Approfondimenti (di Pasquale Di Ciaccio)

 


Gaeta Ducale Il Castello Quartiere Medievale I Murat a Gaeta
Re Ladislao Pittori Gaetani Il Grande Assedio Il Ridotto Cinque Piani
Costanza Chiaromonte Gli Assedi L' Ultimo dei Borboni Chiese Notevoli
Munazio Planco Lucio Atratino La Via Indipendenza Guida Rapida
Lo Stendardo di Lepanto Luoghi Vari Monete di Gaeta home

 

 

 

 

 

GLI ASSEDI




Le fortificazioni di terra e di mare articolate in baluardi, strapiombi rocciosi, torrette d'avvistamento, cortine di batterie, piazzuole di tiro. parallele d'avamposto presenti nel paesaggio sollecitano riflessioni sull'emergere e permanere della lotta tra le genti. Nell'arco dei secoli per singolare destino, quasi elemento simbolico di prima conquista e di ultima difesa, Gaeta ha subito numerosi assedi.

La memoria storica ne enumera lunga serie.
 
 

A.846 - Sotto la pressione dell'invasione saracena la città venne assediata e vane riuscirono le cure di Guido di Spoleto per liberarla, fino a quando non si realizzò l'intervento di Cesario, secondogenito del duca di Napoli, Sergio I.
 
 

A.1229 - Durante il conflitto tra l'imperatore Federico Il ed il papa Gregorio IX un tentativo di conquista con realizzata espugnazione e distruzione del castello avvenne per opera di Giovanni di Brienne. Federico Il al suo rientro, fece per punizione abbattere quasi tutte le torri di cinta.
 
 

A.1279- L'assedio s'inquadra nella lotta di predominio tra Angioini e Aragonesi; l'azione promossa da Giacomo d'Aragona, re di Sicilia, si sviluppò su fronte di terra e di mare con partecipazione dell'ammiraglio Ruggero di Lauria. Le ostilità cessarono per mediazione, ma non vi fu resa.
 
 

A.1224 - Resa e saccheggio della piazzaforte durante l'avvicendato periodo di regno dì Giovanna Il, sostenuta dall'alleanza dei Visconti e degli Angiomi. Determinante l'azione della flotta diretta da Guido Torello.
 
 

A.1435 - Perdurando alla morte di Giovanna Il, per ragioni di successione il conflitto angiomo-aragonese, le truppe di Alfonso V, sostenute dalla flotta del fratello del re, in-vestirono Gaeta, ma l'intervento di Genova, interessata ad empori commerciali ivi stabiliti, rese vano il tentativo; il re stesso venne catturato, ma presto liberato dai Visconti, padroni di Genova, riprese l'iniziativa ed il 24 dicembre riuscì nel tentativo di conquista. Si ebbe nella flotta il primo uso di artiglieria.

A.1495 - Conquista rapida e successivo saccheggio per rivolta antibalzello da parte delle truppe di Carlo VIII in quella singolare impresa che meritò il nome di "guerra del gesso".

A. 1496 - Riconquista di Federico d'Aragona. Il presidio francese si arrende.

A. 1504- A suggello di una fortunata campagna il Gran Capitano Consalvo da Cordova occupa la città in una fase decisiva della lotta che assicurò per oltre due secoli il predominio della Spagna.

A. 1707 - Nello scenario della guerra di successione di Spagna le truppe austriache condotte dai generali Patè e Daun intervengono in offensiva dal 14 luglio al 30 settembre. La piazza è difesa dallo stesso Vicerè duca d'Ascalona, con forze adeguate ma logore e sfiduciate, tanto da facilitare la caduta con diserzione, imperizia e non avvedute di-struzioni.

A. 1734 - Carlo III di Borbone sviluppa l'assedio nel quadro della sua conquista del Mezzogiorno, agendo con grande schieramento di forze, 16.000 unità di Francesi, Spagnoli. Piemontesi, con blocco dal mare, disponibilità di 100 cannoni e 24 mortai. Durata dal 6-8 giugno al 6 agosto; resa di 10 battaglioni di guarnigione e di cospicuo ma-teriale d'approvvigionamento e d'armi.

A. 1798-99. Presa della città per diversione strategica operata dal generale Rey diretto a Napoli, dopo le iniziali avvisaglie offensive, cattura di materiale di servizio opportuno per successive operazioni. La riconquista borbonica avvenne per il temporaneo estinguersi dell'influenza napoleonica In Italia.

A. 1806-Strenua resistenza per la determinazione delle forze In campo: il principe Philippsthall emerse come estremo difensore ed eroe. Alle ripetute richieste di resa schernevolmente inviava ai nemici un barilotto di polvere ed un pesce, per attestare le intangibili capacità di lotta, intese anche a rivendicare lo scacco della sconfitta di Ulma.

Dal mare erano assicurati i rifornimenti da parte della flotta Inglese comandata dall'ammiraglio Sidney Smitz; si tramanda dell'azione di disturbo del brigante Fra Diavolo per libere infiltrazioni e sortite in favore della guarnigione operosa anche in tentativi di contrattacco.

Il gen. Massena, causa il prolungarsi delle ostilità, assunse il diretto comando e con sistematici bombardamenti scardinò il sistema difensivo determinando la caduta propiziata anche per mortale ferita del comandante la piazza. Numerosi i morti: 1000 per parte.

A. 1815 - L'episodio storico esalta, anche se non premia la tenace e singolare difesa, nonostante incoercibili condizioni avverse del gen. Begani. Tale difesa si svolse dopo l'estinguersi delle speranze napoleoniche, a Waterloo, durante il ramingare del re Murat, con esiguità di forze e diserzione di reparti. La resa fu pattuita con onore: il difensore andò esule seguito dalla risonanza della sua irriducibile fedeltà.

A. 1860-61. A suggello dell'Unità d'Italia, nella possibilità dell'ora, l'assedio concretò il triste tramonto, avvertito con rassegnazione fatalistica, ma equilibrata dell'ultimo Borbone.
 
 

La lotta fu fratricida a servizio di opposte bandiere ed inconciliabili aspirazioni ormai superate dal corso degli eventi. I sentimenti furono toccati, per episodi di valore da entrambe le parti e dall'animazione del "leggiadro e come inconsapevole eroismo di Maria Sofia", prodiga di sè, consacrata nell'ardimento sugli spalti, nell'amore ai sofferenti negli ospedali come una suora di carità. (Da Ulisse Guizzi) home
 
 

I MURAT A GAETA

GAETA-AGOSTO 1815 - L'estenuante impari assedio di borbonici e austriaci, appoggiati da navi inglesi, infine piega la caparbia resistenza della cittadella; il popolo che ieri s'inchinava ai Francesi, oggi plaude al ritorno di Ferdinando IV-stesso grido:"Viv'u re!", stessa fame.
 
 

Nelle acque tranquille del porto un vascello inglese, il "Tremendous", ospita già l'ex regina Carolina, con il compito di scortarla in esilio. Ma il generale Begani, governatore della piazza, paventando il doppio gioco dei nemici, aspetta tre giorni prima di consentire che i giovani Murat abbandonino la fortezza,
 
 

Tre giorni ed Achille, Letizia, Luciano, Luisa lasceranno a Gaeta l'infanzia e mille avventure.
 
 

Partiti In tutta fretta da Napoli, quanti ricordi avevano portato con sè! Curiosi personaggi animavano quotidianamente il fasto della regia, rappresentandosi, sulla scena delle sale ampie e sontuose, nella duplice veste dell'ufficialità e della familiarità: la zia Paolina, diplomatica e ingenua, tutta capricci, fascino, emicranie; l'autorevole nonna, Madame Mère, che di madre imperiale aveva modi e portamento, ma la cui eccessiva parsimonia, malcelata ahimè in pubblico e in privato, tradiva spesso la memoria di un passato meno felice. Al suo seguito il fratello, cardinale Fesh, dall'incredibile voce flautata e poi ministri, avventurieri, uomini noti alla storia del tempo, frequentemente colti in vizi e insoliti atteggiamenti da un punto d'osservazione privilegiato ed Infantilmente irriverente.
 
 

Infine, ammantato dl prestigio, anche Gerolamo Bonaparte giunse a Napoli. Il suo carisma ebbe buon gioco delle malizie del giovani; in un silenzio teso attinsero notizie del loro genitore Gioacchino, che egli aveva incontrato in Romagna mentre cercava di raggiungere Napoleone fuggito dall'Elba.

Dunque niente era ancora perduto, si rimaneva a Napoli.

Tra l'urlo trepido: "I briganti, i briganti!" e l'immancabile scena madre di un'isterica dama di compagnia, si arrivò alla cittadella, ultima speranza dei Francesi.

Giunti a Gaeta i quattro sperimentarono il sibilare del proiettili con l'entusiasmo dell'età in cui labile è il confine tra finzione e realtà. Finalmente la guerra.

E scorrazzavano tra batterie e piazzuole, assecondando di volta in volta il rombo d'obici con grida di gioia e d'incredulo stupore. E se vele nemiche troppo imprudentemente si facevano a portata di bombarda, urlavano incitando gli artiglieri e percorrevano agili i camminamenti, nascondendosi dietro cespugli dì strame e pini secolari. Anche quando dovettero trasferirsi. per ragioni di sicurezza, in una casamatta bassa e oscura, continuarono ad aspettare lo choc dei colpi, la testa appoggiata al muro della cortina difensiva, per sentirne decuplicato il tonfo.

Maliziosamente ne spiavano l'effetto sulle spaventate dame di compagnia e su... Angelo Maria Ricci, poeta arcadico al loro seguito.

Se egli tremava di fronte alla sua donna, chissà quale profondo turbamento doveva destare in quelle sensibili viscere il fragore delle bombarde!

Bello fu il gioco, ma durò poco più d'un volgere di luna. Begani decise. Bisognava far saltare il borgo, per evitare che servisse da punto d'appoggio e di rifugio agli avversari. Ed il borgo saltò, riducendosi in polvere e macerie.

La nostra muta consapevolezza di sudditi predisse allora che non sarebbe stato quello l'ultimo scempio.

Infine egli organizzò le truppe al suo comando per la sortita decisiva; i soldati partirono gridando come sempre: 'Viv'u re!", apparentemente animati da grande entusiasmo, ma penoso fu il loro ritorno; i pochi scampati alla morte erano orribilmente mutilati e feriti, in molti i di-sertori che avevano preferito raggiungere i briganti sulle montagne circostanti.

Un triste presagio, avvertito psicologicamente dai fanciulli, si aggiunse al desolante spettacolo: fu quando vide-ro, al calare del sole, un vascello che lento si dirigeva verso Nord.

Era Gloacchino Murat; svanita ogni speranza per l'impresa caduta con la battaglia di Tolentino, aveva cercato di raggiungere i suoi a Gaeta, ma, impedito dalla presenza di navi inglesi aveva costeggiato Ischia, riprendendo la rotta per la Francia.

Presto la situazione precipitò. Per i Murat non fu più possibile trovare riparo adeguato neppure sulla vicina 'Torre d'Orlando", pericolosamente inclusa nell'arco di tiro degli assedianti.

Nel frattempo Ferdinando IV dalla Sicilia si accingeva a raggiungere il fratello Leòpoldo a Napoli, dove avrebbe ereditato dai Francesi i benefici di un'amministrazione ammodernata e i problemi che sarebbero derivati alla sua politica immobilista e retriva dall'eversione della feudalità e dalla quotizzazione dei demani.

E il "Tremendous" assolse l'incarico di allontanare i Murat dal reame. Il vascello navigò nelle acque tranquille del Mediterraneo, accompagnato da una straordinaria calma; tanto più improvvisa arrivò la tempesta in prossimità dello stretto di Messina. Che si trattasse di un altro presagio lo dimostrò di li a poco una nave comparsa in lontananza; non ci volle molto a capire, dalle insegne, che scortava Ferdinando IV. Fu inevitabile l'incontro e il doveroso saluto dell'equipaggio del "Tremendous" al vascello inglese.

E poichè non è compito della storia indagare nell'animo dei vinti, non sapremo mai quali sentimenti agitassero, in quella circostanza, i componenti della famiglia Murat; il loro rango richiese, anche ai più piccoli, compostezza e dignità.

Luisa, allora decenne, affermerà più tardi nelle sue memorie "Vi sono alcuni nomi che bisogna saper portare degnamente, come qualcosa che esalta i più nobili sentimenti, e la cui influenza viene avvertita in ogni età" M. Di Ciacciohome
 
 

L'ULTIMO DEI BORBONI




La benedizione di Pio IX rese più solenni le nozze de principe ereditario, celebrate nel palazzo dell'intendenza di Bari; musica e maccheroni di zita napoletanamente ne allietarono il pranzo. Francesco, in tenuta da colonnello degli ussari; Marta Sofia, in abito di pizzo sotto i vapori di un velo a larghe pieghe, guanti bianchi, magnifica corona di fiori d'arancio sulla densa chioma: nel complesso, ma solo esteriormente, non erano mal assortiti; e lui sopratutto, meno goffo dell'ordinario, non sfigurava, come un po' tutti, in segreto, avevano temuto.

Finita la festa, Maria Teresa, la regina, accompagnò la coppia sino alla soglia della camera nuziale, dov 'era stato sistemato un sontuoso talamo, messo a disposizione dal sindaco Capriati, che proprio in quei giorni lo aveva acquistato per una sua nipote.

Maria Sofia, presumibilmente resa impaziente da alcune dicerie che si sussurravano sul conto del consorte, non perse tempo ad entrare, seguita da Nina Rizzo, sua dama di compagnia. Francesco, invece, proprio In quella occasione, diede una prova irrefutabile dell'estrema gravità delle proprie inibizioni, indugiando per lunghe ore, confuso e inquieto, ad origliare e a recitar preghiere fuori dell'uscio, tale era in lui il senso di pudore che lo aveva preso all'idea della luna di miele.

Giustamente preoccupata, alfine di vincere i suoi incredibili scrupoli, la soccorrevole donna Nina, a corto ormai di argomenti per intrattenere la sposa, pensò bene dl uscire per confidargli in un orecchio che Maria Sofia; si, pareva che Maria Sofia si fosse addormentata. E poichè era donna di mondo e di spirito, per disporlo alla disinvoltura, probabilmente non mancò dl aggiungere qualche malizioso ammicco d'incoraggiamento. Comechessia Francesco si decise a varcare il Rubicone, ma lo fece con somma reverenza, in punta di piedi; poi, con infantile candore, si coricò senza nemmeno osare una bussatina alle porte del mistero, senza cioè verificare se la consorte si fosse realmente gia assopita. E la mattina seguente lasciò il talamo di buon'ora, alla chetichella. per timore di svegliarla.

Per parecchie notti, a Bari prima, nella reggia di Caserta dopo, le cose non andarono diversamente. Finchè il confessore privato, padre Borelli, messo minuziosamente al corrente da donna Nina, l'unica in grado di spiegarsi gli strani turbamenti, le repentine malinconie e le bizze dl Maria Sofia, non trasse Francesco in disparte e, con santa pazienza, non riuscì a persuaderlo che, allo stato dl legittimità delle cose, benedetto figlio lo!, non ci si poteva limitare ai soliti bacetti da collegiale sulla fronte o a deferenti omaggi di fiori e di bonbons; che ormai non era peccato, insomma; anzi, tutt'altro: un dovere, un sacramento che andava onorato in una certa maniera e non diversamente.

Così, come Dio volle, il matrimonio fu consumato.

Di lì a poco, il 22 maggio 1859, a 23 anni, il giorno stesso della morte di Ferdinando Secondo, il duca di Calabria salì al trono assumendo il nome di Francesco Secondo.

L'evento, festeggiato dopo un ragionevole periodo di lutto, fu salutato da S. Gennaro con una tempestiva e prodiga liquefazione del proprio sangue nelle ampolle del duomo, dove la coppia reale, assieme alla corte e ai dignitari dello stato, s'era recata per ricevere la benedizione del vescovo di Napoli.

Venuta subito a conoscenza del miracolo, a ragione riguardato come un faustissimo presagio (scrisse un giornale dell'epoca), la popolazione s'abbandonò a un delirio d'entusiasmo. Ma San Gennaro, che, si sa, è sempre ottimista, quella volta non fu buon profeta. Il regno di Francesco Secondo doveva essere breve ed infausto. Non v'era persona dl senno che non l'avesse già presagito. La situazione non offriva nulla che potesse giustificare l'incomposto giubilo popolare. Il mite Francesco - poichè pro-fondamente mite fu in verità - non avrebbe potuto capovolgere le sorti di un regno irreparabilmente compromesso dal malgoverno dei predecessori. Lo sfasciume delle Due Sicilie era totale.

Sarebbe ingiusto, tuttavia, infierire sul giovane monarca; non concedergli delle attenuanti, anche se queste non possono valere a scagionarlo. Sulle sue gracili spalle s' abbattè una tremenda eredità di errori e di colpe. E pagò per tutti. Non è fatalità che proprio sul più incolpevole sia caduta la responsabilità del crollo d'una dinastia che durava da 126 anni. Quel che può sembrare un garbuglio della storia, o una congiura del destino, come preferirono dire gli storici borbonici, in sostanza non è che il logico epilogo d'un lento processo di decomposizione, che il perdurare delle cause che lo generarono aveva reso inevitabile. Se poi l'indole di Francesco fu diversa, meno bruta e dispotica cioè, di quella dei suoi immediati predecessiri, identici o pressappoco furono i criteri con cui egli si pose di fronte agli avvenimenti e ai problemi dello stato. Criteri improntati ad un pauroso oscurantismo, che diedero per risultato un generale abbassamento della condizione umana e civile dei sudditi.

Ma per ben capire i frutti occorre risalire ai semi e al terreno e al clima in cui sono germinati. Il male che minò la dinastia borbonica ha una genealogia.

La madre di Francesco, Maria Cristina di Savoia, morì quindici giorni dopo averlo dato alla luce. Molto religiosa, le pratiche di devozione di cui si riempivano le sue giornate, valsero a consolarla di un matrimonio non desiderato e imposto dalla ragione di stato. La chiesa ne volle premiare la serafica esistenza eleggendola nel novero dei suoi santi. Era una bella donna, ma il marito non ne era innamorato. Mal si conciliavano la sua indole riservata e la sua aristocratica compitezza di maniere, con l'impenitente propensione di lui al motteggio plebeo e alle grossolanità dialettali. Se Ferdinando non le mancò mai, propriamente, di rispetto, non sempre però riuscì a tener celata l'antipatia che nutriva per lei. Ed è da supporre che l'immatura scomparsa non l'abbia afflitto gran chè se appena un anno dopo convolò a nuove nozze con Maria Teres figlia di Carlo, arciduca d'Austria.

Anche la matrigna viveva di luce di ceri, tintinnio di rosari, sospiri di paradiso: peculiarità indispensabile per sentirsi a proprio agio nella corte napoletana. Il temperamento, per molti aspetti arrendevole, le permise però di adattarsi senza schifiltosità ai modi popolani del consorte. Aveva persino imparato ad esprimersi in vernacolo napoletano. Difficile incontrare una coppia regale tanto felicemente assortita.

Grettamente bigotta, sospettosa, piuttosto repellente di aspetto, angusta dl vedute e spesso sgarbata, di abitudini modeste ed aliena dalle mondanità, Maria Teresa era decisamente antipatica, detestata forse più del consorte. Preferiva logicamente i propri figli, undici in tutto, a Francesco, sul quale esercitava un larvato quanto maligno dispotismo, che s'inasprì una volta rimasta vedova, sino a diventare esorbitante invadenza nella vita privata di lui e negli affari dello stato.
 
 

Contemporaneamente nutriva una sorda avversione, non scevra da invidia, per la spensieratezza, i liberi modi, l'abbigliamento. gli svaghi. le compagnie e le predilezioni della bella e giovane nuora. La si disse ispiratrice di una congiura per detronizzare il figliastro e mettere al suo posto uno del propri figli, il conte di Trani. Ma quando il primo ministro presentò le prove a Francesco, si dice che questi le gettasse nel camino la documentazione, senza nemmeno leggerla., limitandosi a commentare: "E' la moglie dl mio padre".
 
 

Ferdinando, al contrario, amava molto teneramente Francesco, il quale a sua volta lo ripagava con una specie dl venerazione. Lo chiamava affettuosamente Ciccillo; oppure Lasagna, per associarlo alla squisitezza d'una pietanza molto onorata dalla famiglia reale. Ma è anche vero che ebbe una perniciosa influenza sulla formazione del suo carattere, inculcandogli anacronistici divieti, tenebrosi pregiudizi medioevali, assurde paure delle novita: una filosofia della vita, insomma, ottusamente in ritardo sul tempi. E qui cade a proposito ricordare che re Ferdinando, odiato fuori e dentro i suoi domini, fu retrivamente avverso a qualsiasi istituzione liberale, implacabile coi progressisti, di cui erano piene le galere di Procida, Santo Stefano, Montefusco e Montesanto, rinnegatore dello Statuto che a malincuore aveva concesso sotto spinta dei moti popolari del '48. È rimasto famoso il lapidario giudizio del Gladstone, il quale definì il suo regno negazione di Dio.
 
 

In un'epoca di tumultuosi fervori costituzionali, Ferdinando, anima sospettosa e rozza, irta di incredibili apriorismi. si riteneva monarca assoluto per investitura divina. Pur sapendo che si cospirava contro di lui, no volle mai consentire che si ponesse mano alle riforme che cittadini prestigiosi e illuminati, specie gli esuli, non stancavano di suggerirgli. Nemmeno l'attentato di Agesilao Milano valse ad aprirgli gli occhi, a smuoverlo dalla sua incrollabile protervia.
 
 

Si sogliono citare di lui tratti di benevolenza e di simpatia umana. i quali, stralciati dalla trama generale della sua vita e del suo governo, ci offrono un' idea falsa dell sua reale personalità. Bisogna guardarsi dallo scambiare per atteggiamenti democratici, per una specie di discesa alle abitudini del popolo minuto, quelli che erano soltanto capricci, appagamenti del suo stravagante buon volere, quali la trasandatezza nel vestire, il gusto per battute dialettali, la predilezione per la pizza, la cipolla cruda schiacciata con le mani, il baccalà e il soffritto con peperoncino. Come pure va precisato, d'altra parte, che neppure si trattava di atteggiamenti demagogici. In quei suoi modi era spontaneo e sincero; ma l'opinione pubblica lo lasciava completamente indifferente.
 
 

Il disinteresse di re Ferdinando per la spaventosa miseria del popolo trova rari riscontri nella storia. Anteponeva a tutto e a tutti la preoccupazione di guadagnarsi paradiso, di conservare il greve e torbido immobilismo delle strutture dello stato. L'egoismo e non già il senso evangelico della bontà lo rendeva facilmente disponibile alle elemosine. Dei sudditi non amava che i conformisti, gli ossequienti, coloro che accettavano supinamente la sua autocratica gestione del potere, il suo legittimismo assolutistico, oppure che mancavano del lumi per criticarlo. Preferiva difatti gli ignoranti, coloro che non sapevano nè leggere nè scrivere, come allora si soleva dire. Bastava fare appello alla sua bigotteria per sollecitare benefici e favori. Ad un paese decrepito ed arretrato, di una grave immaturità civile, con un estremo bisogno di strade, ponti, telegrafi, cimiteri, ferrovie, scuole, trasformazioni fondiarie, servizi igienici e sanitari, non aveva dato volentieri che chiese, monasteri, aspersioni d'acqua santa. Per cui stridente era il contrasto tra le imponenti costosissime opere realizzate per vanagloria e quelle di effettiva utilità pubblica.

Per ingraziarsi Pio IX che nel '49 fuggito da Roma, aveva zelantemente ospitato nella fortezza di Gaeta, e nella cui autorità nutriva una fiducia immensa, accrebbe a dismisura i privilegi del clero, già ricchissimo, e le spese del culto, identificando la religione col progresso civile. Soffocante divenne così l'intreccio tra potere politico e gerarchia ecclesiastica. Soleva vantarsi che il suo stato era protetto per tre quarti dall'acqua salata e per un quarto dalla scomunica. In effetti il dominio borbonico si reggeva sulle pratiche di devozione e sulle feste religiose. Quest'ultime erano 38 l'anno solo a Palermo. Gli studenti universitari, tanto per fare un esempio, non erano ammessi a sostenere gli esami senza un certificato di assunzione del precetto pasquale. La uggiosa ipoteca confessionale che pesava sulla vita pubblica dava a re Ferdinando un grande senso di sicurezza. Onorava i santi e trascurava i sudditi, i quali stentavano a nutrirsi persino d'erbe, di legumi, di frutti selvatici.

È stato scritto che in Sicilia (nel Continente la situazione non era certamente meno sconfortante) non s'incontravano che facce squallide sopra corpi macilenti, coperti dì lane cenciose; e i giovani, mesti, smunti e deformi sospirano per un pezzo di pane, ch'essi apprezzano per il massimo dei beni della loro vita", Questo si verificava mentre la terza parte del patrimonio statale era mano-morta ecclesiastica e lo stato e i comuni versavano ingenti somme per compensi a predicatori quaresimali, ai capitoli delle cattedrali, a congregazioni e confraternite, o per sovvenzioni a chiese e monasteri. L'incenso si spreca-

va, la farina difettava. I bisogni più elementari delle popolazioni venivano elusi, non sfioravano nemmeno la mente del sovrano, i cui scrupoli religiosi si esasperarono dopo l'attentato di Agesilao Milano. Credeva nella iettatura e faceva scongiuri contro il malocchio, A tranqullizzarne la coscienza erano sufficienti le messe, le ebollizoni del sangue di S. Gennaro, le Piedigrotte. Era totalmente privo di coscienza civile.
 
 

Morì a 49 anni - e sembrava ne avesse 60, tanto s'era miseramente accasciato - nella sontuosa reggia di Caserta, dopo aver trascorso gli ultimi giorni a far voti, a ordinare messe di suffragio, a baciare superstiziosamente immagini di santi, crocifissi, amuleti, scapolari, reliquie miracolose, mani di prelati. L'affettuosa benedizione telegrafica di Pio IX consolò i suoi ultimi istanti, rafforzando la sua convinzione d'essere stato il migliore del monarchi. Durante il suo regno, invece, la ruota della storia aveva girato a ritroso.
 
 

Francesco Secondo si spiega con Ferdinando Secondo. I suoi prolegomeni sono tutti nel regno del padre, l'aver insistito su questo ci consente di abbreviare il discorso sul suo regno, di cui implicitamente abbiamo anticipato in gran parte deduzioni e giudizi.
 
 

Ereditò un'amministrazione statale e provinciale trasandata, iniqua e corrotta in tutte le articolazioni, affidata a funzionari incapaci e retrivi. Si trovò tra le mai inesperte uno scettro scomodo, grondante sangue e maledizioni, Il potere effettivo era detenuto dalla gerarchia ecclesiastica e dalla polizia. Ma quest'ultima, spietata e sempre pronta a vedere liberali dappertutto, non era ormai più in grado di salvarlo.
 
 

Gli mancavano, inoltre, i lumi per capire quanto fradicio fosse il trono sul quale s'era seduto e di cogliere la dimensione del compito che si assumeva. Non già che fosse uno sciocco. Era timido, indifferente, malinconico, Inibito, per molti aspetti enigmatico, attediato,da ogni idea di mutamento e di progresso, d'una bigotteria tendente al misticismo. Vittima d'un 'educazione sbagliata, che ne aveva aggravato le deficienze del carattere, se ne rimase accucclato al piedi di miti polverosi e squallidi, interessatamente esaltati dai suoi precettori. Erano, costoro, militari,ed ecclesiastici gretti, più che altro preoccupati di spiarne ogni atto, ogni discorso, persino le abitudini più intime. Chi esercitò, tuttavia, su di lui la maggiore influenza fu il padre.
 
 

Una persona di fiducia venne fatta dormire nella camera dl Francesco sino a poco tempo prima delle nozze. Fu abituato a sentir messa tutte le mattine, a recitar il rosario assieme alla famiglia, ad assistere alla benedizione ogni sera, a confessarsi almeno una volta al mese. Gli fecero studiare molto il latino, il francese, il diritto civile ed ecclesiastico, il catechismo; poco invece, e male, la storia e altre discipline più atte a favorirne il senso critico ed una cultura viva ed elastica. Una preparazione basata su tali materie prime, più confacevole a un futuro parroco di campagna che a un principe ereditario, era ovviamente destinata a esiti deprimenti. I quali poi, assunti come modello dalla classe dirigente e dal popolo, si generalizzarono stabilizzandosi in una forma mentis angusta e stantia, o se vogliamo, in una particolare modalità culturale, comunemente definita borbonica, tanto dura a morire e con la quale purtroppo ancor oggi le spinte emancipatrici del progresso si trovano a fare i conti.
 
 

Tra I pregiudizi politici di re Ferdinando, passati nel figlio come attraverso un imbuto senza filtro, dominava quello secondo cui costituzione significasse rivoluzione. La mancanza di umorali contatti con i coetanei, l'inesperienza degli uomini e della vita, resero Francesco irresoluto, cupo, sfiduciato e privo di volontà, avverso alle donne e alle pompe, senza spina dorsale e senza ideali. Anche da re non fece nulla dl propria iniziativa, lasciandosi passivamenie guidare negli affari di stato dal confessore, dalla matrigna, da consiglieri inetti e non sempre sinceri. Fu un Ferdinando Secondo impagliato, senza la grinta, le viscere, i rancori e le ritorsioni del despota.
 
 

A corte nessuno lo prese mai sul serio, nessuno veramente lo rispettò. Anzi le sue puerili ingenuità e la sua goffaggine furono spesso argomento di burla. Gli mancava la stoffa del monarca. Ma sopratutto non era l'uomo del momento, all'altezza della situazione. Per la verità neppure ne ebbe l'ambizione. Spesso lo si udiva esclamare: Dio, com'è pesante questa corona! Aveva accettato lo scettro con fatalismo, come qualcosa di ingombrante. Se ne avesse avuto il coraggio ci avrebbe rinunciato volentieri. Se lo tenne perchè era un legato paterno, che gli era stato raccomandato di custodire ad ogni costo.

I nodi vennero al pettine tutti in una volta. Ci volle poco a capire che la promulgazione della costituzione, nel giugno dell' 860, era un espediente per il salvataggio in extremis della monarchia e non un gesto di spontanea liberalità. Conseguentemente l'opinione pubblica, invece di placarsi, si esasperò. Allo stato delle cose l'Atto sovrano, un tempo pur tanto invocato, non poteva più soddisfare, non pagava il conto di secolari arretratezze. Occorrevano coraggiose alternative, non pannicelli caldi. Ma sarebbe stato ingenuo attendersi un mutamento radicale dai Borboni, spergiuri ed oppressori, i quali, lasciando nel passato cadere ogni occasione propizia per effettuarlo e riscattarsi, avevano persa ogni residua credibilità.

In tanto le dighe dell' assolutismo vacillavano sotto l'incalzare degli avvenimenti. Garibaldi, coi suoi volontari, s'era saldamente insediato in Sicilia. Per tramutare in

certezza le speranze di un rinnovamento politico e sociale, non rimaneva che dargli man forte, facilitargli l'avanzata sul continente, organizzarsi su basi insurrezionali. Perchè accettare la libertà come un'offerta dall'alto, che naturalmente implicava un obbligo di riconoscenza proprio verso chi per secoli l'aveva conculcata e negata? Non era un diritto? E perchè continuare a tenersi un re imbelle che neppure l'Europa voleva? Sacrificarsi, forse morire per lui, a che poteva giovare se non a rafforzare un regime che aveva tenuto i sudditi in ginocchio?

Non valse a nulla, difatti, mutare gli intendenti, i sindaci, i commissari di polizia più invisi; togliere dalle galere e riabilitare i perseguitati politici. Troppo poco ormai. E sopratutto troppo tardi. Nelle piazze e nei teatri di Napoli si gridava pubblicamente " Viva Garibaldi".

I tempi erano maturi per spazzare via tutto l'oppri-mente apparato borbonico.

Il timore della reazione faceva sospettare di cospirazione notabili più devoti alla dinastia. Da parte di sindaci e di privati cittadini, persino di canonici, fioccarono le denunce al ministero degli interni contro funzionari ed ecclesiastici esosi. Numerosi vescovi furono cacciati a furor di popolo e si salvarono a stento; altri lasciarono precipitosamente le loro sedi per paura di ritorsioni. Monsignor Rossini, vescovo di Matera, fu cacciato addirittura dal suoi stessi seminaristi, nei quali era rimasto vivo l'esemplare ricordo dell' arcivescovo predecessore, Antonio Dl Macco, nativo di Gaeta, che re Ferdinando chiamava ironicamente Il Ghibellino, perchè, prodigo di favori verso i perseguitati politici, aveva rifiutato di sottoscrivere la petizione dl abolire la costituzione del '48.
 
 

Anche i seminaristi dl Molfetta e di Conversano si ribellarono alla gerarchia. Ma ben più prorompente fu l'indignazione del basso clero, assai vicino alle miserie e alle sofferenze della povera gente. All'approssimarsi delle truppe garibaldine intere comunità monastiche si unirono entusiasticamente all'insurrezione, specie in Basilicata e in Calabria. "Preti e Frati - scrisse lo storico R. de Cesare - gettavano l'abito e vestivano la camicia rossa; e cingendosi di un gran nastro tricolore il cappello, si creavano cappellani delle squadre insurrezionali, o predicatori nelle piazze".
 
 

Nessun conforto al re, frattanto, veniva dai fatti d'arme, che andavano di male in peggio. I casi di inettitudine e di fellonia, gli errori, le indecisioni di uno stato maggiore pateticamente fondato sulla anzianità invece che sul merito, non sono sufficienti a spiegare i brucianti rovesci dl un esercito regolare, ben armato e di gran lunga più numeroso dl quello garibaldino. Le ragioni di fondo vanno piuttosto ricercate nel mal umore che il marasma delle istituzioni e della vita pubblica, la diffusione degli ideali di libertà e dl unità nazionale generavano tra le forze armate. Di mano in mano che cadevano dagli occhi della mente le bende borboniche profumate d'incenso, ci si rafforzava nella convinzione che era impossibile, senza esserne complici, continuare a difendere una monarchia fondata su una superata concezione della vita, sulla giustizia, sugli abusi, sulla miope difesa degli assurdi privilegi di una èlite. Una monarchia che sapeva di medioevo, sulla quale pesava il disprezzo del mondo civile.

I farneticanti storici borbonici videro tradimenti dapertutto, ma tennero gli occhi chiusi davanti al marciume che colava da tutte le membra dello stato. Patria, civiltà, futuro, erano dall' altra parte. Il vero, unico tradito era il popolo, ti quale finì per identificarsi con lo spirito rivoluzionario dei garibaldini. La storia c'insegna che in circostanze simili la disobbedienza all'ordine costituito diventa un dovere; chi dà l'ordine di difenderlo, un traditore: perdere, l'unica maniera di vincere. Fu la mancaza di motivazioni ideali a spegnere spirito di combattività e aneliti di vittoria nell'esercito napoletano. I vincoli della disciplina si infransero e ogni occasione fu buona per ripiegare, per non impegnarsi in combattimento, anche se nella sfiducia e nel disorientamento generali non mancarono romantici atti di valore, generosi quanto sterili sacrifici di giovani vite. Per l'onore delle armi, si diceva: ma più verosimilmente per la disperazione d'essere stati ingannati. Sono momenti difficili, in cui bisognava risolvere in qualche modo il dramma della propria coscienza. E così ci fù chi decise di seguire il re nella fortezza di Gaeta per l'ultima difesa; chi gettò le armi per tornarsene a casa; chi passò all' altra parte, cercando la palingenesi nella rivoluzione.
 
 

Le drammatiche vicende che precedettero il crollo finale, non valsero a strappare a Francesco Secondo il minimo gesto di fierezza. Fu un inetto, un minchione incoronato. Durante l'intera campagna di guerra mai lo sfiorò il richiamo dell'azione, dell'avventura, della gloria. Sempre occupato a far scongiuri e a recitar rosari, ad attendere impossibili miracoli. Invano gli avevano ripetutamente consigliato di sfoderare la spada - "sguainate spada di Carlo III, vostro predecessore è Dio con voi" -mettersi alla testa delle truppe. Se non poteva bastare per salvargli il regno, gli avrebbe almeno salvata la faccia.

Non lo capi. "Io avea data un'amnistia - disse pateticamente nel proclama dell' 8 dicembre 1860, quando ormai l'acqua gli era arrivata alla gola - avea aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto ai miei popoli una Costituzione...Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere...". Ma era evidente che si trattava di un'anticipata perorazione della propria causa, sollecitata dalla preoccupazione di giustificarsi di fronte alla storia e renderne meno severo il verdetto. A tal proposito può essere molto illuminante quel che, risparmiandogli illusioni e inutili incitamenti, si limitò a dirgli, con commossa sincerità, padre Borelli, quando andò ad ossequiarlo sulle banchine del porto di Napoli:
 
 

"Se Vostra Maestà non è stato un gran re, sarà un gran santo in cielo". La suggestione dell' aureola di santo al posto della corona di re, voleva essere, nelle intenzioni del frate confessore, un complimento o quanto meno un'ipotesi consolatoria; ma la gravità del momento e il verbo al passato, diedero alle sue parole l'amaro senso d'una imminente ingloriosa fine. Quella che meritava, del resto, la dinastia borbonica. home

IL GRANDE ASSEDIO

Quando Francesco Secondo s'imbarcò per Gaeta. accompagnato da Maria Sofia di Baviera con la sua dama d'onore, dal segretario Ruiz e da quattro personaggi napoletani soltanto, gran parte delle famiglie nobili e dell'alta borghesia, dei gesuiti e dei dignitari di corte, intimamente legati alla causa del legittimismo, avevano già abbandonato Napoli per riparare in provincia o all'estero, preferibilmente nello stato pontificio.
 
 

Presagendo la catastrofe, lo avevano preceduto nella piazzaforte anche la regina madre coi figli, nonchè numerosi ispettori e funzionari di governo, fortemente com-promessi e timorosi delle ritorsioni popolari. La presenza di tanti devotissimi borbonici diede esca alla cospirazione antiliberale di Maria Teresa, tanto che, per poterla meglio sorvegliare, il ministro degli interni, da Napoli, ritenne opportuno creare un apposito servizio di polizia.

Gaeta godeva fa ma di centro della reazione. Le truppe del presidio, fatta eccezione di un reggimento di artiglieria, s'erano rifiutate di giurare la costituzione promulgata dal re alcuni mesi prima, inducendo il sindaco, cavalier Janni, a chiedere l'allontanamento degli ufficiali reazionari D 'Emilio, Candela e Proto, dei camorristi Nicola e Paolo Gallo, Paolo Freiles, Salvatore Saggese, Antonio Esposito e di dieci turbolente guardie della disciolta esosa polizia. Questi ultimi furono difatti arrestati ed accompagnati al confine pontificio.
 
 

Proposito del re era formare, con le truppe rimastegli fedeli, una solida linea di difesa lungo le sponde del VoIturno e del Garigliano, tra le ben munite fortezze di Capua e di Gaeta, nella speranza di assestare un grave colpo al prestigio di Garibaldi e guadagnarsi la stima e l'appoggio delle poteaze straniere accreditate presso la sua corte. A garantirgli le spalle sapeva di poter contare sullo stato vaticano.

La sera del 6 settembre, quando parti dalle banchine di Napoli sulla piccola nave da guerra Messaggero soltanto 17 guardie nobili del corpo e poche persone della corte si dichiararono disposte a seguirlo. Che la situazione fosse molto preoccupante è dimostrato tra l'altro dalla decisione dei ministri plenipotenziari di Francia e d'Inghilterra di non abbandonare Napoli.
 
 

Come dire che preferivano il Piemonte.
 
 

La flotta, schierata nella rada di Napoli, non rispose ai segnali di prendere il largo e mettersi sulla rotta della "Messaggero". Un eguale fermo rifiuto opposero quattro unità In navigazione, incrociate all'imbrunire nel canale dl Procida. Talchè, di tutto il naviglio militare, giunse nelle acque dl Gaeta soltanto la 'Partenope.
 
 

Schierandosi al fianco delle forze piemontesi, la Marina decretava in anticipo la fine miserabile della dinastia borbonica. Non si trattò di un brusco voltafaccia, bensi' d'una scelta di civiltà a lungo ponderata. Non poteva darsi defezione più umiliante per il sovrano. ove si consideri che l'ammiraglio della flotta era proprio suo zio, Luigi di Borbone, conte di Aquila, notoriamente di sentimenti liberali.
 
 

Stando cosi' le cose, l'esito della difesa di Gaeta, affidata ad un esercito squalificato, era già scontato. Ma è probabile che Francesco, male informato dai propri consiglieri, non se ne rendesse perfettamente conto. Sino all'ultimo difatti - almeno ufficialmente - sperò di conservare se non altro una parte del regno. È lecito supporre che al limite si sarebbe contentato anche soltanto di Gaeta.
 
 

Intanto, per fornire una testimonianza dei suoi modi di condursi in quei tempestosi frangenti, vale la pena riferire che nei numerosi bauli e casse che Francesco si fece spedire dalla reggia di Napoli e di Caserta, tra arredi, mobili, biancheria, materassi, tappezzerie, quadri di valore (inclusi un Raffaello e un Tiziano) cristallerie e servizi d'argento, figuravano 65 coppini e cucchiai da ragù, 1105 forchette, 1123 coltelli, 1015 cucchiaini da caffè. A cui vanno aggiunti, a prova che i suoi pensieri erano anche rivolti al bene dell'anima: un busto in marmo di Pio IX, una sterminata batteria di oggetti sacri e di devozione, tra cui 66 reliquari. numerose corone per il rosario, immagini di santi e una statua di cera in grandezza naturale di santa lasonia. Non s'era però portato appresso nemmeno una carta topografica di Gaeta e dintorni; e per poter seguire le operazioni di guerra dovette accontentarsi di una copia in fotografia. A volte vien fatto di supporre che gli avvenimenti di cui era drammaticamente al centro non lo riguardassero affatto, lo lasciassero totalmente indifferente, tanto profondo era il senso di rassegnato fatalismo con cui li accettava.
 
 

L'assedio ebbe inizio dopo la sconfitta del Volturno Nell'impossibilità di ospitare dentro le mura tutte le truppe napoletane: tre reggimenti di cacciatori, comandati dal col. Pianelli, furono provvisoriamente sistemati nel Borgo e sul colle Cappuccini; quattro compagnie di svizzeri, agli ordini del capitano Hess, sul promontorio di torre Viola; un reggimento al Camposanto; un altro sull'Atratina; mentre altri cinque reggimenti rimasero accampati sull'istmo di Montesecco, senza copertura alcuna dalle artiglierie piemontesi.
 
 

Il 5 novembre 1860 il generale Cialdini, protetto dalla flotta sarda ancorata nelle acque di Mola al comandi dell 'ammiraglio Persano, pose gli avamposti presso la cappella di Conca, coadiuvato da ufficiali del genio napoletani unitisi all'esercito piemontese, tra cui il Guarinelli assai noto per essersi arricchito firmando sotto Ferdinando Secondo molti importanti lavori pubblici e per essere il proprietario del più imponente palazzo di Gaeta.
 
 

Le ostilità contro le difese avanzate cominciarono l'11 novembre. I piemontesi occuparono il caposaldo d M. Lombone, che il giorno seguente venne perso a seguito di un furibondo contrattacco. Contemporaneamente, però, essendosi arreso il 15° cacciatori, tutta l'ala destra dello schieramento borbonico fu costretta a ripiegare mettendo il Cialdini in grado di battere direttamente i bastioni con le artiglierie.
 
 

Modernamente equipaggiato, l'esercito piemontese disponeva dii 66 cannoni rigati. oltre a numerosi cannoni Cavalli di lunga gittata. che vennero ripartiti in batterie a Castellone, alla Canzatora, a Fontania, M. Cristo, casa Albano, S. Agata, valle dl Calegna, colle Cappuccini, palazzo Occagna, casa Tucci, torre Viola e M. Lombone, ad una distanza dalla fortezza variante da 1000 a 4800 metri. In tal modo il volume di fuoco contro le difese di terra era in grado di compensare largamente la scarsa efficacia delle artiglierie del Persano sul fronte di mare, protetto dalle pareti rocciose ed a picco di M. Orlando.
 
 

Consapevole dell' inferiorità del proprio materiale bellico, che tra l'altro scarseggiava di pezzi di ricambio, gli assediati tentarono due sortite soltanto, più che altro per motivo di prestigio, dalla cinta muraria, dirette dal generale Ferdinando Bosco, commendatore dell'ordine di S. Ferdinando per merito di guerra. Era costui fanaticamente fedele alla causa dei Borboni, che dopo la sconfitta volle seguire nell'esilio di Roma.
 
 

Ufficiale temerario, valoroso e pieno di bollenti spiriti, ma alquanto fanfarone, fece una carriera rapidissima: in pochi mesi, da capitano in Sicilia, si trovò generale a Gaeta.
 
 

Spesso In contrasto coi superiori, indecisi o pavidi, sosteneva doversi seguire la tattica offensiva piuttosto che quella difensiva e dilatoria. Ed è probabile che diversa piega avrebbero preso i combattimenti se il generale von Mechei ne avesse seguito Il consiglio di affrontare massicciamente le truppe garibaldine nella pianura della Guadagna presso Palermo. Alla prestanza fisica e al coraggio s'associavano in Bosco atteggiamenti di teatrale vanità, nonché una fastidiosa proclività alle spavalderie galanti, di cui molto si rideva alle sue spalle. Si rese ridicolmente famoso per una millantata sfida a decidere le sorti della guerra con un duello tra lui e Garibaldi. Corse voce che il re, il quale in segno di famigliarità soleva chiamarlo Ferdinando, si rimangiasse la decisione di affidare il comando supremo dell'esercito al generale Girolamo Ulba per l'accesa opposizione del Bosco, a quel tempo colonnello. Diventato generale, non tralasciò occasione per criticare apertamente, con l'arrogante loquacità che lo distingueva, i piani dello stato maggiore, sostenendo tra l'altro che se il re avesse abbandonato Napoli, vi sarebbe scoppiata la rivoluzione.

La difesa durò 102 giorni, di cui75 di fuoco. Degli assedi sostenuti dalla fortezza dall'846, nell'arco cioé un millennio, quello del 1860-61, se non il più drammatico, fu il più importante per impegno di mezzi bellici.
 
 

Vistosi rifiutare ogni offerta di capitolazione, ma presumibilmente sollecitato da Cavour, ansioso di annunciare la caduta della città all'imminente apertura parlamento torinese, Cialdini intensificò i bombardamenti. Ad aggravare la situazione della piazzaforte, che scarseggiava anche di viveri e di moneta per pagar soldo, s'aggiunse una epidemia di tifo. Non si vedevano in giro che rovine e cadaveri dappertutto; e bestie da soma randage e inferocite per la mancanza di foraggio "Quelle povere bestie, non trovando più da mangiare sulla montagna di Gaeta, perché solcata e ricoperta schegge, se ne scesero in città e andavano pietose di porta in porta come se domandassero l'elemosina. I soldati qualche volta lor davano un pezzetto di pane, allora correvano tutte, come i polli appresso alla massaia che li governa, seguendo colui che dato avea quel poco di pane. Quei muli e quei cavalli rosicchiavano le cortecce gli alberi, le porte, i rastrelli, e non trovando altro mangiare, si mangiavano l'un l'altro le code e le criniere!" (G. Buttà).
 
 

A cagione delle privazioni, dei feriti, degli ammalati e delle continue diserzioni, gli assediati si difendevano come meglio potevano, incoraggiati dai principi reali conte di Trani e il conte di Caserta, dal re, e sopratutto dalla Regina Maria Sofia, che spesso giravano per spalti. Quando scorgevano la regina sulle batterie, I piemontesi interrompevano cavallerescamente il tiro. Nelle fasi più convulse del combattimento i borbonici si davano coraggio suonando la marcia reale di Paisiello.
 
 

Il 4 febbraio, una bomba sparata da palazzo Occagna incendiò la polveriera della batteria Cappelle aprendo una breccia. Assai più grave doveva però dimostrarsi, il giorno successivo, l'effetto di una bomba su batteria a dente di sega S. Antonio, ove si trovavano oltre alle munizioni del caposaldo, 40000 cartucce da carabina e da fucile. Molti artiglieri perirono, saltarono in aria le case vicine, abitate da cento civili. Fonti borboniche so-stengono - ma non s'è potuto mai provare - che lo scoppio fu dovuto a sabotaggio.
 
 

A cagione di così ingenti danni, la resistenza non poteva che avere le ore contate. Cialdini, in vista dell'assalto finale alle mura, già faceva esercitare i suoi soldati con scale, nelle retrovie di Mola.
 
 

Nella piazzaforte difettavano ospedali, medici, medicinali, viveri, legname da costruzione, la guarnigione, ridotta a 610 ufficiali e impiegati militari, e a 11916 soldati, dei 22000 che vi erano stati avviati, si rese conto che la propria artiglieria, rimasta quella dell'assedio del 1815, montata su vecchi affusti, non poteva reggere il confronto con i cannoni rigati dei piemontesi. A togliere ogni residua Illusione, alle ore 15 del 13 febbraio un proiettile di un pezzo da 40 partito da monte Lombone distrusse la batteria Transilvania, lo scoppio di 26 tonnellate di polvere mandò in aria e nel mare cannoni ed artiglierie.
 
 

Senza frapporre indugi Francesco Secondo ordinò la capitolazione. Il fuoco cessò alle 17,30, due ore e mezzo dopo.
 
 

I colpi sparati dalla piazzaforte, a palla incendiaria, a granata e a mitraglia, assommano a 35250; contro 60000 del piemontesi del fronte di terra.
 
 

Quelli della squadra navale sarda furono da sei a settemila. Le perdite furono 511 morti, di cui 8 ufficiali. All'atto della resa si contarono 569 feriti, 220 tra disertori e dispersi, 930 malati, oltre i 400 che erano stati precedentemente inviati a Terracina e i 200 a Mola durante la tregua dell '8 febbraio. Furono appena 112 i morti delle truppe piemontesi, le quali ammontavano complessivamente a 22000 uomini.
 
 

Nonostante le distruzioni causate dalle esplosioni, ingente fu Il bottino del piemontesi: 308 tra cannoni, mortai e obici dl bronzo, 403 di ferro,. 664 affusti, 58212 armi da fuoco portatili, 10858 armi bianche, 14505 proiettili cavi carichi, 71224 scarichi, 118100 proiettili pieni, 223 tonnellate dl polvere buona.

La guarnigione, compresi gli impiegati militari, uscì dalla piazzaforte con gli onori delle, armi. Il documento della capitolazione stabiliva tra l'altro: "Gli ufficiali conserveranno le loro armi, i loro cavalli bardati e tutto ciò che loro appartiene e sono falcoltati altresì a ritenere presso di loro i trabanti rispettivi". A tutti gli ufficiali, impiegati, sottufficiali e caporali, vennero accordati due mesi di tempo per decidere se prender servizio nell'esercito nazionale, conservando ciascuno il proprio grado, oppure esser prosciolti da ogni impegno militare. Alle vedove e agli orfani si conservarono le pensioni di cui già beneficiavano.
 
 

La capitolazione reca la firma del re e del capo di stato maggiore a Gaeta, Francesco Antonelli, che a suo tempo fece parte dello stato maggiore del Filangieri durante la campagna di Sicilia. Promosso tenente colonnello nel 1855 era diventato brigadiere nel 1860. Oltre che per le autorevoli incombenze militari, lo si ricorda anche per un suo straordinario virtuosismo: sapeva fischiare alla perfezione, era un artista del fischio. "Non vedendolo, pareva di sentire un flauto, e fischiando, accompagnato dal pianoforte, riscuoteva l'ammirazione di quanti lo udivano" (R. de Cesare).
 
 

Prima che nella piazzaforte entrassero le truppe piemontesi, il re e la regina uscirono dalla loro casamatta, seguiti dai principi e dai ministri e si imbarcarono sulla corvetta francese "Mouette", per recarsi nello stato pontificio, ad aspettare colà "la giustizia di Dio"', che vanamente avevano atteso a Gaeta.
 
 

"In quello che la "Mouette" lasciò il porto, una batteria rese gli ultimi onori al re. Il rombo del cannone si elevò per l'aere pari al singhiozzo del moribondo!" (L. Severo). home

DISOBBEDIENZE E CASTIGHI DI GAETA DUCALE

Gaeta era un possedimento bizantino, nel 726, quando l'imperatore Leone III Isaurico emanò l'editto che aboliva il culto delle immagini sacre e ne ordinava la distruzione. In Oriente l'idolatria aveva assunto gravi e preoccupanti forme, sconosciute in Occidente. Tra l'altro, era invalso l'uso di raschiare i colori dalle immagini delle chiese per mescolarli al vino che si distribuiva ai fedeli dopo la messa. L'editto, ad ogni modo, costituiva una palese intromissione del potere civile nelle questioni ecclesiastiche e papa Gregorio Il reagì immediatamente con la scomunica. Nello stesso tempo si dichiarò indipendente dal ducato romano e spinse Liutprando, re dei Longobardi, desideroso di ampliare i propri possedimenti, ad invadere l'esarcato di Ravenna, dove i cattolici si erano ribellati all'autorità imperiale.
 
 

L'inasprimento degli instabili rapporti tra Bisanzio e il papato, gettò lo scompiglio nell'assetto politico della penisola italiana, che poggiava sull'equilibrio militare di longobardi e bizantini. Nell'imminenza di uno scontro generale, gli stati minori non ebbero altra scelta che schierarsi da una parte o dall'altra. Alla logica del torna-conto, però, fecero spesso velo il fanatismo religioso o il desiderio di vendicarsi di vecchi soprusi. Così, mentre numerose popolazioni, stremate dalle tasse e dalle guerre, si ribellarono agli esosi funzionari imperiali e passarono nel campo longobardo o pontificio, centri costieri quali Napoli, Amalfi e Gaeta, già in qualche modo avviati verso l'autonomia, parteggiarono per Bisanzio.
 
 

L'economia di Gaeta si basava prevalentemente sulla sovrabbondante produzione di carrube, ricercatissime per l'allevamento equino, di pregiate olive, di vino e di frutta, che le sue navi esportavano nei porti della penisola e della costa africana, da cui tornavano poi con carichi dl tappeti, pelli, pietre preziose, sete. Un'interruzione, o una semplice diminuzione dei traffici con l'Oriente, avrebbe comportato il crollo delle vistose fortune ammassate dai mercanti e dai piccoli proprietari terrieri, progrediti ormai anche intellettualmente, sebbene costituissero un ristretto gruppo intermedio nella società godevano di grande influenza e ne facevano sentire peso sulle decisioni politiche della casta dominante dei nobili e dei militari. Non deve quindi meravigliare che il concreto tintinnio dei follari risultò per gaetani più seducente del mistico scampanio delle chiese.
 
 

A parte le considerazioni di carattere mercantile Gaeta aveva più da temere dalle oblique mire annessionistiche del papa, che dal lontano e sfocato imperatore di Bisanzio il quale, se non sempre era stato in grado di fornirle l'aiuto richiesto nei momenti di pericolo, in compenso s'era limitato ad esercitare un blando dominio più formale che sostanziale; tanto che la città potè staccarsi dal ducato romano senza subire ritorsioni o reprimenda e ora disponeva della libertà di battere moneta, di sviluppare i propri commerci, di eleggersi i propri governi. Doveva poi essere ancor vivo ed operante, nella popolazione, il ricordo dei lutti e dei danni patiti sotto la dominazione gotica, da cui proprio quella bizantina, sostituendovisi, l'aveva sollevata, avviandola alla prosperità. Né, d'altra parte, sarebbe stato saggiò fidarsi del Longobardi, i quali dal vicino ducato di Benevento non avevano mai smesso di infestare il territorio gaetano.
 
 

Fu, comunque, un momento difficile, gravido di minacciose conseguenze. I ceti dominanti non ignoravano che la scomunica sarebbe stata inevitabilmente il primo e più pesante scotto da pagare per l'aperta opposizione al papa. Ma non se ne spaventarono. 'Per attutire in qualche modo il rude colpo - almeno da quanto ci è dato di arguire - essi si studiarono di esorcizzare le mortificazioni del sentimento religioso, con l'ignorare, nella misura in cui era possibile, le ingiunzioni iconoclaste dell'imperatore le quali, difatti, trovarono localmente scarsa rispondenza. Nello stesso tempo distrassero dal problema della fede l'opinione pubblica, specie quella degli strati infimi della popolazione, più inclini al fanatismo, preconizzando e magnificando l'avvento di un'era di strepitosa prosperità economica per tutti.

Vedremo che la storia ha finito per dar loro ragione, accreditandone la scelta spericolata come una felice profetica intuizione, aprendo cioè davanti alla città uno spazio politico nuovo in cui le più esaltanti speranze potevano metter radici.

Allorché nel 787 il concilio di Nicea stabilì che il culto delle Immagini sacre non contraddiceva ai principi della religione cristiana, la controversia religiosa trovò un componimento, sebbene le azioni di guerra non cessassero mai del tutto.

Nel nuovo quadro politico, intanto, ben più salda e autorevole appariva la presenza di Gaeta, baldanzosamente uscita ormai di minorità. Benché quasi incastrata nell' infido ducato di Benevento, per la sua più volte comprovata inespugnabilità era divenuta il bastione settentrionale bizantino sul versante tirrenico, la sentinella avanzata contro il papato, di cui aveva osato confiscare i beni patrimoniali posseduti sul posto. Il patrizio imperiale dì Sicilia vi soggiornava a lungo per dirigere da vicino le operazioni militari di confine. Con rinnovato slancio fiorivano i traffici, si potenziavano le attività cantieristiche e artigianali. Le sue galee, dagli aplustri dipinti d'indaco, veleggiavano in tutti i mari del vicino Oriente. Stima e rispetto le venivano dalla fierezza e intrapendenza dei cittadini, dall'abilità e fermezza dei governanti, dall'illuminato assetto amministrativo.

Le lotte tra il papa Adriano I e l'imperatrice Irene si attenuarono poco per volta, quasi per stanchezza; e cessarono del tutto solo di fronte al minaccioso estendersi della dominazione araba nel Mediterraneo. Anche in questa evenienza si posero gli interessi temporali sotto la copertura della fede religiosa.

Avvalendosi dello stato di confusione creato dalle ambizioni espansionistiche di Arechi, duca di Capua e Benevento, gli arabi scorrazzavano quasi indisturbati lungo le nostre coste, saccheggiandone i centri più esposti.

Per la verità, sin dalla seconda metà del settimo secolo le galee mussulmane avevano ripetutamente effettuato brutali incursioni contro Terracina, Formia e Minturno, depredandole e traendone in schiavitù parte degli abitanti, senza risparmiare le donne e i bambini. Dal paesi vicini molti profughi trovarono scampo entro le sicure difese di Gaeta. In modo particolare i formiani, il cui vescovo, Giovanni lI, s'era visto costretto, nel 767, a tra-sferirvisi con la sede vescovile.

Nello stesso tempo, però, gli arabi intrattenevano traffici normali, garantiti da veri e propri regolamenti, con i principati cristiani, che spesso ne assoldavano le truppe nelle lotte contro i vicini. Persino le navi pontificie solcavano il Tirreno munite dl salvacondotti con frasi in arabo invocanti il nome di Allah.

A maggior ragione Gaeta aveva bisogno dl adeguarsi a questo singolare contraddittorio modus vivendi con gli "infedeli", saldamente insediati a poche leghe dal suo porto. In più d'una occasione, anzi, aveva ritenuto opportuno di allearvisi. Le numerose parole arabe entrate, e in parte rimaste sino ad oggi, nel nostro dialetto, provano che, per molti aspetti, dovettero esistere lunghi rapporti di buon vicinato.

La situazione, ad ogni modo, era tale che nemmeno stavolta gli interessi gaetani collimavano con quelli pontifici. Tanto più che non era un mistero per nessuno l'ambizioso disegno politico di papa Giovanni VIII di allargare i propri domini nel Meridione. A tale scopo difatti il papa aveva iniziato una vasta azione diplomatica, dalla quale si prometteva di contenere le mire espansionistiche del bizantini, che puntavano sul possesso di Napoli, e di isolare gli arabi. Come dire che voleva prendere più piccioni con una fava. Ed è logico supporre che Gaeta avesse sufficienti motivi per ravvisarsi in uno di quei piccioni e tener l'occhio alle penne.

Tuttavia, dopo un intenso lavoro di preparazione diplomatica, lubrificato da sovvenzioni in danaro, promesse di favori e indulgenze, nel congresso di Traetto dell'877 il papa era riuscito a far sciogliere la lega esistente tra alcuni principi cristiani e gli arabi e a costituire contro questi ultimi un fronte comune. In un'atmosfera di sospetti, gli accordi furono sottoscritti, sebbene a malincuore, pure da Gaeta. Ma il giuoco del pontefice era troppo scoperto e le deliberazioni di Traetto non furono rispettate. Primo a trasgredirle fu il duca di Napoli, il quale, col pretesto che non gli era stato corrisposto il danaro promesso, ristabilì i vincoli d'amicizia con gli infedeli. Amalfi e Gaeta non tardarono a seguire il suo esempio.

Indignato da uno smacco cosi clamoroso, Giovanni VIII pose subito in atto un fermo disegno di vendetta contro Gaeta. Nel combinare il castigo egli mise certamente nel conto la recidività dell' affronto. Scomunicata la popolazione, decise di punirla anche materialmente, donando a Pandonolfo, crudele duca di Capua, che intendeva ingraziarsi per servirsene contro gli arabi del Garigliano, i beni pontifici posseduti nel ducato ribelle. Era un vero e proprio mandato di occupazione che veniva rilasciato a Pandonolfo, il quale difatti s'affrettò ad intraprendere sanguinose incursioni, gettando nella costernazione e nel lutto gli abitanti fuori le mura. Di conseguenza si ridusse paurosamente il normale afflusso dei rifornimenti alla citta, isolata nella morsa crudele della carestia.

Ciò nonostante il duca Docibile fieramente si rifiutò dl sottomettersi. Anzi, alleatosi con gli arabi del Garigliano, ottenne libero passaggio di recarsi in Calabria, dove radunò un piccolo esercito di mercenari, i quali, sbarcati presso Sperlonga, vennero fatti schierare sui monti tra Itri e Formia. Pandonolfo, che aveva parte dell'esercito impegnato altrove, non fu in grado per il momento di attaccare in forze e dovette subire una serie di smacchi. Al papa, intanto, non sfuggì la gravità della presenza araba alle porte dei suoi domini e, preoccupato, inviò lettere ai gaetani, promettendo aiuti, libertà e indulgenze, se si staccavano dai nemici della fede. Docibile, non potendo fidarsi nè del pontefice, nè di Pandonolfo, in attesa di tempi migliori, tergiversò e mantenne un atteggiamento ambiguo. Ma Pandonolfo, rinforzato il suo esercito, alla fine riuscì a riportare la vittoria e si vendicò pesantemente sulla popolazione.

Fu un castigo spietato. Che non valse però ad ammorbidire l'opposizione dei gaetani verso il papa e i longobardi. Vinta, la città non si piegò alla rassegnazione,

Successivamente il mutato equilibrio militare rese necessaria una revisione della politica di alleanze. Anche il ducato gaetano si trovò quindi schierato col papa, anzi, le sue ben organizzate truppe ebbero parte determinante nella definitiva sconfitta degli arabi al Garigliano del 916. Ciò, tuttavia, non comportò un completo rasserenamento dei rapporti col papa, nè tantomeno un allineamento alla sua politica. Una profonda e ben fondata diffidenza impediva di seppellire così presto il passato. Sta di fatto che sotto Docibile I il contrasto col potere pontificio conobbe la sua fase più acuta, in qualche modo connessa con le rapide conquiste territoriali del piccolo ducato, che proprio in quel periodo realizzava la sua massima estensione. Si attestò difatti sull'Ufento e il Garigliano, fiumi che ne fissarono rispettivamente i confini con il dominio papale e il principato di Capua; e comprese Terracina, Fondi, Lenola, Sperlonga, Formia, Marananola, Minturno e l'arcipelago pontino.

Gli avvenimenti che seguirono, sino al 1140, quando il ducato, entrando a far parte del regno normanno perse l'autonomia, nulla aggiunsero, se non una sanzione, alla solida fama di Gaeta. Tutti i nodi della sua difficile ascesa politica, militare ed economica, erano già stati praticamente sciolti sotto Docibile.

Paga dei confini raggiunti, padrona del suo mare, la città fu, e ne ebbe la consapevolezza, qualcosa dl più della propria entità geografica e demografica. Se ne possono cogliere i segni nell'orgoglioso compiacimento con cui d'ora innanzi si dedicherà ad elevare il tono delle sue attività, sviluppando i rapporti commerciali, potenziando l'organizzazione dei cantieri navali e l'artigianato, abbellendosi dl artistiche chiese e di ambiziosi palazzi. La produzione della ricchezza conobbe un impetuoso incremento. Pur se, scarsamente socializzata, essa rimase concentrata nelle mani della nobiltà, dei mercanti, del clero e delle opere pie.

In mancanza di date precise l'autonomia si fa ragionevolmente risalire alla fine del nono secolo, dopo che la città divenne sede vescovile e si accrebbe dei profughi dei paesi vicini. Fu una conquista lenta e senza sussulti. In pratica si può dire che se ne ebbero i primi albori già quando dovette difendersi con le sue sole forze contro i longobardi, nel secolo sesto. In seguito, anche dopo che la dipendenza dal potere centrale di Bisanzio s'era del tutto dissolta, venne mantenuta su alcune monete l'effige degli Imperatori bizantini e si conservò l'abitudine di invocarne Il nome nei documenti pubblici.

Si potrebbe concludere che la fortuna di Gaeta ebbe il suo fulcro nella insubordinazione. La storia del suo ducato, difatti, è una lunga catena di impetuose indocilità. Nelle quali non si possono non scorgere, per molti aspetti, i primi conati della ancor informe classe intermedia della borghesia di aprirsi un varco nel rigido ordinamento della società medioevale sorretto dalla Chiesa e dall'impero; una reazione dell'immanentismo mercantile contro il nascente spirito trascendentale della scolastica. In altri termini, i nuovi detentori della ricchezza, divenuti anche colti, facevano chiaramente intendere di non voler essere completamente condizionati dalle eccessive preoccupazioni religiose dei chierici, che toglievano spazio alle loro possibilità di profitti. Quelle passionali azioni antipapali, spesso scaturite dalla limitatezza del fanatismo, manifestarono e posero in movimento un' inedita ed esaltante ricchezza dl libertà, di immagini, di pensiero e d'anima, che non poteva non far sentire il suo influsso nella visione del mondo e nel concepimento dell'avvenire.

C'era anche, difatti, in quelle insofferenze, l' afannosa ricerca di un nuovo ethos; l'ansia di superare l'opprimente conformismo culturale e la grigia realtà sociale, mediante l'instaurazione di più ariosi e freschi ideali di civiltà. Nè gli strati più depressi della popolazione erano del tutto estranei a quelle istanze universali di rinnovamento, comprensibilissime se si tengono presenti le disperazioni esistenziali del tempo. Istanze che, sebbene sconnesse e confuse, si possono configurare come persuasivi precedenti dei clamorosi movimenti ereticali, di esplicita impronta laicistica, che si verificheranno qual-che secolo dopo un pò in tutto l'occidente europeo.

Fu una fase di transizione tanto delicata ed esposta a tutte le insidie, che la popolazione gaetana dovette adottare delle scelte di fondo che, una volta coronate dal successo, finirono per acquistare carattere permanente di vocazioni; comportamenti, che poi si consolidarono in tradizioni. Quelle tempestose esperienze raffinarono gli strumenti del pensiero e dell'operare del gaetano, conferendogli una nuova dimensione; ma, nello stesso tempo, dandogli anche la consapevolezza dei limiti delle proprie possibilità. Tant'è vero che il ricorso all'insubordinazione si fece sempre più raro e si temperò a poco a poco con la duttilità diplomatica, che valse a salvare la città dal pericoli potenziali di un esasperato solipsismo.

A noi qui preme sottolineare che proprio in quel periodo fortunoso si determinarono particolari aspirazioni, infatuazioni, forme di vita, idiosincrasie, pregiudizi e stati d'animo che, influenzandosi scambievolmente, acquistarono valore di elementi stabili dell' indole collettiva del gaetano e costituirono la trama di fondo della sua personalità. Si produsse allora, in altri termini, la sua "weltanschauung".

In taluni residui passionali, nei costumi, nel folclore e nelle manifestazioni del senso comune in genere del gaetano medio, sono ancora evidenti le tracce dl quella lontana formazione. Ecco perchè ci sembra impossibile trovare una spiegazione del suo odierno modo di essere e di concepire la vita, senza risalire a quel complesso arricchimento interiore, che le successive soporifere dominazioni spagnuola e borbonica, non sono riuscite a cancellare del tutto. home
 
 

I

IL QUARTIERE MEDIOEVALE

Sul quartiere di Santa Lucia pesano le ingiurie del tempo e le erbacce della pubblica incuria. Le vie Ladislao e Chiaromonte ne segnano press'a poco il perimetro.

Nonostante gli squarci dovuti ai bombardamenti lI'ultima guerra, l'invasione dei rovi e delle ortiche, i restauri e le modificazioni indispensabili per adattarlo alle odierne esigenze di abitabilità, ancora è possibile cogliervi linee caratteristiche dell'architettura medioevale, dominata, più che dal senso estetico, dalla paura delle invasioni barbariche e delle calamità naturali. Un bisogno affannoso di protezione, infatti, ha ammassato le case attorno alla reggia e alla chiesa, simboli degli incontrastati poteri del tempo.

In tutto Il giorno non vi si posa che un'elemosina di sole. L'umidità infradicia, deteriora tutto, fa prosperare il muschio. Ma qua e là, da cornicioni e gronde sconnesse,

ciondola Il cappero, quest'amico fedele dei ruderi, coi suoi fiori d'avorio dalle ciglia violette, come bistrate, e abbellisce tutto.

La via che s'intitola a re Ladislao è la più importante del quartiere, quella che meglio s'è conservata. Da essa si partono angiporti, gradinate tortuose, anditi da agguàti notturni. Il gonfiore dei muri dei giardini pensili, che straripano di vegetazione, i puntelli tra le case dirimpettaie, le crepe., le erosioni, la non infrequente caduta di calcinacci, dicono chiaramente sino a che punto tutto sia decrepito, instabile.

La reggia è a mano sinistra di chi sale. Vi si può ancora ammirare il portale di travertino con lo stemma durazzesco (giglio con tulipani) al centro dell'architrave. Abbastanza ben conservato è anche l'antico originario portone a due battenti, di quercia scolpita, con pregevoli intarsi ornamentali.

La via e le traverse Chiaromonte hanno un aspetto più dimesso. È raro incontrarvi portali di pietra pregiata, sormontati da stemmi gentilizi, colonne di marmo incastrate negli spigoli delle case. Persino le membrature architettoniche e il giuoco prospettico degli archi e delle facciate sono meno estrosi e suggestivi. Tutto lascia supporre che vi abitasse gente di rango inferiore, inservienti di corte, mercanti, amanuensi, artigiani. Vi si possono ancora scorgere vani di porte murate, rampe cordonate con l'originaria pavimentazione di ciottoli e mattoni alternati e disposti a spina di pesce, grate e lunette in ferro battuto, di indubbia fabbricazione medioevale, finestrelle quadrate, ardite altane capricciose, e la grazia dimessa di certe bifore e trifore da bambole.

Il quartiere medioevale di Gaeta è una composita testimonianza di culture e stili diversi. Le influenze bizantine, arabe, romaniche e gotiche, talvolta si fondono, talvolta si sovrappongono nella stessa opera, ove non di rado persistono elementi di gusto paleocristiano. Ma l'umidità trasuda abbondantemente da ogni dove, la limaccia e la parietaria vi prosperano indisturbate; e non si riesce a fugare un senso di squallore.

Con tutta probabilità è in una casa di questa viuzza che abitò a lungo, dopo il divorzio, Costanza Chiaromonte, l'infelice prima moglie di Ladislao, il cui dramma commosse i contemporanei.home
 
 

RE LADISLAO

Nato da Carlo e Margherita Durazzo, aveva appena tre anni quando il padre s'impossesso della corona di Napoli, dopo aver fatto imprigionare e, si dice, strangolare. la regina Giovanna I, di cui era figlio adottivo.

Durante le lunghe assenze di re Carlo per missioni di guerra, la guida dell'amministrazione di Napoli rimaneva affidata completamente nelle mani energiche della regina. La corte era talmente indebitata, che essa si vide costrettà a sospendere l'assegno all'ospizio dei poveri, a vendere i gioielli di famiglia e a contrarre prestiti dai privati "persino perchè non mancasse il vitto a lei e ai suoi figlioletti, che vivevano una cosi tempestosa infanzia (Cutolo).

Alla morte deL padre (1386), Ladislao ereditava un regno malfido e in preda al caos, tutto da riconquistare. Di veramente suo non aveva che lo scettro, soltanto il simbolo di un diritto... Papa Urbano VI, contrario al partito durazzesco, non volle riconoscerlo re, Napoli era minacciata dalle truppe angioine. Margherita, intuito il pericolo che correva la corona, il 13 luglio 1387, assieme ai figli, si rifugiò a Gaeta, la fida piazzaforte, ove la corte rimase poi per dodici anni.

Sempre più poveri e minacciati da tutte le parti, i durazzeschi tentarono un'alleanza con Manfredi Chiaromonte, conte di Modica, potente e ricchissimo vicario di Sicilia. Alla figlioletta di questi, la bella Costanza, venne offerta la mano di Ladislao. L'ambizioso vicario accettò il contratto e fece imbarcare per Gaeta la piccola Costanza (ottobre 1389) con un fasto senza pari e ricchissima dote. L'Università dl Gaeta, a sostegno della corte, le cui condizioni finanziarie non erano in grado di offrire alcuna garanzia, s'impegnò a restituire al conte di Modica 15 mila fiorini d'oro qualora il matrimonio non fosse stato effettuato o fosse stato sciolto.

Fu così che, per acquistarsi un alleato, Ladislao si sposò a dodici anni.

Poco dopo egli corse serio pericolo di vita ad opera di un partigiano di Luigi Il di Francia, il vescovo Raimondo d' Arles, il quale, fingendosi devoto ai durazzeschi, riuscì a farsi ospitare a corte e ad avvelenare il vino destinato a Ladislao durante un banchetto. Il coppiere del re, Cola di Pacca, ne morì; Ladislao si salvò a stento. I medici, per di-sintossicarlo, lo tennero chiuso alcune ore nel ventre caldo di un cavallo fatto squartare lì per lì. In seguito all'incidente, o alla cura, Ladislao rimase balbuziente per tutta la vita.

Ladislao iniziò la carriera di prode e fortunato condottiero a diciott'anni, con l'assedio di Napoli. Ma la conquista della città e la pacificazione del regno dovevano dimostrarsi lunghe e difficili. Occorsero logoranti campagne nell' Aquilano, in Puglia, contro il conte di Fondi. Il suo esercito divenne un elemento determinante nella politica italiana, richiamando su di sè l'attenzione di tutta l'Europa. Occupò due volte Roma, rinnovando gli orrori delle invasioni barbariche, invase l'Umbria, portò le sue armi vittoriose nel territorio fiorentino e in Dalmazia. Da lui si senti minacciato persino Sigismondo d'Ungheria.

La sua mancanza di scrupoli fu pari alla sua audacia. Accoppiò il delitto alle blandizie, i favori e le esenzioni fiscali alle repressioni e ai tradimenti, non diversamente, occorre precisare, dagli altri monarchi dell'epoca.

Appena si sentì abbastanza sicuro del suo regno cominciò ad essere preoccupato dalla mancanza di un figlio. A dieci anni dal ripudio di Costanza contrasse un nuovo matrimonio dì prestigio e d'interesse con Maria di Lusignano, sorella del ricco e potente re di Cipro. La dote mise alquanto in sesto il suo erario sempre più povero e indebitato, ma l'erede desiderato non venne. Pare che Maria sia morta proprio per aver seguito pratiche innaturali per diventare madre.

Infine, nel 1407, sposò Maria d'Enghien, vedova del principe di Taranto.Anche dopo che la corte s'era stabilita a Napoli, Ladislao rimase profondamente affezionato a Gaeta. La popolazione, continuamente colmata di favori e privilegi, gli era fedelissima. Molti gaetani erano rimasti al suo seguito, raggiungendo i gradi più alti dell'esercito, della marina e dell ' amministrazione. Attratto dai ricordi della adolescenza Ladislao ritornava spesso per ritemprarsi dalle fatiche di guerra, trascorrendo il tempo in giostre e cavalcate e sovente In procacciarsi quei diletti di che son vaghi i giovani, essendo la città e tutta quella riviera lodevolmente fornita di belle femmine (Ammirato). Si sa infatti che Ladislao ebbe numerose concubine, specie a Napoli, tra cui la più famosa rimane Maria Guindazzo.

Colpito da improvviso malore mentr'era in missione dl guerra In Umbria contro Firenze e l'antipapa Giovanni XXlII, Ladislao venne trasportato in lettiga a Napoli. Dopo quattro giorni di terribile agonia, urlando di dolore e minacciando i suoi nemici, cessò di vivere il 6 agosto 1414, esattamente due anni dopo che s' era spenta la regina madre a Salerno.

Dati I tempi, si parlò naturalmente di veneficio. Si disse che Firenze avesse voluto punire nello stesso tempo "la tracotanza e la lussuria del re 'di Napoli con la complicità dell'amore" (Cutolo). Nicolò della Tuccia è più esplicito: "Si dice fusse avvelenato in una donna perosina quando usava carnalmente con lei". Le versioni dei contemporanei sono contrastanti. Teodoro di Nyem a proposito della sua terribile agonia, tra l'altro scrive: "cum vehementibus dolorbus torquebatur in corpore et precipue igne sacro in membro virili".
 
 

Non lasciò eredi diretti. Avendo avuto soltanto figli bastardi, il trono passò alla sorella Giovanna.

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COSTANZA CHIAROMONTE

Era ancora una fanciulla quando giunse a Gaeta, una mattina d'ottobre del 1389, su una galea siciliana riccamente addobbata. La scortavano altre galee con i preziosi doni di nozze e un seguito di parenti e cortigiani. Suo padre, il conte di Modica, la mandava in isposa a re Ladislao, dopo che le clausole del matrimonio erano state fissate tra lui e un'ambasceria gaetana di cui facevano parte il conte Celano e il giurista Bernardo Guastaferri.

Giunta nella rada dopo quattro giorni di navigazione, Ladislao si recò a bordo a renderle omaggio unitamente alla sorella Giovanna e a numerosi baroni. Poi, la giovane coppia attraversò le vie principali della città, ornate di fiori e di tappezzerie, tra la popolazione plaudente. Le nozze furono celebrate nel Castello del cardinale Angelo Acciaiuoli, legato pontificio. I festeggiamenti durarono diversi giorni. L'evento fu reso più lieto dall'arrivo a Gaeta di due legni siciliani carichi di derrate alimentari, inviate dal padre della sposa, il quale in tal modo i-tendeva tempestivamente contribuire a risolvere la crisi degli approvvigionamenti che travagliava i sudditi del suo regale genero.

Messi della corte gaetana e del pontefice immediatamente si diressero in ogni parte d'Italia ad annunciare che i novelli sposi s'erano effettivamente congiunti in matrimonio.

Ma presto l'ambizioso consorte ne chiedeva al papa l'annullamento. A parte il fatto che gli piaceva correre la cavallina, egli aveva progettato di sposare una figlia del potente e consenziente sultano Bayazet, che già aveva occupato con le armi gran parte dell'Europa sud orientale e minacciava direttamente Sigismondo d'Ungheria. Naturalmente era anche prevista un'alleanza militare col sultano, grazie alla quale Ladislao si riprometteva, una volta sottomesso e organizzato il regno di Napoli, dl entrare in possesso anche di quello d'Ungheria.

L'unione con la figlia di un mussulmano, per giunta cosl potente e temibile, del quale tra l'altro si biasimavano i corrottl costumi; creava serie preoccupazioni al capo della cristianità. Ma la questione era di capitale importanza per Ladislao, che si recò a Roma a perorare personalmente presso il pontefice la causa del divorzio. Alle considerazioni di carattere politico Ladislao addusse anche il pretesto, per così dire di natura morale, che la vedova di Manfredi Chiaromonte, madre di Costanzo, conduceva a Palermo vita scandalosa ed era pubblicamente l'amante del duca di Montblanch.

Sta di fatto che il giovane re raggiunse il suo scopo. La motivazione ufficiale concordata fu: matrimonio rato e non consumato, difetto di età e di consenso. La bolla pontificia di annullarnento venne letta dal vescovo nella cattedrale di Gaeta, dopo la consueta messa domenicale, alla presenza del cardinale legato e della stessa Costanza la quale venne privata sull' istante dell' anello nuziale e della corona.

Per una serie di circostanze e di complicazioni politiche il proposito di far sposare Ladislao con la figlia di Bayazet venne in seguito abbandonato. Costanza, invece, venne obbligata a sposare (1395) il conte Andrea di Capua. Voleva essere, da parte di Ladislao, un'attestazione di stima e nello stesso tempo un premio al figlio di Luigi di Capua, suo prode e fedele barone, ucciso da un colpo di bombarda mentre combatteva contro gli angiomi.

Le cronache dell' epoca riportano che Costanza, cavalcando sulla piazza al cospetto della popolazione di Gaeta, disse al marito in dialetto napoletano, in modo che tutti potesserò udirla: "Tu ti puoi dar vanto d'essere il più onorato conte del mondo, poichè hai una regina per amico, poiche moglie non ti posso essere, essendo stata sposata ("Inguadiata") dal re. Questa perdita di onore ricade su di lui e non su di me. "Et piangeva molto forte et affettuosamente per tale modo che fece piangere tutti quelli che la videro (I diurnali citt.). home
 
 

IL CASTELLO

Imponente fabbricato, sorgente su un'area di oltre 14 mila mq. È costituito da un corpo più alto a figura rettangolare, con tre torri cilindriche, conosciuto come castello aragonese; e da un corpo inferiore, a figura irregolare e con tre torrioni tronco conici, detto castello angiomo.

Non si può stabilire chi ne abbia iniziata la costruzione. Si sa che essa esisteva già, sia pure di mole molto più ridotta, nel secolo VIII. Si deve appunto al castello se Gaeta fu risparmiata dalle incursioni dei barbareschi, che invece funestarono i dintorni. Persino l'audace Barbarossa, ammiraglio della flotta di Solimano, che saccheggiò Napoli, Procida, Sperlonga, e si spinse sino a Fondi per rapire bella Giulia Gonzaga e farne dono al suo signore, fu dissuaso dai suoi bastioni a non tentare scorrerie di sorta.

Successivamente venne ampliato da Federico Il dl Svevia (1227), ricostruito dopo la distruzione operata dalle forze pontificie di Gregorio IX e accresciuto da più adeguati apprestamenti difensivi ad opera di Carlo Il d'Angiò (1289) e da Alfonso I d'Aragona (1436). Dopo gli ultimi lavori fattivi eseguire da Carlo V, non subì sino ad oggi modifiche degne di rilievo. Munito di un fossato di protezione, vi si accedeva mediante un ponte levatoio. Sino al 1720 vi si poteva giungere solo da Piazza Commestibili per dee anguste viuzze: la salita del Leone e quella che fiancheggiava la Porta di Ferro.

Nel XVIII secolo, in seguito ad un incendio che ne distrusse i lussuosi appartamenti, cessò di essere residenza reale e venne trasformato in una caserma della capienza di tremila soldati. Poco dopo divenne una prigione e più tardi bagno penale. Vi si tennero prigionieri, tra altri, il vescovo di Teramo, numerosi cittadini accusati di cospirare contro i Borboni e, durante l'assedio 1860-61, oltre mille garibaldini.

In un piccolo appartamento al secondo piano che affaccia sul mare, dal 16agosto al 13 ottobre 1870, vi fu tenuto prigioniero Giuseppe Mazzini, arrestato mentre si recava in Sicilia col falso nome di Enrico Zammit. E fu nel castello che egli apprese dell'unione di Roma all'Italia.

Dalla prima guerra mondiale è diventato reclusorio militare:Dal 1981, dopo la fuga di Kappler, unico recluso rimastovi, il reclusorio è stato chiuso e destinato a sede staccata dell'università di Cassino. La parte aragonese del castello è tuttora adibita, come Caserma Mazzini, a scuola della Guardia di Finanza.

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LO STENDARDO DI LEPANTO All'alba del 7 ottobre 1571, nelle acque di Lepanto quando l'avanguardia della flotta della Santa Lega Cristiana avvistò l'armata turca, forte di 260 navi, comandata da Ali Pascià, don Giovanni d'Austria diede ordine alle sue navi di disporsi secondo lo schieramento di battaglia prestabilito. Contemporaneamente le insegne dei vari capi alleati vennero ammainate, tranne lo stendardo della sua galea e quello della capitana di Marcantonio Colonna, in ossequio al volere di Papa Pio V. A quella vista gli equipaggi cristiani schierati ai posti di combattimento ebbero un fremito di entusiasmo, e gridarono Vittoria, vittoria e viva Jesu Cristo!'.

Lo stendardo della lega era stato consegnato a Don Giovanni d'Austria dalle mani del cardinale vicerè Granvele, assieme alle insegne di comando, dopo una messa celebrata nella chiesa napoletana di S. Chiara, la vigilia di mezz 'agosto. Sul drappo di seta spiccava l'immagine del Crocifisso, intessuta d'oro e argento, sormonta dal motto costantiniano: In hoc signo vinces". Nella parte inferiore erano disegnate le armi della chiesa, tra lo stemma di Filippo Il e il leone di S. Marco. Le Insegne di don Giovanni pendevano da alcune catenine laterali. L' accorto dosaggio di simboli era inteso a garantire bandiera comune, una equa rappresentatività dei più potenti e suscettibili alleati, che il pontefice era riuscito a metter d'accordo dopo lunghe e laboriose trattative.

I principi cristiani erano divisi da vecchie gelosie, esacerbate recentemente da profonde divergenze sul modo stesso di attaccare la flotta turca. Filippo II, tanto per fare un esempio, scriveva a Gian Andrea Doria che "os obedisca Y sega el estendarte de Su Santitad"; mentre istruzioni segrete che faceva immediatamente seguire le comunicazioni ufficiali, erano di ben altro tenore, di modo che per l'ammiraglio genovese ogni pretesto era buono per frapporre mille ostacoli al raggiungimento di un accordo con gli alleati. Di queste rivalità ben seppero giovarsi i Turchi, i quali occuparono e saccheggiarono impunemente Nicosia. La discordia era tale che il Doria giunse persino a separarsi dalle flotte alleate, prendendo la via del ritorno.

La firma del patto coi principi cristiani, avvenuta il 25 maggio 1571 ,fu un personale successo diplomatico di Pio V, il quale volle riservare una pompa ben più solenne alla consegna dello stendardo al capitano della sua flotta. La cerimonia si svolse l' 11 giugno 1570. Il principe Marcantonio Colonna, seguito da una imponente cavalcata di nobili, tra le acclamazioni della folla, si recò in Vaticano, ove, dopo la messa, Pio V stesso gli affidò il vessillo. Il drappo di damasco rosso, sul quale era dipinto il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo, recava nel lembo superiore la scritta orizzontale: "In hoc signo vinces".

Naturalmente, durante la battaglia, proprio contro le galee dl don Giovanni e Marcantonio si accanì la fu ria nemica. Nella circostanziata cronaca del Sereno, che fu te-stimone oculare, leggiamo: "Non erano antenne, non erano sarte, non alberi, non insegne, non palmo di cos'alcuna nelle galee che dalla tempesta delle archibugiate trafitto non si vedesse... Nè però quel benedetto stendardo... da colpo alcuno rimase stracciato: questo solo fra tutti, che più degli altri doveva essere infranto, chiaramente mostrava da qualche armata schiera d'angeli invisibilmente essere stato protetto". Dal canto suo, nel rapporto spedito al cardinale di Sermoneta, Marcantonio scrisse:

"..venne.ad investirmi un'altra buona galera da fanale con una galeotta da fianco ed un'altra galera da poppa che m'ammazzò alcuni appresso, senza esser tocco nè io nè lo stendardo di Sua Santità da infinite botte tirate: cosa invero di meraviglia!". La spiegazione logica, tuttavia, e che a causa dei combattimenti molto ravvicinati, i colpi nemici dovettero essere bassi e tali quindi da risparmiare i vessilli issati sui pennoni più alti.

Per l'errore in cui sono caduti alcuni storici, per altri aspetti degni di fede, sino alla seconda metà del secolo scorso si è ritenuto che lo stendardo della lega, che sventolò durante la battaglia sulla galea reale, fosse stato consegnato alla cattedrale di Gaeta da don Giovani d'Austria. Ma la tradizione popolare gaetana e il raffronto tra la descrizione che dei due stendardi ci è stata tramandata, smentiscono che dopo Lepanto "don Giovanrnisen tornava trionfante a Roma e passando per Gaeta depositava nel vescovato, in onore del protettore s. Erasmo, sciogliendo così un voto" (O. Gaetani: Memorie storiche della città di Gaeta, 1885). Abbiamo ferme testimonianze che don Giovanni, dopo la battaglia, rientrato in Italia, se ne rimase lungamente con la sua flotta nel porto di Messina e che a Roma non gli fu mai tributato alcun trionfo. Lo stendardo della lega "seguitò ancora a sventolare per molti mesi sulle navi cristiane,finchè non fu definitivamente abbattuto da don Giovanni sul molo di Napoli nel maggio del 1573" (P. Fedele).

Se ne deve dedurre che nel duomo di Gaeta viene custodito quello di Marcantonio Colonna. Sappiamo che la flotta pontificia, proveniente da Civitavecchia per collegarsi con gli alleati, gettò l'ancora nelle acque di Gaeta il 22giugno 1571. In questa città il principe si trattenne per un giorno e fu "salutato con bellissima salva di tutta l'artiglieria e universal concorso di popolo e dei primati". Recatosi poi nel duomo, Marcantonio fece voto di offrire alla città, in caso di vittoria, lo stendardo della sua nave.

Di ritorno da Lepanto egli giunse a Roma nel dicembre 1571. Gli furono tributati onori trionfali. Il corteo era aperto dallo stendardo della flotta pontificia portato da Tommaso Romegas. Il principe cavalcava un cavallo bianco e, dopo essere passato sotto l'arco di Costantino, ascese il Campiodoglio. Da allora non si hanno più notizie del famoso stendardo. Sappiamo però che Marcantonio si recò ancora una volta a Gaeta nel maggio del 1572 e tutto porta a credere che fu proprio allora che egli fece l'offerta. Il drappo, infatti, corrisponde esattamente alla descrizione che ne fece Cornelio Firmano, cerimoniere della corte pontificia durante la cerimonia di consegna. Con la sola differenza che il motto: "In hoc signo vinces" ora si trova al disotto e non al disopra dell'immagine del Crocifisso. Ma per tale variante non vi sono misteri. Nel 1779 il vescovo di Gaeta Carlo Pergamo fece adattare il drappo, sino allora tenuto sotto vetro, a quadro, al fine di poterlo più a lungo conservare. Poichè la pala d'altare destinata ad accoglierlo venne fatta sormontare da una lunetta, per motivi pratici ed estetici, la scritta venne ritagliata e applicata alla base. home
 
 

IL RIDOTTO CINQUE PIANI




Il sistema di fortificazioni di Gaeta è stato realizzato con lento processo attraverso il succedersi delle dinastie adeguandosi di volta in volta all'evoluzione delle tattiche degli strumenti di guerra. Si può affermare che il 1536, anno che vide il completamento della cinta muraria di Carlo V, ne rappresenti la data di massimo sviluppo. Posteriormente, difatti, non si accrebbe che di opere accessorie, cui meritano di essere ricordate quelle commissionate vicerè Parafan de Rivera ad Ambrogio Attandolo da Capua, quelle eseguite da Francesco Cantagallina, nel Settecento da Antonio Piselli da Torino e dallo Chàteaufort, nei secoli successivi, sotto Carlo III, Francesco I e Ferdinando Il.

La morsa degli apprestamenti difensivi isolò completamente la città e comportò la mortificazione del fervido spirito d'intraprendenza. che tanti successi aveva conseguito durante l'ardimentoso e ispirato periodo del ducato autonomo. Una luminosa parabola della sua storia si chiude. Divenne celebre per la sua inespugnabilità. In certo questo modo la sua popolazione potè anche sentirsi più sicura per la presenza di scelte milizie di presidio e di moderne artiglierie. Ma le venne a mancare la libera esplicazione de proprie doti e perse a poco a poco la sua estrosa pienezza vita. Una perdita che non poteva certo essere compensata dalla notevole raffinatezza di linguaggio, di maniere, di gusti e costumi, acquisita innegabilmente in un ambiente urbano privilegiato da frequenti soggiorni della corte e di una sofisticata nobiltà.

Abituatosi a considerare la propria esistenza esclusivamente in funzione delle fortune della guarnigione, il gaetano si distaccò dalle responsabilità politiche, vide appassire le proprie aspirazioni, vegetò sulle spalle delle caserme e margini del vescovato, pago delle minute gratificazioni che venivano dall'alto per la graziosa concessione. Una volta tarpate le ali della sua personalità, già così fertili d'intuiti, stentarono a ricrescere.

Seguirono interminabili secoli di squallida inerzia, di stagnazione spirituale, di abulica estraneità ad ogni andito dì rinnovamento. Ciò spiega come Gaeta sia stata l'ultima ad uscire dal deprimente regime borbonico, fatto segno alla riprovazione universale.

La chiusura mentale e un retrivo misoneismo di sapore controriformistico, le impedirono di capire che i tempi erano mutati.

Il crollo dei borboni non poteva quindi non essere anche il suo. D'un colpo esso mise a nudo tutta la gravità della sua decadenza, che un infondato vittimismo, nutrito di nostalgie e di rimpianti, tentò di imputare a presunti osteggiamenti punitivi della nuova Italia. In realtà il declino era cominciato, senza più arrestarsi, coi bastioni dì Carlo V; e solo il difetto di senso critico, frutto di un gretto secolare conformismo, non aveva consentito di riscontrarlo prima che fosse giunto all'epilogo

Era fatale che dopo l'ultimo assedio la popolazione dovesse uscire dall'impatto con la nuova realtà, disorientata, avvilita e incapace di sprigionare gli entusiasmi atti a facilitarne l'inserimento nella dinamica di più emancipate concezioni politiche e sociali. Tutto in una volta essa si trovò a scontare l'immobilismo di una classe dirigente egoista, miope e reazionaria, alla quale ebbe il torto di rimanere devota oltre i limiti del buon senso. La Storia non paga il sabato e non sempre può fare distinzioni.

Infine si capì che proprio la rivalutazione culturale e turistica dell'imponente patrimonio di testimonianze del suo storico passato poteva costituire un punto di forza della sua rinascita. Ci si preoccupò, per prima cosa, di sottrarre la città all'isolamento. Grazie sopratutto all'appassionato interessamento del generale Vincenzo Traniello, ebbero inizio i lavori di smantellamento dei bastioni, eseguiti da prigionieri austriaci del primo conflitto mondiale. Le demolizioni, tuttavia, non sempre hanno seguito un criterio organico e razionale.

Si deve al recente risveglio di studi di storia patria la riscoperta e la rivalutazione delle batterie Dente di sega, Ridotto cinque piani e Piattaforma, articolate a diversi livelli sugli strapiombi di monte Orlando. In comunicazione tra loro mediante passaggi sotterranei e concepite in modo da potersi all'occorrenza isolare, esse costituiscono quanto di più rappresentativo avanza delle poderose fortificazioni del fronte di terra.

Il restauro, eseguito col massimo rispetto per la storia e con felici intuizioni turistiche, ci ha offerto un'immagine d'insieme del complesso sistema difensivo della piazzaforte e, nello stesso tempo, è valso a dotare la città di un belvedere che, aprendosi sulla prospettiva longitudinale dell'arenile di Serapo, abbraccia un paesaggio d'incomparabile bellezza.

L'opera di sterramento ha riportato nell'evidenza piena luce un complicato dispositivo di casematte, terrapieni, parapetti merlati o con feritoie, gradinate sotteranee e trabocchetti per lo smistamento delle munizioni, ponti levatoi, fossati e camminamenti di ronda, che lo spontaneo ornamento di un'antica vegetazione invita a percorrere reverentemente.

Gli spalti, resi mansueti da vasche con pesci e aiuole fiorite, sono stati sistemati a parco pubblico, dispone di una platea per concerti all'aperto; di uno spiazzo congruamente attrezzato per il gioco dei bimbi e di una sezione culturale del Centro Storico.

Una volta sul posto, non si riesce a fare a meno di arricchire la passeggiata di una breve visita alla vicina batteria di Philippsthall, una delle più interessanti dal punto di vista strategico.

Qui, durante l'assedio del 1806, rimase ferito il valoroso principe che governava la piazzaforte e dal 1830 la batteria porta il suo nome. La sua tomba, indicata da una lapide di stile neoclassico e da un medaglione con effige, è murata in un bastione.

Nella stessa batteria venne sepolto anche, per espressa volontà, il comandante delle truppe francesi assedianti, generale Vallongue, ferito a morte durante lo stesso memorabile scontro.

Tra le due tombe venne murata una lapide che ricorda i caduti del 1860-61, sormontata dagli stemmi e dai vessilli borbonici ed italiani. Eccone il testo:

AI PRODI CHE NELL'ASSEDIO DI GAETA /1860-61/

TRA LE OPPOSTE ARMI PUGNANDO / VALOROSAMENTE CADDERO / QUESTA MEMORIA / L'ESERCITO ITA/LIANO / CONSACRA /1868.
 
 

Le lapidi sono ora sottratte all'interesse pubblico, per la privatizzazione dell'area antistante il baluardo. Non ci sembra ardito proporre, per cura di cose valide e sensibile memoria storica, lo spostamento di dette presso porta Carlo III, nucleo ancora integro della cinta di difesa. home MAUSOLEO Dl L. M. PLANCO
 
È un monumento sepolcrale, costruito presumibilmente intorno al 22 a.C.. simile a quello, egualmente ben conservato, di Cecilia Metella, che sorge sull'Appia, nei pressi dl Roma.
 
 

Risulta formato dì uno zoccolo e di un fusto (alto metri 11,30) e termina in alto con un fregio dorico a metope che portano raffigurate armi varie e simboli guerreschi. Ha corpo cilindrico, ed ha pareti esterne a grandi blocchi di pietre, le pareti interne in opera reticolata. Entro l'anello più esterno è un ambulacro anulare coperto a volta, dal quale si ha un accesso a quattro celle funerarie disposte a croce sui due assi... con nicchie rettangolari" (S.Aurigemma - A. Santis).
 
 

Si ritiene probabile che oltre a Munazio, nelle celle abbiano trovato posto anche le spoglie mortali dei suoi tre figli.
 
 
 
 
 
 

LUCIO MUNAZIO PLANCO
 
Lucio Munazio Planco nacque a Tivoli, tra il 90 e l'85 da una famiglia dell'ordine equestre. L'avere avuto Cicerone, amico del padre, quale maestro di retorica, senza dubbio deve aver agevolato la sua scalata agli uffici pubblici, iniziatasi con la carica di questore.

Presto lo troviamo inserito nell'orbita di Cesare, alla luogotenenza di una legione nella Belgica, con incarichi diplomatici di particolare delicatezza. I "Commentari" rendono ampia testimonianza del suo tatto e della sua bravura di condottiero.

Più tardi, chiamato a Roma alla gestione della tesoreria, fornisce indubbie prove di versatilità e di prudenza.

Usa la mano leggera nelle esazioni fiscali e nei sequestri agli avversari politici, benefica amici e partigiani con favori ed esenzioni. Si dimostra abilissimo, poi, nell' ammorbidire le situazioni scabrose di sua competenza, evitando per quanto gli è possibile, le ritorsioni; nell'ungere le ruote dei meccanismi statali che gli resistono; nel trarsi d'impaccio nelle decisioni compromettenti. Adulazione e blandizie sono suoi espedienti di largo impiego. Sulle monete auree fa stampare l'effige di Calpurnia, moglie di Cesare, il quale, lusingato, lo compensa con la designazione al consolato. In seguito sarà lui a proporre in senato, per Ottaviano, il nuovo nome di Augusto.

Compromesso dalla protezione di Cesare, l'assassinio delle idi di marzo lo pone in una situazione estremamente difficile, che minaccia di travolgerlo. Si salva lasciando Roma alla chetichella e raggiungendo le proprie legioni in Gallia. Qui, lontano dallo scontro diretto delle fazioni, si prodiga al consolidamento e alla pacificazione della turbolenta provincia. Sconfigge i Reti presso il lago di Costanza, fonda Basilea e Lione, guadagnandosi la stima del senato e dei patrioti.

Più tardi, la difesa delle proprie posizioni di prestigio in Gallia, lo induce a scontrarsi con Antonio e Lepido. Il senato gli manda in aiuto Decimo Bruto con le sue legioni. Senonchè il giovane Ottavio, che nel frattempo, seguendo la consuetudine, aveva assunto il nome di Ottaviano per il fatto d'essere stato adottato come figlio da Cesare, di cui era pronipote, si impossessa di Roma. Le conseguenze si fanno presto sentire anche nella lontana Gallia. Decimo Bruto, dichiarato decaduto, viene ucciso dai propri soldati mentre tenta la fuga, Munazio invece, dopo avere accettato senza la minima reazione la proscrizione di suo fratello L. Plozio, sfruttando abilmente l'amicizia di Asinio Pollione, riesce a farsi perdonare il tradimento alla causa di Cesare e a mettersi d'accordo con Ottaviano. In virtù di questo nuovo e spudorato "escamotage", ottiene il trionfo e il consolato, con Lepido come collega.

Intanto Roma è in preda all'anarchia. Barcamenandosi tra le irriducibili rivalità dei triunviri, Planco fa del suo meglio per ristabilire l'ordine e la fiducia, reprimendo le sopraffazioni, le vendette, i saccheggi, le insubordinazioni dei legionari. Si guadagna, cosi, la fiducia di Antonio, che gli affida il governo della Siria, mentre lui stesso è impegnato nella complicata campagna contro i Parti.

Non poteva capitargli occasione migliore per tenersi prudentemente alla larga dall' infida temperie di Roma. E forse le coordinate del suo spirito si incontravano proprio In Oriente, nel vagheggiato mondo ellennistico col fascino dei suoi molli agi e delle sue favolose ricchezze:

lussuose residenze, giardini pensili, pietre preziose a profusione, danzatrici e frutta esotiche a coronamento del banchetti. In Siria, infatti, la sua indole si dà libero sfogo, al riparo della mordace satira dei poetucoli della Capitale, usi a prendere dl mira le sue debolezze.

"Antonio e Planco sono compagni di bagordi e di orge, sì danno al piaceri della tavola e del gineceo. Planco si prostituisce financo nel ruolo del ballerino, eseguendo, con una coda di pesce, la danza di Glauco. Egli appare in Patercolo quale giudice nell'episodio tra Antonio e Cleopatra, che ingoia per scommessa una perla liquefatta nell'aceto, del valore di 70 milioni di sesterzi" (G. lacobi).

Per il tatto diplomatico e la raffinatezza di uomo di cultura, Planco deve avere esercitato un grande ascendente sul grezzo animo di Antonio. Questi, infatti. gli accorda una fiducia illimitata, in virtù della quale raggiunge l'apice della potenza, governando praticamente su tutta l'Asia.

Tuttavia, appena la sua posizione comincia ad essere minata dagli intrighi di Cleopatra, che lo considera di ostacolo alle proprie mire politiche, Planco pianta in asso Antonio e, portandosi dietro un favoloso bottino, se ne torna a Roma, ove, scuotendosi ancora una volta le penne di dosso, non tarda a passare dalla parte di Ottaviano. Al quale rivela persino il contenuto del testamento di Antonio (che dichiara sua erede anche Cleopatra) e il luogo sacro dove esso era custodito. Ottaviano riesce a venire in possesso del testamento con un atto di profanazione e lo legge al senato.

Pur trovandosi sul posto con le sue legioni, a Planco non viene permesso di prender parte alla battaglia di Azio, che segna la definitiva disfatta di Antonio e Cleopatra. Amareggiato per questa mancanza di fiducia da parte di Ottaviano, egli abbandona l'attività politica e consolazioni nei viaggi, nell' esercizio dell' oratoria, l'amicizia di poeti e letterati e, sopratutto, nei banchetti e nelle orge.

Finchè Ottaviano che nel frattempo, dietro sua proposta, ha assunto il nuovo nome di Augusto, non lo manda alla più alta carica della magistratura, la censura.

Nel disegno di Ottaviano di risolvere la crisi dello stato instaurando un forte potere personale, c'è, tuttavia sempre meno spazio per i trampoli di Planco. L'accorto e geniale principe punta preferibilmente sul nuovo e sui giovani. E Planco, ormai, appartiene alla vecchia generazione. La sua carriera, quindi, può considerarsi conchiusa.

I giudizi che gli storici ci hanno lasciato sulla sua personalità sono controversi.

Molti pongono in evidenza il suo senso d prudenza e di moderazione. Alieno dalle posizioni oltranziste e da impegni ideologici, egli si fa strada con la pieghevolezza e l'adulazione. Sa perdere senza serbare rancore e vincere senza infierire. Una profonda conoscenza degli uomini gli consente di pilotare abilmente la navicella del proprio tornaconto. Indubbiamente era dotato di ingegno non comune e di notevoli capacità di condottiero. Tuttavia rimane per tutta la vita una figura di secondo piano: sempre a rimorchio degli avvenimenti e da essi condizionato, sempre a ridosso del potente del momento. Un'esistenza da gregario, da satellite.

Fu consapevolezza dei propri limiti? Oppure un calcolo di convenienza?

Difficile poterlo stabilire. Sono interrogativi che lasciano aperta a tutte le illazioni la sua vicenda umana.

Se si parte dal presupposto che per fare carriera occorre innanzitutto avere volontà di farIa, si potrebbe anche concludere che non ebbe l'ambizione di mete più alte, preferendo la sicurezza del piccolo cabotaggio alle venture d'alto mare. I fatti ci mostrano che aveva più gusto del piccolo baro che del giuoco d'azzardo. Non lo troviamo mai promotore di una politica personale. Accetta di volta in volta quella degli altri, senza mantenersi fedele a nessuna. La posta che mette in giuoco è sempre proporzionata alle sue mire. Se perde non sarà mai la rovina.

È anche probabile che la smodata propensione all' edonismo lo portasse a preferire le cariche di limitata responsabilità, che lasciano sufficiente margine agli ozi e sono al sicuro da tracolli clamorosi e definitivi.

Tuttavia il ricorso alla psicologia, se può aiutarci ad interpretarne il carattere, lascia immutata la sostanza dei fatti, sui quali soltanto è possibile fondare un giudizio. La sua tolleranza ci sembra ambigua e strumentalizzata per fini egoistici, tale quindi da non potersi considerare un valore dello spirito e un veicolo di bene.

Gli restano nondimeno molti meriti. Rese non pochi pregevoli servigi allo stato. Cicerone ne apprezza l'eloquenza e lo stile epistolare. Orazio gli dedica la settima ode del Primo Libro. L' imponente attività edilizia dell'età augustea, in cui spicca l'armoniosa costruzione del tem-pio dl Saturno, porta l'impronta delle sue capacità organizzative e del suo gusto.

Tutti lo dicono avido di ricchezze. Ne accumulò scandalosamente, specie durante il governo della Siria, con spoliazioni ed estorsioni. Ma ciò non deve meravigliare in tempi di corruzione quali erano i suoi. Petronio, che di certe cose se ne intendeva, qualche decennio dopo scriveva nel Satyricon: Chi si compiace di guerre e campi di battaglia, si fa d'oro anche la cintura. Dall'imponenza del sepolcro, si può facilmente arguire quale dovette essere il fasto delle ville di Planco, destinate ai piaceri mondani. Si hanno molte testimonianze che ne avesse una anche a Gaeta, sulle pendici di monte Orlando. E la scelta del luogo, in vista di un paesaggio incomparabile, carico dl mitiche reminiscenze. è già. di per se stessa, un in-dice di non comune raffinatezza.home
 
 

MAUSOLEO DI L. ATRATINO

Dell'imponente mausoleo di L.S. Atratino. originariamente simile nella struttura a quello di M. Planco sulla sommità di monte Orlando, non rimane che un rudere abbandonato.

Sin dal X sec. ne venne asportato il rivestimento esterno per impiegarlo nella costruzione della torre dell' ipata Giovanni I e, in seguito, della base del campanile del duomo. Trasformato in fortilizio durante l'assedio del 1815, subì ingenti danni per lo scoppio di alcuni barili di polvere da sparo. Adibito a stalla per lungo tempo, è oggi affrancato ma ancora chiuso al pubblico.

Della sontuosa villa, che lo stesso Atratino possedeva nei pressi, ci resta ancor meno: qualche arcata e monche opere murarie sparse per le pendici del colle che da lui ha preso il nome.

Il mausoleo ha un corpo cilindrico e ha un diametro di circa 24 m. Al grosso muro esterno fa seguito un ambulacro circolare in opera reticolata, coperta da volta anulare: e all'ambulacro succede un nucleo centrale, del diametro di 16 metri, in cui sono ricavate quattro celle disposte a croce con interspazi triangolari vuoti. Delle celle hanno pianta quadrilatera quelle che risultano a nord, ad est, e a sud: la quarta cella è a pianta ellittica. Nelle tre celle rettangolari le volte sono rispettivamente a tutto sesto (quella a est), e a botte a sesto scemo le altre due (Aurigemma -De Santis).

Una tomba così imponente poteva logicamente permettersela soltanto un uomo molto facoltoso. L.S. Atratino ebbe vita molto breve (73-20 a.C.). Illustre oratore, fu accusatore di Celio Rufo, il quale venne difeso da Cicerone. Per quattro anni, dal 38 al 34, fu al comando della flotta di Marco Antonio. Ebbe il consolato nel 30 e gli onori del trionfo nel 21. Ma, della rapida e brillante carriera non godette a lungo gli onori e le ricchezze. Per i mali che lo affliggevano, nel 20 a.C. si suicidò, lasciando per testamento tutti i suoi beni ad Augusto.home
 
 


VIA INDIPENDENZA




Via Indipendenza è la fascia zodiacale attraverso la quale sono passati gli astri del bene e del male del Borgo. Press'a poco il tracciato ricalca la via che, sin dai primi secoli dell'era cristiana, costeggiava le ville dei potenti di Roma, tra il Castro gaetano e Formia. a cominciare da quella di Antonino Pio, at piedi della collina di Montesecco, sino a Calegna e a Pizzone. Ne sono testimonianza le tracce di piscine, pozzi pubblici. acquedotti, fabbriche e scali marittimi.

Il primo nucleo demografico del Borgo si aggrappò, presumibilmente al principio del secolo nono, alle falde a mare dei colle Cappuccini, attorno a un rudimentale castello fortificato. Povere case di contadini e pescatori, che i saraceni distrussero nel l'842, compresa la chiesa intitolata ai SS. Cosma e Damiano. Scongiurata la paura di un ritorno degli invasori, i superstiti si diedero con rinnovata fiducia ad edificare il Borgo, mai supponendo che l'avvenire doveva riservare loro un doloroso primato di assedi e di saccheggi.

Ma dopo ogni devastazione, il Borgo ergeva di nuovo, faticosamente, le sue sudate mura, pietra su pietra: la campagna circostante, inaridita dai bivacchi della soldataglia, ritornava alle sue tradizionali, promettenti colture. Nonostante le ricorrenti falcidie dovute anche ad altre pubbliche calamità, il censimento del 1459 accertava 860 abitanti (172fuochi) che poi divennero 5190 nell 735 e 11435 nei 1881. E tanti ancora dovevano essere, o poco meno, a cagione dell'emigrazione all'estero, quando, nel 1897, il Borgo divenne comune autonomo col nome di Elena, per poi ricongiungersi nuovamente a Gaeta nel 1927.

Con l'ultimo assedio alla fortezza, quello del generale Cialdini dei 1860, s'era sperato d'aver chiuso per sempre la parti a col ferro e col fuoco. Invece, nel sacco del destino c'era ancora serbata la dinamite nazista per un 'ennesima distruzione.

Lunghissima, profonda, angusta, via Indipenza sarebbe tremendamente monotona se non la rendessero estrosa e imprevedibile i tagli trasversali dei vicoli svincoli a sorpresa degli angiporti, le avvolgenti salite a gradoni, le grigie arcate di sostegno, l'eclettismo architettonico, i balconcini traboccanti di gerani, i tabernacoli con afflitte madonne affrescate da ingenui pennelli androni ingombri di arnesi fuori uso. Spina dorsale di un agglomerato di case cresciuto in disordine, per successive superfetazioni e congiungimenti, rabberciature frettolose, e sproporzioni volumetriche: l'alloggio del figlio tirato sui muri di quello paterno, la soffitta da un'altana, il mezzanino da una scala esterna; un inestricabile palinsesto di suture, di dissonanze, di raccordi sbilenchi e di spericolati sostegni, di brusche interruzioni, di dettagli spesso antitetici.

Non saremo certamente noi a rimpiangere che all'edilizia del Borgo è mancata la mente organizzatrice di un architetto. A un ipotetico rapporto col bello preferì un rapporto col vero. Preferiamo cioè questo analfabetismo di capimastri, incapaci di concepire la propria opera al di là di una destinazione immediata e pratica, i quali con un ingenuo linguaggio di pietra e calcina, ci hanno inconsapevolmente tramandato un'avvincente saga di sacrifici e di speranze, l'immagine di una popolazione accomunata dalla miseria, dalla paura e dalla disperata volontà di sopravvivere. Si è incaricato il tempo, poi, armonizzare dialetticamente in un unico discorso sparsi, eterogenei nessi strutturali, facendone una palpitante metafora di stati d'animo, di faticose tappe dello spirito, di determinazioni umane e sociali. Ciò spiega anche perchè il passato, con i fantasmi lirici dei suoi messaggi, fa ancora aggio sul presente: per i segni inconfondibili della presenza degli avi, per quel non so che di ereditario e di famigliare, di imperituro e di nostalgico, E sempre si riscopre nell'universo degli antecedenti.

L'intonaco scorticato, che puntigliosi rifacimenti inutilmente si sforzano di ringiovanire o rendere uniforme, qua chiazzato di saInitro, là ulcerato da immemorabili trasudamenti interni; le crepe non medicate: le carie profonde dove poltrisce indisturbato lo stellione; le tumefazioni, i vuoti angiporti, le articolazioni anchilosate, i cornicioni sbreccati, gli alloggi abbandonati, le sequenze di finestre sconnesse, disperatamente tristi, che sarebbero piaciute a Utrillo, denunciano chiaramente gli acciacchi del Borgo. E tuttavia la vite centenaria, così frequente nei vichi, che si ostina a spingere la sua grama criniera di foglie sino al terrazzino del terzo piano, ci appare emblematica dl una struggente brama di esistere. Come, del resto, l'insegna dipinta alla buona da una mano inesperta, accanto alla scritta al neon; il picchiottolo di ferro sul portoncino col citofono; le facciate sovraccariche di originarie condutture idrauliche e di pletorici farraginosi grovigli di cavi elettrici, inconcepibili negli impianti odierni, attorno agli Isolati di maiolica e alle cassette dei contatori e del commutatori; l'imputridita grondaia di zinco, che non trova più ormai un artigiano che la sappia riparare, accanto alla vetrinetta di mode dagli infissi di alluminio anodizzato. Tale bonaria convivenza di vecchio e nuovo, di tradizione e di modernità, si è trasformata in una poetica magia.

Di mano in mano che dal Quartuccio ci si inoltra nel Borgo Vecchio, si fa sempre più manifesta anche nei rapporti umani la presenza del desueto e dell'anacronistico, la contraddizione di epoche diverse: la scopa di strame e l'aspirapolvere, l'immutabile senale scuro della nonna e l'audace gonna della ragazzina, gli asini dei pochi contadini superstiti e lo smagliante fornello elettrico, l'orciuolo di terracotta e il mobil bar, l'infuso di parietaria e la streptomicina, il mazzo di sorbe nel mezzanino e la confezione del supermarket nel frigorifero, il risparmio e il consumismo. Barbanera e Marcuse.

Via Indipendenza fa del suo meglio per adeguarsi ai tempi. Ma pur non negandosi alle novità, ha saputo conservare ben chiare e individuabili le sue originarie connotazioni proletarie. Come dire che s'è rifiutata di travestirsi, di cambiare pelle, rimanendo sempre fondamentalmente se stessa. C'è quasi un impegno non dichiarato del suoi abitanti a non farle perdere l'aureo la del pittoresco. I rifacimenti, difatti, non hanno mai la pronuncia della dissacrazione.

Scopri rivestimenti di maioliche preziosamente colorate a mano, come miniature d'un corale in pergamena; capricciosi riccioli in ferro battuto alle inferriate dei balconi; e certe stupefacenti bottegucce di bric-à-brac, con pendagli di stoccafisso, capicolli, candele, rigurgitanti delle cose più disparate: dal rotolo di spago alla boccetta di profumo e alla trappola per topi, dal reggiseno di nailon all'armonica a bocca, dalla penna a sfera alle trottole di legno e alle marionette della lontana infanzia.

Sino agli anni quaranta le donne di questo rione, lunghe ore in ginocchioni sulla soglia di granito, solevano battere col mazzuolo lo strame di cui poi facevano corde per l'esportazione. Dagli orti a mezza costa, ora invasi dal cemento, nelle sere di maggio, traboccava la fragranza nuziale delle zagare. E ancora oggi, in tempo di vendemmia, si vedono qua e là, fuori dagli usci, botti e bigonci da riparare; e domina l'odore di mosto e di carrube.

Le massaie hanno conservato l'usanza di far provviste di pomodori in conserva, di olive e acciughe in salamoia. Dagli strombi delle finestrelle pendono madreperlacee trecce d'aglio, grappoli di peperoncino, di un pungente diabolico rosso vivo, accanto al ferro di cavallo e al corno di bue contro il malocchio.

C'è, nella gente di Borgo Vecchio. una dimessa riservatezza di atteggiamenti, una compostezza antica. L Dagli avi, filatori di canapa e bozzellai, maestri d'ascia, segantini, calafati e velai, ha ereditato pazienza e abitudine la riflessione, senso dell' attesa e gusto del particolare.

Basse e anguste, le case; puntigliosamente rassettate, linde, ogni cosa al proprio posto, con una funzione precisa.

Ma i vecchi vi si muovono con un disagio che aumenta di giorno in giorno, quasi disorientati dal prepotente irrompere delle novità che, evidentemente, devono aver superato i limiti di quanto i loro occhi erano preparati a sopportare. Hanno perso l'alone patriarcale. Un mondo tutto programmato dagli altri, che non trova più il tempo di concentrarsi e di riflettere, di guardarsi dentro, non sa più che farsene della loro saggezza, dei loro proverbi. I ricordi, le esperienze di vita vissuta, i meravigliosi racconti tenuti lungamente in serbo per i nipotini, non costituiscono più un'attrazione, un patrimonio da trasmettere, da lasciare in eredità. Sono diventati un'ingombrante archeologia. Indubbiamente lo sviluppo dell'assistenza sociale contribuisce a lenire gli acciacchi e a rendere meno acuti i loro bisogni, ma ha anche comportato un affievolimento della diretta e immediata partecipazione umana, per cui essi si sentono più soli d'un tempo.

Il sapersi impotenti e inutili nello scontro tra le due diverse concezioni di vita, in un'incerta epoca di confine, come la nostra, tra riti e aspirazioni che stanno per scomparire e altri che si affermano, aggrava la segreta corrosione della loro anima e vi addensa le ombre dell'imminente inevitabile fine. Via Indipendenza rimane comunque lo sfondo più appropriato alla loro presenza.

Gli aspetti più caratteristici di Via Indipendenza si riesce a coglierli meglio nelle giornate d'inverno. E allora che la sua semiotica è più pregnante. La gente, chiusa nelle sue mura, consuma le lente ore di pioggia ad ascoltare le proprie voci, a ricordare parenti e amici disseminati un pò in tutto il mondo dalla diaspora dell'emigrazione, a riflettere sui trapassi stagionali ed a sognare il ritorno della primavera, che consentirà una più vivace vita collettiva. Ma all'aperto, con una intensa ed esaltante partecipazione della luce.

In molti bassi ci si scalda ancora col braciere. E a tratti ti sorprende un caldo profumo di zuppa di fagioli: cotti ancora ritualmente fuoco lento, nella pignatta di terracotta, con la cotica di maiale e un pizzico di peperoncino. Le vecchie intonano interminabili litanie. I pochi pescatori s'aggruppano a chiacchierare negli angiporti. Di notte, in certi slarghi, tra le quinte di certi vicoli ciechi, si creano atmosfere da serenata o da appostamenti malandrini.

Ad ogni anno che passa Via Indipendenza trova sempre più difficile cavarsela con disinvoltura dall'incalzare della modernità. Il suo è un placido, patetico tramonto. Ma, finchè dura, essa sarà per sempre, per chi sappia guardarla, una miniera di affascinanti testimonianze folcloristiche ed antropologiche.home
 
 
 
 

Chiese notevoli CHIESA DI S. LUCIA

Chiusa al culto per le deplorevoli condizioni di deterioramento, è tra le più antiche chiese di Gaeta. Probabilmente costruita tra l'ottavo e il nono secolo, la sua struttura venne a più riprese modificata. Rispetto a quella attuale. era originariamente di dimensioni più limitate, consistendo di una sola navata. Verso la fine dell'XI secolo fu intitolata a S. Maria in Pensulis, ampliata con l'aggiunta di un'abside semicircolare e dotata di un campanile a forma quadrata di stile arabo, mediato da maestranze amalfitane. Il campanile reca monofore e bifore ad archi tondi di mattoni poggianti su colonne di marmo e cornici di laterizi a spina di pesce.

Una terza fase di sostanziale ristrutturazione si ebbe verso la meta del Duecento, con l'ampliamento in tre navate, divise da colonne senza base, che reggono archi a tutto sesto. La copertura è con volte a crociera di gusto bizantino, intervallate da archi trasversali.

Tracce di stile rinascimentale e barocco dovute a posteriori rifacimenti hanno lasciato pressochè inalterate le caratteristiche fondamentali dell'architettura medioevale.

Abbastanza ben conservati risultano i due portali. Quello sulla facciata è sormontato da una lunetta ad arco acuto; quello laterale, di maggior interesse artistico, pre-senta un arco tondo sostenuto da colonnine su cui poggiano due ordini di mensole sovrapposte.

Nell'interno sono visibili resti del primitivo artistico pavimento a mosaico, di stile cosmatesco. a smalto e oro, frammenti dell'ambone. le volte a crociera di sesto basso. sbiaditi affreschi cinquecenteschi.

Il trittico su fondo oro del 1456, pregevole lavoro di Giovanni da Gaeta, che era collocato sull'altar maggiore, è stato restaurato alcuni anni orsono e si trova nel museo diocesano.

Un'azione di restauro, sebbene lenta e rarefatta negli interventi, lascia ancora sperare della conservazione del manufatto, così necessaria per inquadrare un settore di peculiare interesse nel tessuto urbanistico del quartiere storico.
 
 




S. GIOVANNI A MARE




Detta anche di S. Giuseppe, dalla confraternita dei falegnami che un tempo ospitava. Ci mancano notizie attendibili della sua fondazione, che l'ipotesi più accreditata fa risalire alla fine del sec. X, durante il ducato di Giovanni IV.
 
 

È un'interessante costruzione romanica, con tre navate ripartite da otto colonne di stile diverso, provenienti da ruderi di templi romani della zona. La cupola centrale poggia su quattro archi. Le finestrelle del tamburo e alcune monofore sul muro del braccio trasversale, danno luce alla navata maggiore.
 
 

Dal punto di vista architettonico si può considerare un felice compromesso tra pianta basilicale e pianta a croce greca. Gli archi su cui insiste il tamburo sono acuti; mentre, quelli delle tre absidi, sono a tutto sesto. Ma il gusto predominante è decisamente bizantino.
 
 

Il presbiterio, di cui rimangono brandelli di rivestimenti a mosaico, è di due gradini più alto del pavimento, che risulta in lieve pendenza verso l'ingresso, probabilmente per consentire il deflusso dell'acqua da cui veniva sommerso durante l'alta marea. La chiesa: difatti, sorgeva fuori la cinta di mura, in riva al mare.
 
 

Degni di nota il paliotto dell'altare, ricavato da un sarcofago romano, e frammenti di affreschi del Trecento.
 
 

La facciata non presenta particolare valore artistico. Ma l'assieme dell'esterno, caratterizzato dalle volte a botte extradossate, pone in bella evidenza la struttura cruciforme interna.
 
 

Il tamburo della cupola reca caratteristiche decorazioni a intarsio di tufo bicolore.
 
 



S. CATERINA




Quasi a picco sul mare, nell'estrema parte orientale del promontorio. Non si hanno documenti che ci permettano di stabilire la data di edificazione, che alcuni storici collocano ragionevolmente nel sec. XIII.
 
 

Di scarsa rilevanza architettonica, ha una sola navata con quattro crociere e un'abside rettangolare. Deve la importanza all'omonimo annesso convento di benedettine "le cui signore moniche provenivano dalle famiglie nobili e facoltose della città." Il monastero godeva di considerevoli rendite e di altre protezioni. Ricca doveva essere la suppellettile di cui disponeva.
 
 

Venne ricostruita da Ferdinando Il nel 1842. Le testimonianze del suo primitivo impianto sono molto scarse. Possedeva pregevoli dipinti di L. Stanziani, G. Salomone, M. De Napoli, T. De Vivo, G. Forte ecc.
 
 




S. DOMENICO




Di stile gotico, restaurata. L'annesso convento venne fatto demolire da Alfonso d'Aragona, al fine di ampliare il castello angioino. Del complesso originario rimane soltanto la torre campanaria quadrata, con una bifora ad a tondi su ciascun lato.
 
 

L'interno è imponente, a due navate: una molto elevata, a cinque campate insistenti su eleganti colonne: l'altra più bassa e stretta, con volta affrescata.
 
 

In fondo all'abside rettangolare campeggia un trionfale sostenuto da pilastri. Sei alte monofore ne illuminano l'interno.
 
 

Le numerose opere d'arte e i ricchi arredi di cui era dotata, sono andati distrutti o dispersi nel corso di operazioni di guerra e saccheggi.
 
 

Vi si possono tuttavia ammirare alcuni affreschi, venuti alla luce nel corso dei restauri, e interessanti tele di Giacinto Brandi, di Francesco Curia e di ignoti del Seicento.
 
 
 
 

SS. ANNUNZIATA
 
 

Dotata di un complesso ospedaliero per l'assistenza agli infermi e alle fanciulle abbandonate, venne costruita e mantenuta da elargizioni di famiglie facoltose gaetane e dal "quartuccio (vendita della quarta parte del pesce pescato nella rada).
 
 

La costruzione originaria, senza pregi artistici di rilievo, aveva l'ingresso sull'attuale via Annunziata, di cui rimane il portale ogivale che reca sull'architrave un'iscrizione con la data della fondazione (1321). L'affresco della lunetta sovrastante è di epoca posteriore.
 
 

Dopo essere stata parzialmente demolita per volere di Carlo V, al fine di consentire l'erezione di una poderosa opera di fortificazioni fu, successivamente, ristrutturata e ampliata.
 
 

Infine, nel 1621, fu consolidata, restaurata e abbellita di insigni opere d'arte. Vi si possono ammirare il magnifico coro di legno intagliato, una Annunciazione attribuita al Ghirlandaio, opere di G.F. Criscuolo, Pulzone, L. Giordano, G. Brandi e S. Conca.
 
 

L'edificio, i fregi, le suppellettili e le decorazioni, sono di stile barocco, esteticamente molto pregevole, realizzato da più di un architetto in epoche diverse: Andrea Lazzari, autore della facciata; Dionisio Lazzari, dell'altare della cappellina del Santissimo; e Giacomo Lazzari. La sovrastruttura della facciata, di stile diverso, recante il quadrante dell'orologio e la celletta delle due campane. è opera di Matteo D Vivo. Imponente è l'organo (oltre cento canne), fir-mato da Martino Marenna nel 1760.
 
 

SORRESCA

Prese il nome da sorra, perchè edificata (1513) sull terreno precedentemente occupato da un deposito di salumi di ventresca di tonno, di proprietà di Luigi Albito, del quale reca lo stemma gentilizio ai lati dell'altare maggiore. Scarso valore artistico, ha forma ottagonale e reca una cupola centrale. Vi si possono ammirare le opere di S. Conca e di Paolo De Matteis.
 
 

S. FRANCESCO
 
 

Di imitazione gotica, fu costruita su disegno di Giacomo Guarinelli, rinomato ufficiale del genio dell'esercito napoletano. Sul portale di travertino si trovano le statue marmoree di Ferdinando lI (a destra) e Carlo d'Angiò (a sinistra). Scrisse il Panzini:" di marmo sono le fondamenta, i pinnacoli fatiscenti sono di gesso, come la dinastia dei Borboni".
 
 

Interno a croce latina, tre navate. Costruzione di mole imponente ornata di statue e stucchi; ma priva di originalità architettoniche. Negli ultimi anni, la facciata, la magniloquente scalea di marmo e i colonnati interni, prestandosi a meraviglia a fastose inquadrature in technicolor, sono diventati lo sfondo irrinunciabile delle holliwoodiane foto nuziali dei nuovi arricchiti di Gaeta e dintorni.
 
 

La chiesa con la sua monumentalità, attesta, nello stile ripetitivo del gotico oltramontano voluto da re Ferdinando Il, il ricordo di un'epoca di raccolta spiritualità nella quale S. Francesco fu presente in Gaeta, riparato in semplice romitaggio, sul quale sorsero altre costruzioni religiose.
 
 

DEGLI SCALZI

Sorge sulla sommita di un'amplissima scalea a gradoni di granito, detta salita degli Scalzi, unico slargo tra i vichi a monte di via Indipendenza. Una chiesa dimessa, dalla facciata elementarmente piatta, il tetto aggobbito di vecchie tegole corrose dal lichene, una logora e tozza torre campanaria, compiacente rifugio di superstiti barbagianni della zona.

Non metterebbe conto parlarne se le tribolate memorie borghigiane non ce la restituissero insignita dalla funzione sociale che ebbe originariamente, dal senso di spazio, di ariosità e di pubblica comodità che a lungo offrì ai poveri abitanti del rione. La speculazione edilizia ha cancellato gli orti e i costeti che la circondavano, prevalentemente coltivati ad agrumi, mandorli, carrubi, melograni. Sino a pochi anni fa sul sagrato i contadini battevano e ventilavano il grano, le massaie mettevano a seccare sui graticci fichi, melanzane, creme di pomodori.

Il suo "emplacement" aveva un pò la funzione di parco pubblico e i ragazzi vi potevano giocare liberamente, al riparo dal traffico e dal polverone, mescolando i loro schiamazzi a quelli delle rondini. I nostri emigranti si portavano impressa nell'anima la visione promozionale del suo artistico orologio, il più antico del borgo, del pretenzioso quadrante di maioliche azzurre, d'un azzurro araldico, e bianche, stupefacentemente fresche e vive.

Venne edificata nel 1624, sulla proprietà di tal Francesco Santilli che la concesse ai padri dì S. Agostino degli Scalzi, in cambio di una messa la settimana, celebrata in perpetuo a suffragio della sua anima. L'annesso monastero fu soppresso con legge francese del 18O9.

Assunse in seguito il ruolo di succursale della parrocchia dei SS. Cosma e Damiano; e nel 1944 divenne sede parrocchiale.

Delle strutture originarie non rimangono che pochi, irrilevanti avanzi: un frammento del muro di cinta, un pozzo d'acqua sorgiva. Discretamente conservata, invece, la chiesa, che limitava il chiostro dal lato settentrionale, con l'annesso cimitero a ridosso.

La pianta s'ispira alla concezione della chiesa come luogo di assemblea dei fedeli, così com'è stata definita dal Concilio di Trento. Difatti è costituita da un'unica navata con quattro cappellette laterali, dalle quali si ha soltanto una vista parziale dell'altar maggiore. L'edificto è di un semplice gusto tardo barocco napoletano e reca in tutto il suo corpo numerose cornici in stucco.

Il soffitto si presenta con quadrati arieggianti lo stile a cassettoni. Di pregevole fattura i tre rosoni presenti nell'arco trionfale che separa la navata dalla parte dell'altar maggiore. Questo risulta riccamente decorato di marmi policromi intarsiati. Lateralmente reca due volute con testa di cherubino.

L'oratorio ha una volta a botte lunettata, con cornici in stucco ispirate a motivi marini e floreali. Le tele collocate nei riquadri, rappresentanti episodi di storia sacra e di vite di santi, sono tutte più o meno in cattivo stato di conservazione, tale da non consentire un precise giudizio estetico. La loro esecuzione si può tuttavia chiaramente collocare nella seconda metà del sec. XVIII.

Non rimane traccia della farmacia che i frati agostiniani vi gestivano per il pubblico.

Alcuni dati d'archivio, raccolti dal prof. A. De Santis, ci mettono in grado di farci un'idea della consistenza demografica che ebbe un tempo la parrocchia. Dallo stato delle anime compilato dal parroco Erasmo Cicconardi nel 1724, apprendiamo che essa contava allora 2159 abitanti, ineccepibilmente ossequienti ai precetti della religione, tranne un pubblico concubinario, un bestemmiatore di santi e due famiglie "infami" (di donne). I vecchi da 71 a 78 anni erano 17; 5 quelli da 82 a 86; uno di 92 anni. Le case erano 405, delle quali 146 in affitto.

Nel 1736 la popolazione (tra cui 357 maschi e 336 femmine dai 12 anni in giù) s'era complessivamente accresciuta di 98 unità.
 
 

I padri degli Scalzi erano 12, esattamente quanti ne contava anche il vicino convento dei Cappuccini. Vi erano inoltre nella parrocchia 23 ecclesiastici: 16 sacerdoti col parroco, un diacono e 6 chierici. Praticamente la proporzione di un religioso su meno di 50 abitanti.
 
 
 
 
 
 

IL MUSEO DIOCESANO
 
 
 
 

L'accesso è dalla porta a sinistra della facciata del duomo.
 
 

Vi sono.custoditi cippi romani, numerose sculture, epigrafi su marmo, lastre tombali del XIII sec. Di grande pregio alcuni leoni stilofori del XIII sec., un gruppo marmoreo portaleggìo ("Uomo con serpente"), una "S. Scolastica" in stile gotico.
 
 

Destano meraviglia alcuni Exultet in rotuli membranacei dei sec. X, XI, XII, in cui sono raffigurati riti religiosi e scene della vita di Cristo. Le illustrazioni recano didascalie in scrittura beneventana. Gli Exultet costituiscono un mirabile esempio della produzione benedettina dell'epoca.
 
 

Oltre a tre pregevoli affreschi della scuola di Giotto, il museo possiede tele di noti pittori. quali Giovanni da Gaeta (sec. XV). Riccardo Quartararo (sec. XV), Quentin Massys (sec. XV). Luis De Morales (sec. XVI). Fabrizio Santafede (sec. XVII), Scipione Pulzone (sec. XVI). Carlo Saraceni, Andrea Vaccaro, Agostino Beltramo. Domenico e Antonio Vaccaro e Sebastiano Conca.
 
 

Tra gli oggetti esposti in due grandi bacheche: alcuni piattelli in ceramica locale del XIV secolo; un testo della Gerusalemme Liberata" con immagini litografate del 1600; un foglio di carta (cm. 80 x 25) in cui sono trascritti tutti i versi delle tre cantiche della Divina Commedia in microcalligrafia; due quadretti di rame dipinti da Sebastiano Conca; una pergamena con scrittura gotico-beneventana del sec. X; alcuni libri corali in pergamena. con il canto gre-goriano e miniature; una copia di incunabolo del 1488, "Dyalogo di sancto Gregorio papa". impresso dalla prima stamperia di Gaeta.
 
 

L'ARCHIVIO CAPITOLARE
 
 
 
 
 
 

Recentemente sistemato, contiene un vasto repertorio di documenti inediti, di notevole interesse paleografico che consentono allo studioso di penetrare nelle minute vicende storiche del basso Lazio dal X al XX secolo: 618 pergamene, numerosi atti notarili e manoscritti vari. Vi sono custoditi, inoltre, 27 corali, tutti in discreto stato di con vazione. di mano del frate Pontano da Fondi, con miniature di pregevole fattura. I pesanti volumi hanno la copertina originale in legno ricoperto di cuoio, il dorso in pelle di coccodrillo, fregi di bronzo nei bordi e nel centro. home
 
 

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Pittori gaetani celebri
 
 

GIOVAN FILIPPO CRISCUOLO

Nato a Gaeta da un tal Giovan Pietro Paolo di Cosenza, nel 1495 circa. Morto intorno al 1570. A Roma fu scolaro Perin del Vaga: e poi, a Napoli. di Andrea da Salerno. Lavorò molto a Napoli insieme al fratello Giovan Angelo.

Di lui si conservano a Gaeta le seguenti opere:

1) Storie di Cristo e della Vergine. Ciclo di figurazioni sulle pareti della cappella d'or dell'Annunziata. Si sa che fu ultimato nel 1531. Non tutte le tavole sono tuttavia da attribuirsi al Criscuolo. 2) Polittico con icona bizantina. Trittico del 1535. Presso la Galleria Permanente del Centro Storico Culturale - Palazzo De Vio. 3) Polittico maggiore. Monumentale pala d'altare. Nel presbiterio della chiesa dell'Annunziata. Misura m. 4 x 9. home
 
 

GIOVANNI DA GAETA

Di lui sappiamo molto poco. Si formò a Napoli sottO l'influsso di Leonardo da Besozzo e della pittura tardogotIca spagnola. Recentemente ne ha illustrato l'opera F. ZerI

Di lui Gaeta conservano le seguenti opere:

1) Trittico di S. Lucia. Sino a qualche decennio fa erroneamente attribuito Beato Angelico. Dipinto nel 1456. Proveniente dalla chles di S. Maria in Pensulis. ora nel Museo Diocesano. Misura cm. 185x175. 2) Crocefisso. Proveniente dalla chiesa di S. Maria in Pensulis. Misura cm. 270 x 165. Nel Museo Diocesano. 3) Madonna delle itrie. Nel Museo Diocesano. Lunetta di legno della misura c cm. 123x150. home
 
 

SCIPIONE PULZONE
 
 

Nato a Gaeta prima del 1550, morto a Roma il 1° feb-braio del 1598.
 
 

Ebbe come maestro il pittore Jocopino del Conte, il quale era in diretto rapporto con S. Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. In arte, fu prevalentemente influenzato da Girolamo Siciolante da Sermoneta, del quale tuttavia non seguì pedissequamente il classicismo d'impostazione michelangiolesca. Unitamente al Sermoneta viene annoverato tra i più zelanti interpreti nell'arte figurativa dello spirito della Controriforma. Il Concilio di Trento, tra l'altro, aveva vietato (1563) tutte le lascivie di una sfacciata bellezza dalle sacre figure.. consigliando gli artisti di porre l'accento sull'essenza spirituale della divinita.'..
 
 

La pittura del Pulzone è caratterizzata dalla ricerca autonoma dì un bello ideale e da un'imitazione della realtà accuratamente minuziosa e di un sapore naturalistico. La sua tavolozza seppe trarre una ricca tastiera di effetti dalla microscopica riproduzione dei dettagli dei tratti fisionomici, dell'abbigliamento e degli ornamenti del modello. Da qui il suo enorme successo nella ritrattistica, genere in cui fornì il meglio della propria arte. La sua rinomanza, superiore ai meriti intrinseci, è difatti dovuta alla numerosa galleria di ritratti dei personaggi più in vista ed esigenti dèll'alta società blasonata e porporata della Roma del suo tempo.
 
 

Divenuto l'iconografo di moda, "Facevasi ben pagare le sue opere e con grande reputazione tenevale... E da credere che i successi mondani facilitassero quelli dell'artista. G. Baglione ce lo descrive "di sembianze di principe.. e dotato di non comune cultura. Ebbe anche talento per la poesia e compose versi petrarcheschi.
 
 

La sua fama varcò presto i confini della Santa Sede e gli valse la richiesta di prestigiose prestazioni iconografiche da parte di don Giovanni d'Austria e di Ferdinando dei Medici.

Pulzone era molto affezionato alla città natale, ci soggiornava spesso. Numerose sue tele sono firmate Scipio Cajetanus...
 
 

Opere del Pulzone esistenti a Gaeta:
 
 

1) Ritratto del cardinale Alessandrino.
 
 

Dipinto nel 1573, settimo anno del pontificato di PioV di cui il cardinale era nipote. Misure: cin. 139x 109. Museo Diocesano.
 
 

2) Immacolata.
 
 

Tipica della concezione pittorica controriformistica Pulzone. Misure: cm. 160x 122. Sull'altare della cappella d'oro della chiesa dell'Annunziata. home
 
 
 
 
 
 

SEBASTIANO CONCA
 
 
 
 

Di lontana origine spagnuola, nacque a Gaeta, in data non certa: nel 1676, secondo alcuni studiosi; nel 1679 o 1680, secondo altri.
 
 

Dopo i primi studi sotto la guida d'uno zio sacerdote il padre, che era un facoltoso commerciante e appaltatore delle imposte, volle assecondarne le attitudini alle arti figurative inviandolo a Napoli, ove seguì la scuola del Solimena.
 
 

Cominciò a dipingere autonomamente a 18 anni, affermandosi come seguace della scuola dell'abate Ciccio.
 
 

Trasferitosi a Roma, con la protezione del cardinale Ottoboni, il quale tra l'altro lo presentò anche al papa Clemente XI. Potè aprire una scuola in una sala di palazzo Farnese e ricevere commissioni di importanti lavori per le basiliche di S. Clemente e di S. Giovanni in Laterano.
 
 

Il suo spigliato colorismo gradevolmente barocco conquistò presto molte simpatie. Lavorò per conto di Filippo V, dell'elettore di Colonia, della corte di Polonia, principe Borghese, del cardinale Ruffo e di Carlo III. A Roma, dove subì l'influenza classicistica del Maratta, rimanendo tuttavia sempre legato a canoni prevalentemente accademici, dipinse il quadro da tutti ritenuto il suo capolavoro: "L'Assunta con S. Sebastiano". Fece parte dell'accademia di S. Luca, di cui Il 1763 divenne primo accademico.
 
 

Oberato dagli impegni di lavoro tornava di rado a Gaeta, sebbene vi possedesse una casa e una villa e fosse mol-to affezionato alla parentela, specie ai nipoti. G. Gattola ce lo descrive "di grande e bella figura. di casti e morigerati costumi. di nobili maniere".
 
 

Mori celibe nel 1764, nella città natia. dove da poco s'era ritirato. Fu tumulato nell'antico tempio di S. Francesco.
 
 

Le sue opere esistenti in città sono:
 
 

1) Vergine del Rosario. Nella chiesa omonima (Via Aragonese). Donata nel 1737 alla confraternita del Rosario dall'autore, che ne ricevette in omaggio 100 ducati e l'iscrizione gratuita alla congrega. Collocata originariamente nella chiesa di S. Domenico, venne traslocata nel 1808 in seguito alla soppressione del convento. 2) Madonna del Carmine. Tela recentemente restaurata. Nella prima cappella a mano sinistra della Cattedrale. 3) Crocefissione. Bozzetto su rame. Nel Museo Diocesano della Cattedrale. 4) Madonna con le anime del purgatorio. Già in una cappella del cimitero. Nel Museo Diocesano dopo un recente restauro. 5) Madonna col Bambino e i santi Agostino e Monica. Appartenente alla distrutta chiesa di S. Biagio. Ora nel Museo Diocesano. Misure: cm. 320x 182.
 
  6) Nascita della Vergine. Nella chiesa degli Ulivi.
 
  7) Adorazione dei magi e presentazione al tempio. Due tele (ciascuna di m. 4 x 3), di grande valore artistico. importanti esemplari dello stile del Conca, tra il classicismo del Maratta e il barocco. Sulle pareti laterali della chiesa della SS. Annunziata. 8) SS. Erasmo e Marciano. Già nella sala consiliare del municipio della città, ora presso la Galleria Permanente, Palazzo De Vio. home

ALTRI LUOGHI DA VISITARE
 
 

Grotta delle marmotte

Sita in località S. Agostino. Vi sono stati rinvenuti armi ed utensili dell'età della pietra.
 
 

Pozzo del diavolo

Profondo 60 m., in comunicazione col mare. Raggiungibile in barca o a nuoto, trovasi a circa 300 metri a ponente della spiaggetta di Fontania. Detto anche pozzo delle chiavi a ricordare un'antica leggenda.
 
 

Spiaggetta di Fontania

Molto raccolta e suggestiva. Vi si trovano ruderi di grotte romane, avanzi di una sontuosa villa, appartenuta al console Gneo Fonteio o a Fonteio Capitone, pretore Formia. Intorno all'arenile esistono grotte con volte a botte e rivestimento di reticolato calcareo. Sei basamenti di piloni, allineati nella piccola insenatura parallelamente alla battigia, sono evidenti resti di un'ampia piscina. Tra murature sotto la sabbia e prolungatesi nel mare, avanzi di scalee. di vasche e di portici, fanno pensare all'esistenza di un'imponente villa romana nella zona sovrastahte, collegata probabilmente con lo scoglio detto "La nave di Serapo"
 
 

Grotta oscura o degli arenali

È costituita da una serie di antri con volte cope stalattiti. Si trova nei pressi del colle Atratina.
 
 

Grotte di Conca

In località omonima, presso la cava di pietre. Di grande interesse speleologico. Sono ricche di stalattiti e stalagmiti, alcune delle quali della lunghezza di 3 metri.
 
 

Ville romane

Importanti ruderi di ville romane si trovano anch la spiaggia di S. Vito, a Serapo. e lungo il litorale.

Notevole, tra le altre, la villa dell'imperatrice Faustina alle pendici di monte Orlando.

Mura ciclopiche

Importanti resti di costruzioni ciclopiche si trovano in località Pontone, Conca. Zennone. Casalarga. S. Agostino. Atratina home
 
 
 
 

LE MONETE DI GAETA (Da M. Basile)
 
 

I primi follari gaetani furono coniati sotto Marino Il, console e duca della città dal 978 al 984. Essi sono molto rozzi, di rame e del peso da 2 a 4 gr. circa, portano al diritto una grossa M al centro e intorno la scritta A CON ET DVX (Marinus Consul et Dvx) e al rovescio il busto di S. Erasmo. Di questi follari di Marino Il il Ferraro ne riporta ben 18 varietà.
 
 

I follari servivano ai gaetani per i loro commerci interni. Per quanto riguardava l'esterno essi si servivano di monete d'oro e d'argento coniate a Roma. Bisanzio, Benevento e Amalfi. A differenza di Amalfi e Benevento, Gaeta non coniò mai monete d'oro, nè d'argento almeno per tutto il periodo della sua autonomia e della dominazione dei re normanni e svevi.
 
 

Al follari dl Marino Il seguono altri di Marino Il e Giovanni III, padre e figlio. accomunati rtel governo della città. Portano al diritto + MARINO CONS ET DVX e al rovescio + IOHNES CONS ET DVX. Abbiamo poi i follari di Giovanni IV (991-1012). Sono dunque tre i duchi della cosiddetta "dinastia indigena" di cui si conoscono le monete. Gli altri follari furono coniati da Riccardo I principe di Capua e du-ca dl Gaeta (1063-1078). Sono quasi tutti eguali e portano al diritto la scritta RIC CONS ET DVX (Rìccardus Consul et Dvx), mentre si differenziano al rovescio dal fatto che dopo GAETA, o GAIETA, oGAGETA,oAGETA, i follari di Riccardo il portano due sbarrette e quelli di Riccardo III ne portano tre.
 
 

Tra di essi si inserisce Guglielmo di Biosseville, che appare sulla scena gaetana nel 1103, anno in cui lo troviamo duca della città al suo primo anno di governo (0) e scompare appena due anni dopo. nel 1105, espulso da Riccardo II dell'Aquila.
 
 

Di lui, come del resto di numerosi consoli e duchi della città di Gaeta. non si sono trovate finora monete. Il Blossenville però si preoccupò che il suo nome apparisse comunque sui follari allora in circolazione nel ducato e che erano quelli di Riccardo I e fece incidere su di essi le due lettere V (Dvx Vilelmus), facendo continuare quest'operazione anche dopo la sua cacciata da Gaeta sui follari del suo vittorioso rivale Riccardo Il dell'Aquila. Di questi follari e marcati se ne conoscono 5 varianti riportate dal Ferraro e dal Fusco.
 
 

Con Riccardo III Caleno terminano i follari del periodo autonomo del ducato gaetano. Gaeta continuò però a coniare follari per conto dei re normanni: Ruggiero 1154, GuglielmoI(1154-1166), Guglielmo Il (1166-1189) e infine per il re Tancredi (1189-1194). Questi follari portano al diritto il nome del re e al rovescio la scritta CIVITAS GAIETA tutt'intorno e al centro un castello. La coniatura continuò ancora con i re svevi e cioè Enrico VI e Costanza (doppi follari)(1191-1198) e infine Federico Il (1198-1212)
 
 

Dobbiamo porre accanto a questi follari quelli detti comunali, o autonomi, o civici, la cui coniazione cominciò torno all'inizio della seconda metà del secolo XI e che in alcuni casi, si affiancano a quelli del duca o console in carica.
 
 

Altre monete furono coniate a Gaeta successivante. Dobbiamo ricordare il denario d'argento coniato per del pontefice Gregorio IX intorno all 230, di cui però non ci sono arrivati esemplari. e l'alfonsino coniato per conto di Alfonso I d'Aragona (1436-1458), del valore di un  mezzo (ducatone).
 
 

Come abbiamo visto si conoscono decine di varietà follari attribuiti ai vari duchi o consoli della città di Gaeta e ai re normanni e svevi. Il Ferraro ce ne descrive circa sessanta varietà. Non è improbabile però che altri follari possano venir fuori di altri duchi gaetani. Troppi sono quelli di cui non si conoscono monete.

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