno  ne
introdussi, e tuttavia  lo  conservo,  che  fingeva  la  scena  di  un  Giudizio
Universale, in cui Dio domandando alle  diverse  anime  un  pieno  conto  di  sé
stesse, ci aveva rappresentate diverse persone che  dipingevano  i  loro  propri
caratteri; e questo ebbe molto incontro perché era fatto con un qualche sale,  e
molta verità; talché le allusioni, e i ritratti vivissimi e lieti e  variati  di
molti sí uomini che donne della nostra città, venivano riconosciuti  e  nominati
immediatamente da tutto l'uditorio. Questo piccolo saggio del mio poter  mettere
in carta le mie idee quali ch'elle fossero, e di potere, nel farlo,  un  qualche
diletto recare ad altrui, mi andò poi di tempo in  tempo  saettando  un  qualche
lampo confuso di desiderio e di speranza di scrivere quando che  fosse  qualcosa
che potesse aver vita; ma non mi sapeva neppur io quale potrebbe mai  essere  la
materia, vedendomi sprovvisto di quasi tutti  i  mezzi.  Per  natura  mia  prima
prima, a nessuna altra cosa inclinava quanto alla satira, ed all'appiccicare  il
ridicolo sí alle cose che alle persone. Ma  pure  poi  riflettendo  e  pensando,
ancorché mi vi paresse dovervi aver forse qualche destrezza, non  apprezzava  io
nell'intimo del cuore gran fatto questo sí fallace genere; il di cui buon esito,
spesso momentaneo, è posto e  radicato  assai  piú  nella  malignità  e  invidia
naturale degli uomini, gongolanti sempre allorché vedono mordere i loro  simili,
che non nel merito intrinseco del morditore. Intanto per allora  la  divagazione
somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei  ventiquattro  anni,  e  i
cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e piú, tutti questi  ostacoli
potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od  assopivano  in  me
ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque cosí  in  questa
vita giovenile oziosissima, non avendo mai un  istante  quasi  di  mio,  né  mai
aprendo piú un libro di sorte nessuna, incappai (come ben dovea essere)  di  bel
nuovo in un tristo amore; dal quale  poi  dopo  infinite  angosce,  vergogne,  e
dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e
del fare, il quale d'allora in poi non mi abbandonò  mai  piú;  e  che,  se  non
altro, mi ha una volta sottratto dagli  orrori  della  noia,  della  sazietà,  e
dell'ozio; e dirò piú, dalla disperazione; verso la quale a poco a  poco  io  mi
sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato poi in una  continua
e caldissima occupazione di mente, non v'era  certamente  per  me  nessun  altro
compenso  che  mi  potesse  impedire  prima  dei  trent'anni  dall'impazzire   o
affogarmi. Questa mia terza ebrezza d'amore fu veramente sconcia, e  pur  troppo
lungamente anche durò. Era la mia nuova fiamma una donna, distinta  di  nascita,
ma di non troppo buon nome  nel  mondo  galante,  ed  anche  attempatetta;  cioè
maggiore di me di circa nove in dieci anni. Una  passeggiera  amicizia  era  già
stata tra noi, al mio primo uscire  nel  mondo,  quando  ancora  era  nel  Primo
Appartamento dell'Accademia. Sei e piú anni  dopo,  il  trovarmi  alloggiato  di
faccia a lei, il vedermi da essa festeggiato moltissimo; il  non  far  nulla;  e
l'esser io forse una di quelle anime di cui dice, con tanta verità  ed  affetto,
il Petrarca:

So di che poco canape si allaccia un'anima gentil, quand'ella è sola,  e  non  è
chi per lei difesa faccia;

ed in somma il mio buon padre Apollo che forse  per  tal  via  straordinaria  mi
volea chiamare a sé; fatto si è, ch'io, benché da principio non l'amassi, né mai
poi la stimassi, e neppure molto la di lei bellezza non ordinaria mi  andasse  a
genio; con tutto ciò credendo come un mentecatto al di lei immenso amore per me,
a poco a poco l'amai davvero, e mi c'ingolfai sino agli occhi. Non vi fu piú per
me né  divertimenti,  né  amici;  perfino  gli  adorati  cavalli  furono  da  me
trascurati. Dalla mattina all'otto fino alle dodici della sera eternamente seco,
scontento  dell'esserci,  e  non  potendo   pure   non   esserci;   bizzarro   e
tormentosissimo stato, in cui vissi non ostante (o vegetai, per dir  meglio)  da
circa il mezzo dell'anno 1773 sino a tutto il febbraio del '75; senza contar poi
la coda di questa per me fatale e ad un tempo fausta cometa.



CAPITOLO DECIMOQUARTO Malattia e ravvedimento.

Nel lungo tempo che durò questa pratica, arrabbiando io dalla mattina alla sera,
facilmente mi alterai la salute. Ed in fatti nel fine del '73 ebbi una  malattia
non lunga, ma fierissima, e straordinaria a segno che i maligni begl'ingegni, di
cui Torino non manca, dissero argutamente ch'io l'avea inventata  esclusivamente
per me. Cominciò con lo dar di stomaco per ben trentasei ore  continue,  in  cui
non v'essendo piú neppur umido da rigettare, si era risoluto  il  vomito  in  un
singhiozzo sforzoso, con una  orribile  convulsione  del  diaframma  che  neppur
l'acqua in  piccolissimi  sorsi  mi  permettea  d'ingoiare.  I  medici,  temendo
l'infiammazione, mi cacciarono sangue  dal  piede,  e  immediatamente  cessò  lo
sforzo di quel  vomito  asciutto,  ma  mi  si  impossessò  una  tal  convulsione
universale, e subsultazione dei nervi tutti, che a scosse terribili  ora  andava
percuotendo il capo della testiera del letto, se non me lo teneano, ora le  mani
e massimamente i gomiti, contro qualunque  cosa  vi  fosse  stata  aderente.  Né
alcunissimo nutrimento, o bevanda, per nessuna via mi si  poteva  far  prendere,
perché all'avvicinarsi o vaso o istromento qualunque a qualunque orifizio, prima
anche di toccare la parte era tale lo scatto cagionato dai subsulti nervosi, che
nessuna forza valeva a impedirli; anzi, se mi voleano tener fermo  con  violenza
era assai peggio, ed io ammalato dopo anche quattro giorni  di  totale  digiuno,
estenuato di forze, conservava però un tale orgasmo di muscoli, che mi  venivano
fatti allora degli sforzi che non avrei mai potuti fare essendo in piena salute.
In questo modo passai cinque giorni interi in cui  non  mi  vennero  inghiottiti
forse venti o trenta sorsetti di acqua presi cosí  a  contrattempo  di  volo,  e
spesso immediatamente rigettati. Finalmente nel sesto  la  convulsione  allentò,
mediante le cinque o le sei ore il giorno che fui tenuto in un bagno  caldissimo
di mezz'olio e mezz'acqua. Riapertasi la via dell'esofago, in pochi  giorni  col
bere moltissimo siere fui risanato. La lunghezza del digiuno e  gli  sforzi  del
vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco, fra quei  due  ossucci
che la compongono, vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi
potea capire; né mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la vergogna, e  il
dolore, in cui mi facea sempre vivere quell'indegno amore, mi  aveano  cagionata
quella singolar malattia. Ed io, non vedendo strada per me  di  uscire  di  quel
sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel  quinto  giorno  del  male,
quando piú si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu  messo  intorno  un
degno cavaliere mio amico, ma assai piú vecchio di me, per indurmi a ciò che  il
suo viso e i preamboli del suo dire mi fecero indovinare prima ch'egli parlasse;
cioè a confessarmi e testare. Lo prevenni, col  domandar  l'uno  e  l'altro,  né
questo mi sturbò punto l'animo. In due o tre aspetti mi occorse di rimirare  ben
in faccia la morte nella mia gioventú; e mi pare di averla ricevuta  sempre  con
lo stesso contegno. Chi sa poi, se quando ella mi si  riaffaccerà  irremissibile
io nello stesso modo la riceverò. Bisogna veramente  che  l'uomo  muoia,  perché
altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore. Risorto  da  quella
malattia, ripigliai tristamente le mie catene amorose.  Ma  per  levarmene  pure
qualcun'altra d'addosso, non volli piú lungamente godermi i lacci militari,  che
sommamente mi erano sempre  dispiaciuti,  abborrendo  io  quell'infame  mestiere
dell'armi sotto un'autorità assoluta qual ch'ella sia; cosa, che sempre  esclude
il sacrosanto nome di patria. Non negherò pure, che in quel punto la mia  Venere
non fosse piú assai per me opprobriosa che non era il mio Marte.  In  somma  fui
dal colonnello, e allegando la salute domandai dimissione dal servizio, che  non
avea a dir vero prestato mai; poiché in circa ott'anni  che  portai  l'uniforme,
cinque li avea passati fuor del paese; e nei tre  altri  appena  cinque  riviste
avea passate, che due l'anno se ne passavano sole in quei reggimenti di  Milizie
Provinciali in cui avea preso servizio. Il colonnello volle  ch'io  ci  pensassi
dell'altro prima di chiedere per me codesta dimissione; accettai per civiltà  il
suo invito e simulando di avervi pensato altri quindici  giorni,  la  ridomandai
piú  fermamente  e  l'ottenni.  Io  frattanto  strascinava  i  miei  giorni  nel
serventismo, vergognoso di me stesso, noioso  e  annoiato,  sfuggendo  ogni  mio
conoscente ed amico, sui di cui visi io benissimo leggeva  tacitamente  scolpita
la mia opprobriosa dabenaggine. Avvenne poi nel gennaio del 1774, che quella mia
signora si ammalò di un male di cui forse poteva esser io la cagione, benché non
intieramente il credessi. E richiedendo il suo male  ch'ella  stesse  in  totale
riposo e silenzio, fedelmente io le stava a piè del letto seduto per servirla; e
ci stava dalla mattina alla sera, senza pure aprir bocca per non le nuocere  col
farla parlare. In una di queste poco, certo, divertenti  sedute,  io  mosso  dal
tedio, dato di piglio a cinque o sei fogli di carta che mi caddero  sotto  mano,
cominciai cosí a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una  scena  di
una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia,  se  d'un  sol  atto,  o  di
cinque, o di dieci; ma insomma delle parole a guisa di dialogo,  e  a  guisa  di
versi, tra un Photino, una donna, ed una Cleopatra, che poi sopravveniva dopo un
lunghetto parlare fra codesti due prima nominati. Ed a quella  donna,  dovendole
pur dare un nome, né altro sovvenendomene, appiccicai quel di Lachesi, senza pur
ricordarmi ch'ella delle tre Parche era l'una.  E  mi  pare,  ora  esaminandola,
tanto piú strana quella mia subitanea impresa, quanto da circa sei e piú anni io
non avea mai piú scritto una parola italiana, pochissimo e assai di rado  e  con
lunghissime interruzioni ne avea letto. Eppure cosí in un subito, né saprei dire
né come né perché, mi accinsi a stendere quelle scene in lingua italiana  ed  in
verso. Ma, affinché il lettore possa giudicar da sé stesso della  scarsezza  del
mio patrimonio poetico in quel tempo, trascriverò qui in fondo di pagina a guisa
di nota(1) un bastante squarcio di codesta composizione, e  fedelissimamente  lo
trascriverò dall'originale che  tuttavia  conservo,  con  tutti  gli  spropositi
perfino di ortografia con cui fu scritto: e spero, che se non altro questi versi
potranno far ridere chi vorrà dar loro un'occhiata, come vanno facendo ridere me
nell'atto del trascriverli; e principalmente la scena fra Cleopatra  e  Photino.
Aggiungerò una particolarità, ed è:  che  nessun'altra  ragione  in  quel  primo
istante ch'io cominciai  a  imbrattar  que'  fogli  mi  indusse  a  far  parlare
Cleopatra  piuttosto  che  Berenice,  o  Zenobia,  o  qualunque   altra   regina
tragediabile,  fuorché  l'esser  io  avvezzo  da   mesi   ed   anni   a   vedere
nell'anticamera di quella signora alcuni bellissimi arazzi, che  rappresentavano
vari fatti di Cleopatra e d'Antonio. Guarí poi la mia  signora  di  codesta  sua
indisposizione; ed io senza mai piú pensare a questa mia sceneggiatura risibile,
la depositai sotto un cuscino della di lei  poltroncina,  dove  ella  si  stette
obbliata circa un anno; e cosí furono frattanto, sí  dalla  signora  che  vi  si
sedeva abitualmente, si da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal
guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie.  Ma,
trovandomi vie piú sempre tediato ed arrabbiato di far quella vita  serventesca,
nel maggio di quello stesso anno '74, presi  subitamente  la  determinazione  di
partire per Roma, a provare se il viaggio e la  lontananza  mi  guarirebbero  di
quella morbosa passione. Afferrai l'occasione d'una acerba disputa avuta con  la
mia signora (e queste non erano rare), e senza dir altro, tornato la sera a casa
mia, nel giorno consecutivo feci tutte le  mie  disposizioni,  e  passato  tutto
quell'intero giorno senza capitar da lei, la mattina dopo per tempissimo  me  ne
partii alla volta di Milano. Essa non lo seppe  che  la  sera  prima  (credo  il
sapesse da qualcuno di casa mia), e  subito  quella  sera  stessa  al  tardi  mi
rimandò, come è d'uso,  e  lettere  e  ritratto.  Quest'invio  già  principiò  a
guastarmi la testa, e la mia risoluzione già tentennava. Tuttavia, fattomi  buon
animo, mi avviai, come dissi, per le  poste  verso  Milano.  Giunto  la  sera  a
Novara, saettato tutto il giorno da quella sguaiatissima passione, ecco  che  il
pentimento, il dolore e la viltà mi muovono un sí feroce assalto al  cuore,  che
fattasi omai vana ogni ragione, sordo al  vero,  repentinamente  mi  cangio.  Fo
proseguire verso Milano un abate francese ch'io m'era preso per compagno, con la
carrozza e i miei servi, dicendo loro di aspettarmi  in  Milano.  In  tanto,  io
soletto, sei ore innanzi giorno salto a cavallo col postiglione per guida, corro
tutta la notte, e il giorno poi di buon'ora mi ritrovo un'altra volta a  Torino;
ma per non mi vi far vedere, e non esser la favola di tutti, non entro in città;
mi soffermo in un'osteriaccia del sobborgo, e  di  là  supplichevolmente  scrivo
alla mia signora adirata, perch'ella mi perdoni questa  scappata,  e  mi  voglia
accordare un po' d'udienza. Ricevo tostamente risposta. Elia, che era rimasto in
Torino per badare alle cose mie durante il mio  viaggio  che  dovea  esser  d'un
anno; Elia, destinato sempre a medicare, o palliar le  mie  piaghe,  mi  riporta
quella risposta. L'udienza mi vien accordata, entro in città, come  profugo,  su
l'imbrunir della notte;  ottengo  il  mio  intero  vergognoso  perdono,  riparto
all'alba consecutiva verso Milano, rimasti d'accordo fra noi due che in capo  di
cinque o sei settimane sotto pretesto di salute me ne ritornerei in  Torino.  Ed
io in tal guisa palleggiato a vicenda tra la ragione e l'insania, appena firmata
la pace, trovandomi di bel nuovo  soletto  su  la  strada  maestra  fra  i  miei
pensamenti, fieramente  mi  sentiva  riassalito  dalla  vergogna  di  tanta  mia
debolezza. Cosí arrivai a  Milano  lacerato  da  questi  rimorsi  in  uno  stato
compassionevole ad un tempo e risibile. Io non sapeva  allora,  ma  provava  per
esperienza quel profondo ed elegante bel detto del nostro  maestro  d'amore,  il
Petrarca:

Che chi discerne è vinto da chi vuole.

Due giorni appena mi trattenni in Milano, sempre fantasticando, ora come  potrei
abbreviare quel maledetto viaggio, ed ora, come lo potrei far durare senza tener
parola del ritorno; che libero avrei voluto trovarmi, ma liberarmi non sapea, né
potea. Ma, non trovando mai un po' di pace se non se nel moto e divagazione  del
correr la posta, rapidamente per Parma, Modena, e Bologna mi rendei  a  Firenze;
dove né pure potendomi trattener piú di due giorni, subito ripartii per  Pisa  e
Livorno. Quivi poi ricevute le prime lettere della mia signora, non potendo  piú
durare lontano, ripartii subito per la via di Lerici e Genova,  dove  lasciatovi
l'abate compagno, e il legno da risarcirsi, a spron  battuto  a  cavallo  me  ne
ritornai a Torino, diciotto giorni dopo esserne partito per fare il viaggio d'un
anno. C'entrai anche di notte  per  non  farmi  canzonar  dalla  gente.  Viaggio
veramente burlesco, che pure mi costò dei gran pianti. Sotto l'usbergo (non  del
sentirmi puro) ma del mio viso serio e marmoreo, scansai le canzonature dei miei
conoscenti ed amici, che non si attentarono di  darmi  il  ben  tornato.  Ed  in
fatti, troppo era mal tornato; e divenuto oramai disprezzabilissimo agli  stessi
occhi miei, io caddi in un tale avvilimento e malinconia, che se un  tale  stato
fosse lungamente durato, avrei dovuto o impazzire, o scoppiare;  come  in  fatti
venni assai presso all'uno ed all'altro. Ma pure strascinai quelle  vili  catene
ancora dal finir di giugno del '74, epoca del mio ritorno di  quel  semiviaggio,
sino al gennaio del '75, quando alla per fine il  bollore  della  mia  compressa
rabbia giunto all'estremo scoppiò.



CAPITOLO DECIMOQUINTO Liberazione vera. Primo sonetto.

Tornato io una tal sera dall'opera (insulso e tediosissimo divertimento di tutta
l'Italia) dove per  molte  ore  mi  era  trattenuto  nel  palco  dell'odiosamata
signora,  mi  trovai  cosí  esuberantemente  stufo  che  formai  la   immutabile
risoluzione di rompere sí fatti legami per sempre. Ed avendo io visto per  prova
che il correre per le poste qua e là non mi avea prestato forza di proponimento,
che anzi me l'avea subito indebolita e poi tolta, mi  volli  mettere  a  maggior
prova, lusingandomi che in uno sforzo  piú  difficile  riuscirei  forse  meglio,
stante l'ostinazione naturale del mio ferreo  carattere.  Fermai  dunque  in  me
stesso di non mi muovere di casa mia, che come dissi le stava per  l'appunto  di
faccia; di vedere e guardare ogni giorno le di lei finestre, di vederla passare;
di udirne in qualunque modo parlare; e con tutto ciò, di  non  cedere  oramai  a
nulla, né ad ambasciate dirette o indirette, né alle reminiscenze, né a cosa che
fosse al mondo, a vedere se ci creperei, il che poco importavami, o se alla  fin
fine la vincerei. Formato in me tal proponimento, per legarmivi  contraendo  con
una qualche persona come un obbligo di vergogna, scrissi un  bigliettino  ad  un
amico mio coetaneo, che molto mi amava, con chi s'era fatta l'adolescenza, e che
allora da parecchi  mesi  non  mi  vedea  piú,  compiangendomi  molto  di  esser
naufragato in quella Cariddi, e non potendomene cavar egli, né volendomi  perciò
parer d'approvare. Nel bigliettino  gli  dava  conto  in  due  righe  della  mia
immutabile risoluzione, e gli  acchiudevo  un  involtone  della  lunga  e  ricca
treccia de' miei rossissimi capelli, come  un  pegno  di  questo  mio  subitaneo
partito, ed un impedimento quasi che invincibile al mostrarmi  in  nessun  luogo
cosí tosone, non essendo allora tollerato un tale assetto, fuorché ne'  villani,
e marinai. Finiva il biglietto col pregarlo di  assistermi  di  sua  presenza  e
coraggio, per rinfrancare il mio. Isolato in tal guisa  in  casa  mia,  proibiti
tutti i messaggi, urlando e ruggendo, passai i primi quindici giorni  di  questa
mia strana  liberazione.  Alcuni  amici  mi  visitavano;  e  mi  parve  anco  mi
compatissero; forse appunto perché io non diceva parola per  lamentarmi,  ma  il
mio contegno ed il volto parlavano in vece mia. Mi andava  provando  di  leggere
qualche cosuccia, ma non intendeva neppur la  gazzetta,  non  che  alcun  menomo
libro; e mi accadeva di aver letto della pagine intere cogli occhi, e talor  con
le labbra, senza pure saper una parola di quel  ch'avessi  letto.  Andava  bensí
cavalcando nei luoghi solitari, e questo soltanto mi giovava  un  poco  sí  allo
spirito che al corpo. In questo semifrenetico stato passai piú di due mesi  sino
al finir di marzo del '75; finché ad  un  tratto  un'idea  nuovamente  insortami
cominciò finalmente a svolgermi alquanto e la mente ed il cuore da quell'unico e
spiacevole e prosciugante pensiero di un sí fatto amore.  Fantasticando  un  tal
giorno cosí fra me stesso, se non sarei  forse  in  tempo  ancora  di  darmi  al
poetare, me n'era venuto, a stento ed  a  pezzi,  fatto  un  piccolo  saggio  in
quattordici rime, che io, riputandole un sonetto, inviava  al  gentile  e  dotto
padre Paciaudi, che trattavami di quando in quando, e mi si era sempre  mostrato
ben affetto, e rincrescente di vedermi cosí  ammazzare  il  tempo  e  me  stesso
nell'ozio. Trascriverò qui,  oltre  il  sonetto(2),  anche  la  di  lui  cortese
risposta(3). Quest'ottimo uomo mi era sempre  andato  suggerendo  delle  letture
italiane, or  questa  or  quella,  e  tra  l'altre,  trovata  un  giorno  su  un
muricciuolo la Cleopatra, ch'egli intitola eminentissima per essere del cardinal
Delfino, ricordatosi ch'io gli avea detto parermi quello un oggetto di tragedia,
e che lo avrei voluto tentare (senza pure avergli mai mostrato  quel  mio  primo
aborto, di cui ho mostrato qui addietro il soggetto), egli me la comprò e  donò.
Io in un momento di lucido intervallo avea avuta la pazienza di leggerla,  e  di
postillarla; e glie  l'avea  cosí  rimandata,  stimandola  in  me  stesso  assai
peggiore della mia  quanto  al  piano  e  agli  effetti,  se  io  veniva  mai  a
proseguirla, come di tempo in tempo me ne  rinasceva  il  pensiere.  Intanto  il
Paciaudi, per non farmi smarrire d'animo, finse di trovar buono il mio  sonetto,
benché né egli il credesse, né effettivamente lo fosse. Ed io poi, di lí a pochi
mesi ingolfatomi davvero nello studio dei nostri ottimi poeti, tosto  imparai  a
stimare codesto mio sonetto per quel giusto nulla ch'egli valeva.  Professo  con
tutto ciò un grand'obbligo a quelle prime lodi non vere, e a chi cortesemente le
mi donò, poiché molto mi incoraggirono a cercare di meritarne  delle  vere.  Già
parecchi giorni prima della rottura con la signora, vedendola io  indispensabile
ed  imminente,  mi  era  sovvenuto  di  ripescare  di  sotto  al  cuscino  della
poltroncina quella mia mezza Cleopatra, stata ivi in macero quasi che  un  anno.
Venne poi dunque quel giorno, in cui, fra quelle mie smanie e  solitudine  quasi
che continua, buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto quasi  come  un  lampo
insortami la somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra
me stesso: "Va proseguita quest'impresa; rifarla, se non può star  cosí;  ma  in
somma sviluppare in questa  tragedia  gli  affetti  che  mi  divorano,  e  farla
recitare questa primavera dai comici che ci verranno". Appena  mi  entrò  questa
idea, ch'io (quasiché  vi  avessi  ritrovata  la  mia  guarigione)  cominciai  a
schiccherar  fogli,  rappezzare,  rimutare,  troncare,  aggiungere,  proseguire,
ricominciare, ed in somma a impazzare in altro modo intorno a quella  sventurata
e mal nata mia Cleopatra. Né mi vergognai anco di  consultare  alcuni  de'  miei
amici coetanei, che non avevano, come io, trascurata  tanti  anni  la  lingua  e
poesia italiana; e tutti ricercava ed infastidiva, quanti mi poteano dar qualche
lume su un'arte di cui cotanto io  mi  trovava  al  buio.  E  in  questa  guisa,
null'altro desiderando io allora che imparare, e tentare, se mi poteva  riuscire
quella pericolosissima e temeraria impresa, la mia casa si andava a poco a  poco
trasformando in una semiaccademia di letterati. Ma essendo  io  in  quelle  date
circostanze bramoso d'imparare, e arrendevole, per accidente; ma per natura,  ed
attesa l'incrostata ignoranza, essendo ad un tempo  stesso  agli  ammaestramenti
recalcitrante ed indocile; disperavami, annoiava altrui e me stesso, e  quasiché
nulla venivami a profitto. Era  tuttavia  sommo  il  guadagno  dell'andarmi  con
questo nuovo impulso cancellando dal cuore quella non degna fiamma, e di  andare
ad oncia ad oncia riacquistando il mio già sí lungamente alloppiato  intelletto.
Non mi trovava almeno piú nella dura e risibile necessità di farmi legare su  la
mia seggiola, come avea praticato piú volte fin allora, per impedire in tal modo
me stesso dal poter fuggir di casa, e ritornare al mio carcere. Questo era anche
uno dei tanti compensi ch'io  aveva  ritrovati  per  rinsavirmi  a  viva  forza.
Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in  cui  mi  avviluppava,  ed
avendo libere le mani per leggere, o scrivere, o picchiarmi la  testa,  chiunque
veniva a vedermi non s'accorgeva punto che io fossi attaccato della persona alla
seggiola. E cosí ci passava dell'ore  non  poche.  Il  solo  Elia,  che  era  il
legatore, era a parte di questo segreto; e mi scioglieva  egli  poi,  quando  io
sentendomi passato  quell'accesso  di  furiosa  imbecillità,  sicuro  di  me,  e
riassodato il proponimento, gli accennava di  sciogliermi.  Ed  in  tante  e  sí
diverse maniere mi aiutai da codesti fierissimi  assalti,  che  alla  fine  pure
scampai dal ricadere in quel baratro.  E  tra  le  strane  maniere  che  in  ciò
adoperai, fu certo stranissima quella di una mascherata, ch'io feci  nel  finire
di codesto carnevale, al publico ballo del teatro. Vestito da Apollo assai bene,
osai di presentarmivi con la cetra, e strimpellando  alla  meglio,  di  cantarvi
alcuni versacci fatti da me, i quali anche con mia confusione trascriverò qui in
fondo di pagina(4). Una tale sfacciataggine era  in  tutto  contraria  alla  mia
indole naturale. Ma, sentendomi io pur troppo debole ancora a fronte  di  quella
arrabbiata passione, poteva forse meritare un qualche  compatimento  la  cagione
che mi movea a fare simili scenate; che altro non era se non se il bisogno ch'io
sentiva in me stesso di frapporre come ostacolo per me infrangibile la  vergogna
del ricadere in  quei  lacci,  che  con  tante  publicità  avrei  vituperati  io
medesimo. E in questo modo, senza avvedermene, io per non dovermi  vergognar  di
bel nuovo, in pubblico mi svergognava. Né queste ridicole e insulse colascionate
avrei osato trascrivere, se  non  mi  paresse  di  doverle,  come  un  autentico
monumento della mia imperizia in ogni convenienza e decenza, qui tributare  alla
verità. Fra queste sí fatte scede io mi andava pure davvero infiammando a poco a
poco del per me nuovo bellissimo ed altissimo amore di gloria. E finalmente dopo
alcuni mesi di continui consulti poetici, e di logorate grammatiche  e  stancati
vocabolari, e di raccozzati spropositi, io pervenni ad appiccicare  alla  peggio
cinque membri ch'io chiamai atti, e il tutto  intitolai  Cleopatra  tragedia.  E
avendo messo al pulito (senza forbirmene) il primo atto, lo  mandai  al  benigno
padre Paciaudi, perch'egli me lo spilluzzicasse, e dessemene il di lui parere in
iscritto. E qui pure fedelmente trascriverò alcuni  versi  di  esso(5),  con  la
risposta del Paciaudi(6). Nelle postille da  lui  apposte  a  que'  miei  versi,
alcune eran molto allegre e divertenti, e mi fecero ridere di vero cuore, benché
fosse alle spalle mie: e questa tra l'altre. "Verso 184, il  latrato  del  cor..
Questa metafora è soverchiamente canina. La prego di torla." Le postille di quel
primo atto, ed i consigli che nel paterno biglietto le accompagnavano, mi fecero
risolvere a tornar rifare il tutto con piú ostinazione ed  arrabbiata  pazienza.
Dal che poi ne uscí la cosidetta tragedia, quale si recitò in  Torino  a  dí  16
giugno 1775; della quale pure trascriverò, per terza ed ultima prova  della  mia
asinità nella età non poca di anni venzei e  mezzo,  i  primi  versi(7),  quanti
bastino per osservare i lentissimi progressi, e l'impossibilità di scrivere  che
tuttavia sussisteva, per mera mancanza dei piú triviali studi. E nel modo stesso
con cui avea tediato il buon padre Paciaudi per cavarne una  censura  di  quella
mia seconda prova, andai anche tediando  molti  altri,  tra  i  quali  il  conte
Agostino Tana mio coetaneo,  e  stato  paggio  del  re  nel  tempo  ch'io  stava
nell'Accademia. L'educazione nostra era perciò stata a un di  presso  consimile,
ma egli dopo uscito di paggio avea costantemente poi applicato alle  lettere  sí
italiane che francesi, ed erasi  formato  il  gusto,  massimamente  nella  parte
critica filosofica, e non grammaticale. L'acume, grazia e  leggiadria  delle  di
lui osservazioni su quella mia infelice Cleopatra farebbero ben bene  ridere  il
lettore, se io avessi il coraggio di mostrargliele;  ma  elle  mi  scotterebbero
troppo, e non sarebbero anche ben intese, non avendo io  ricopiato  che  i  soli
primi quaranta versi di  quel  secondo  aborto.  Trascriverò  bensí  la  di  lui
letterina(8) con la quale mi rimandò le postille, e basterà a  farlo  conoscere.
Io frattanto avea aggiunta una farsetta, che si reciterebbe immediataniente dopo
la mia Cleopatra; e la intitolai I poeti. Per dare  anco  un  saggio  della  mia
incompetenza in prosa, ne trascrivo uno squarcio(9). Né la farsetta però, né  la
tragedia, erano le sciocchezze d'uno sciocco; ma un qualche lampo e sale  qua  e
là in tutte due traluceva. Nei Poeti aveva introdotto me stesso sotto il nome di
Zeusippo, e primo io era a deridere la mia Cleopatra, la di  cui  ombra  poi  si
evocava dall'inferno, perch'ella desse  sentenza  in  compagnia  d'alcune  altre
eroine da tragedia, su  questa  mia  composizione  paragonata  ad  alcune  altre
tragediesse di questi miei rivali poeti, le quali in tutto  poteano  ben  essere
sorelle; col divario però, che le tragedie  di  costoro  erano  state  il  parto
maturo di una incapacità erudita, e la  mia  era  un  parto  affrettato  di  una
ignoranza capace. Furono queste due composizioni recitate con applauso  per  due
sere consecutive; e richieste poi per la terza, essendo io già ben  ravveduto  e
ripentito in cuore di essermi sí temerariamente esposto al pubblico, ancorché mi
si mostrasse soverchio indulgente, io quanto potei mi adoprai con gli  attori  e
con chi era loro superiore, per impedirne ogni ulteriore  rappresentazione.  Ma,
da quella fatal serata in poi, mi entrò in ogni  vena  un  sí  fatto  bollore  e
furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma  teatrale,  che  non
mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta  impetuosità  assalito.  In  questa
guisa comparvi io al pubblico per la prima volta. E  se  le  mie  tante,  e  pur
troppe, composizioni drammatiche in appresso non si sono gran fatto dilungate da
quelle due prime, certo alla mia incapacità ho dato principio in un  modo  assai
pazzo e risibile. Ma se all'incontro poi, verrò quando che sia annoverato fra  i
non infimi autori sí di tragedie che di commedie, converrà pur dire,  chi  verrà
dopo noi, che il mio burlesco ingresso in Parnasso col socco  e  coturno  ad  un
tempo, è riuscito poi una cosa assai seria. Ed a questo tratto fo punto a questa
epoca di giovinezza, poiché la mia virilità non poteva da un istante piú  fausto
ripetere il suo cominciamento.




Epoca quarta

VIRILITÀ Abbraccia trenta piú anni di composizioni, traduzioni, e studi diversi.

CAPITOLO PRIMO Ideate, e stese in  prosa  francese  le  due  prime  tragedie  il
Filippo, e il Polinice. Intanto un diluvio di pessime rime.

Eccomi ora dunque, sendo in età  di  quasi  anni  venzette,  entrando  nel  duro
impegno e col pubblico e con me stesso, di farmi autor  tragico.  Per  sostenere
una sí fatta temerità, ecco quali erano per allora i  miei  capitali.  Un  animo
risoluto, ostinatissimo, ed indomito; un cuore ripieno ridondante di affetti  di
ogni specie tra' quali predominavano con bizzarra mistura l'amore e tutte le sue
furie,  ed  una  profonda  ferocissima  rabbia  ed  abborrimento   contra   ogni
qualsivoglia tirannide. Aggiungevasi poi a questo semplice istinto della  natura
mia, una debolissima ed incerta ricordanza delle varie tragedie francesi  da  me
viste in teatro molti anni addietro; che debbo dir per il vero, che  fin  allora
lette non ne avea mai nessuna, non che meditata; aggiungevasi una  quasi  totale
ignoranza delle regole dell'arte tragica, e l'imperizia quasi che  totale  (come
può  aver  osservato  il  lettore  negli  addotti  squarci)   della   divina   e
necessarissima arte del bene scrivere e padroneggiare la mia propria lingua.  Il
tutto poi si ravviluppava nell'indurita scorza di una  presunzione,  o  per  dir
meglio, petulanza incredibile, e di un tale impeto  di  carattere,  che  non  mi
lasciava, se non se a stento e di rado e fremendo,  conoscere,  investigare,  ed
ascoltare la verità. Capitali, come ben vede il lettore, piú  adatti  assai  per
estrarne un cattivo e volgare principe, che non un autor luminoso. Ma  pure  una
tale segreta voce mi si facea udire in fondo del  cuore,  ammonendomi  in  suono
anche piú energico che nol faceano i miei pochi veri amici: "E'  ti  convien  di
necessità retrocedere, e per cosí dir, rimbambire, studiando ex professo da capo
la grammatica, e susseguentemente tutto quel che ci  vuole  per  saper  scrivere
correttamente e con arte". E  tanto  gridò  questa  voce,  ch'io  finalmente  mi
persuasi, e chinai il capo  e  le  spalle.  Cosa  oltre  ogni  dire  dolorosa  e
mortificante, nell'età in cui mi trovava, pensando  e  sentendo  come  uomo,  di
dover pure ristudiare, e ricompitare come ragazzo. Ma la  fiamma  di  gloria  sí
avvampante mi tralucea, e la vergogna  dei  recitati  spropositi  sí  fortemente
incalzavami per essermi quando che fosse tolta di dosso, ch'io a poco a poco  mi
accinsi ad affrontare e trionfare di codesti  possenti  non  meno  che  schifosi
ostacoli. La recita della Cleopatra mi avea, come dissi, aperto gli occhi, e non
tanto sul demerito intrinseco di  quel  tema  per  sé  stesso  infelice,  e  non
tragediabile, da chi che si fosse, non che da un inesperto autore per primo  suo
saggio; ma me gli avea ancor spalancati a segno di farmi ben bene  osservare  in
tutta la sua immensità lo spazio che mi conveniva percorrere all'indietro, prima
di potermi, per cosí dire, ricollocare  alle  mosse,  rientrare  nell'aringo,  e
spingermi con maggiore o minor fortuna verso la meta. Cadutomi dunque pienamente
dagli occhi quel  velo  che  fino  a  quel  punto  me  gli  avea  sí  fortemente
ingombrati, io feci con me stesso un solenne giuramento:  che  non  risparmierei
oramai né fatica né noia nessuna per mettermi in grado di sapere la  mia  lingua
quant'uomo d'Italia. E a questo giuramento m'indussi, perché mi parve, che se io
mai potessi giungere una volta al ben dire, non mi dovrebbero mai poi mancare né
il ben ideare, né il ben comporre. Fatto il giuramento, mi inabissai nel vortice
grammatichevole, come già Curzio nella voragine, tutto  armato,  e  guardandola.
Quanto piú mi trovava convinto di aver fatto male ogni cosa sino a  quel  punto,
altrettanto mi andava tenendo per certo di poter col tempo  far  meglio,  e  ciò
tanto piú tenendone quasi una prova evidente nel mio  scrigno.  E  questa  prova
erano le due tragedie, il Filippo, ed il Polinice, le quali già tra il  marzo  e
il maggio di quell'anno stesso 1775, cioè tre mesi circa prima che si  recitasse
la Cleopatra, erano state stese da me in prosa francese; e parimente lette da me
ad alcuni pochi, mi era sembrato che ne fossero rimasti colpiti. Né  mi  era  io
persuaso di quest'effetto perché  me  l'avessero  piú  o  meno  lodate;  ma  per
l'attenzione non finta né comandata,  con  cui  le  avevano  di  capo  in  fondo
ascoltate, e perché i taciti moti dei loro  commossi  aspetti  mi  parvero  dire
assai piú che le loro parole. Ma per mia somma disgrazia, quali che  si  fossero
quelle due tragedie, elle si trovavano concepite e nate in prosa francese,  onde
rimanea loro lunga e difficile via da calcarsi, prima ch'elle  si  trasmutassero
in poesia italiana. E in codesta spiacevole e meschina lingua le aveva io stese,
non già perché io la sapessi, né punto ci pretendessi, ma perché in  quel  gergo
da me per quei cinque anni di viaggio esclusivamente parlato, e sentito,  io  mi
veniva a spiegare un po' piú, ed a tradire un po'  meno  il  pensiero  mio;  che
sempre pur mi accadeva, per via di non saper nessuna lingua, ciò che accaderebbe
ad un volante dei sommi d'Italia, che trovandosi infermo, e sognando di  correre
a competenza de' suoi eguali o inferiori, null'altro gli mancasse ad ottener  la
vittoria se non se le gambe. E questa impossibilità di spiegarmi, e tradurre  me
stesso, non che in versi ma anche in prosa italiana, era  tale,  che  quando  io
rileggeva un atto, una scena, di quelle ch'eran piaciute  ai  miei  ascoltatori,
nessuno d'essi le riconosceva piú per le stesse, e  mi  domandavano  sul  serio,
perché  l'avessi  mutate;  tanta  era   l'influenza   dei   cangiati   abiti   e
panneggiamenti alla stessa figura,  ch'ella  non  era  piú  né  conoscibile,  né
sopportabile. Io mi  arrabbiava,  e  piangeva;  ma  invano.  Era  forza  pigliar
pazienza, e rifare; ed intanto ingoiarmi le piú insulse e  antitragiche  letture
dei nostri testi di lingua per invasarmi  di  modi  toscani,  e  direi  (se  non
temessi la sguaiataggine dell'espressione), in due parole direi che mi conveniva
tutto il giorno spensare per poi  ripensare.  Tuttavia,  l'aver  io  quelle  due
tragedie future nello scrigno, mi  facea  prestare  alquanto  piú  pazientemente
l'orecchio agli avvisi pedagogici, che  d'ogni  parte  mi  pioveano  addosso.  E
parimente quelle due  tragedie  mi  aveano  prestato  la  forza  necessaria  per
ascoltare la recita a' miei orecchi sgradevolissima della  Cleopatra,  che  ogni
verso che pronunziava l'attore mi risuonava nel core come la piú  amara  critica
dell'opera tutta, la quale già fin d'allora era divenuta un nulla ai miei occhi;
né la considerava per altro, se non se come lo sprone dell'altre avvenire. Onde,
siccome non mi avvilirono punto le critiche (forse giuste in parte, ma piú assai
maligne ed indotte) che mi furono poi fatte  su  le  tragedie  della  mia  prima
edizione di Siena del 1783, cosí per l'appunto nulla affatto m'insuperbirono, né
mi persuasero, quegli ingiusti non meritati applausi che la  platea  di  Torino,
mossa forse a compassione della mia giovenile fidanza e baldanza, mi  volle  pur
tributare. Primo passo adunque verso la purità toscana essere doveva, e  lo  fu,
di dare interissimo bando ad ogni qualunque lettura francese. Da quel luglio  in
poi non volli piú mai proferire parola di codesta lingua, e mi diedi a  sfuggire
espressamente ogni persona o compagnia da cui  si  parlasse.  Con  tutti  questi
mezzi non veniva perciò a capo d'italianizzarmi.  Assai  male  mi  piegava  agli
studi gradati e regolati; ed essendo ogni terzo giorno da  capo  a  ricalcitrare
contro gli ammonimenti, io andava pur sempre ritentando di  svolazzare  coll'ali
mie. Perciò, ogni qualunque pensiero mi cadesse nella fantasia,  mi  provava  di
porlo in versi; ed ogni genere, ed ogni metro andava tasteggiando, ed  in  tutti
io mi fiaccava le corne e  l'orgoglio,  ma  l'ostinata  speranza  non  mai.  Tra
l'altre di queste rimerie (che poesie non ardirò di chiamarle) una me ne occorse
di fare, da essere da me cantata ad un banchetto di liberi muratori. Era questa,
o dovea essere un capitolo allusivo ai diversi utensili e gradi e  officiali  di
quella buffonesca società. E benché  io  nel  primo  sonetto  quassú  trascritto
avessi rubato un verso del Petrarca dai suoi capitoli, con tutto ciò, tanta  era
la mia disattenzione e ignoranza, che allora  cominciai  questo  mio  senza  piú
ricordarmi, e non l'avendo forse mai bene osservata, la regola delle terzine;  e
cosí me lo proseguii sbagliando, sino alla duodecima terzina;  dove  essendomene
nato il dubbio, aperto Dante conobbi l'errore, e lo  corressi  in  appresso,  ma
lasciai le dodici terzine com'elle stavano; e cosí le cantai  al  banchetto:  ma
quei liberi muratori tanto intendevan di rime e di poesia, quanto  dell'arte  di
fabbricare; e il mio capitolo passò. Per ultima prova e saggio degli infruttuosi
miei sforzi, trascriverò ancora qui, o gran parte, o tutto forse quel  capitolo;
secondo che mi basterà la carta, e la pazienza(10). Verso l'agosto di quell'anno
stesso '75, credendomi far vita troppo dissipata stando in città, e  non  potere
perciò studiare abbastanza, me n'andai nei monti che confinano tra il Piemonte e
il Delfinato, e passai quasi due mesi in  un  borguccio,  chiamato  Cezannes  a'
piedi del Monginevro, dove è  fama  che  Annibale  varcasse  l'Alpi.  Io  benché
riflessivo per natura, talvolta pure sconsiderato per impeto, non riflettei  nel
prendere quella risoluzione, che in quei monti mi  tornerebbe  fra  i  piedi  la
maladettissima lingua francese, che con giusta e necessaria ostinazione io m'era
proposto di sfuggire sempre. Ma a questo mi indusse quell'abate, ch'io dissi  mi
avea accompagnato in quel viaggio ridicolo fatto l'anno innanzi a  Firenze.  Era
quest'abate nativo di Cezannes; chiamavasi Aillaud; era pieno d'ingegno, di  una
lieta filosofia, e di molta coltura nella letteratura latina  e  francese.  Egli
era stato aio di due fratelli coi quali io m'era trovato assai  collegato  nella
prima gioventú, ed allora aveamo fatto amicizia l'Aillaud ed io; e  continuatala
dappoi. Debbo dire pel vero, che codesto abate ne' miei primi anni avea fatto il
possibile per inspirarmi l'amore delle lettere, dicendomi che  ci  avrei  potuto
riuscire; ma il tutto invano. E alle volte si era  fatto  fra  noi  il  seguente
risibile patto: ch'egli mi dovrebbe leggere per un'ora  intera  del  romanzo,  o
novelliere, intitolato Les Milles et une Nuits, con che poi io mi  sottomettessi
a sentirmi leggere per soli dieci minuti uno squarcio delle tragedie di  Racine.
Ed io me ne stava tutto orecchi nel tempo di quella prima insulsa lettura, e  mi
addormentava poi al suono dei dolcissimi versi di quel gran  tragico;  cosa,  di
cui l'Aillaud arrabbiava, e vituperavami, con gran ragione. Questa  era  la  mia
disposizione a diventar tragico, quando stava nel Primo Appartamento della Reale
Accademia. Ma neppur dappoi ho potuto ingoiar mai la cantilena metodica  muta  e
gelidissima dei versi francesi, che non mi sono sembrati mai  versi;  né  quando
non mi sapea che cosa si fosse un verso, né quando  poi  mi  parve  di  saperlo.
Torno a quel mio ritiro estivo in Cezannes, dove oltre l'abate letterato,  aveva
anche meco un abate citarista, che m'insegnava suonar la chitarra, stromento che
mi parea inspirare poesia, e pel quale una qualche disposizione avea; ma non poi
la stabile  volontà,  che  si  agguagliasse  al  trasporto  che  quel  suono  mi
cagionava. Onde né in questo stromento, né sul  cimbalo,  che  da  giovane  avea
imparato, non ho mai ecceduta la mediocrità, ancorché l'orecchio e  la  fantasia
fossero in me musichevoli nel sommo grado. Passai cosí quell'estate fra  codesti
due  abati,  di  cui  l'uno  mi  sollevava  dalla  angoscia  per  me  sí   nuova
(dell'applicar seriamente allo studio) col suonarmi la  cetra;  l'altro  poi  mi
facea dar al diavolo col suo francese. Con tutto ciò deliziosissimi  momenti  mi
furono, ed utilissimi, quelli in cui mi venne pur fatto di  raccogliermi  in  me
stesso; e di lavorare efficacemente e disrugginire il mio povero  intelletto,  e
dischiudere nella memoria le facoltà dell'imparare, le quali oltre ogni  credere
mi si erano oppilate in quei quasi dieci anni continui  d'incallimento  nel  piú
vituperoso letargico ozio. Subito mi accinsi a tradurre o  ridurre  in  prosa  e
frase italiana quel Filippo o quel Polinice,  nati  in  veste  spuria.  Ma,  per
quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano pur sempre due cose
anfibie, ed erano tra il francese e l'italiano senza  esser  né  l'una  cosa  né
l'altra; appunto come dice il Poeta nostro della carta avvampante:

... un color bruno, che non è nero ancora, e il bianco muore.

In quest'angoscia di dover fare versi italiani di pensieri francesi mi  era  già
travagliato aspramente anche nel rifare la terza Cleopatra; talché alcune  scene
di essa, ch'io avea stese e poi lette in francese al mio censor  tragico  e  non
grammatico, al conte Agostino Tana, e ch'egli avea trovate forti, e  bellissime,
tra cui quella d'Antonio con Augusto, allorché poi vennero trasmutate  ne'  miei
versacci poco italiani, slombati, facili, e cantanti, essi  gli  comparvero  una
cosa men che mediocre; e me lo disse chiaramente; ed io lo  credei;  e  dirò  di
piú, che lo sentii anche io. Tanto è pur vero che in ogni poesia il  vestito  fa
la metà del corpo, ed in alcune (come nella lirica) l'abito fa il tutto; a segno
che alcuni versi

con la lor vanità che par persona

trionfano di parecchi altri in cui

fosser gemme legate in vile anello.

E noterò pure qui, che sí al padre Paciaudi, che al conte Tana, e principalmente
a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità
che mi dissero, e per avermi a viva forza  fatto  rientrare  nel  buon  sentiero
delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti, che  il
mio destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed  avrei  ad  ogni
lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composizione che avessero  biasimata,
come feci di tante rime, che altra correzione non meritavano. Sicché, se  io  ne
sono uscito poeta, mi debbo intitolare, per grazia di Dio, e del Paciaudi, e del
Tana. Questi furono i miei santi protettori nella feroce continua  battaglia  in
cui mi convenne passare ben tutto il primo anno della mia  vita  letteraria,  di
sempre dar la caccia alle parole e forme francesi, di spogliar per dir  cosí  le
mie idee per rivestirle di nuovo sotto altro aspetto, di riunire in somma  nello
stesso punto lo studio d'un uomo maturissimo con quello di un  ragazzaccio  alle
prime scuole. Fatica indicibile, ingratissima, e da  ributtare  chiunque  avesse
avuto (ardirò dirlo) una fiamma minor della mia. Tradotte dunque in  mala  prosa
le due tragedie, come dissi, mi posi all'impresa di leggere e studiare a verso a
verso per ordine d'anzianità tutti i nostri  poeti  primari,  e  postillarli  in
margine, non di parole, ma di uno o piú tratticelli perpendicolari ai versi; per
accennare a me stesso se piú o meno mi andassero a genio quei pensieri, o quelle
espressioni, o quei suoni. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur  troppo
difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai  neppure  aperto  fino  a  quel
punto. Ed io leggeva con sí  pazza  attenzione,  volendo  osservar  tante  e  sí
diverse e sí contrarie cose, che dopo dieci stanze non sapea  piú  quello  ch'io
avessi letto, e mi trovava essere piú stanco e rifinito assai che se  le  avessi
io stesso composte. Ma a poco a poco mi andai formando e l'occhio e la  mente  a
quel faticosissimo genere di lettura; e cosí tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi
l'Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti  me  gli
invasai  d'un  fiato  postillandoli  tutti,  e  v'impiegai  forse  un  anno.  Le
difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco mi curava  di  intenderle,  se  di
espressione, di modi, o di voci, tutto faceva per superarle indovinando;  ed  in
molte non riuscendo, le poche poi ch'io vinceva mi insuperbivano tanto  piú.  In
quella prima lettura io mi cacciai piuttosto in corpo  un'indigestione  che  non
una vera quintessenza di quei quattro gran luminari; ma mi preparai cosí  a  ben
intenderli poi nelle letture susseguenti, a sviscerarli, gustarli, e forse anche
rassomigliarli. Il Petrarca però mi riuscí ancor piú difficile che Dante;  e  da
principio mi piacque meno; perché il sommo diletto dei  poeti  non  si  può  mai
estrarre, finché si combatte coll'intenderli. Ma dovendo io  scrivere  in  verso
sciolto, anche di questo cercai di formarmi dei modelli. Mi  fu  consigliata  la
traduzione di Stazio del Bentivoglio. Con somma avidità  la  lessi,  studiai,  e
postillai tutta; ma alquanto fiacca me ne  parve  la  struttura  del  verso  per
adattarla al dialogo tragico. Poi mi fecero i miei amici censori  capitare  alle
mani l'Ossian del Cesarotti, e questi furono i  versi  sciolti  che  davvero  mi
piacquero,  mi  colpirono  e  m'invasarono.   Questi   mi   parvero   con   poca
modificazione,  un  eccellente  modello  pel  verso  di  dialogo.  Alcune  altre
tragedie, o nostre italiane, o tradotte dal francese, che io volli  pur  leggere
sperando d'impararvi almeno quanto allo stile, mi cadevano  dalle  mani  per  la
languidezza, trivialità, e prolissità dei modi e del verso,  senza  parlare  poi
della snervatezza dei pensieri. Tra le men cattive lessi e postillai le  quattro
traduzioni del Paradisi dal francese,  e  la  Merope  originale  del  Maffei.  E
questa, a luoghi mi piacque bastantemente per lo stile,  ancorché  mi  lasciasse
pur tanto desiderare per adempirne la perfettibilità, o vera, o  sognata,  ch'io
me n'andava fabbricando nella fantasia. E spesso andava interrogando me  stesso:
or, perché mai questa nostra divina lingua,  sí  maschia  ancor  ed  energica  e
feroce in bocca di Dante, dovrà ella farsi cosí sbiadita ed eunuca  nel  dialogo
tragico? Perché il Cesarotti che sí  vibratamente  verseggia  nell'Ossian,  cosí
fiaccamente poi sermoneggia nella Semiramide e nel Maometto del Voltaire da esso
tradotte? Perché quel pomposo galleggiante scioltista  caposcuola,  il  Frugoni,
nella sua traduzione del Radamisto del Crebillon, è egli sí immensamente  minore
del Crebillon e di sé medesimo? Certo, ogni  altra  cosa  ne  incolperò  che  la
nostra pieghevole e proteiforme favella. E questi dubbi ch'io proponeva ai  miei
amici e censori, nissuno me li  sciogliea.  L'ottimo  Paciaudi  mi  raccomandava
frattanto di non trascurare  nelle  mie  laboriose  letture  la  prosa,  ch'egli
dottamente denominava la nutrice del verso. Mi sovviene a questo proposito,  che
un tal giorno egli  mi  portò  il  Galateo  del  Casa,  raccomandandomi  di  ben
meditarlo quanto ai modi, che certo ben pretti toscani erano,  ed  il  contrario
d'ogni franceseria. Io, che da  ragazzo  lo  aveva  (come  abbiam  fatto  tutti)
maledetto, poco inteso, e niente gustatolo, mi tenni quasiché offeso  di  questo
puerile o pedantesco consiglio. Onde, pieno di mal talento contro quel  Galateo,
lo apersi. Ed alla vista di quel primo Conciossiacosache, a cui  poi  si  accoda
quel lungo periodo cotanto pomposo e sí poco sugoso, mi prese un tal  impeto  di
collera, che scagliato per la finestra il libro, gridai quasi maniaco:  "Ella  è
pur dura  e  stucchevole  necessità,  che  per  iscrivere  tragedie  in  età  di
venzett'anni mi  convenga  ingoiare  di  nuovo  codeste  baie  fanciullesche,  e
prosciugarmi il cervello con sí fatte pedanterie". Sorrise di questo mio poetico
ineducato furore; e mi profetizzò che io leggerei poi il Galateo,  e  piú  d'una
volta. E cosí fu in fatti; ma parecchi anni dopo, quando poi  mi  era  ben  bene
incallite le spalle ed il collo a sopportare il giogo grammatico. E non il  solo
Galateo, ma presso che  tutti  quei  nostri  prosatori  del  Trecento,  lessi  e
postillai poi, con quanto frutto, nol so. Ma fatto si è che chi gli  avesse  ben
letti quanto ai lor modi, e fosse venuto a capo di  prevalersi  con  giudizio  e
destrezza dell'oro dei loro abiti, scartando i cenci  delle  loro  idee,  quegli
potrebbe forse poi ne' suoi scritti sí filosofici che  poetici,  o  istorici,  o
d'altro qualunque genere, dare una ricchezza, brevità,  proprietà,  e  forza  di
colorito allo stile, di cui non  ho  visto  finora  nessuno  scrittore  italiano
veramente andar corredato. Forse, perché la fatica  è  improba;  e  chi  avrebbe
l'ingegno, e la capacità di sapersene giovare, non la vuol fare; e  chi  non  ha
questi dati, la fa invano.



CAPITOLO SECONDO Rimessomi sotto il pedagogo a spiegare  Orazio.  Primo  viaggio
letterario in Toscana.

Verso il principio dell'anno '76, trovandomi già da sei  e  piú  mesi  ingolfato
negli studi italiani, mi nacque  una  onesta  e  cocente  vergogna  di  non  piú
intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e là, come  accade,
delle citazioni, anco le piú brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle  a
piè pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi  inoltre  inibita  ogni
lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva  affatto  privo  d'ogni
soccorso per la lettura teatrale. Questa  ragione,  aggiuntasi  al  rossore,  mi
sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie  di
Seneca, di cui alcuni sublimi tratti  mi  aveano  rapito;  e  leggere  anche  le
traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere piú fedeli  e
meno tediose di quelle tante italiane che sí inutilmente  possediamo.  Mi  presi
dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale, postomi Fedro  in  mano,  con
molta sorpresa sua e rossore mio, vide e mi disse che non l'intendeva,  ancorché
l'avessi già spiegato in età di dieci anni; ed in fatti provandomici a  leggerlo
traducendolo in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi,  e  degli  sconci
equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe cosí ad un tempo stesso  il
non dubbio saggio e della mia asinità,  e  della  mia  tenacissima  risoluzione,
m'incoraggí molto, e in vece di lasciarmi il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi:
"Dal difficile si viene al facile; e cosí sarà cosa piú degna di  lei.  Facciamo
degli spropositi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini, e questi ci
appianeran la via per scendere agli altri ". E cosí  si  fece;  e  si  prese  un
Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando, costruendo,  indovinando,  e
sbagliando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principio  di  gennaio  a  tutto  il
marzo. Questo studio mi costò moltissima fatica, ma mi fruttò anche bene, poiché
mi rimise in grammatica senza farmi uscire di  poesia.  In  quel  frattempo  non
tralasciava però di leggere e postillare sempre i poeti italiani,  aggiungendone
qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa, e ricominciando poi  da  capo  i
primari; talché il  Petrarca  e  Dante  nello  spazio  di  quattr'anni  lessi  e
postillai forse cinque volte. E riprovandomi di  tempo  in  tempo  a  far  versi
tragici, avea già verseggiato tutto il Filippo. Ma benchè fosse venuto  alquanto
men fiacco e men sudicio della Cleopatra, pure quella versificazione mi riusciva
languida, prolissa, fastidiosa e triviale. Ed in fatti quel primo  Filippo,  che
poi alla stampa si contentò di annoiare il pubblico con soli millequattrocento e
qualche versi, nei due primi tentativi pertinacemente volle annoiare e disperare
il suo autore con piú di due mila versi, in cui egli diceva  allora  assai  meno
cose, che nei millequattrocento dappoi. Quella lungaggine e fiacchezza di stile,
ch'io attribuiva assai piú alla penna mia  che  alla  mente  mia,  persuadendomi
finalmente ch'io non potrei mai dir bene italiano finché  andava  traducendo  me
stesso dal francese, mi fece finalmente  risolvere  di  andare  in  Toscana  per
avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai
piú. Partii dunque nell'aprile del '76,  coll'intenzione  di  starvi  sei  mesi,
lusingandomi che basterebbero a disfrancesarmi. Ma sei  mesi  non  disfanno  una
triste abitudine di dieci e piú anni. Avviatomi alla  volta  di  Piacenza  e  di
Parma, me n'andava a passo tardo e lento, ora in biroccio,  ora  a  cavallo,  in
compagnia de' miei poetini tascabili, con pochissimo altro  bagaglio,  tre  soli
cavalli, due uomini, la chitarra, e le molte speranze della futura  gloria.  Per
mezzo del Paciaudi conobbi in Parma, in Modena, in Bologna, e in Toscana,  quasi
tutti gli uomini di un qualche grido nelle lettere. E quanto io  era  stato  non
curante di tal mercanzia ne' miei  primi  viaggi,  altrettanto  e  piú  era  poi
divenuto curioso di conoscere i grandi, e i medi  in  qualunque  genere.  Allora
conobbi in Parma il celebre nostro stampatore  Bodoni,  e  fu  quella  la  prima
stamperia in cui io ponessi mai i piedi,  benché  fossi  stato  a  Madrid,  e  a
Birmingham, dove erano le due piú insigni stamperie d'Europa,  dopo  il  Bodoni.
Talché io non aveva mai vista un'a di metallo, né alcuno di quei  tanti  ordigni
che mi doveano poi col tempo acquistare o celebrità o canzonatura. Ma  certo  in
nessuna piú augusta officina io potea mai capitare per la prima  volta,  né  mai
ritrovare un piú benigno, piú esperto, e piú ingegnoso espositore di  quell'arte
maravigliosa che il Bodoni, da cui tanto lustro e accrescimento  ha  ricevuto  e
riceve. Cosí a poco a poco ogni giorno piú ridestandomi dal mio lungo  e  crasso
letargo, io andava vedendo e imparando (un po' tardetto) assai cose. Ma  la  piú
importante si era per me, ch'io andava ben conoscendo appurando e pesando le mie
facoltà intellettuali letterarie, per non isbagliar poi, se poteva, nella scelta
del genere. Né in questo studio di me medesimo io era tanto novizio  come  negli
altri; atteso che piuttosto precedendo l'età che aspettandola, io  fin  da  anni
addietro avea talvolta impreso a diciferare a me stesso la mia morale entità;  e
l'avea fatto anche con penna, non che  col  pensiero.  Ed  ancora  conservo  una
specie di diario che  per  alcuni  mesi  avea  avuta  la  costanza  di  scrivere
annoverandovi non solo le mie sciocchezze abituali di giorno in giorno, ma anche
i pensieri, e le cagioni intime, che mi faceano operare o parlare: il tutto  per
vedere, se in cosí appannato specchio mirandomi,  il  migliorare  d'alquanto  mi
venisse poi a riuscire. Avea cominciato il diario in francese; lo  continuai  in
italiano; non era bene scritto né in questa lingua, né in quella; era  piuttosto
originalmente sentito e pensato. Me ne stufai presto, e feci  benissimo;  perché
ci si perdeva il tempo e l'inchiostro,  trovandomi  essere  tuttavia  un  giorno
peggiore dell'altro.  Serva  questo  per  prova,  ch'io  poteva  forse  ben  per
l'appunto conoscere e giudicare la mia capacità e incapacità letteraria in tutti
i suoi punti. Parendomi dunque ormai discernere  appieno  tutto  quello  che  mi
mancava e quel poco ch'io aveva in proprio dalla natura, io  sottilizzava  anche
piú in là per discernere tra le parti che mi mancavano, quali fossero quelle che
mi sarei potute acquistar nell'intero, quali a mezzo soltanto,  e  quali  niente
affatto. A questo sí fatto studio di me stesso io forse sarò poi tenuto (se  non
di  essere  riuscito)  di  non  avere  almeno  tentato  mai  nessun  genere   di
composizione al quale non mi sentissi irresistibilmente spinto  da  un  violento
impulso naturale; impulso, i di cui getti sempre  poi  in  qualunque  bell'arte,
ancorché l'opera non riesca perfetta, si distinguono di  gran  lunga  dai  getti
dell'impulso comandato, ancorché potessero pur procreare un'opera  in  tutte  le
sue parti perfetta. Giunto in Pisa vi conobbi tutti i piú celebri professori,  e
ne andai cavando per l'arte mia tutto quell'utile che si  poteva.  Nel  fregarmi
con costoro, la piú disastrosa fatica ch'io provassi, ell'era d'interrogarli con
quel riguardo e destrezza necessaria per non smascherar  loro  spiattellatamente
la mia ignoranza; ed in  somma  dirò  con  fratesca  metafora,  per  parer  loro
professo, essendo tuttavia novizio. Non già ch'io potessi né volessi  spacciarmi
per dotto; ma era al buio di tante e poi tante cose, che coi visi  nuovi  me  ne
vergognava; e pareami, a misura che mi si andavano  dissipando  le  tenebre,  di
vedermi sempre piú gigantesca apparire questa mia fatale e pertinace  ignoranza.
Ma non meno forse gigantesco era e facevasi il mio ardimento.  Quindi,  mentr'io
per una parte tributava il dovuto omaggio al sapere d'altrui, non  mi  atterriva
punto per l'altra il mio non sapere; sendomi ben convinto che al far tragedie il
primo sapere richiesto, si è il forte sentire; il qual non  s'impara.  Restavami
da imparare (e non era certo poco) l'arte di fare agli altri sentire quello  che
mi parea di sentir io. Nelle sei o sette settimane ch'io dimorai a Pisa, ideai e
distesi a dirittura in sufficiente  prosa  toscana  la  tragedia  d'Antigone,  e
verseggiai il Polinice un po' men male che il Filippo.  E  subito  mi  parve  di
poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell'Università, i  quali
mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne  censurarono  qua  e  là
l'espressioni, ma neppure con quella severità  che  avrebbe  meritata.  In  quei
versi, a luoghi si trovavan dette cose felicemente; ma il totale della pasta  ne
riusciva ancora languida, lunga, e triviale  a  giudizio  mio;  a  giudizio  dei
barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida, diceano, e sonante. Non
c'intendevamo. Io chiamava languido e triviale  ciò  ch'essi  diceano  fluido  e
sonante; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto,  non
ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto  cadeva  contrasto  tra  noi,
perché io a maraviglia tenea la mia parte di discente,  come  essi  la  loro  di
docenti; era però ben fermo di volere prima d'ogni cosa piacere a me stesso.  Da
quei signori dunque io mi contentava d'imparare negativamente, ciò  che  non  va
fatto; dal tempo, dall'esercizio, dall'ostinazione, e da me, io mi lusingava poi
d'imparare quel che va fatto. E s'io volessi far ridere a spese di  quei  dotti,
com'essi forse avran riso allora alle mie, potrei nominar taluno fra essi, e dei
piú pettoruti,  che  mi  consigliava,  e  portava  egli  stesso  la  Tancia  del
Buonarroti, non dirò per modello, ma  per  aiuto  al  mio  tragico  verseggiare,
dicendomi che gran dovizia di lingua e di modi vi troverei. Il che  equivarrebbe
a chi proponesse a un pittore di storia di studiare il Callotta. Altri mi lodava
lo stile del Metastasio, come l'ottimo per la tragedia. Altri, altro.  E  nessun
di quei dotti era dotto in tragedia. Nel soggiorno di  Pisa  tradussi  anche  la
Poetica d'Orazio in prosa con chiarezza e semplicità  per  invasarmi  que'  suoi
veridici e ingegnosi precetti. Mi diedi anche molto a  leggere  le  tragedie  di
Seneca, benché in tutto ben mi avvedessi essere quelle il contrario dei precetti
d'Orazio. Ma alcuni tratti di  sublime  vero  mi  trasportavano,  e  cercava  di
renderli in versi sciolti per mio doppio studio,  di  latino  e  d'italiano,  di
verseggiare e grandeggiare. E nel fare questi tentativi mi veniva  evidentemente
sotto gli occhi la gran differenza tra il verso giambo ed il verso epico,  i  di
cui diversi metri bastano per distinguere ampiamente le ragioni del  dialogo  da
quelle di ogni  altra  poesia;  e  nel  tempo  stesso  mi  veniva  evidentemente
dimostrato che noi italiani non avendo altro verso che l'endecasillabo per  ogni
componimento eroico, bisognava creare una giacitura di parole, un rompere sempre
variato di suono, un  fraseggiare  di  brevità  e  di  forza,  che  venissero  a
distinguere assolutamente il verso sciolto tragico da ogni altro verso sciolto e
rimato sí epico che lirico. I giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e
forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti maschi e feroci di
quell'autore debbono per metà la loro sublime energia al metro poco  sonante,  e
spezzato. Ed in fatti qual è sí sprovvisto di sentimento e d'udito, che non noti
l'enorme differenza che passa tra questi due versi? L'uno, di Virgilio, che vuol
dilettare e rapire il lettore:

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum;

l'altro, di Seneca che vuole stupire e atterrir l'uditore; e  caratterizzare  in
due sole parole due personaggi diversi:

Concede mortem. Si recusares, darem.

Per questa ragione stessa non dovrà dunque un autor tragico italiano  nei  punti
piú appassionati e fieri porre in bocca de' suoi  dialogizzanti  personaggi  dei
versi, che quanto al suono  in  nulla  somiglino  a  quei  peraltro  stupendi  e
grandiosissimi del nostro epico:

Chiama gli abitator dell'ombre eterne il rauco suon della tartarea tromba.

Convinto io nell'intimo cuore della necessità  di  questa  total  differenza  da
serbarsi nei due stili, e tanto piú difficile per noi italiani, quando è  giuoco
forza crearsela nei limiti dello stesso metro, io  dava  dunque  poco  retta  ai
saccenti di Pisa quanto al fondo dell'arte drammatica, e quanto  allo  stile  da
adoprarvisi; gli ascoltava bensí con umiltà e pazienza su la purità toscanesca e
grammaticale; ancorché neppure  in  questo  i  presenti  toscani  gran  cosa  la
sfoggino. Eccomi intanto in meno d'un  anno  dopo  la  recita  della  Cleopatra,
possessore in proprio del patrimonietto di tre altre tragedie. E qui mi tocca di
confessare, pel vero, di quai fonti le avessi tratte. Il Filippo, nato francese,
e figlio di francese, mi venne di ricordo dall'aver  letto  piú  anni  prima  il
romanzo di Don Carlos, dell'Abate di San Reale. Il Polinice, gallo anch'egli, lo
trassi dai Fratelli nemici, del Racine.  L'Antigone,  prima  non  imbrattata  di
origine esotica, mi venne fatta leggendo il  duodecimo  libro  di  Stazio  nella
traduzione su mentovata, del  Bentivoglio.  Nel  Polinice  l'avere  io  inserito
alcuni tratti presi nel Racine, ed altri presi dai Sette prodi di  Eschilo,  che
leggicchiai nella traduzione francese del padre Brumoy,  mi  fece  far  voto  in
appresso, di non piú mai leggere tragedie d'altri prima  d'aver  fatte  le  mie,
allorché trattava soggetti trattati, per non  incorrere  cosí  nella  taccia  di
ladro, ed errare o far bene, del mio. Chi molto legge prima  di  comporre,  ruba
senza avvedersene, e perde l'originalità, se l'avea. E per questa ragione  anche
avea abbandonato fin dall'anno innanzi la lettura di Shakespeare (oltre  che  mi
toccava di leggerlo tradotto in francese). Ma quanto  piú  mi  andava  a  sangue
quell'autore (di cui però benissimo distingueva tutti i difetti), tanto  piú  me
ne volli astenere. Appena ebbi stesa l'Antigone in  prosa,  che  la  lettura  di
Seneca m'infiammò e sforzò  d'ideare  ad  un  parto  le  due  gemelle  tragedie,
l'Agamennone, e l'Oreste. Non mi parea con tutto ciò, ch'elli mi siano  riuscite
in nulla un furto fatto da Seneca. Nel fin di giugno sloggiai da Pisa,  e  venni
in Firenze, dove mi trattenni tutto il  settembre.  Mi  vi  applicai  moltissimo
all'impossessarmi  della  lingua  parlabile;  e  conversando  giornalmente   con
fiorentini, ci pervenni bastantemente. Onde cominciai da quel  tempo  a  pensare
quasi  esclusivamente  in  quella  doviziosissima  ed  elegante  lingua;   prima
indispensabile base per bene scriverla. Nel soggiorno in Firenze verseggiai  per
la seconda volta il Filippo da capo in fondo, senza  neppur  piú  guardare  quei
primi versi, ma rifacendoli dalla prosa. Ma i progressi mi pareano lentissimi, e
spesso mi parea anzi di scapitare che di migliorare.  Nel  corrente  di  agosto,
trovandomi una mattina in un crocchio  di  letterati,  udii  a  caso  rammentare
l'aneddoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo I. Questo fatto
mi colpí; e siccome stampato non è, me lo  procurai  manoscritto,  estratto  dai
pubblici archivi di Firenze, e fin d'allora ne  ideai  la  tragedia.  Continuava
intanto a schiccherare molte rime, ma tutte mi riuscivano infelici. E benché non
avessi in Firenze nessun amico censore che equivalesse al Tana  e  al  Paciaudi,
pure ebbi abbastanza senno e criterio di non ne dar copia a chi che si fosse,  e
anche la sobrietà di pochissimo andarle recitando. Il mal esito delle  rime  non
mi scoraggiava con tutto ciò;  ma  bensí  convincevami  che  non  bisognava  mai
restare di leggerne dell'ottime, e d'impararne a memoria, per invasarmi di forme
poetiche. Onde in quell'estate m'inondai il cervello di versi del  Petrarca,  di
Dante, del Tasso, e sino ai primi tre canti interi dell'Ariosto; convinto in  me
stesso, che il giorno verrebbe  infallibilmente,  in  cui  tutte  quelle  forme,
frasi, e parole d'altri mi tornerebbero poi fuori dalle cellule di esso miste  e
immedesimate coi miei propri pensieri ed affetti.



CAPITOLO TERZO Ostinazione negli studi piú ingrati.

Nell'ottobre tornai in Torino, perché non avea prese le  misure  necessarie  per
soggiornare piú lungamente fuor  di  casa,  non  già  perché  io  mi  presumessi
intoscanito abbastanza. Ed anche molte altre frivole ragioni mi fecero  tornare.
Tutti i miei cavalli lasciati  in  Torino  mi  vi  aspettavano  e  richiamavano;
passione che in me contrastò lungamente con le Muse, e non rimase  poi  perdente
davvero, se non se piú d'un anno dopo. Né mi premeva allora tanto lo studio e la
gloria, che non mi pungesse anco molto a riprese la smania  del  divertirmi;  il
che mi riusciva assai piú facile in Torino  dove  c'avea  buona  casa,  aderenze
d'ogni sorta, bestie a  sufficienza,  divagazioni  ed  amici  piú  del  bisogno.
Malgrado tutti questi ostacoli, non rallentai punto lo studio in  quell'inverno;
ed anzi mi accrebbi le occupazioni e gl'impegni. Dopo Orazio intero, avea  letti
e studiati ad oncia ad oncia piú  altri  autori,  e  fra  questi  Sallustio.  La
brevità ed eleganza di quest'istorico mi avea rapito talmente,  che  mi  accinsi
con molta applicazione a tradurlo; e ne venni a capo  in  quell'inverno.  Molto,
anzi infinito obbligo io debbo a quel  lavoro;  che  poi  piú  e  piú  volte  ho
rifatto, mutato e limato, non so se con miglioramento dell'opera, ma  certamente
con molto  mio  lucro  sí  nell'intelligenza  della  lingua  latina,  che  nella
padronanza di  maneggiar  l'italiana.  Era  frattanto  ritornato  di  Portogallo
l'incomparabile abate Tommaso di Caluso; e trovatomi contro la  sua  aspettativa
ingolfato davvero nella letteratura, e  ostinato  nello  scabroso  proposito  di
farmi autor tragico, egli mi secondò, consigliò, e soccorse di tutti i suoi lumi
con benignità e amorevolezza indicibile. E cosí pure fece  l'eruditissimo  conte
di San Raffaele, ch'io appresi in quell'anno a  conoscere,  e  altri  coltissimi
individui, i quali tutti a me superiori di  età,  di  dottrina,  e  d'esperienza
nell'arte mi compativano pure, ed incoraggivano; ancorché non ne avessi  bisogno
atteso il bollore del mio carattere. Ma la  gratitudine  che  sovra  ogni  altra
professo e sempre professerò a tutti i suddetti personaggi, si è per  aver  essi
umanamente comportata la mia incomportabile petulanza d'allora; la quale, a  dir
anche il vero, mi andava però  di  giorno  in  giorno  scemando,  a  misura  che
riacquistava  lume.  Sul  finir  di  quell'anno  '76,  ebbi  una  grandissima  e
lungamente sospirata consolazione. Una mattina andato dal  Tana,  a  cui  sempre
palpitante e tremante io  solea  portare  le  mie  rime,  appena  partorite  che
fossero, gli portai finalmente un sonetto al quale pochissimo trovò che ridire e
lo lodò anzi molto come i primi versi ch'io mi  facessi  meritevoli  di  un  tal
nome. Dopo le tante e continue afflizioni ed umiliazioni ch'io avea provate  nel
leggergli da piú d'un anno le mie sconcie rime, ch'egli da vero e generoso amico
senza misericordia nessuna censurava, e diceva il perché  e  il  suo  perché  mi
appagava; giudichi ciascuno qual soave  néttare  mi  giunsero  all'anima  quelle
insolite sincere lodi. Era il sonetto una descrizione  del  ratto  di  Ganimede,
fatto a imitazione dell'inimitabile del Cassiani sul ratto di Proserpina. Egli è
stampato da me il primo tra le mie rime. E invaghito della lode, tosto  ne  feci
anche due altri, tratto il soggetto dalla favola, e  imitai  anch'essi  come  il
primo, a cui immediatamente anche nella stampa ho voluto poi  che  seguitassero.
Tutti e tre si risentono un po' troppo della loro serva  origine  imitativa,  ma
pure (s'io non erro) hanno il merito d'essere scritti con una certa evidenza,  e
bastante eleganza; quale in somma non mi era venuta mai fin allora. E come  tali
ho voluto serbarli, e stamparli con pochissime mutazioni  molti  anni  dopo.  In
seguito poi di quei tre primi sufficienti sonetti, come se mi si fosse dischiusa
una nuova fonte, ne scaturii in quell'inverno troppi altri; i piú,  amorosi;  ma
senza amore che li dettasse. Per esercizio mero di lingua e di rime avea impreso
a descrivere a parte a parte le bellezze palesi d'una amabilissima  e  leggiadra
signora; né per essa io sentiva neppure la minima favilluzza nel cuore; e  forse
ci si parrà in quei sonetti piú descrittivi che  affettuosi.  Tuttavia,  siccome
non mal verseggiati, ho voluto quasi che tutti conservarli,  e  dar  loro  luogo
nelle mie rime; dove agli intendenti dell'arte possono forse andare additando  i
progressi ch'io allora andava facendo gradatamente nella difficilissima arte del
dir bene, senza la quale per quanto sia ben concepito e condotto il sonetto, non
può aver vita. Alcuni evidenti progressi nel rimare, e la  prosa  del  Sallustio
ridotta a molta brevità con sufficiente chiarezza (ma  priva  ancora  di  quella
variata armonia, tutta propria  sua,  della  ben  concepita  prosa),  mi  aveano
ripieno il cuore di ardenti speranze. Ma siccome ogni altra cosa ch'io faceva, o
tentava, tutte aveano sempre per primo ed allora unico scopo,  di  formarmi  uno
stile proprio ed ottimo per la tragedia, da  quelle  occupazioni  secondarie  di
tempo in  tempo  mi  riprovava  a  risalire  alla  prima.  Nell'aprile  del  '77
verseggiai perciò l'Antigone, ch'io, come dissi,  avea  ideata  e  stesa  ad  un
tempo, circa un anno prima, essendo in Pisa. La verseggiai tutta in meno di  tre
settimane; e parendomi aver acquistata facilità, mi tenni  di  aver  fatto  gran
cosa. Ma appena l'ebbi io letta in una società letteraria, dove quasi ogni  sera
ci radunavamo, ch'io ravvedutomi (benché  lodato  dagli  altri)  con  mio  sommo
dolore mi trovai veramente lontanissimo da quel modo di dire  ch'io  avea  tanto
profondamente fitto nell'intelletto, senza pur quasi mai ritrovarmelo poi  nella
penna. Le lodi di quei colti amici uditori mi persuasero che forse  la  tragedia
quanto agli affetti e condotta ci fosse; ma  i  miei  orecchi  e  intelletto  mi
convinsero ch'ella non c'era quanto allo stile. E nessun altri di ciò  poteva  a
una prima lettura esser giudice  competente  quanto  io  stesso,  perché  quella
sospensione, commozione, e  curiosità  che  porta  con  sé  una  non  conosciuta
tragedia, fa sí che l'uditore, ancorché di buon gusto  dotato,  non  può  e  non
vuole, né deve, soverchiamente badare alla locuzione. Quindi tutto ciò che non è
pessimo, passa inosservato, e non spiace. Ma io  che  la  leggeva  conoscendola,
fino a un puntino mi dovea avvedere ogni qual  volta  il  pensiero  o  l'affetto
venivano o traditi o menomati dalla non abbastanza o vera, o calda, o  breve,  o
forte, o pomposa espressione. Persuaso io dunque che non era al punto, e che non
ci arrivava, perché in Torino viveva ancor troppo  divagato,  e  non  abbastanza
solo e con l'arte, subito mi risolvei di tornare in Toscana, dove  anche  sempre
piú mi italianizzereí il concetto. Che se in Torino non  parlava  francese,  con
tutto ciò il nostro gergaccio piemontese ch'io sempre parlava e sentiva tutto il
giorno, in nulla riusciva favorevole al pensare e scrivere italiano.

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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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