Genere:
fantasy, yaoi
Raiting:
PG
 Disclaimers: i personaggi di questa storia li ho creati io, quindi mi appartengono.

Il prezzo del potere

di Bombay

Prologo.

Ricordo ancora quel giorno come fosse ieri, eppure sono passati molti anni da allora. Era una tranquilla sera d’autunno nel villaggio di Irmuk. Fuori pioveva, come era normale per quella stagione.

Noi giovani del villaggio stavamo in un angolo della taverna del vecchio Merad, accanto al camino a raccontaci storie di caccia o avventure amorose, vere o false che fossero non ci importava poi molto, ci divertivamo e questo era l’importante.

Ero il più giovane tra loro, ma a sedici anni ero alto e forte come Thalak, che aveva quattro anni più di me; questo mi aveva sempre avvantaggiato nei miei rapporti con gli altri, non mi trattavano da ragazzino e di questo ero orgoglioso.

Sapevo maneggiare la spada abbastanza bene e come tutti i ragazzi sognavo l’avventura, la gloria, la fama e perché no, il denaro che questo portava con sé.

Quella notte la mia vita sarebbe cambiata e non lo sapevo. Ridevo e scherzavo con i miei amici e come tutti loro volsi lo sguardo quando lo porta della taverna si aprì facendo entrare il vento, la pioggia e l’umidità.

Il nostro villaggio era piccolo, tutti si conoscevano e solo in primavera ed in estate vi era un’affluenza di viaggiatori, raramente in autunno ed in inverno, quindi, era un fatto eccezionale.

Un uomo varcò la soglia della taverna del vecchio Merad: un uomo alto che si muoveva con eleganza. Portava lunghe vesti di velluto, fradice ed infangate per il viaggio, nere come la notte più cupa. Il suo volto era nascosto dalle falde dell’ampio cappuccio, che non lasciava intravedere nulla.

Tutti i presenti ammutolirono, io compreso.

Quell’uomo era avvolto da un’aura misteriosa che infondeva timore e rispetto, chiunque gli si trovava accanto chinava il capo.

Merad e sua moglie rimasero in silenzio immobili. Ricordo che pensai che il tempo si fosse fermato ed invece ci scorreva addosso senza che noi ce ne accorgessimo.

Egli si avvicinò al bancone, si sfilò i guanti rivelando mani bianche ed affusolare, lisce e prive di imperfezioni.

Uno studioso, pensai, nessuno che maneggi una spada o che lavori nei campi ha mani tanto belle.

Nel silenzio rotto solo dal crepitio delle fiamme egli parlò.

La sua voce risuonò giovane, ma ferma e profonda. Chiese semplici cose, del cibo ed una camera, quindi depositò sul banco due monete d’argento.

Merad sembrò tornare alla realtà vedendo il denaro ed udendo la richiesta.

“Perdonatemi straniero, sareste così gentile da calarvi il cappuccio? Di questi tempi è meglio essere prudenti, mia moglie ed io non vogliamo fastidi” disse con la voce che gli tremava un poco.

Lo straniero non rispose, le sue mani si mossero fino ai lati del cappuccio e lo abbassarono.

L’oste e la moglie rimasero a bocca aperta.

La sola cosa che vidi io, da dove ero seduto, fu che lo straniero aveva lunghi capelli bianchi, lisci e dritti che gli sfioravano le spalle.

L’oste gli allungò una chiave e gli spiegò come raggiungere la stanza.

“Se possibile vorrei consumare la cena nella mia camera”

Merad annuì vigorosamente quasi avesse paura di contraddirlo.

Lo straniero si volse verso la scala, con passi lenti e stanchi prese a salire, poi si fermò a metà di essa, posò il suo sguardo su di noi. Su di me, ne fui certo.

Rimasi immobile sotto quello sguardo rubino. Sì, rubino: i suoi occhi erano rossi come il sangue.

Riprese a camminare scomparendo sul pianerottolo superiore ed il tempo riprese a scorrere normalmente, il chiacchiericcio risuonò nel locale, ma io non lo avvertivo. Sentivo solo il battere regolare del mio cuore che quasi mi assordava.

Fu Thalak a riportarmi alla realtà scrollandomi bruscamente per una spalla. Riprendemmo le nostre futili discussione ed io mi dimenticai dello straniero fino a quando Merad non mi disse che l’uomo dai capelli bianchi mi voleva parlare.

Un mormorio si diffuse nel gruppo ed io fissai stralunato l’oste che mi afferrò per un braccio e mi fece alzare “Qualunque cosa ti chieda non contraddirlo” mi ordinò.

Un brivido mi percorse la schiena e per un momento pensai di fuggire, di sparire il più lontano possibile. Invece non so bene come, mi ritrovai a salire le scale ed a fermarmi davanti alla porta dello straniero.

Bussai e l’uscio si aprì da solo, ma ero troppo preoccupato per rendermene conto.

Egli sedeva alla tavolino sotto la finestra. Aveva consumato il suo pasto ed i piatti sporchi erano ordinatamente impilati di lato.

“Mi avete fatto chiamare, signore?” domandai, per un instante non riconobbi nemmeno la mia voce.

Lo straniero volse i suoi occhi su di me ed io mi sentii intrappolato in essi, come una mosca invischiata nella resina fresca.

Non parlò, mi osservò a lungo, sembrava studiarmi, valutare le mie capacità, sondare la mia anima.

“Qual è il tuo nome?”

“Kaltar… mi chiamo Kaltar”

Socchiuse gli occhi come ad aspettarsi un titolo o qualcosa del genere, ma io non avevo mai conosciuto mio padre.

“Quanti anni hai?”

“Sedici il prossimo mese”

Trasse un profondo respiro nascondendo le mani nelle maniche della veste e parve soppesarmi con lo sguardo.

“Sono in viaggio, un lungo viaggio; queste terre sono pericolose. Ti propongo un affare: cinque monete d’argento al giorno se mi seguirai e combatterai per me”

Spalancai gli occhi e la bocca: chi era quest’uomo dall’età indefinibile che mi proponeva una cosa del genere in un sperduto villaggio?

Aprii la bocca per parlare, ma lui sollevò una mano prevenendomi “Niente domande” disse perentorio.

“Resterò qui questa notte, ripartirò domani quando sorgerà il sole” disse, poi tacque volgendomi le spalle.

Rimasi lì con la mente in subbuglio. Non disse più nulla, io sgusciai in silenzio fuori dalla stanza e scesi nella sala comune. Non parlai con i miei amici, ma tornai subito a casa.

Non chiusi occhio quella notte ed al mattino radunai le mie poche cose.

Arrivato alla locanda lo scorsi davanti alla porta. Fermo, in attesa.

Mi vide. Si volse e prese a camminare sulla strada bagnata. Ed io… lo seguii.

In quel momento compresi che il mio destino era indissolubilmente legato a lui.

 

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