PARCO DI MONTE ORLANDO

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  • CARATTERISTICHE GEOLOGICHE E GEOMORFOLOGICHE
  • Il promontorio di Monte Orlando (171 m) rappresenta il "prolungamento" verso il mare del sistema montuoso degli Aurunci, e come tale risulta costituito quasi esclusivamente da calcari meso-cenozoici (190-25 M.A.). Più in particolare, si osserva una successione di quasi 200 m, ben stratificata, immergente verso il quadrante nordoccidentale, di calcari micritici (ricchi di fango) e granulari biancastri e nocciola. In essi sono presenti diversi fossili quali: foraminiferi bentonici, alghe calcaree (Dasycladacee) e rudiste (Hippuritidae e Radiolitidae). Questi ultimi di dimensioni centimetriche costituiscono addirittura due banchi con individui nella loro posizione di crescita localizzati alla base (falesia occidentale) e alla sommità della successione (Torre di Orlando); nel primo banco compaiono tra l'altro orga-nismi di scogliera, come i coralli.

    Tali caratteri litologici e paleontologici si sono sviluppati durante il Cretaceo superiore (circa 85-90 M.A.) in un ambiente di piattaforma carbonatica, ovvero in un bassofondo marino con idrodinamismo medio basso, oscillante da un'area lagunare ad una supratidale. Il banco inferiore con le rudiste in posizione di vita, invece, individua un subambiente (subtidale) con idrodinamismo più accentuato, ovvero a zone marginali nell'ambito della piattaforma.

    Nelle aree occidentali dell'area parco ad una quota compresa tra 50 e 100 m, così come a quota ancora più elevata a circondare la cima di Monte Orlando si rinvengono sui calcari livelli di sabbie fini di colore rossastro con spessori variabili da pochi a qualche decina di centimetri. Il costituente dominante di queste sabbie è dato dal quarzo, che si presenta ad un'analisi morfoscopica sia in granuli arrotondati con superfici smerigliate e ricoperte da una patina di pigmento rosso giallastro, sia in granuli più fini a spigoli vivi o leggermente smussati e generalmente sprovvisti della patina dei primi. Subordinatamente si trovano minerali vulcanici (pirosseni, magnetite, granati e miche) ed argillosi (illite e caolinite). Questi depositi di origine eolica sono riferibili ai sistemi dunari di età tardopleistocenica ("duna rossa antica"). Sono riconoscibili i contributi vulcanici provenienti dall'attività del Roccamonfina (0.64-0.05 M.A.), nonché i residui insolubili derivanti dalla dissoluzione delle rocce calcaree.

    A luoghi nell'area parco sono stati rilevati sempre sui calcari diversi lembi di brecce di versante costituiti da elementi eterometrici calcarei immersi in una matrice argillosa rossastra fortemente saldante. La loro posizione mostra allineamenti con immersioni di pochi gradi secondo il pendio e alcuni di questi lembi proseguono sott'acqua come può essere rilevato anche da immersioni su-bacquee lungo la falesia sudorientale. Probabilmente questi ultimi sono correlabili con quelli osservabili verso nord lungo il litorale pontino, e interpretati come "lembi di breccia wurmiana sospesi sulla costa", mentre altri (bordo nordoccidentale del parco) potrebbero essere più antichi e da assimilare a quelli che si trovano nella zona di S.Agostino al di sotto delle sabbie quarzoso-rossatre.

    Per quanto riguarda la struttura del promontorio di Monte Orlando essa è delimitata ad ovest e a sud da faglie, ovvero fratture della roccia con movimento relativo delle due parti a contatto, evidenziabili anche dall'andamento delle batimetriche. Inoltre, l'estremità sudoccidentale si frantuma per la presenza di tre faglie con movimento delle parti (rigetto) limitato, lungo le quali in maggior misura si è esplicata l'erosione marina, come dimostra la cavità detta Grotta del Turco sviluppatasi intorno ad una di queste. Tali fenditure, da cui il nome di Montagna Spaccata, sono piuttosto note, in quanto la tradizione popolare vuole che, piuttosto che a causa di fenomeni geologici siano state originate in seguito ad un terremoto avvenuto nello stesso istante della morte di Cristo; in realtà sono da ascrivere a movimenti tardo pleistocenici (<0.12 M.A.).

    Il paesaggio costiero, in cui si inserisce il Parco di M.Orlando, mostra un motivo caratteristico: l'alternarsi di spiagge sabbiose (da nordovest a sud~est S.Agostino, Arenauta, Ariana e Serapo) dalla linea debolmente falcata, e a volte quasi diritta, con promontori, o comunque tratti di costa alta e rocciosa, come il promontorio di Monte Orlando. Molto probabilmente, tale configurazione costie-ra è ereditata dalle ultime vicende geologiche subite; ad esempio, le insenature, su cui si trovano le spiaggie principali, coincidono per lo più con antiche faglie antiappenniniche di importanza regionale.

    L'agente "modificatore" dei litorali, invece, a medio e breve termine è rap-presentato dal mare, che esplica, per opera soprattutto del moto ondoso, effetti prevalenti distruttivi. Si ricorda che la frequenza delle mareggiate in questo tratto costiero è compreso nel settore da sudest a ovest, e può raggiungere il valore di 7 nella scala Beaufort. L'erosione meccanica è notevole e particolarmente efficace lungo le coste alte e rocciose, non solo per le caratteristiche fisiche (calcari ben stratificati e notevolmente fratturati), ma anche per la loro particolare esposizione ai flutti e per l'andamento delle batimetriche. Quest'ultime tendono ad avvicinar-si in prossimità dei promontori ed allontanarsi in corrispondenza delle insenatu-re. Tale conformazione facilita la forte energia marina esplicata, e quindi l'abra-sione delle coste, che non si è verificata sempre al livello del mare attuale. Infatti, durante gli ultimi due milioni di anni il livello è variato innumerevoli volte come può essere letto nelle diverse forme costiere relitte presenti nell'area in studio: lembi di spiagge dislocate a varie altezze, piattaforme di abrasione marina solle-vate, solchi di battigia sovrapposti e così via. In particolare, si è già detto, gli affioramenti delle sabbie eoliche rossastre attribuite ad un deposito eolico, ovvero di spiaggia emersa tardopleistocenico, ora dislocato ad altezze superiori ai 50 m. Oltre a questi lembi dunari antichi presenti in maniera abbastanza continua tra la foce del Tevere ed il Golfo di Gaeta, sono presenti altri depositi e forme riferibili ad antichi livelli di stazionamento del mare.

    I relitti più vecchi sono rappresentati dalle superfici terrazzate, ricostruibili anche in altri settori costieri tirrenici. Il lembo di "terrazzo" piu antico è rappre-sentato dalla sommità di M. Orlando, e quindi posto ad un altezza compresa tra 150 e 170 metri s.l.m. Lembi più bassi di quota sono rilevati rispettivamente ad una quota di circa 100 m s.l.m. a sudovest nella zona detta Carolina ed intorno ai 60 m s.l.m. immediatamente a sud del Santuario della Trinità. Tali superfici terrazzate, che non presentano depositi della stessa età, potrebbero essere fatte risalire a stazionamenti del livello del mare precedenti al Pleistocene medio-superiore (<0.7 M.A.), visto anche che i depositi che si trovano al di sopra risalgono a questo periodo (sabbie eoliche rossastre).

    Altre forme di erosione, di gran lunga più recenti, si distinguono sulle falesie dell'area parco, quali incisioni, nicchie e cavità, quest'ultime anche di grandi di-mensioni (Grotta del Turco). Le falesie presentano un'altezza variabile da meno di 50 m, ad ovest, ad oltre 100m, a sud, ed hanno praticamente un assetto vertica-le, da mettere in relazione alle linee di frattura della serie mesozoica. Questa rela-zione è confermata dall'inesistenza del terrazzo di abrasione marina e dalla persistenza della falesia lungo la quale assumono particolare interesse i diversi solchi di battigia non sempre seguibili per tutta l'estensione della falesia a causa dell'erosione delle onde. I solchi più marcati, anche per la presenza di fori di Litodomi, risultano quello posto a circa 5.30 m s.l.m., e quello a 1.30 m s.l.m.

    Al di sotto del solco superiore, inoltre, sulla falesia sudorientale ad una quota di circa 4 m s.l.m., come già accennato precedentemente, è presente una breccia grossolana, ben cementata ed arrossata contenente numerosi gusci di Ostrea e GJycymeris. Tale deposito, che prosegue anche al di sotto del livello attuale, è riferibile ad un livello del mare più basso verosimilmente durante il Wùrm. Le datazioni recenti farebbero risalire questo deposito fossilifero, e il solco posto in-torno a 5.30 m s.l.m. all'Eu-Tirreniano (< 70.000 anni). Invece, i solchi rinvenuti a circa 1.3 m s.l.m. sulla falesia sono correlabili ad un deposito con fauna senegalese ritrovato alla medesima quota in uno dei promontori più a nord (Torre Capovento) attribuito al NeoTirreniano (<32.000 anni).

    Sono stati riconosciuti, inoltre, numerose forme subacque, tra cui alcuni solchi di battente, riferibili a brevi stazionamenti del livello del mare avvenuti durante gli ultimi stadi freddi, e quindi più bassi dell'attuale.

    Lungo il limite occidentale del Parco si trova la spiaggia di Serapo, che come le altre spiagge del litorale di Gaeta, è pressoché autonoma e alimentata soprattutto dal mare proveniente da Ponente. In particolare, il suo netto rientro rispetto alla linea costiera favorisce lo scarico su di essa dei sedimenti in transito (flusso detritico prevalente verso sud) a cui si aggiungono i tributi locali. Questa spiaggia è risultata in continuo, seppure lento accrescimento, almeno fino al 1954; successivamente è cominciata un'inversione di tendenza, che solo in questi ulti-missimi anni probabilmente si è stabilizzata.

    La spiaggia di Serapo è lunga oltre 1.5 km e la larghezza varia da oltre 120 m ad est a meno di 50 m ad ovest. La spiaggia sommersa presenta una pendenza maggiore nelle aree prossime alla falesia occidentale di M. Orlando e via via mino-re allontanandosi da questa. Sempre nella spiaggia sommersa sono stati rilevati almeno due ordini di barre, più continui nell'area centrale. La spiaggia emersa fortemente attrezzata non risulta ben definita nel limite superiore mancando com-pletamente la fascia di duna. L'interfaccia tra il mare e la spiaggia emersa assume un profilo ondulato con cavi e sporgenze; tali forme ritmiche costiere sono cono-sciute come "sand waves". La granulometria delle sabbie varia da sabbie fini (aree occidentali) a medie (aree orientali) con un buon assortimento. A luoghi si rileva la presenza di pomici fino a 5 cm. Per quanto riguarda i costituenti mineralogi-ci predomina il quarzo, a cui segue la calcite ed i minerali argillosi (illite e caolinite). Rispetto alle sabbie tardo pleistoceniche rilevate nell'area parco, si registra una percentuale inferiore dei minerali pesanti (pirosseno, magnetite, ecc.) ed un aumento dei carbonati, chiaramente provenienti dall'erosione delle falesie litoranee. Inoltre, in morfoscopia non si osserva il pigmento rosso-giallastro sui granuli di quarzo.

    Il mare con i suoi movimenti non rappresenta l'unico agente morfogenetico di questo territorio in quanto sono da considerare le acque piovane, capaci di provocare non solo erosione meccanica, ma anche chimica. E' bene precisare che la capacità di assorbimento delle rocce affioranti è piuttosto alta essendo il ruscellamento superficiale ridottissimo ed effimero. Da calcoli eseguiti sui com-plessi rocciosi circostanti l'infiltrazione efficace è pari a circa 700-900 mm annui, e considerando che le precipitazioni dell'area ammontano a poco più di 1000 mm annui si può dire che l'acqua si infiltra quasi del tutto neT sottosuolo attraverso i calcari. Questi risultano altamente permeabili a causa della stratificazione, ma sopratutto della fratturazione, che rende la roccia a luoghi del tutto disomogenea, e dei fenomeni carsici. Questi non solo hanno svolto un ruolo nello sviluppo delle cavità visibili lungo la falesia, ma sono intervenuti anche sul calcare in affioramento, come testimoniano le forme bucherellate ed irregolari e i solchi incisi (micro-lapiez) separati da creste sia arrotondate che taglienti presenti nell'area meridionale (ad es. dintorni della Carolina).

    Per quanto riguarda i fenomeni di dilavamento e di erosione essi sono limitati nelle aree settentrionali e in quelle occidentali; nelle prime dove sono presenti gli spessori più alti dei prodotti del disfacimento meteorico, mentre nelle seconde dove affiorano i livelli sabbiosi rossastri, a causa della maggiore acclività e della differente permeabilità.

    Infine, un aspetto molto importante ai fini del mantenimento delle condizioni naturali del parco è rappresentato dai suoli, che si sono sviluppati, nonostante le forti alterazioni causate dall'influsso pesante delle attività antropiche esplicate in tempi storici e recenti. L'aspetto generale dei suoli riflette molto chiaramente il substrato pedogenetico, che è costituito quasi esclusivamente da calcari; infatti, oltre che dai frammenti rocciosi più o meno diffusi sia in superficie che in profondità, è da evidenziare la presenza del residuo insolubile contenuto nel calcare stesso: da qui il colore bruno-rossiccio, anche a causa dell'elevato contenuto di sesquiossido di ferro, che caratterizza la maggior parte del territorio parco (suoli rossi mediterranei).

    Lo spessore dei suoli presenta valori massimi di oltre il metro nelle aree occidentali sulle sabbie tardopleistoceniche e di circa 80 cm nelle aree settentrio-nali sui calcari mesozoici, ovvero su una coltre colluviale argilloso-calcarea, e valori minimi, inferiore ai 25 cm, in quelle meridionale, dove a tratti il suolo costituisce unicamente il riempimento delle fessure e delle irregolarità del calcare affiorante. Tra i colori prevalgono le tonalità del rosso con spostamenti sia verso il bruno che verso il giallo; fanno eccezione i colori scuri che presentano superficialmente alcuni suoli sui calcari, variabili dal marrone scuro ad un marrone nerastro; quest'ultimo colore si giustifica per l'abbondanza della sostanza organica. La composizione granulometrica è tendenzialmente argillosa, anche se non mancano soprattutto nelle porzioni più superficiali dei suoli sulle sabbie e nei dintorni di questi, suoli con una frazione più grossolana. Sono, in genere, debolmente alcalini, fanno eccezione i suoli "colluviali" dell'area settentrionale e a tratti quelli posti ad occidente, che sono leggermente acidi. Il drenaggio sia per i suoli calcarei che per quelli sabbiosi è normale superficialmente, mentre in profondità si può verificare un certo rallentamento, comunque nel complesso si presentano ab-bastanza ben drenati

    Per quanto riguarda una definizione dei tipi di suoli rilevati nell'area par-co, è bene precisare che la maggior parte di questi risultano severamente erosi, rendendo la ricostruzione di profili tipo quanto mai difficoltosa; comunque sia alcuni suoli sui calcari potrebbero essere rappresentati dai sottogruppi litici degli Haploxeroll (Mollisuoli), mentre i restanti dagli Haploxeralf (Alfisuoli).

    Si ricorda che le caratteristiche rilevate trovano conferma nella carta dei suoli del Lazio meridionale, realizzata con il sistema FAO. In essa si individuano nell'area parco rapide ed irregolari alternanze di suoli con contatto litico poco profondo e altri più profondi di tipo colluviale, con intercalazioni di materiale vulcanico; entrambi si presentano colorati superficialmente secondo varie tonali-tà di rosso ("Complex ofchromic Luvisols e Lithosol").home

    LA VEGETAZIONE

    Introduzione

    In relazione al clima e alle caratteristiche del suolo le nostre coste sono popolate da associazioni vegetali che rappresentano alcuni degli svariati aspetti di quella che, come denominazione generale, viene definita "macchia mediterranea". Con questo termine ci si riferisce, in senso lato, a tutta una serie di stadi evolutivi che, partendo dalle lande in cui possono vegetare solo piante erbacee, arrivano alla macchia vera e propria in cui alberi, arbusti, cespugli e liane concorrono a creare una ricca trama spesso difficilmente penetrabile dall'uomo, non particolarmente attraente per quanto riguarda i colori, ma densa di profumi e suggestioni.

    Gli stadi evolutivi prendono origine dalla distruzione, per cause umane o accidentali, delle foreste di siderofile che ricoprivano in età storica le coste tirreniche, dove non c'erano paludi, e salivano anche nella prima fascia montana al diminuire della latitudine. La loro evoluzione è correlata, come è facilmente intuibile, al clima.

    I fattori che concorrono a determinare un clima sono molteplici. Spesso esso può variare anche nel raggio di poche centinaia di metri, per l'estrema importanza, per esempio, dell'esposizione (microclima). È difficile perciò definire con estrema precisione il clima mediterraneo: tuttavia, come caratteristiche generali, vengono riconosciute la mitezza delle stagioni fredde e l'aridità estiva.

    La temperatura atmosferica autunnale ed invernale delle zone costiere è notoriamente mitigata dalla presenza del mare, il quale conserva più facilmente il calore immagazzinato in estate. Questa situazione è favorevole allo sviluppo delle specie vegetali che non sono mai sottoposte a temperature troppo basse, la temperatura media del mese più freddo non è inferiore ai 4°C - e non sono obbligate ad interrompere per molti mesi il ciclo vegetativo, come invece avviene nei climi più freddi. La quasi totalità degli alberi e degli arbusti della macchia medi-terranea può così permettersi una chioma sempreverde che in altre condizioni climatiche sarebbe esposta al gelo o al pericolo di essere schiantata dal manto nevoso.

    Qui invece anche d'inverno la vita continua a pulsare e non è raro osservare fioriture nel tiepido sole invernale, specialmente nella gariga più prossima al mare.

    Le piogge sono condensate in autunno ed in inverno e solo nella prima parte della primavera; il regime pluviometrico è anche notevole, mentre da aprile ad ottobre solo raramente si hanno precipitazioni e per lo più a carattere temporalesco. Questo fatto, insieme alla temperatura relativamente elevata e alla forte insolazione, rappresenta il rovescio della medaglia del clima mediterraneo per la vita vegetale.

    Nella macchia foresta nella sua forma matura ormai assai rara questi fattori negativi vengono alquanto mitigati: essa possiede, sotto le chiome degli alberi, un ambiente sufficientemente umido in stretta relazione con un suolo ben strutturato che è fonte di umidità. Ma, man mano che si scende verso forme più degradate (macchia alta - macchia bassa - gariga - steppa) il problema dell'approvvigionamento dell'acqua da parte delle piante e della difesa dal surriscaldamento delle foglie si fa sempre più grave. Il suolo, non ben maturo, è incapace di servire da serbatoio per le necessità idriche; con il progressivo diradamento della coper-tura arborea, solo piante con particolari caratteristiche anatomiche, frutto di millenni di evoluzione, hanno potuto adattarsi e sopravvivere.

    In condizioni di normale disponibilità l'acqua, assorbita dalle radici, svolge numerosi compiti nella fisiologia vegetale; in particolare, salendo dalle radici alle foglie nei vasi del legno, funziona come un nastro trasportatore sul quale scorrono i sali minerali necessari alla vita della pianta; una volta giunta alle foglie tende a traspirare e a disperdersi nell'atmosfera.

    Cosi tutti i vari accorgimenti "inventati" dalle singole specie vegetali per limitare la traspirazione, nelle condizioni di penuria idrica citate, sono risultati vincenti, dal punto di vista evolutivo.

    Il più diffuso adattamento, presente nella quasi totalità degli arbusti e degli alberi della macchia, è quello relativo alla consistenza coriacea delle foglie detto sclerofillia. Si ha la superficie superiore della lamina ricoperta da uno strato ceroso lucido; così la radiazione solare viene in parte riflessa, in parte fermata dalla presenza di molti strati cellulari che, inspessendo la foglia, le danno un aspetto coriaceo. La superficie inferiore della foglia invece è spesso protetta da minutissimi peli che le conferiscono un aspetto vellutato e argenteo.

    Quest'ultima particolarità, della tomentosità, è una caratteristica delle piante maggiormente esposte al sole e al vento marino; esse possiedono foglie e rami non legnosi interamente ricoperti di piccoli peli argentei. Questi, oltre a fare ombra, intrappolando lo strato d'aria a diretto contatto con la superficie della foglia, la proteggono dal vento che, altrimenti,aumenterebbe la velocità d'evaporazione.

    Questi e altri adattamenti al clima semi-arido rendono estremamente vario ed interessante l'ambiente mediterraneo. A ciò contribuiscono, inoltre, le numerose variazioni sul tema che un dato territorio può offrire in relazione ai diversi stadi evolutivi presenti, testimoniando altresì la forza della natura che, anche se molto lentamente, riconquista gli spazi perduti, ricostruendo formazioni associa-tive sempre più mature.

    Stadi evolutivi della vegetazione mediterraneahome

    La formazione vegetale più caratteristica del clima mediterraneo è la "macchia", costituita principalmente da alberi ed arbusti sempreverdi, con fogliame coriaceo e rami rigidi fittamente suddivisi. Essa assume numerose forme a partire dalla macchia-foresta, che è la sua più alta manifestazione di sviluppo vegetativo (climax) verso altre forme di macchia più o meno alta in relazione al grado di alterazione subita.

    Dove lo sfruttamento non è stato eccessivo la macchia è rappresentata da alberi alti ~5 metri con il predominio del leccio (Quercus ilex) e prende il nome di alta macchia. Quando invece le piante arboree scompaiono o si diradano, ed ad esse subentrano piante di 1,5-2 metri come la fillirea (Phillyrea angustifolia), il mirto (Myrtus communis), il lentisco (Pistacia lentiscus), ecc., si ha la "bassa macchia".

    In essa, per particolari condizioni ambientali, può subentrare il predominio più o meno elevato di una specie; di conseguenza si può avere una macchia a erica (Erica spp.), a cisti (Cistus spp.), a ginestre (Spartium junceum, Calicotome villosa), a euforbia (Euphorbia dendroides). Queste forme di macchia rappresentano comun-que un ulteriore aspetto della degradazione della macchia stessa.

    La bassa macchia può evolvere a foresta se lasciata indisturbata per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma può velocemente passare a gariga se sottoposta a varie forme di disturbo fra cui le più importanti sono l'incendio e/o il pascolo. Nella gariga la componente arborea scompare e si instaura una vegetazione bassa e discontinua, in cui frequentemente affiora la roccia madre. La gariga rappresenta una degradazione molto spinta della macchia mediterranea; in tutto il Mediterraneo si è notevolmente estesa per azione antropica.

    E' errato comunque pensare alla gariga solo come ad una formazione impoverita della macchia, poiché essa è caratterizzata da associazioni diverse e da numerose specie che non sono presenti nella foresta sempreverde e nella macchia.

    La gariga si distingue abbastanza facilmente dalla bassa macchia per alcuni caratteri peculiari. In essa, infatti, predominano piante basse che mediamente non superano i 50 cm e che non hanno più l'aspetto fresco delle sclerofille, ma assumono toni grigi e talora quasi polverosi per la villosità e la glaucescenza.

    Quando anche la gariga viene spogliata della sua vegetazione ad opera dell'uomo e dei suoi armenti o dagli incendi frequenti, il terreno si degrada e la roccia madre viene messa a nudo. Si forma così una nuova associazione, nota con il termine di steppa. In essa gli arbusti, che hanno una funzione importante nella formazione del terreno, scompaiono e vi si insediano piante erbacee, annue e perenni, dotate di apparati radicali capaci di penetrare profondamente nelle fessure rocciose, oppure di organi sotterranei di riserva. La predominanza di asfodeli nella steppa costituisce il caso di estrema degradazione del suolo, anche se in primavera la copiosa fioritura e il vistoso effetto ornamentale che ne deriva, possono trarre in inganno sulla fertilità del suolo. Del resto il significato etimologico del nome della pianta, "valle di ciò che non è stato ridotto in cenere" riguarda proprio la sua particolare ecologia.

    La vegetazione che popola la steppa è venuta dalle pietraie e dalle rupi preesistenti, ed è la stessa che ha preceduto la formazione delle foreste su terra originariamente sterile o ridotta tale dall' uomo. Per grandi linee il processo di degradazione e di rigenerazione del manto vegetale mediterraneo può essere così schematizzato:
     
     


    FORESTA<==>MACCHIA <==>GARIGA <==>STEPPA home

    Monte Orlando

    Un quadro pressocchè completo dei vari aspetti della macchia mediterranea emerge dall'analisi naturalistica di Monte Orlando.

    Dal punto di vista climatico esso viene fatto rientrare nel clima "mediterraneo subumido", tenendo in considerazione l'andamento delle temperature e delle precipitazioni nonché gli indici di Giacobbe (Coefficiente mediterraneo - Indice termico - Indice di aridità estiva) e di Emberger (Quoziente pluviometrico).

    La denominazione del clima non inganni e comunque non sembri in contraddizione con quanto descritto sopra in merito agli adattamenti, in quanto nello studio climatico è riportato un periodo di aridità estiva di circa tre mesi.

    Grande importanza riveste qui l'esposizione geografica. Il territorio del Parco di Monte Orlando abbraccia tutti i versanti della collina omonima, ove in misura maggiore (da Nord a SudEst), ove in misura minore (a NordEst verso il centro storico S. Erasmo). La diversa esposizione al sole e al vento produce variazioni negli aspetti vegetazionali per cui è possibile suddividere il territorio in due parti, ovviamente non esattamente delimitabili: una ad esposizione settentrionale, con vegetazione vicina al climax a leccio, ed una meridionale caratterizzata da stadi di ricostruzione riferibili al climax dell'olivo e del carrubo.

    Se le caratteristiche naturali dell'area sono state pressocchè immutate nel corso degli ultimi millenni contribuendo naturalmente alla formazione di stadi vegetazionali variamente evoluti, le vicende storiche cui l'area è stata soggetta per la sua notevole importanza strategica, hanno determinato vari cambiamenti.

    Ciò che viene analizzato oggi è il frutto dell' uso militare durato fino al secondo conflitto mondiale e, in seguito, di decenni di incuria e di abbandono da parte dei pubblici poteri: incuria che si rende evidente soprattutto nel fatto che il maggior degrado è ravvisabile nelle particelle catastali di proprietà comunale. Per contro, buona parte della copertura arborea interessa le aree più vicine ad installazioni militari e al Santuario della Trinità. Anche il bosco, tuttavia, ha risen-tito notevolmente della presenza umana.

    Del resto è utopistico pensare che una località come questa, posta al centro di una città, imponente fortezza militare per secoli, con diversi monumenti storici di epoca romana che testimoniano la sua antichissima utilizzazione, possa aver conservato lembi di vegetazione allo stato integrale. Nonostante queste premesse, esistono però le condizioni ottimali per un ritorno della vegetazione alle sue forme più altamente espressive. Infatti negli ultimi decenni l'abbandono di ogni attività umana sulla superficie in questione ha riportato la vegetazione verso forme più mature.

    Comunque, in contrapposizione a questa situazione di degrado della vegetazione, che si sta però evolvendo positivamente, si ha su Monte Orlando una flora ricca di un elevato numero di specie vegetali e con entità di estremo interesse per la loro rarità e per la particolare distribuzione che hanno nell'ambito del baci-no del Mediterraneo.

    Tutti gli stadi di degradazione e di rigenerazione descritti della mac-chia mediterranea sono rappresentati, con superfici di varia estensione su Monte Orlando. Questa diversità di formazioni vegetali è determinata, oltre che dall'uomo con le sue varie attività, anche, come si è detto, dalla caratteristica forma piramidale della collina che determina diverse condizioni di espo-sizione e di pendenza del suolo.

    La vegetazione in base a quanto esposto è riconducibile alle seguenti forme caratteristiche:

    1) Il Bosco

    2) La Macchia bassa

    3) La Gariga

    4) Vegetazione rupestre. home

    Il bosco di Monte Orlando

    Lo stadio vegetazionale più maturo, il bosco, occupa i settori settentriona-le e occidentale della collina.

    Un bosco è generalmente strutturato negli strati arboreo, arbustivo, erbaceo e muscinale. Nel caso di boschi misti o disetanei, cioè con alberi di età diversa, nel primo strato si riconoscono le componenti dominante e dominata. Gli alberi appartenenti alla prima hanno un'altezza maggiore, cosa che permette loro di inter-cettare una quantità maggiore di luce,rispetto a quelli del piano dominato, che avranno così, a parità di ecologia, una minore possibilità di accrescimento.

    Chi osserva il bosco dalla città nuova può essere facilmente tratto in inganno: fra i Gaetani che hanno poca dimestichezza con Monte Orlando è alquanto diftusa l'idea che esso sia una pineta.Infatti il piano dominante, in un vasto settore, è formato principalmente da pini (Pinus spp) e in minor misura da roverelle (Quercus pubescens) Ma, da un punto di vista quantitativo, lo strato arboreo è costituito in gran parte da lecci (Quercus ilex).

    La situazione odierna è ovviamente frutto delle vicissitudini storiche che hanno interessato la collina, inclusa sin dal XVI secolo nelle fortificazioni della piazzaforte di Gaeta, ma anche soggetta in varie epoche ad utilizzo agricolo, nella parte prossimale, e pastorale, in quella distale, rispetto al centro storico.

    La presenza di questi esemplari di pino e roverella, notevoli per altezza e portamento, specie estranee alla vegetazione locale, è riferibile ad opere di rimboschimento a scopo militare come quella effettuata intorno al 1850 dai Borbone "Per aver l'esperienza dimostrato quanto utile sia ad una piazza da guerra il posse-dere entro il recinto delle sue fortificazioni degli alberi da costruzione, tanto necessari pei lavori di difesa."(Guarinelli, 1853). Pur non essendo pianta tipica degli ambienti mediterranei, in senso stretto, la roverella ha trovato in questa particolare stazione un ambiente favorevole alla sua crescita, leggermente più umido.

    E inoltre evidente che nella zona di bosco percorsa da incendi ed attualmente in fase avanzata di ricostruzione, per il microclima arido che si instaura laddove scompare lo strato arboreo, non esistono ceppaie di roverella in vegeta-zione. Inoltre gli esemplari che si trovano nella parte di bosco a Sudovest, nei pressi delle falesie non hanno lo stesso portamento.

    Nelle zone interessate dal bosco, in ambedue i tratti, sono presenti dei terrazzamenti riferibili alle opere di rimboschimento ma soprattutto, data la loro ampiezza, a opere agricole. Il fatto che questa zona sia stata in passato coltivata è testimoniato da numerosi olivi e carrubi rinselvatichiti. La presenza di quest'ultima specie è stata vista da alcuni come spontanea, tuttavia, considerato che i suoi frutti sono notoriamente appetiti da cavalli e asini, si pensa ad una sua probabile coltivazione, anche collegata a scopi militari.

    Pensare a ciò che la collina di Monte Orlando è stata nei vari secoli, e a quello che è oggi, dopo decenni di scarsa presenza ed "attività" umana non può che farci tornare a sottolineare l'importanza della sua protezione naturalistica. È la necessaria salvaguardia di un ambiente naturale variamente antropizzato che torna ad essere un lembo di natura selvaggia,frutto e testimonianza della forza della natura che torna a riprendersi gli spazi che l'uomo le ha tolto.

    Da alcune fotografie del dopoguerra è possibile osservare che gli alberi erano radi; l'attuale fitta presenza di lecci, può essere riferita proprio a questa ripresa vegetativa, visto che è da dopo la guerra che la collina perde interesse strategico.

    Come già detto prima i lecci crescono in posizione dominata, per cui la maggior parte di loro ha un portamento slanciato verso l'alto per contendersi la luce che filtra dal piano dominante. Per contro, laddove la crescita dei lecci non ha trovato ostacoli, come nei pressi dell'anello di batterie piemontesi, essi presenta-no un fusto più robusto e una chioma espansa. Sono presenti anche lecci giovani, alcuni dei quali in forma arbustiva. Non è difficile imbattersi in giovani alberi segati a mezza altezza, segno che c'è ancora chi utilizza gli alberi di Monte Orlando per imprecisati scopi privati.

    Alle citate condizioni di scarsa penetrazione della luce corrisponde uno strato arbustivo alquanto lasso. È interessante notare che, a fronte di uno strato arboreo relativamente uniforme, esso presenta una certa diversificazione di specie man mano che si procede da Nord a Ovest, secondo un gradiente decrescente di umidità. Cosi è più facile imbattersi, in un settore, in specie come l'alloro (Laurus nobilis) ,il laurotino (Viburnum tinus) e il biancospino (Crataegus monogyna), che gradiscono una certa umidità; e in altri settori in specie più xerofile, quali il lentisco (Pistacia lentiscus) e il mirto (Myrtus communis) . Nel settore settentrionale si in-contrano grandi esemplari di queste due specie che probabilmente ebbero il maggior sviluppo prima di essere inglobati dal bosco. E' interessante confrontare il loro aspetto con quelli che si possono trovare nella bassa macchia ove non esiste uno strato arboreo che li protegge dalla forte insolazione. Gli esemplari boschivi hanno rami più lunghi e sottili per far captare maggior luce possibile alle foglie, che qui non sono coriacee come nelle piante cresciute al sole; queste ultime hanno inoltre i rami più robusti e ravvicinati.

    Nel settore boschivo più settentrionale, la lecceta è inoltre arricchita dalla presenza di numerose essenze arboree non tipiche dell'orizzonte delle sclerofille, che qui trovano le condizioni ecologiche più vicine alle loro necessità. Fra queste il carpino (Carpinus orientalis), l'orniello (Fraxinus ornus), il ciavardello (Sorbus torminalis).

    Indicatrice ditale situazione è l'erica arborea (Erica arborea) che, mentre è do-minante su substrato acido, praticamente scompare laddove l'acidità diminuisce.

    Dall'analisi quantitativa delle specie presenti si evidenzia che mediamente l'erica arborea rappresenta circa il 50% con punte dell 80% in aree circoscritte. Segue a questa specie la ginestra spinosa, mentre le altre sono sporadiche. Altro elemento qualificante delle condizioni edafiche è la presenza del corbezzolo (Arbutus unedo) in un discreto numero di esemplari, specie questa non riscontrata in altre zone del Parco: l'associazione erica arborea-corbezzolo è una delle più tipiche dei suoli acidi.

    Questa macchia ad erica, crescendo su di uno strato consistente di suolo, ha potuto svilupparsi rigogliosamente diventando impenetrabile, anche per la pre-senza di piante lianose, primo fra tutte lo stracciabraghe.

    La zona calcarea, per contro, è quella maggiormente degradata:l'affioramento della roccia è evidente in più punti, specialmente nella fascia più meridionale, e crea una certa discontinuità del manto arbustivo che qui si presenta, per le citate condizioni microclimatiche, sotto forma di cuscini composti da varie specie. (mirto, lentisco, calicotome, carrubo, leccio, cisti, ecc.).

    Gli spazi lasciati liberi dagli arbusti sono occupati da specie tipiche della gariga, soprattutto graminacee e bulbose.

    Questa bassa macchia rappresenta infatti una forma di passaggio verso la gariga, che è presente sulla collina in diverse forme variamente degradate soprattutto nel settore meridionale.

    Spostandoci verso settentrione, rimanendo sempre nella zona calcarea, si può osservare che gli arbusti, a causa di migliori condizioni edafiche, hanno raggiunto un'altezza maggiore, mentre gli spazi fra di essi sono ricoperti quasi esclusivamente dal saracchio (Ampelodesmos mauritanicus). home

    Gariga degradata

    Questa formazione vegetale, che rappresenta l'ultimo stadio di degradazione della macchia mediterranea prima di passare alla steppa, occupa a Monte Orlando tutto il settore esposto a Sud.

    Per questa formazione vegetale la fase di ricostruzione è più lenta: oltre a crescere su un suolo fortemente impoverito, essendo esposta a sud, è soggetta ad un'intensa radiazione solare e all'azione dei venti che, esaltando la traspirazione, ne rallentano lo sviluppo; è per questo motivo che i cespugli che vi si trovano hanno forma emisferica, oppure sono appressati al suolo e sono inoltre discontinui.

    Le specie più caratteristiche sono, ancora una volta, il lentisco, l'erica, il cisto marino, la ginestra spinosa ed inoltre la rara Anagyrisfoetida, insieme a qualche raro esemplare di terebinto (Pistacia terebinthus).

    Alla povertà numerica dei residui della macchia mediterranea fa però riscontro un elevato numero di specie che non sono presenti in essa e tanto meno nel bosco. Si tratta di piante particolarmente resistenti all'aridità, al vento e al calore, che superano i periodi sfavorevoli defogliandosi oppure affidando la sopravvivenza della specie ad organi sotterranei. Tra queste le più caratteristiche sono le piante bulbose come il rarissimo Ornithogalum arabicum e il comune Ornithogalum pyrenaicum. Caratteristica è la presenza dei gladioli (Gladiolus italicus e Gladiolus byzantinus) e dei numerosi agli come l'Allium roseum, l'Allium ampeloprasum, l'Allium sphaerocephalon e l'Allium chamaemoly; quest'ultimo, crescendo appressato al terreno, si rende quasi invisibile.

    A queste piante perenni si associano anche numerose piante annuali che si disseccano rapidamente al sopraggiungere delle prime giornate calde. Tra queste, particolarmente abbondanti sono la umile Polygala monspeliaca, il Bupleurum baldense, la Plantago bellardi, la Stipa capensis, l'A ira cupaniana e anche diverse leguminose.

    Quando il terreno diventa particolarmente inospitale, come sulla roccia madre, allora compaiono altre piante caratteristiche come la rara Fumana laevipes, la Fumana thymifolia e l'inconfondibile Helicrisum litoreum. Non manca, natural-mente, l'Ampelodesmos mauritanicus che, insieme al raro Heteropogon contortus e al Cymbopogon hirtus, caratterizza il paesaggio nei primi mesi autunnali.

    La gariga degradata è anche l'ambiente d'elezione di molte Orchidaceae che, grazie alla loro particolare fisiologia, riescono a vivere anche in ambienti poco ospitali. Alcune di esse sono presenti in discreto numero (Serapias lingua e Ophiris bombyliflora), per altre invece si contano pochi esemplari: Serapias cordigera, Anacamptis pyramidalis, Ophirys sphecodes ssp sphecodes, Orchis italica, Spiranthes spiralis; quest'ultima è l'unica orchidacea europea a fioritura autunnale. home

    Vegetazione rupestre

    Il lato meridionale della collina è caratterizzato dalla presenza di alte pareti a picco sul mare: le falesie. L'inaccessibilità delle rupi al fuoco, all'uomo e agli animali, ha fatto di quest'ambiente uno dei più interessanti e più nobili per la capacità di conservarsi inalterato.

    in questa zona le piante vivono in condizioni estremamente limitanti: alla consueta intensa insolazione e alla siccità estiva si aggiungono altri fattori, quali l'azione del vento salmastro e la scarsità di suolo. Di conseguenza possono vivere solo piante che possiedono particolari adattamenti, anche in relazione al substrato alcalino.

    La flora che vive sulle rupi presenta un notevole interesse sia fitogeografi camente, in quanto ci permette di riconoscere antichi legami con le fiore limitrofe e talora anche remote, sia per quanto riguarda il grande numero di specie esclusi-ve o endemiche o a distribuzione ristretta e altamente specializzata.

    Lo strato arboreo, alquanto discontinuo, è costituito esclusivamente da pino d'Aleppo (Pinus halepensis), specie decisamente rustica, che riesce a scovare l'ac-qua necessaria alla sua esistenza insinuando le robuste radici nelle fessure della roccia calcarea che spesso appare come il suo unico substrato. Quest'albero, così ben adattato alle pareti rocciose delle nostre coste, non viene generalmente considerato come autoctono, ma la cosa è piuttosto contro-versa. Un'altra specie arborea, che qui si presenta solo in forma arbustiva schiac-ciata contro le pareti rocciose, è il cedrolicio Juniperus phoenicea).

    Ma è lo strato erbaceo e cespugliare quello più caratteristico ed inte-ressante di questo ambiente.

    Qui vive l'unica palma autoctona del continente europeo: la palma nana (Chamaerops humilis). Su queste rocce irraggiungibili a picco sul mare sono pre-senti gli ultimi esemplari scampati alla depredazione da parte di coloro che ne hanno ornato i giardini privati locali. Condivide il suo ambiente la rarissima Lavatera maritima, specie che gravita nel bacino occidentale del Mediterraneo e che qui rappresenta una stazione disgiunta. I pochi esemplari presenti in prossimità della polveriera Ferdinando rappresentano probabilmente il resto di un più ampio areale della specie. Sulle piccole cengie nella stessa area della Lavatera maritima è presente anche il raro Convolvulus siculus, specie questa ampiamente diffusa in Sardegna e Sicilia, ma rarissima nell'Italia peninsulare: è presente solo all'Argentario, a Terracina e recentemente scoperto anche a Monte Orlando. Di straordinario interesse è anche la presenza di una minuscola felce, Asplenium petrarchae, anch'essa trovata nel corso della ricerca floristica su Monte Orlando relativa alla stesura del Piano d'Assetto; questa specie, presente in pochi esempla-ri tra le piccolissime fessure rocciose è particolarmente rara sia per il numero, sia per la distribuzione, che attualmente è limitata solo ad una località della Sicilia, una della Basilicata e poche altre della Liguria.

    Caratteristica è anche la presenza della Medicago arborea e del Mesembryanthemum nodiflorum, che contribuiscono con la loro presenza a rendere ancora più interessante questa vegetazione.

    Le rupi del versante Ovest che si affacciano sulla Spiaggia di Serapo sono l'ambiente d'elezione della Campanula fragilis, specie endemica dell'Italia meridionale, che qui trova il suo limite di distribuzione settentrionale. Convivono con essa la rara Daphne sericea e la Lavandula stoechas.

    Non è da escludere che ulteriori e più approfonditi studi possano portare al ritrovamento di altre più interessanti specie.

    Alle specie rare si affiancano altre più comuni, ma comunque interessanti, come il rosmarino (Rosmarinus officinalis), la violacciocca (Matthiola ineana) e la gigantesca ferula (Ferula communis), che con il suo rigoglio vegetativo sembra quasi sfidare simbolicamente le avverse condizioni di vita che regnano sulle rupi.

    In questa stazione più che in altre si incontrano inoltre specie quali l'elicriso (Helicrisum litoreum), la cineraria (Centaurea cineraria), la barba di Giove (Anthyllis barba-jovis). Quale adattamento all'ambiente secco è evidente la tomentosità: su ambedue le pagine fogliari una fitta coltre di minuscoli peli dona loro un aspetto argenteo. Un'altra pianta caratteristica è l'euforbia arborea (Euphorbia dendroides), uno dei pochi arbusti che perde tutte le foglie all'inizio del periodo annuale di siccità, per poi riformarle dopo le prime piogge di fine estate.

    Nella fascia più prossima al mare il finocchio marino (Crithmum maritimum) elabora la sua risposta adattativa al vento salmastro con l'ispessimento dei succhi cellulari, che esprimono una pressione osmotica tale da vincere quella delle parti-celle di acqua di mare trasportate dal vento.

    Un ambiente affine a quello delle rocce è rappresentato dai tanti edifici militari, più o meno in rovina, presenti un po' dovunque sulla collina di Monte Orlando. Ovviamente, anche in questo caso, l'elemento limitante per la crescita delle piante è rappresentato dalla povertà del substrato. Tuttavia, la natura, come abbiamo già detto, tende a recuperare lo spazio strappatole dall'uomo: così è avvenuto che le opere murarie, una volta abbandonate a se stesse, si siano ricoperte di una vegetazione rustica, che varia al variare del contesto vegetazionale in cui essa è inserita e quindi in relazione alle condizioni microclimatiche. Nella zona meridionale della collina ritroviamo molte delle piante appena citate per l' ambiente roccioso; laddove le strutture militari sono state circondate dal bosco in epoca più o meno recente, esse sono colonizzate da specie che sono favorite dalla maggiore umidità caratteristica del sottobosco; laddove invece i muri sono in prossi-mità di strade o comunque in ambiente fortemente antropizzato essi si ricoprono di una flora sinantropica, che è possibile incontrare un po' in tutti gli ambienti caratterizzati dalla pressione umana.

    Di queste piante, quelle arboree e quelle arbustive danneggiano gravemen-te le strutture nel corso degli anni, poiché le loro radici penetrano in profondità fra le pietre e i mattoni, fino ad incrinare i muri e a farli rovinare. Quelle erbacee, invece, per lo più non influiscono sulla stabilità delle opere murari. home

    NOTE FAUNISTICHE

    La forte antropizzazione a cui è stata soggetta la collina per secoli e l'am-piezza limitata hanno provocato un generale depauperamento della fauna. Inoltre, il fatto di essere circondata dalla città ha impedito il ripopolamento sponta-neo, fatta eccezione per l'avifauna, che in seguito alla istituzione del Parco, con la limitazione di alcune attività umane, è tornata a ripopolare la zona,

    Uno studio faunistico prevede tempi molto lunghi e una presenza costante sul territorio per le difficoltà di avvistamento insite in questo tipo di ricerca.

    L'indagine si è pertanto limitata agli uccelli, ai mammiferi e rettili, per 0v-vie ragioni di brevità e anche di competenze.

    In questa ricerca, validissimo è stato l'aiuto dei Guardia parco della Cooperativa Elios, che con la loro costante presenza e sensibilità hanno censito molte delle specie di quest'elenco.

    Indubbiamente la classe più rappresentativa è quella degli uccelli, sia per numero di specie che per rarità. Sono state censite le seguenti specie:

    Buteo buteo L. poiana

    Falco peregrinus Tunstalì falco pellegrino

    Falco tinnunculus L. gheppio

    Larus argentatus Pontoppidan gabbiano reale

     Larus ridibundus gabbiano comune

    Columba palumbus L. colombaccio

    Columba livia L. colombo

    Cuculus canorus L. cuculo

    Tyto alba Scopoli barbagianni

    Otus scops L. assiolo

    Athene noctua Scopoli civetta

    Caprimulgus europaeus L. succiacapre

    Apus SP. rondone

    Merops apiaster L. gruccione

    Upupa epops upupa

    Delichon urbica L. balestruccio

    Motacilla alba (L.) ballerina

    Motacilla flava (Tunstali) cutrettola gialla

    Anthus spinoletta L. spioncello

    Lanius senator L. averla capirossa

    Troglodytes troglodytes L. scricciolo

    Prunella modularis L. passera scopaiola

    Erithacus rubecula L. pettirosso

    Luscinia megarhynchos Brehm usignolo

    Phoenicurus ochruros (S.G.Gmelin) codirosso spazzacamino

    Turdus merula L. merlo

    Monticola solitarius L. passero solitario

    Sylvia melanocephala (J.FGmelin) occhiocotto

    Sylvia atricapilla L. capinera

    Fringilla coelebs L. fringuello

    Carduelis carduelis (L.) cardellino

    Chloris cHoris L verdone

    Passer domesticus italiae passero d'Italia

    Oriolus oriolus L. rigogolo

    Corvus monedula L. taccola

    Corvus corone cornix L. cornacchia grigia

    Oltre alle specie stanziali e migratrici di quest'elenco sulla collina sono stati fatti numerosi avvistamenti riguardo altre specie che, anche se per pochi giorni all'anno, arricchiscono e rendono interessante la fauna di Monte Orlando:

    Phalacrocorax carbo L. cormorano

     Phalacrocorax aristotelis marangone dal ciuffo

    Ardea cinerea L airone cenerino

    Nycticorax nycticorax L. nitticora

    Pernis apivorus L falco pecchiaiolo

    Milvus migrans Boddaert nibbio bruno

    Buteo lagopus Pontoppidan poiana calzata

    Circus pygargus L. albanella minore

    Phasianus colchicus L fagiano

    Coturnix coturnix L quaglia

    Tetrax tetrax L. gallina prataiola

    Scolopax rusticola L. beccaccia

    Streptopelia turtur L. tortora

    Asio otus L. gufo comune

    Apus melba L. rondone alpino

    Coracias garrulus L. ghiandaia marina

    Hirundo rustica L. rondine

    Riparia riparia L. topino

    Turdus philomelos Brehm tordo bottaccio

    Tichodroma muraria L. picchio muraiolo

    Per molti degli uccelli di questo secondo elenco Monte Orlando rappresenta solo un luogo dove effettuare una breve sosta, mentre per alcuni di essi potrebbe ridiventare qualcosa di più se la tutela della collina continuerà ad essere esercitata e si potrà impedire ai visitatori di lasciare i sentieri predisposti per una corretta fruizione

    Gli altri vertebrati individuati sono:

    ANFIBI

    Bufo bufo rospo comune

    Hyla arborea raganella comune

    RETTILI

    Coluber viridiflavus biacco

    Elaphe longissima colubro d'Esculapio

    Podarcis sicula lucertola campestre

    Podarcis muralis lucertola muraiola

    MAMMIFERI

    Erinaceus europaeus riccio

    Sorex araneus toporagno

    Rattus norvegicus ratto delle chiaviche

    Rattus rattus ratto nero

    Apodemus sylvaticus topo selvatico
     
     

    Degli animali citati, molti sono quelli che trovano nella vicinanza dell'uomo una qualche forma di vantaggio. Basti citare i ratti che sulla collina sono sempre stati numerosi in virtù delle tante discariche che fino a qualche tempo fa co-stellavano le strade principali.

    La grande quantità di edifici più o meno abbandonati fa sì poi che nume-rosi uccelli facciano il nido nei buchi dei loro muri. Hanno questo comportamento la civetta, l'assiolo, il passero solitario, il gheppio, l'upupa, la taccola. È presente infine una coppia di barbagianni, uccello sinantropico per eccellenza e gran divoratore di topi e ratti.

    Un cenno infine ad alcuni insetti che si distinguono per il loro numero e per la vistosità dei fenomeni a cui danno luogo:

    Pyrrhocoris apterus: cimice di color rosso, compare in primavera, nel periodo della riproduzione, in numero talmente grande da far apparire il terreno su cui si trova di colore rosso;

    Graphosoma italicum: insetto dai colori vivaci che è facilmente individuabile sulle infiorescenze delle ombrellifere dove si trovano spesso in numero elevato, anche perchè, possedendo un odore particolarmente fetido, è poco appetito agli uccelli.

    Messor barbara: formica che costruisce grossi formicai visibili soprattutto nel periodo estivo per il grande numero di individui che vi si affollano attorno trasportando semi di vario genere raccolti anche a grande distanza. Le parti dei semi non appetiti da essa vengono accumulati nei pressi del formicaio rendendo-lo ancora più caratteristico. home
     
     

    PROFILO STORICO DEI MONUMENTI E DELLE OPERE DIFENSIVE
     
     

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    Prima di procedere alla stesura del breve profilo storico-cronologico dei monumenti che fanno parte integrante del Parco Urbano di Monte Orlando, giova ricordare, al di là di ogni suggestione mitologica della sua origine, che l'antichissima città di Gaeta, già celeberrimo porto all'età di Cicerone, sorge sulle propaggini orientali di quel promontorio considerato, fin dai tempi più remoti, sicuro punto di riparo per la navigazione costiera.

    Luogo d'asilo di papi e sovrani, privilegiata nel corso dei secoli dalla singolare posizione strategica, Gaeta ha legato la sua "fortuna storica" al ruolo preminente di fortezza inespugnabile tra le più formidabili d'Europa.

    Cinta da mura dall'Ipata Docibile I sotto la minaccia saracena, diventa florida per il commercio con l'Oriente ed estende il suo dominio dal Circeo al Garigliano. Partecipa alla celebre battaglia di Ostia (849) e sconfigge i Saraceni a Traetto nell'882.

    I fasti e la gloria del periodo ducale la videro accanto alle grandi città marittime del Mediterraneo e, al principio del Medioevo, sotto la protezione di Bisanzio.

    Entro la cerchia delle mura, ovvero del suo antico "castrum" e sul monte Orlando, i Benedettini cassinesi innalzano, nel X secolo, i monasteri di San Teodoro, di Sant'Angelo in Planciano e della Trinità, quest'ultimo inserito nell'area dell'at-tuale parco naturale.

    Cessato il ducato dopo oltre un secolo e mezzo di dinastia indigena, Gaeta entra a far parte del regno normanno (1140) divenendo importante piazzaforte marittima.

    Nel 1227 Federico Il di Svevia rafforza il castello che verrà restaurato ancora da Carlo I d'Angiò intorno al 1272 e ampliato successivamente da Alfonso d'Aragona nel 1440.

    Nel 1289 la città è assediata da Giacomo d'Aragona.

    Dal 1387 Gaeta diviene residenza di re Ladislao di Durazzo. Tolta agli Angiomi, la città ospita per sette anni Alfonso d'Aragona, il quale oltre al già ricordato ampliamento del castello, vi compie la costruzione delle nuove mura di difesa che, partendo dal castello, raggiungono il mare; opere di ampliamento del-le fortificazioni sono compiute anche dal figlio Ferdinando.

    Alla discesa di Carlo III Gaeta, dopo un mese d'assedio è costretta ad arrendersi; segue la riconquista da parte di Federico III d'Aragona (1496).

    Nel 1501 tornano i francesi, ma dopo la battaglia del Garigliano (1503) essa accoglie Consalvo di Cordova che è al servizio di Ferdinando il Cattolico.

    Inizia la dominazione spagnola e Carlo V, consapevole dell'importanza strategica della città, la fortifica cingendola di una più vasta cinta muraria che raggiun-ge - circondando Monte Orlando - il santuario della Montagna Spaccata (1528-35).

    Nel 1707, dopo in lungo periodo di pace durato circa due secoli, Gaeta viene assediata dagli austriaci al comando del conte Daun, vicerè di Napoli. Seguono altri ampliamenti sul fronte di terra e si studia l'eventualità di isolare la fortezza dal resto dell'istmo con la costruzione della porta dell'avanzata munita di ponte levatoio e un fossato che raggiunge il mare.

    Nuovo assedio nel 1734. Assedio durato quattro mesi al comando di Carlo di Borbone, fondatore della dinastia che regnerà su Napoli e il Meridione, fino all'Unità d'Italia. Questo re, legato da particolare affetto alla città, fa eseguire radicali lavori sul fronte di terra con le famose "opere staccate".

    Altri memorabili assedi si consumano nel 1799, 1806 e 1815 nei quali sono contrapposti rispettivamente napoletani e giacobini; il generale Massena e il principe d'Assia, Philippsthadt; napoletani e austriaci. Durante il breve periodo tra i primi due assedi, tornata nelle mani dei Borbone, la piazzaforte di Gaeta si munisce di nuove cortine e baluardi nei pressi di "porta di ferro" (all'interno della città vecchia) e, dopo la restaurazione, dei Ridotti "Cinque piani" e "Trinità" (sul fronte di terra) e del Bastione "Annunziata" in quello di mare.

    In tali condizioni Gaeta affronta l'ultimo memorabile assedio, quello che si concluderà il 13 febbraio 1861 con la caduta della dinastia borbonica.

    Dopo questa data, negli anni post-unitari, il governo italiano, contrariamente a quanti volevano il completo smantellamento della fortezza di Gaeta, aggiunge nuove poderose opere di difesa su Monte Orlando. Viene costruita la grande batteria anulare di "Torre d'Orlando" che circonda tutta la sommità della collina su due livelli.

    Seguiranno ancora opere minori fino a quando con Regio Decreto del 6 febbraio 1927, verrà dismessa dal ruolo di fortezza per le mutate esigenze belliche.

    Il fronte di terra, per quella parte che ancora oggi si sviluppa in linea leg-germente convessa lungo tutto il pendio occidentale di Monte Orlando a circa 40 metri dal livello del mare e per una lunghezza di 1200 metri, è formato dalle seguenti opere:

    1) Bastione "Transilvania", situato all'estrema sinistra del promontorio prospiciente la Montagna Spaccata e suddiviso in due riparti detti rispettivamente "Transilvania" e "Malpasso".

    2) Batteria "Trinità", la quale ha dinanzi il Ridotto "Trinità" costruito nella prima metà del XIX secolo e adibito nei tempi recenti a Reclusorio militare.

    3) Batteria "Mallandrone", su cui oggi insiste un parcheggio automobilistico.

    4) Batteria "Dente di sega", innanzi al quale vi è una falsabraca per fucileria, separata dalle opere laterali per due fossati. Dalla falsabraca si discende ad un posto di osservazione situato più giù a pochi metri dalla spiaggia di Serapo.

    5) Batteria "Piattaforma" che ha davanti a se' il ridotto a scaloni detto "Cinque Piani" accessibile attraverso una discesa in galleria, e dal quale, attraverso un piccolo ponte levatoio si passa nella falsa braca della batteria "Denti di sega" (comunemente noto come bastione di Carlo V).

    6) Bastione "Philippsthadt" o "della breccia", dietro al quale è il trinceramento, separato dal terrapieno del bastione da un fosso con due ponti levatoi, oggi invisibili per il terreno di discarica ivi abbandonato. Il bastione ha innanzi a se' un'opera bassa detta "Rivellino informe" (in parte coperta dalla strada d'accesso a Monte Orlando costruita negli anni 1954-55). Sui suoi spalti vi sono tre lapidi: la tomba monumentale del Principe d'Assia, il langravio Luigi Philippsthadt, strenuo difensore di Gaeta nel 1806, scolpita nel 1825; la tomba del generale francese Giuseppe Vallongue, ferito a morte in trincea nello stesso assedio napoleonico, rinnovata nel 1868 dopo essere stata infranta dalle artiglierie di Cialdini nell'assedio del 1860-61; il monumento commemorativo dell'assedio del 1860-61, sorto nel 1868 per onorare i caduti di entrambe le parti.

    7) Cortina "S.Andrea" e bastione "S. Giacomo"attualmente sotto l'Amministrazione delle Difesa per la custodia dei serbatoi della Marina Militare ivi costruiti.

    8)Infine le Batterie "Fico", "Conca" e "Cappelletti", che costituiscono l'estremo fianco destro del fronte di terra verso la porta di Carlo ~ nella loro poderosa struttura a scaloni.

    Camminamenti di ronda legano la batteria "Trinità" al bastione "Transilvania" e alla batteria "Malladrone", oggi in più parti interrotti da attrezzature di ristoro e dall'area "riservata" del Santuario della Montagna Spaccata; così come un muro a feritorie, formato da due cannoniere (ricoperte da erbe ed arbusti), unisce, anche se in parte, la batteria "Piattaforma" al bastione "Philippsthadt".

    Il bastione "S. Giacomo", la batteria "Fico" e i bastioni "Conca" e "Cappelletti", che degradano verso il basso, sul versante nord, costituiscono il fronte a scaloni fino a raggiungere la porta di Carlo V.

    È parte integrante del fronte di terra la batteria "Regina", situata dietro al bastione "Philippsthadt" ed alla cortina "S. Andrea", a quota 58 metri dal livello del mare. È servita da due riservette per munizioni scavate nella roccia e divisa in due riparti: il destro detto "Regina vecchia", il sinistro "Regina nuova"

    Al fronte di terra appartengono inoltre le cosiddette "opere esterne", sorte a partire dal 1742 su quasi tutta la larghezza dell'istmo, nello spazio compreso tra la batteria "Cittadella" (Porta di Carlo V) e il bastione "Philippsthadt"; esse sono comunemente dette "lo Staccato", esattamente dove oggi insistono gli impianti della Marina Militare e la strada moderna che dà accesso a Monte Orlando.

    Le opere esterne sono le seguenti:

    1)la falsabraca "S. Andrea", situata davanti alla cortina omonima e al bastione "S. Giacomo" (attualmente occupata dal serbatoio della Marina).

    2)il "fronte a scaloni", composto da tre rami discendenti verso destra fino a raggiungere il mare e situato dinanzi alla batteria "Fico"e ai bastioni "Conca" e "Cappelletti" (occupato all'interno dagli impianti della marina, e dall'esterno da un "canalone" seminterrato in cui e sistemato un magazzino comunale). Su di esso, nella parte più prossima al lungomare Caboto vi è la "Porta dell'avanzata" detta di "Carlo III", ricostruita nel 1811 da F. Borrelli, direttore dei lavori di difesa. Da qui il fossato o canalone si snoda a vari livelli lungo tutto il perimetro del fronte principale, fino a raggiungere, attraverso una strada coperta e ponti leva-toi, il bastione "Philippsthadt" con la galleria detta la "Gran Sortita" (nella quale scorrono i rifiuti liquidi di un privato), per poi terminare al "Rivellino informe".

    3)il "Nuovo Ridotto di Porta di Terra", costruito ove è oggi interrato un altro serbatoio della "Marina".

    Non possiamo tralasciare che sull'area del Parco, sul versante meridionale di Monte Orlando, sono dislocate le tre grandi polveriere della piazzaforte denominate "Carolina", "Ferdinando" e "Trabacco", quest'ultima munita di cisterna a strapiombo sul mare.

    Ad esse si accede per una via che partendo dalla batteria "Trinità", ovvero dal Santuario della Montagna Spaccata, si sviluppa sull'estremo versante Sud-Ovest del monte fino a raggiungere la cima, al centro della quale sorge l'imponente mausoleo di Lucio Munazio Planco, volgarmente detto Torre d'Orlando.

    Sempre sul mare, a difesa delle polveriere dagli attacchi navali, vi è la batteria "Trabacco" con punti di fuoco e riservetta.

    Un laboratorio dei fuochisti del fronte di terra era infine alle spalle della batteria "Trinità", adibito nell'immediato dopoguerra ad uffici del Reclusorio militare di Gaeta. home

    Tra i monumenti archeologici di notevole valore storico è il citato mausoleo di Planco.

    Nato intorno al 90 a.C., Lucio Munazio Planco, generale di Cesare, governatore della Gallia e fondatore di Lione e Basilea, è stato colui che ha proposto al Senato di Roma di conferire ad Ottaviano il titolo di Augusto. Il suo mausoleo, edificato intorno al 22 a.C., è tra i più conservati della civiltà romana. A forma cilindrica sormontato da un coronamento a metope e triglifi all'esterno, è attraversato all'interno da un ambulacro anulare con copertura a botte dal quale si accede alle quattro celle funerarie disposte assialmente a forma di croce.

    È stato restaurato nel 1956 dopo essere stato per secoli adibito prima a torre d'avvistamento, poi a stazione di telegrafo ad asta, e in ultimo, dal 1885, a semaforo della Marina militare.

    Avanzi della sua villa sono invece a pochi metri dalla Montagna Spaccata, ove sono ancora visibili un criptoportico lungo 14 metri con cinque grandi conserve d'acqua, intonacate a coccio pesto e mura rivestite in"opus reticulatum". Alle cisterne tra loro comunicanti affluiva l'acqua da due sovrastanti vaschette di raccolta, una quadrata e l'altra a semicerchio. Vi sono tutt'intorno resti di mura reticolate, al punto di credere che la villa sia stata sconvolta e distrutta da un movimento tellurico che una pia tradizione vuole qui far risalire alla morte di Cristo.Anche qui, tra le memorie religiose, si conservano cimeli storici della piazzaforte e la tomba del prode generale Alessandro Begani, difensore di Gaeta nell'assedio del 1815. home

    MONTE ORLANDO NELLO SVILUPPO URBANISTICO DI GAETA

    Monte Orlando va oggi riassumendo un ruolo urbanistico nel contesto cittadino grazie alla funzione di Parco Urbano. li un polmone verde situato proprio nel centro della città e ricco, nonostante la ridotta estensione, oltre che di un notevole patrimonio naturalistico, di testimonianze storiche stratificate nei secoli, elementi che, così integrati, rendono l'itinerario attraverso il Parco veramente unico.

    Monte Orlando è sempre stato un elemento dominante nella evoluzione urbana della Città di Gaeta.

    Le prime testimonianze architettoniche sono di epoca romana, quando Gaeta si caratterizzava più come luogo di villeggiatura patrizia che come Città: lungo le pendici di Monte Orlando sorgevano imponenti ville come quella di Faustina o quella di Lucio Munazio Planco, di cui rimangono ancora le poderose cisterne; il console si fece erigere qui anche il mausoleo che ancora oggi domina dalla cima dell'altura. Nel 401 d.C., al tramonto dell'Impero, Simmarco parla anche di un acquedotto che dalle cisterne poste sul Monte Orlando portava l'acqua lungo le falde orientali alla Città ed al porto.

    Lo sviluppo della città medioevale, quella che dal VII secolo circa nasce attorno all'antico porto della punta S. Maria (attuale sede della scuola nautica della Guardia di Finanza), avrà in Monte Orlando il suo limite, barriera di separazione verso l'istmo; gli ampliamenti della cintura cittadina attraverso tutta l'età di mezzo, fino alla dominazione aragonese, non arrivarono mai a cingerlo.

    È con l'avvento degli Spagnoli, con Ferdinando il Cattolico e con Carlo V quando l'arte della guerra (ed il progresso delle armi da fuoco) cambiarono il modo di fortificare le città, che l'altura gaetana comincia ad avere un forte ruolo urbano; parallelamente la cittadina andava trasformandosi, da piccola e per molti versi ancora autonoma cittadella mercantile, in Piazzaforte, con un rilevante ruolo strategico per il controllo dell'Italia Meridionale e del Mediterraneo. È il modello di difesa e controllo dei territori spagnolo, basato sui "presidi", ovvero punti forti - "piazzaforti" - integrato dalla fitta rete puntuale delle torri di guardia.

    Monte Orlando rappresentò un poderoso bastionamento naturale. Risulta subito evidente osservando la topografia cittadina: l'istmo era facilmente dominabile dal Monte Orlando, unico collegamento alla cittadella peninsulare; le ripide scogliere sul lato sud costituivano valida conformazione naturale per il sistema difensivo della Piazzaforte. Il sistema si andò a migliorare con la costruzione di mura, bastioni, rivellini, casematte, secondo i più moderni trattati di architettura militare. A tutt'oggi, nonostante i danni, le demolizioni e le trasforma-zioni subite, rappresentano un emblematico esempio per lo studio.

    Il "fronte di mare" a protezione del lato nord della penisola e del porto e quello "di terra" che domina l'istmo di Montesecco integrandosi con l'orografia di Monte Orlando con oltre 1200 metri di fronte dalla "Cittadella" alla "Trinità", rappresenteranno un fortissimo elemento caratterizzante dello sviluppo urbano della città di Gaeta. L'assetto cittadino, sempre condizionato dalle opere di difesa - basti anche pensare alla mastodontica costruzione del castello Aragonese che domina la Penisola - risente profondamente di questa cintura fortificata. Dal Cinquecento in poi non subirà più ampliamenti del perimetro, avendo raggiunto la conformazione ideale, ma sarà invece sottoposta a continui aggiornamenti e migliorie fino all'Unità d'Italia, seguendo i progressi delle tecniche di guerra ed il potere dirompente delle batterie; anche se, per quanto riguarda i lavori borbonici ottocenteschi, i genieri nei loro rapporti lamentavano spesso la difficoltà di inter-venire con miglioramenti su fortificazioni il cui impianto principale rimaneva quel-lo cinquecentesco.

    Ferdinando il Cattolico fu a Gaeta nel 1506 e constatò come la cittadina, allora limitata alla parte estrema della penisola, contenuta nella murazione aragonese, rimaneva facilmente esposta agli attacchi da Monte Orlando, oramai possibili con le nuove bombarde. Negli attacchi che furono condotti alla Città, in alterne vicende anche dagli stessi Spagnoli, primo obiettivo dell'esercito aggressore fu di occupare la collina, dal cui versante ad est era possibile dominare le abitazioni, i bastioni ed il castello. Ferdinando il Caftolico dispose quindi di comprendere nel sistema difensivo Monte Orlando, sapendo bene di rendere così la Città di Gaeta una sicura base per il controllo spagnolo del Mediterraneo occidentale.

    I lavori di fortificazione, per sottolineare ancora una volta il ruolo di primo piano della città, videro come protagonisti i migliori architetti militari del tempo come Antonello da Trani, Tommaso Scala e, anni dopo, Ambrogio Attendolo (già in epoca Aragonese furono presenti a Gaeta autorevoli architetti come Guillermo Segrera, Antonio di Giorgio da Settignano e Frà Giocondo da Verona).

    Parallelamente alla realizzazione del fronte di mare venne così realizzato anche quello di terra, che appunto cinge Monte Orlando e che rimane ancora oggi chiaramente visibile nel Parco.

    Nel mondo medioevale l'assalto veniva portato ad una città con mezzi rudimentali, così come rudimentale era il lancio di oggetti sul nemico dall'alto delle mura, e questo era il modo di guerreggiare fino al Cinquecento. Con l'artiglieria tutto ciò cambia e cambia anche il modo di fortificare. Le torri alte cedono il passo a nuovi baluardi, bassi, acutangoli o pentagonali in pianta. Agli architetti militari non doveva essere sfuggito come, superata la fase in cui le mura venivano smantellate e ridotte in macerie dai colpi delle bombarde, la massa di detriti assorbiva pa~ivamente i proiettili senza più modificare il proprio aspetto volumetrico e spaziale, diventando un ostacolo insormontabile a qualunque ulteriore concentramento di fuoco; i nuovi dettami per i fronti cinquecenteschi (contrariamente alle di poco antecedenti mura della Città di Napoli progettate da E di Giorgio Martini) propendevano quindi più che per un estradosso compatto, per una bar-riera più "soffice", onde realizzare quello che per gli esperti di balistica è l'assorbimento d'urto.

    Questi concetti vennero sicuramente applicati nella nuova murazione gaetana dove, per di più, la naturale orografia del territorio supportava il fronte non con un terrapieno da smantellare ma con le pendici stesse del monte Orlando, il quale, in contrasto con l'istmo spoglio e pianeggiante, risultava una barriera a prova di breccia. Così nacquero i primi bastioni, cui si andarono ad aggiungere strutture settecentesche e ottocentesche, che ancora oggi possiamo osservare dal versante di Serapo: Trinità, Transilvania, Malpasso, Mallandrone, Breccia (poi Phiiipstall), Cinquepiani, Cittadella, Porta di Terra, Cappelletti, Fico, S. Giacomo, Conca, Regina . . . , con gli annessi locali blindati, depositi di cannoni e munizioni, cammini coperti e ponti levatoi di collegamento.

    Nel Settecento le fortificazioni si arricchiscono degli elementi teorizzati nei più moderni trattati di ingegneria militare fino all'ambizioso progetto - datato 1701 e firmato dagli ingegneri Natale e Grunemberg - che intendeva potenziare il fossato antistante i bastioni alla base di Monte Orlando in modo tale da mettere in contatto i due golfi ai lati della penisola ed isolare completamente la Piazzaforte dalla terraferma. In questo modo si sarebbe potenziata sia la fortezza -aggiungendo anche dei corpi isolati di difesa - sia il porto, dando così una sicura via di fuga alle galere ospiti attraverso il canale reso navigabile. Questo ambizioso progetto - con elementi simili a quanto ritroviamo in altre importanti città-fortezza come, per esempio, Orbetello - chiaramente influenzato dagli studi militari come il trattato sulla "Fortificazione mediante chiuse" di Simon Stevin del 1618, trovò solo parziale realizzazione. Nella cartografia militare del 1734 si nota come lo scavo fosse stato già iniziato (probabilmente durante la breve dominazione austriaca di inizio Settecento). Nel "Plano del Frente de la Plaza de Gaeta para serbir al projecto del nuovo camino cobierto" (Napoli- Archivio di Stato) del 1738 si nota un riacceso interesse per il fossato, che appare potenziato rispetto alla rap-presentazione precedente, senza però farlo sfociare sul versante di Serapo. Nella pianta di Ottone di Berger del 1753 si ha ancora la conferma di questi lavori. Però il progetto di isolare completamente la base di Monte Orlando dall 'Istmo non verrà mai compiuto (anche se probabilmente, come si rileva da alcuni progetti militari ritrovati, ci si pensava ancora nei primi anni dell'Ottocento).

    Il fossato che partiva dal "Bastione Cittadella" - unico accesso alla Città dalla Terraferma - alla base di Monte Orlando, sul lato Nord, venne completamente eliminato nel corso di questo secolo.

    Storicamente Monte Orlando è visto quindi come barriera, divisione sem-pre più forte della città peninsulare dall'istmo, dal Borgo. Una separazione rimarcata dall'istmo di Montesecco, che ogni dominatore della Città ha sempre avuto cura di mantenere spoglio da vegetazione e da abitazioni, in modo da poter facilmente avere la meglio, dall'alto del Monte, di un nemico che pensasse di poter conquistare la città dal lato di terra (la storia cittadina è segnata da molti eser-citi assedianti). Cominciarono gli aragonesi ad isolare, demolendo ogni costruzio-ne; seguirono ordinanze spagnole e borboniche: Re Ferdinando Il dispose addirittura - sempre per le citate esigenze di difesa - che l'Istmo fosse spianato.

    Si è fatto cenno alla cartografia militare settecentesca; è proprio questa che ci rende concretamente idea di come era Monte Orlando e quale fosse il contesto urbano circostante. Ci si riferisce agli studi militari raccolti nelle "Carte Montemar", conservate presso l'Archivio di Stato di Napoli; in quesfi studi, redatti da abilissimi cartografi al fine di sviluppare studi strategici sulla piazzaforte gaetana (nella perizia quasi fotografica di rappresentazione sono, per esempio, evidenti gli studi sulle traiettorie di tiro dei cannoni), l'istmo appare spoglio e desolato, così come spoglio appare Monte Orlando (la piantumazione, principalmente di olivi e carrubi, attuata anch'essa con il fine strategico di avere una riserva di legna in caso di assedio, risale alla metà dell'Ottocento) sul quale risultano evidenti le mura fortificate, la ridotta viabilità militare allora esistente ed il Mausoleo Romano in sommità, trasformato in opera difensiva e circondato da un bastionamento che sembra ricordare l'architettura del Castel S. Elmo di Napoli. Il monumento romano riacquisterà il suo aspetto originale solo con l'accurato restauro attuato trenta anni fa.

    Settecentesche sono anche le grandi polveriere situate sul versante sud di Monte Orlando, opere poderose che, sia pure in stato oramai di completo abbandono, ancora si erigono imponenti sul mare con la loro grande mole, le spesse mura di protezione e, internamente, i plinti lapidei che mantenevano le strutture lignee di servizio; sono la "Trabacco" (eretta una prima volta nel 1730 circa ed esplosa nel 1760, creando , tra l'altro, danni alla città, e subito ricostruita) e la "Real Ferdinando" la cui costruzione è documentata al 1764 per opera del geniere Battista Pinto; a queste si aggiunse nell'Ottocento il deposito di Polveri della "Carolina", anch'essa imponente, ma m seguito ad una esplosione rimane ora solo un muro perimetrale ed il poderoso muro di protezione sul lato mare.

    Immagini del Monte Orlando attraverso i secoli non sono comunque dif-ficili da reperire nelle incisioni cinquecentesche e seicentesche della Città di Gaeta. Merita, invece, di essere citato il dipinto del XVII secolo, opera di Didier Barra, custodito a Napoli nel Museo di S. Martino: rappresenta una veduta "a volo di uccello" (tipico della scuola del Nord Europa) di Gaeta e comprende, con minuzia di particolari, Monte Orlando ed il suo inserimento nel contesto urbanistico della città seicentesca. Sempre al museo di S. Martino di Napoli è custodita la celebre tela di Jacob Philipp Hackert che raffigura però la città sul finire del Settecento.

    La viabilità di collegamento esistente ancora oggi su monte Orlando risale alla stagione di grandi lavori che ebbero luogo a Gaeta sotto il Regno di Ferdinando Il a partire dal 1830. Tale viabilità venne naturalmente potenziata (e risulta evidente dalla notevole cartografia militare redatta in quegli anni) al fine di rendere più efficiente il sistema di difesa, collegando in modo più rapido le batterie e le polveriere garantendo più facili rifornimenti e trasporto di materiale bellico. Vennero così realizzate: la via che dal "Torrion Francese", in prossimità del castello, collegava l'allora costruendo tempio di S. Francesco per poi proseguire sul Monte Orlando in direzione della Trinità; la strada dal convento della Trinità alle Polveriste, caratterizzata dai tornanti atti a consentire la svolta di carri e cannoni; vari tratti di collegamento tra i vari punti strategici che vennero rinnovati o riadattati (collegamento S. Andrea - Regina, Regina-Polveriste, ecc.). Altri lavori seguirono anni dopo, quando ormai si aveva il sentore del grande assedio del 1860 che avrebbe portato all'Unità d'Italia. I generali ordinarono che ovunque si rialzassero mura e si proteggessero gli spalti con parapetti. Si procedette alla blindatura di tutte le fortificazioni di Monte Orlando (blindature che venivano attuate soprattutto ricoprendo di terreno le volte degli edifici in modo tale da assorbire i colpi delle artiglierie e limitare la produzione di schegge). I bastioni denominati "Trinità", "Transilvania", "Malpasso", "Breccia", "Mallandrone" e "Cinquepiani", cui si aggiungevano le opere avanzate - da Monte Orlando verso l'istmo - erano tra loro collegate da passaggi sotterranei o con ponti levatoi che attraversavano profondi fossati di separazione. Alla vigilia dell'assedio vennero anche apportate ulteriori migliorie alle strade di comunicazione tra le batterie e le polveriere che dovevano garantire i rifornimenti. Tra il 5 novembre 1860 ed il 12 febbraio 1861 si abbatterono su Gaeta, ultima Città borbonica a resistere, più di 57.000 colpi di cannone (solo sul fronte che va dagli spalti di Monte Orlando alla punta della penisola). L'ingresso delle truppe piemontesi (dotate di artiglierie più moderne) nella piazzaforte avvenne attraverso la distruzione dell'avamposto della "Cittadella", nella quale si aprì la breccia, e delle vicine opere del "fronte di terra". Il ruolo mllitare di Monte Orlando non terminò però nel 1861, ma proseguì fino alla fine del secolo: vennero infatti realizzate ulteriori opere di difesa come le pregevoli batterie anulari sotterranee che circondano il mausoleo sulla sommità della collina. home

    SENTIERO DIDATTICO "LE PIANTE DELLA MACCHIA"

    Introduzione

    Nel luglio e nell'agosto 1997 il Circolo "Barba di Giove" della Legambiente e il Comune di Gaeta hanno organizzato un campo di volontariato ambientalista con volontari provenienti da tutto il mondo. Motto del campo: VOLONTARI PER LA NATURA E PER LA CULTURA. Uno dei lavori affidati ai volontari della LEGAMBIENTE è stato la realizzazione del sentiero didattico nella macchia posta sul lato occidentale di monte Orlando fra via della Trinità e via della Carolina. Il sentiero didattico è stato realizzato con lo scopo di far conoscere al pubblico inte-ressato alcune piante della macchia mediterranea, in particolare gli arbusti prota-gonisti della redenzione di quest'area, più volte percorsa dal fuoco, verso la for-ma vegetazionale più matura: il bosco.

    Il linguaggio usato è volutamente semplice per rendere facile il riconoscimento delle piante.

    Il sentiero inizia dalla via Carolina inferiore sul gomito dell'ultima curva a destra provenendo dal santuario della Trinità. Nei pressi delle piante descritte è posto il riferimento numerico riportato in questo testo.

    I numeri sono posti quasi tutti all'inizio del sentiero. L'utente potrà osservare la pianta mentre legge la sua descrizione. Percorrendo il sentiero potrà esercitarsi a riconoscerla ed, eventualmente, tornare indietro per rinfrescarsi la me-moria sui suoi particolari. home

    Numero 1 - Lentisco - Pistacia lentiscus L. Arbusto sempreverde alto sino a 4 metri. Corteccia rossiccia e squamosa. Foglie composte paripennate, cioè con due foglioline terminali. Foglioline oblungo-lanceolate, spesse, odoranti di resina. È pianta dioica, cioè i fiori maschili e femminili sono portati su individui diversi; fioritura in aprile. Il frutto è una drupa sferica rosso scuro e a maturità quasi nera. Ama il caldo e il sole, cresce bene su terreni silicei. Molto diffuso nella macchia.

    Di fronte al lentisco, alle spalle di chi guarda il numero di legno, c'è un esemplare di:

    Numero lbis Alaterno - Rhamnus alaternus L. Arbusto sempreverde, ma anche piccolo albero, alto fino a 6 metri con rami giovani pelosi. Corteccia rossastra. Foglie alterne dalla forma molto variabile a seconda della esposizione al sole de-gli individui: da lanceolate a più o meno rotondeggianti; sono coriacee e prive di peli (glabre) con il margine leggermente dentato. I fiori sono molto piccoli, verdi o gialli, a sessi separati sullo stesso individuo. I frutti sono carnosi, neri a maturità, contenenti 2-4 noccioli. Meno amante del caldo e del sole degli altri arbusti, lo si ritrova lungo i margini del bosco in condizioni di relativa umidità.

    Numero 2- Ginestra spinosa - Calicotome villosa (Poiret) Link. Arbusto alto fino a 3 metri con rami dotati di robuste spine e densa pelosità su rami giovani, foglie e legumi. Corteccia grigio chiara con venature longitudinali più scure. Fo-glie composte da tre foglioline. Fiori gialli raccolti in infiorescenze di pochi ele-menti con corolla papilionacea, cioè composta da cinque petali di forme diverse: un petalo superiore più grande ed eretto che si chiama vessillo, due petali laterali che sono chiamati ali e due petali di base, formanti la carena, che racchiudono gli organi sessuali pronti a scattare verso l'alto quando l'insetto impollinatore visita il fiore. In questa specie il vessillo è leggermente bidentato all'apice. Il frutto è un piccolo legume fittamente ricoperto di peli. Insieme all'erica arborea è la pianta che è maggiormente favorita dal terreno acido. Tutta la zona attraversata dal sentiero ne è particolarmente ricca tanto che, vista dalle colline circostanti, al tempo della fioritura appare completamente gialla. La ginestra spinosa resiste al sole ed al secco perdendo le foglie che, prima di cadere, diventano piccole virgole nere.

    Numero 3- Caprifoglio mediterraneo - Lonicera implexa Aiton. Cespuglio sempreverde con rami che possono adagiarsi sui cespugli circostanti, ma, se cresce isolata in condizioni di maggiore aridità, i suoi rami si sostengono maggior-mente. Le foglie, opposte, sono coriacee e assumono forme diverse a seconda dell'altezza di inserimento sul fusto: le inferiori sono spatolate con breve picciolo mentre le superiori hanno le basi concresciute fra loro e formano una lamina unica attraversata al centro dal fusto. I fiori hanno corolla ad imbuto e labbra divergenti. il frutto è una bacca ovale rossa. Presente nella macchia e nella gariga, resiste bene all'aridità per mezzo delle sue foglie coriacee.

    Numero 4- Dondolino - Coronilla emerus L. Arbusto sempreverde alto fino a 2 metri dai giovani rami fortemente solcati di un bel verde brillante che spicca sul resto della pianta più scura. Foglie composte alterne ed imparipennate (con fogliolina terminale). Fiori gialli raccolti in gruppi di 2-3 elementi con corolla papilionacea. I frutti sono legumi ricurvi ad una estremità e segmentati. Non resiste all'aridità, quindi è legata ad ambienti di macchia alta.

    Numero 5- Mirto - Myrtus communis L. Arbusto sempreverde alto fino a 3 metri. Corteccia rossastra da giovane, tendente poi al grigio cenere. Foglie opposte ovali ed appuntite, coriacee, ma con consistenza variabile a seconda della esposizione al sole degli individui, aromatiche. Fiori bianchi e molto odorosi, contenenti entrambi i sessi (ermafroditi), con lungo peduncolo. Il frutto è una bacca blu scuro tendente al nero. Il mirto si accompagna al lentisco nelle situazioni di aridità, ma cresce bene su qualsiasi tipo di terreno.

    Numero 6 - Ginestra odorosa - Spartium junceum L. Arbusto sempreverde alto fino a 4 metri, con rami protesi verso l'alto. La corteccia è liscia e verde nei rami giovani ed ha la capacità di effettuare la fotosintesi clorofilliana, poi diventa grigio chiara. Le foglie sono piccole, strette, lanceolate, pelose sulla pagina inferiore; cadono poco dopo essere spuntate e vengono sostituite nell'attività fotosintetica dai rami. I fiori sono posti all'apice dei rami verdi: il colore è giallo intenso, profumatissimi e con corolla papilionacea. il frutto è un legume nero protetto da una fitta peluria; a maturità si spacca violentemente in senso longitudinale, proiettando lontano i semi. È molto frugale ed ama il sole e il caldo, quindi è pianta pioniera preziosa per la riconquista da parte degli alberi dei terreni degradati.

    Numero 7- Leccio - Quercus ijex L. Albero sempreverde alto sino a 25 metri: è molto longevo, ma di lento accrescimento. La corteccia è grigia e liscia da giovane, poi più scura e screpolata. Le foglie sono in genere ovate, ma a seconda della situazione ecologica si presentano in varie forme, con margine da ondulato a dentato, fino a spinescente come avviene per quelle che crescono sui rami più bassi; sono dure e coriacee, con la faccia superiore verde lucente e l'inferiore grigio chiara per la pelosità. I fiori sono in sessi separati sulla stessa pianta: i maschili in infiorescenze pendule (amenti), quelli femminili in spighette erette. Il frutto è una ghianda appuntita con cupola emisferica grigia. Ama il caldo ed il sole, ma non nei primi stadi di accrescimento. È il tipico albero dell'ambiente mediterra-neo: se la macchia fosse lasciata libera di evolversi, lo stadio finale (climax) sarebbe comunque una lecceta. I lecci visibili da questo sentiero sono in forma arbustiva perché rinascono da ceppaie di alberi bruciati. Da questi nasceranno i semi che produrranno gli alberi capaci di crescere in altezza e ricostruire la foresta.

    Numero 8- Asparago pungente - Asparagus acutijolius. Pianta rampicante sempreverde, fino a 2 metri. Fusto liscio; rametti (cladodi) ridotti a somiglianza' di foglie aghiformi con apice pungente. Foglie ridotte a piccole squame difficilmente osservabili. Fiori verde chiaro su piante con sessi diversi. Il frutto è una bacca verde quasi sferica. È una tipica pianta delle macchie ben esposte al sole, ma ac-cetta anche l'ombra del bosco.

    Numero 9- Scopa - Erica arborea L. Arbusto sempreverde alto fino a 4 metri. I rami giovani sono coperti di piccoli peli ramificati. La corteccia è rossastra tendente al bruno. Foglie piccole che danno alla pianta un aspetto piumoso. Piccoli fiori bianchi o rosati in infiorescenze poste alla sommità dei rami, con corolla a forma di botte che lascia spuntare la parte terminale del pistillo. Il frutto è una minuscola capsula. È pianta tipica delle macchie su suoli silicei, ma non in condizioni di estrema aridità.

    Numero 10 - Cisto marino - Cistus monspeliensis L. Cespuglio sempreverde alto fino ad 1 metro con fusto molto ramoso e rami vellutati. Le foglie lineari-lanceolate con tre nervature evidenti sono sessili, cioè prive di picciolo; sono profumate e tanto ricche di sostanze resinose da risultare appiccicose al tatto. I fiori sono bianchi di 2-3 centimetri di diametro in grappoli di 16 elementi girati tutti da una stessa parte. I frutti sono capsule (frutti che seccano sulla pianta e disperdono i semi attraverso tante aperture quante sono gli scomparti che li compongono). Dopo un incendio i primi cespugli che coprono gli spazi vuoti sono i cisti; mostrano grande vitalità e rapido accrescimento anche nei luoghi più inospitali, dove regna la salsedine e la siccità, ma regrediscono al chiudersi e all'innalzarsi della macchia.

    Numero 11 Olivo - Olea europaea L. Albero sempreverde alto fino a 10 metri. Corteccia grigio chiara da giovane, screpolata e nera da vecchia. Foglie opposte, di consistenza coriacea, lanceolate; il loro colore è verde scuro superior-mente ed argentato inferiormente. I fiori sono piccoli e bianchi e raccolti in grappoli di pochi elementi posti all'ascella delle foglie. I frutti sono drupe carnose nere a maturità. L'olivo è l'albero mediterraneo per eccellenza. Quando si vuole evita-re un'elencazione di dati climatici per delimitare geograficamente la vegetazione mediterranea si fa riferimento all' areale dell'olivo. Ama i luoghi assolati e resiste al secco. Esiste una varietà selvatica (Olea europaea oleaster) difficilmente distinguibile quando si presenta in forma cespugliare dalla varietà domestica inselvatichita, ma gli individui presenti intorno al sentiero appartengono a quest'ultima.

    Numero 12-Ambiente della gariga e della bassa macchia. Da questo punto di osservazione si può dare uno sguardo alla vegetazione circostante.I diversi incendi che hanno percorso quest'area, l'ultimo nel 1983, hanno eliminato lo strato degli alberi. In mancanza di un efficace copertura, la pioggia ed il vento erodono il suolo facendo affiorare le rocce. Diversi incendi in anni successivi portano alla degradazione che è possibile osservare sulle colline circostanti o anche sullo stesso versante meridionale di monte Orlando. La vegetazione che cresce in questi luoghi è la gariga" nelle sue varie forme di degradazione, composta principalmente da bassi cespugli e da piante erbacee. Fortunatamente, ma anche per l'attenta sorveglianza da parte delle persone preposte, sono molti anni che qui non ci sono incendi, cosicché la lenta, ma efficace, opera di ricostruzione della natura ha portato ad una copertura del suolo quasi continua, in una macchia sempre più alta, come preludio al bosco. Gli arbusti che si sono sviluppati in maggior numero sono quelli che sanno resistere alle condizioni climatiche avverse (caldo, aridità, forte insolazione) e che sono favoriti dalla presenza di sabbia nel suolo, che qui è relativamente abbondante.

    Nell'adattamento alle condizioni climatiche le piante hanno dovuto sviluppare metodi per limitare la perdita dell'acqua a causa della traspirazione fogliare. Per prima cosa questo è il regno delle piante sempreverdi, sia perché la mitezza degli inverni non pregiudica la vita delle foglie e sia perché a primavera esse non potrebbero compiere lo sforzo di mettere le nuove foglie tutte insieme, sforzo che richiederebbe ben altre quantità di acqua di quelle di cui dispongono qui. Poi le piante hanno sviluppato una serie di adattamenti quali la sclerofillia, la tomentosità, l'assenza di foglie ecc. La maggior parte degli arbusti che si incontrano lungo questo sentiero hanno infatti le foglie dotate di una epidermide superiore ispessita in più strati, capace di fermare per quanto possibile la radiazione solare, che conferisce alle foglie un aspetto duro e coriaceo, da cui il termine di sclerofillia". L'epidermide superiore è anche coperta da una cera che riflette parte della radiazione solare e dà un aspetto lucente alla foglia. La pagina inferiore delle foglie di queste piante è invece spesso ricoperta da una fitta rete di piccoli peli argentei, chiamata "tomento", che copre gli stomi e, facendo ombra e intrappolando uno strato d'aria, rendono difficile la perdita d'acqua. Come rovescio della medaglia, tuttavia, si ottiene che anche la fotosintesi ne venga in parte ostacolata: per questo motivo gli alberi e gli arbusfi mediterranei hanno una crescita molto lenta. Altre piante, come la ginestra odorosa (Spartium junceum,) non possiedono normalmente le foglie; infatti essa le perde già in primavera poco dopo che sono spuntate. La ginestra spinosa (Calicotome villosa ) invece, le perde quando comincia il periodo siccitoso.

    Numero 13 - Stracciabraghe - Smilax aspera L. è una pianta rampicante, fino a 4 metri, sempreverde, con fusti legnosi e spinosi, molto resistenti alla trazione. Le foglie sono cuoriformi allungate, coriacee e con i margini e le nervature centrali dotate di spine uncinate. Fiori bianchi su piante a sessi diversi e raccolti in ombrelle. Il frutto è una bacca rossa. È pianta tipica delle macchie che contribuisce grandemente a rendere impenetrabili agli uomini e agli animali. È presente anche nella lecceta.

    Numero 14- Erba corsa - Daphne gnidium L. Piccolo arbusto sempreverde alto fino a 2 metri con rami dritti ed eretti. Corteccia bruno rossastra. Foglie lanceolate e strette, abbastanza spesse e fragili, così fitte da nascondere i rami. Fiori piccoli e bianchi alla sommità dei rami. Il frutto è una drupa carnosa con un nocciolo. L'erba corsa resiste bene agli ambienti aridi e la si ritrova sia nelle macchie che nelle garighe.

    Intorno all'erba corsa e nei pressi di cespugli di erica arborea, che può ser-vire da confronto, ci sono cespugli di

    Numero 14bis Erica multiflora - Erica multiflora L. Arbusto sempreverde con fusti eretti di altezza massima di 150 centimetri. Corteccia grigio- brunastra. Foglie strette, piccole, coriacee, di aspetto aghiforme, ben più consistenti di quelle della congenere E. arborea. I fiori sono roseo-violetti portati in fitte infiorescenze sull'apice dei rametti. Fiorisce in autunno e poi per molti mesi conserva le infiorescenze secche: è pianta di gariga e di macchia.

    Numero 15 - Laurotino- Viburnum tinus. Arbusto sempreverde alto fino a 3 metri. I rami giovani hanno corteccia verde-porpora. Foglie opposte che ricordano quelle dell'alloro, somiglianza che dà ragione del nome. Fiori bianco rosati raccolii in infiorescenze poste in cima ai rami, formate da fiori posti tutti alla stessa altezza, ma con peduncoli inseriti sull'asse principale ad altezze diverse (corimbi). I frutti sono bacche con un solo seme di un caratteristico blu scuro metallizzato che non ha eguali in tutta la flora europea. I luoghi più freschi della macchia, non direttamente esposti al sole, sono l'ambiente ideale del laurotino, quindi è logico che l'esemplare che troviamo sul sentiero non possa offrire il meglio delle sue potenzialità.

    Numero 16 - Saracchio - Ampelodesmos mauritanicus (Poiret) Dur et Sch. Pianta erbacea perenne che forma cespugli molto densi. Foglie lineari lunghe fino ad un metro dal margine seghettato, che dà il nome alla pianta. Fiori in spighette di 3-5 elementi poste su lunghi peduncoli. Tipica degli ambienti mediterranei più degradati, resiste al caldo, al secco, al fuoco. Alla sua piccola ombra riparte da zero la lenta riconquista del bosco.

    Numero 17 - Rosmarino - Rosmarinus officinalis L. Piccolo arbusto sempre-verde di un metro e mezzo di altezza massima, spesso con rami prostrati. Foglie opposte, strette, coriacee, di aspetto aghiforme, con i margini arrotolati verso la pagina inferiore, che è ricoperta di peli. I fiori sono generalmente azzurri nelle varie tonalità, ma anche bianco rosati. Pianta di gariga, ama il sole e resiste bene alla siccità; quando la macchia si innalza e infittisce tende a scomparire.

    Dietro il rosmarino, sullo sfondo e un po' più a destra ci sono tre piante di:

    Numero 17bis - Roverella - Quercus pubescens WiIId. Albero a foglie decidue alto fino a 25 metri. Corteccia grigioscura, poi nerastra, sempre screpolata in scaglie a profilo quadrangolare. Le foglie sono molto variabili in forma e dimensioni: generalmente ovate con margine lobato; la pagina inferiore è ricoperta di peli. Da secche resistono a lungo sui rami. Fiori a sessi separati sulla stessa pianta: i maschili in amenti penduli, i femminili in spighe alle ascelle delle foglie. Il frutto è una ghianda striata allo stato fresco, con cupola emisferica. Il peduncolo è molto peloso. Richiede maggiore umidità del leccio. I pochi esemplari lungo questo sen-fiero, in estate, appaiono sofferenti, con molte foglie secche.

    Numero 18 - Cisto femmina - Cistus salvifolius L. Piccolo cespuglio 30-50 centimetri sempreverde. Le foglie sono più o meno rugose e vellutate sulle due facce, ellittiche, con nervature pennate; non sono vischiose e sono meno profumate di quelle del cisto marino. I fiori sono bianchi, isolati. Vive nelle macchie, specialmente su suolo siliceo. home