Si
prepara un mucchio conico di sabbia alto una spanna, vi si infila in cima
verticalmente un’asticella. Fatta
la conta, a turno, i partecipanti cominciano a scalzare il mucchietto di
sabbia. I primi con manate abbondanti riducono il mucchietto senza prestare
troppa attenzione, poi, man mano che il mucchietto si riduce, i ragazzi
diventano più prudenti fino ad adoperare
uno stecchino per togliere pochi granelli di sabbia intorno all’asticella
verticale. Infatti chi
fa cadere l’asticella deve
prenderla con la bocca. Spesso
va a finire che qualche birbante dia una spintarella al malcapitato mandandolo
col muso nella sabbia: rabbia per lui, grande divertimento per gli altri.
La
capanna non si può più fare, perché manca la materia prima che proveniva
dalle dune di Serapo, dove cresceva l’ailanto, la così detta mazze de
Sèrbe, una pianta con tronco alto e diritto, che si spezza facilmente a
mano, avendo all’interno un midollo tenero, e con rami che si staccano netti
dal tronco come una spina dallo stelo di una rosa.
Comunque, mi piace ricordare
ugualmente la costruzione della capanna,
perché non si dimentichi come una volta ci si divertiva con poco usando e
affilando l’intelligenza, l’abilità, lo spirito d’iniziativa e di
collaborazione.
I
tronchi maggiori si infilano nel terreno per delimitare il perimetro, i minori
si legano trasversalmente, i rametti con le foglie vengono intrecciati
per formare il tetto. Non è che si possa costruire chissà che, ma ai
ragazzi basta per potersi infilare là sotto e starsene seduti.
La costruzione costa ore di
lavoro, ma grande è la soddisfazione di aver creato qualcosa con le proprie
mani, usando il materiale fornito da una pianta, neppure adatta ad essere
bruciata.
Nella
stagione estiva i ragazzi passano molte ore al mare: tra un tuffo e l’altro si
divertono a correre e a rotolarsi sulla sabbia rovente. Quando formano un bel
gruppo, fanno la conta per scegliere chi deve tuffarsi per primo. Una
volta in acqua, costui chiama un compagno, che corre a tuffarsi e a sua
volta ne chiama un altro e così di seguito finché non sono tutti in
acqua.
I
ragazzi vedono in rada le navi della Marina Militare, imparano a distinguerle,
ne ricordano i nomi (Giulio Cesare, Andrea Doria, Dante Alighieri) e non si
stancano di seguirne le manovre per l’ancoraggio. Si comprende come nei sogni
e nei desideri di questi ragazzi ci sia quello di possedere una nave per i
propri giuochi. Allora cosa sono capaci di fare? In gruppo se ne costruiscono
una tutta particolare, una nave che non naviga, non si muove, ma se ne sta ferma
e ben ancorata sul litorale a qualche metro dalla battigia. La costruiscono
accatastando delle pietre che ricoprono di sabbia, la circondano con un
muricciolo a secco, la difendono dal mare con un frangiflutti e completano l’opera
con la passerella di accesso (gliu calandrone). Sulla nave alzano un
albero con la bandiera, accendono il fuoco e su una lamiera cuociono cozze,
arselle, granchi e mazzoni (ghiozzi). C’è sempre qualcuno che fa la
sentinella a gliu calandrone, all’erta perché una banda avversaria non
dia un assalto a sorpresa e a spintoni butti giù il muro a secco di recinzione.
Sulla nave tutto procede secondo le leggi stabilite e nessuno osa ribellarsi.
Quattro o cinque ragazzi, immersi nell’acqua fino oltre la cintola, intrecciano le braccia; sulle loro spalle salgono altri tre ragazzi e un altro si arrampica in cima alla piramide. Naturalmente l’equilibrio è precario e presto si finisce tutti in acqua con gran divertimento.
Con il medesimo nome il gioco è ricordato da P.B. Fedele (Minturno, Storia e Folklore, C.A.M., Napoli 1958, pag. 219).
Come
il figlio del contadino si costruisce l’asinello con una scopa di saracchio,
così quello del pescatore ricava la sua barchetta da un pezzo di sughero.
Ma la barchetta non è come la
scopa, che bisogna tirarsela dietro con il filo di spago; la barchetta naviga da
sola poiché il ragazzo si è preoccupato di attrezzare il pezzo di sughero con
albero, vela e timone ed ora si
diverte un mondo a vederla veleggiare. Però deve stare attento a che la varcucèlle
non prenda il largo e vada irrimediabilmente perduta.
I
ragazzi hanno fatto il bagno e stanno a crogiolarsi al sole, distesi sulla
sabbia a pancia in giù. Ecco
che uno fa la pipì e dice a voce alta:
“Campanieglie”
risponde il più pronto (la
tempestività è importante in questo giuoco).
Il
primo prosegue : “Vicino o lontano ?”
L’altro
risponde, naturalmente, a caso, ma dalla sua risposta dipende quale dei compagni
sarà il bersaglio della palla di sabbia impastata con l’orina, palla che nel
frattempo il legittimo proprietario palleggia tra le mani. Egli, dunque,
lancerà la palla contro il compagno più vicino se la risposta è stata “lontano”
e viceversa.
Sono
le bambine le protagoniste del gioco.
Quando la riva è battuta dalle
onde che si spingono sulla battigia, le bimbe formano una catena, tenendosi
sottobraccio, e seguono il salire e lo scendere dell’acqua, muovendosi avanti
e indietro e cercando di non farsi sorprendere da un’onda più veloce, che
potrebbe bagnarle. Contemporaneamente
ripetono cantando in coro:
“Uó
dà nu po’ de pizze agliu marite mije?”
(Vuoi
dare un po’ di pizza al marito mio?)
I
ragazzi si dividono in due gruppi e si dispongono alle due murate di una barca,
che, come tante altre, è attraccata alla banchina. Con spinte sincrone
incominciano a farla rollare sin quasi ad imbarcare acqua. Il gioco è assai
divertente e neppure pericoloso, a meno che non sopraggiunga il proprietario,
esterrefatto nel vedere trattati in quel modo la sua barca e i suoi attrezzi di
cui è oltremodo geloso.