DANIELE 6

Premessa storica

Il v. 31 del cap. 5 chiude il racconto del banchetto sacrilego e della successiva morte del re, informandoci che Dario il Medo ricevette il regno all'età di sessantadue anni.

Questa affermazione crea una difficoltà storica in quanto in realtà Babilonia fu conquistata da Ciro nel 539. Per questo motivo i critici hanno supposto che qui l'autore del libro di Daniele abbia confuso Dario il Medo con Dario I, figlio di Istaspe, che fu soltanto il terzo successore del regno Medo-Persiano dopo Ciro e Cambise II, e non era medo, ma di stirpe persiana.

L'interpretazione dei critici però non è sostenibile alla luce di quanto viene detto dal testo:

a) Dario I, figlio di Istaspe, non poteva essere chiamato il Medo in quanto tutti ben sapevano che era un discendente dell'antica linea regale persiana.

b) Dario I non poteva aver assunto il potere a Babilonia all'età di sessantadue anni, come viene detto nel testo, perché era noto a tutti che cominciò a regnare in un'età abbastanza giovanile.

c) In Dn 9, 1 viene detto che Dario, figlio di Assuero, della stirpe dei Medi, fu costituito re sopra tutto il regno dei Caldei. Il termine " fu costituito" (in aramaico homlàk) lascia intendere che egli ha ricevuto il titolo di re nel regno dei Caldei da un'autorità più elevata di lui. Questo si accorda bene con l'ipotesi che egli possa essere stato fatto viceré di Babilonia da Ciro il Grande, il quale lo aveva nominato governatore di Babilonia e gli aveva permesso di portare il nome di re, come era già avvenuto nel caso di Belshatsar, costituito re di Babilonia dal padre Nabonide. I critici tuttavia obbiettano che un semplice viceré non poteva avere l' autorità da emettere un decreto che si estendeva a tutti gli abitanti della terra, come viene detto in Dn 6, 25. Si deve però osservare che la parola aramaica ’ar‘â, ma anche la corrispondente ebraica ’eres, che viene tradotto con "terra", non necessariamente ha un significato vasto, ma può voler semplicemente indicare un territorio o una contrada ben delimitata. Quindi il decreto di Dario il Medo valeva soltanto nel territorio o nella contrada in cui lui era stato costituito governatore da Ciro il Grande. Inoltre, essendoci l'usanza da parte dei re di Babilonia fin dai tempi di Hammurabi di farsi chiamare "re di tutto l'universo" (lett. "re di tutti"), può darsi che anche Dario il Medo abbia semplicemente seguito l'antico costume che usava una terminologia implicante il dominio universale, pur non avendolo in realtà. Si trattava semplicemente di una frase che faceva ormai parte dell'antico protocollo regale, ma che negli anni successivi aveva perso il suo significato originario.

Per poter capire bene tutta la questione è utile accennare brevemente alle varie successioni dei re avvenute nell'impero Medo Persiano.

Impero Medo-Persiano
Schema cronologico della dinastia degli Achemenidi


Re
loro imprese
riferimento biblici
Ciro I re di Anzan discendente di Teispe e di Achemene (670 a.C.), costituisce un primo agglomerato politico nel territorio dei Medi, da cui prese il nome l'impero Medo-Persiano  
Cambise I regna fino al 558 a.C. nel territorio di Susa e Persepoli  
Ciro il Grande (558-529 a.C.) conquista la Lidia e nel 539 Babilonia. Nel 538 emette un editto a favore del ritorno degli esuli Giudei in patria 2 Cr 36, 22-23; Esd 1;4, 3.5; 6,3-5; Is 44,28; 45, 1-4; Dn 1,21; 6,28; 10,1
Cambise II (529-522 a.C.) tra il 525 ed i 522 conquista l'Egitto  
Dario I (522-485 a.C.) ramo cadetto degli Achemenidi, prende il potere e porta l'impero al culmine della sua potenza Esd 4, 5.24; 6, 1-12; Neh 12, 22; Ag 1,1; 2,10; Zc 1,1
Serse  I (o Assuero) (485-465 a.C.)   Esd 4, 6; Est 1,1ss
Artaserse I (465-424 a.C.)   Esd 4, 7; 7, 7; Neh 2,1-2; 13, 6
Dario II (424-404 a.C.)    
Artaserse II (404-358 a.C.)    
Artaserse III (358-338 a.C)    
Arsete (338-336 a.C.)    
Dario III (336-330) con lui si conclude la dinastia degli Achemenidi. Sconfitto definitivamente da Alessandro Magno nelle battaglie di Isso (333 a.C.) e di Gaugamela (331 a.C.), muore l'anno successivo e con lui si conclude anche l'impero Medo-Persiano  

Abbiamo già detto che l'impero Babilonese crollò per opera di Ciro il Grande, il quale conquistò, senza colpo ferire, la città di Babilonia nel 539 a.C. Ma Ciro il Grande non sorge dal nulla. Il primo centro politico persiano organizzato si formò tra il IX ed il VII nella regione delle tribù iraniche della Media, da cui l'Impero Medo prese il nome all'inizio. Tra la fine del VII e gli inizi del VI si costituì nella regione di Susa e di Persepoli un forte organismo politico con a capo Cambise, re di Anzan, della dinastia degli Achemenidi. Nel 558 a.C. a Cambise successe il figlio Ciro, che può essere considerato il vero fondatore dell'impero Medo-Persiano avendo conquistato la Lidia (Sardi) e nel 539 Babilonia.

La politica di potenza mondiale, iniziata da Ciro, fu continuata anche dal figlio e suo successore Cambise II (529-522 a.C.), che tra il 525 ed il 522 attuò la conquista dell'Egitto. A Cambise II succedette nel trono Dario I che faceva parte di un ramo cadetto degli Achemenidi e che regnò dal 522 fino al 485 a.C. Dario riprese con la stessa energia e fortuna la politica di Ciro, portando l'impero al culmine della sua potenza.

Questo re non poteva in alcun modo avere a che fare con Dario il Medo di cui si parla nel libro di Daniele, perché durante il suo regno, i primi gruppi di esuli di Babilonia erano ormai tornati in Palestina per l'editto di Ciro il Grande del 538 (2 Cr 36, 22-23; Esd 1, 1-3) ed avevano appena iniziato, non senza difficoltà ed ostilità da parte dei popoli vicini, la ricostruzione del tempio di Gerusalemme.

Rimane quindi il problema sull'identificazione di questo Dario il Medo di cui parla il libro di Daniele. Nessuno degli storici antichi lo nomina. Vi sono tuttavia alcune evidenze abbastanza forti che ci spingono ad identificarlo con il governatore chiamato Gubaru (in gr. Gobryas), il quale è ricordato sia dai documenti cuneiformi sia dagli storici greci e che ebbe un ruolo decisivo nella conquista di Babilonia e della quale ebbe poi l'amministrazione. Per alcuni decenni gli studiosi ebbero l'abitudine di identificare questo Gubaru con Dario il Medo, ma poiché vi erano notevoli differenze negli antichi racconti relativi a questo personaggio, alcuni studiosi, fra cui un certo Rowley, cominciarono a rifiutare come insostenibile l'identificazione fra Gubaru e Dario il Medo.

J.C. Whitcomb nel suo studio "Darius the Mede" del 1959 ha contestato gli argomenti di Rowley contro l'identificazione. Ha raccolto tutte le antiche iscrizioni riguardanti Ugbaru, Gubaru e Gaubaruva, che si trovavano nella Cronaca di Nabonide, nei testi del Contenau, nei testi di Tremayne e nella iscrizione di Behistum. Ha messo a confronti tutte queste iscrizione e, con un paziente lavoro di comparazione e di eliminazione, ha dimostrato che Ugbaru e Gubaru non è lo stesso personaggio il cui nome veniva pronunciato in maniera diversa, ma si trattava di due personaggi diversi e ben distinti fra loro. L'idea che si trattasse sempre dello stesso personaggio, pronunciato in maniera diversa dai vari scrittori antichi, aveva provocato negli studiosi molta confusione inducendoli a respingere l'identificazione fra tale personaggio e Dario il Medo a causa delle notevoli differenze riscontrate nelle loro storie. In realtà Ugbaru fu un vecchio generale che divenne governatore di Gutium; fu lui a causare la conquista di Babilonia deviando le acque dell'Eufrate in un canale artificiale. Ma secondo i testi cuneiformi egli visse soltanto poche settimane dopo la sua vittoriosa impresa morendo a causa di una malattia improvvisa. Sembra che dopo la sua morte un certo Gubaru sia stato stabilito governatore di Babilonia e di Ebirnâri ("regione al di là del fiume") da parte del re Ciro il Grande. Egli è così chiamato nelle tavolette datate al quarto, sesto, settimo e ottavo anno del regno di Ciro (ossia 535, 533, 532 e 531 a.C.) e poi nel secondo, terzo, quarto e quinto anno di Cambise II (ossia 528, 527, 526 e 525 a.C.). Sembra che sia morto durante una rivolta e durante il regno di Dario I perché il 22 marzo del 520 a.C. il nuovo governatore di Babilonia risulta essere un certo Ushtani.

Whitcomb va oltre e giunge ad affermare: «È nostra convinzione che Gubaru, governatore di Babilonia e della regione al di là del fiume, appare nel libro di Daniele come Dario il Medo, il re che ebbe l'incarico del regno caldeo subito dopo la morte di Belshatsar e che stabilì satrapi e presidenti (incluso Daniele) perché lo assistessero nel governo di un territorio assai esteso con le sue molte genti. Noi crediamo che questa identificazione sia l'unica via per armonizzare tra loro le varie linee di evidenza che troviamo nel libro di Daniele e nei contemporanei racconti cuneiformi»

Whitcomb cita anche l'asserzione di W.F. Albright nel "The Date and Personality of  the Chronicler» (Journal of Biblical Literature 40 p. 11, n. 2): « Mi sembra altamente probabile che Gobryas abbia in realtà assunto la dignità regale assieme al nome di Dario. forse un antico titolo regale,, mentre Ciro era assente nella campagna europea. . . Dopo la spiegazione data dai testi cunei-formi del mistero di Belshatsar, che mostrano come questi fosse stato per lungo tempo un coreggente con suo padre, ci si può attendere anche che la realtà storica di Dario il Medo possa venire documentata. . . . Possiamo pensare che il babilonese autore giudaico fosse al corrente che il nome Dario, persiano Darayavahush, sia stato un titolo di onore simile al nostro Cesare o Augusto al tempo dell'impero romano. Nel persiano medievale (Zend) troviamo la parola "dara", con il senso di re. Forse Darayavahush può significare anche solo "il regale" »

In questo contesto si può aggiungere una parola riguardante il notevole decreto riferito da Daniele 6, che proibiva di rivolgere un culto a qualsiasi divinità ad eccezione di Dario stesso per un periodo di trenta giorni. Ammesso pure che il re in seguito si sia pentito della follia di tale decreto quando si accorse che esso era soltanto una congiura per eliminare il suo servo fedele Daniele, è pur sempre necessario chiarire come mai egli abbia potuto aver sanzionato in un primo tempo tale legge. In vista dell'intima connessione esistente tra religione e lealtà politica che esisteva nell'attitudine dei popoli di antica cultura, il decreto ci appare come una manovra per costringere i membri delle varie tribù eterogenee e delle varie devozioni religiose a riconoscere in modo pratico la supremazia del nuovo impero persiano, che aveva preso il controllo dei loro domini. Una temporanea sospensione del culto (almeno nel senso di presentare richieste di benedizioni e di aiuto), era una misura ben calcolata per convogliare le menti dei sudditi di Dario alla realtà del cambio sopravvenuto nel controllo regale, dalla supremazia caldea a quella dei Medi e dei Persiani. Alla luce dell'antica psicologia è, quindi, inopportuno negare la possibilità di un decreto così notevole e di condannarlo come un racconto favoloso e antistorico come molti critici hanno fatto.

Il racconto

L'episodio che si snoda dal v. 1 al v. 28 ricalca, almeno nelle sue linee essenziali, quello del cap. 3. In ambedue infatti si svolge il tema del giusto perseguitato. Come i tre giovani amici di Daniele del cap. 3, anche Daniele, protagonista di questo racconto, è perseguitato per la sua fedeltà al Signore. E anche Daniele finalmente, come i tre giovani, è miracolosamente liberato da Dio che viene quindi proclamato dai persecutori come il vero Dio. Le circostanze storiche tuttavia sono diverse come anche il principale personaggio del dramma. Dal punto di vista storico, questo episodio, come quello di Dn 3, non risulta da nessun documento, anche se, come abbiamo visto, possiede i requisiti della storicità. Specialmente perché collocato nell'epoca persiana, questo racconto è un eloquente parallelo con il libro di Ester. Esso comunque esprime bene la verità annunziata spesso dai profeti e dai salmisti che Dio protegge i suoi fedeli contro le calunnie e le trame degli empi e degli invidiosi del successo dei giusti. Inquadrato in questa cornice storica nella quale i pii Israeliti sono in mezzo ai popoli pagani, l'episodio rivela anche il modo con cui il vero Dio è conosciuto in mezzo alle genti.

Daniele al servizio del re Dario

L'episodio è inquadrato storicamente nella stessa cornice di quello precedente: Dario dopo aver conquistato Babilonia, ucciso l'ultimo sovrano ed iniziato un nuovo regno, dà ad esso una nuova organizzazione nella quale il giudeo Daniele è collocato al primo rango a motivo delle sue eccellenti qualità amministrative e per la sue fedeltà al re. Queste circostanze richiamano ancora alla mente quelle di Giuseppe in Egitto (Gn 41), ma nello stesso tempo preannunciano l'inizio di una nuova epoca per i deportati Giudei. Nonostante che l'oppressione, la persecuzione, i pericoli e le forze del male congiurino contro di lui, il Signore assiste sempre il suo popolo. Come avvenne in Egitto dopo la morte di Giuseppe (Es 1, 5) il popolo di Dio sa che su questa terra deve sempre aspettarsi delle brutte sorprese, ma alla fine il Signore provvederà alla sua liberazione.

« Piacque a Dario . . .» (v. 1). Si tratta sempre dello stesso personaggio nominato al v. 31 del cap. 5. Quindi per esso vale tutto il discorso che è stato fatto nella premessa storica. Il testo aramaico e la versione greca di Teodozione parlano di «centoventi satrapi», mentre in quella dei LXX sono centoventisette, tanti quanti il libro di Ester (1,1) attribuisce alla riforma di Assuero (Serse) che succedette al trono dell'impero Medo-Persiano dopo Dario I nel 485 d.C. La divisione dell'impero in satrapie è  comunque una caratteristica dei sovrani Medo-Persiano che succedettero ai monarchi babilonesi.
«e sopra di loro tre prefetti» (v. 2), La parola "prefetto", di origine persiana ricorre solo in questo racconto e quindi non è facile precisare meglio la funzione di questi ministri supremi del regno. Molto probabilmente essi esercitavano collegialmente il potere, costituendo un consiglio della corona, una specie di triunvirato, affinché il re non venisse troppo importunato dal ricorso diretto dei vari governatori delle provincie (satrapi).

Il v. 3 ci informa che «questo Daniele », cioè il personaggio noto ai lettori della storia, aveva un «spirito superiore » che lo faceva emergere non solo al di sopra dei satrapi, ma anche degli altri due prefetti, tanto che il re pensava di affidargli la responsabilità di tutto il regno. Lo spirito superiore che faceva eccellere Daniele sugli altri due prefetti e sui satrapi era una qualità che era già stata fatta rilevare in Dn 5, 12 dove si parla di « spirito straordinario» ed in Dn 5, 14 dove si dice che avesse «lo spirito degli dei». Con queste espressioni l'autore del libro di Daniele vuole comunicare ai suoi lettori che le doti eccellenti di governo di Daniele gli derivavano da un dono divino, come già era stato detto all'inizio in occasione del suo ingresso alla corte dei re babilonesi (Dn 1, 17). Il modello dell'amministratore "fedele e saggio (o avveduto)", che verrà poi ricordato da Gesù nelle parabole (Mt 24, 45; Lc 12, 42) era una figura già nota fin dal tempo degli scrittori dell'antica saggezza ebraica. Il v. 3 prelude a quanto viene detto nel v. 4.

V. 4: Avendo Daniele dimostrato doti di governo superiori ai prefetti e ai satrapi, il re pensava di nominarlo capo di tutto il regno. Il re evidentemente deve aver manifestato pubblicamente questa sua intenzione che provocò l'invidia sia dei prefetti che dei satrapi: i primi perché si sentivano esautorati, i secondi perché erano costretti ad ubbidire ad un giudeo. Allora, prima che il re mettesse in atto questo suo proposito, si coalizzarono assieme e «cercarono di trovare un pretesto (un' accusa) contro Daniele» per metterlo in cattiva luce agli occhi del re, ma non riuscirono a trovare in lui «alcun errore o corruzione ». Questo significa che da un lato non trovarono in Daniele alcun motivo di negligenza dovuta ad incapacità di governo e dall'altro alcuna colpa per mancanza di fedeltà sia nei riguardi del re che dei sudditi. La lealtà e la capacità di Daniele vengono qui ribadite e confermate affermando che egli era «fedele» e di conseguenza coloro che congiuravano contro di lui non avevano nelle loro mani alcun pretesto per poterlo accusare di fronte al re.

Nel v. 5 c'è la constatazione da parte dei prefetti e dei satrapi che dal punto di vista sociale Daniele era inattaccabile. Constatata la sua capacità di governo e la sua lealtà al re, essi non sarebbero mai riusciti a trovare alcun pretesto contro di lui. Non rimaneva loro altra possibilità se non quella di attaccarlo dal punto di vista religioso. Essi si resero conto che se volevano metterlo in crisi di fronte al re, dovevano trovare un pretesto «nella legge stessa del suo Dio ».

V. 6: «Si radunarono tumultuosamente . . . ». Questa espressione lascia intendere che non si trattò di una pacifica riunione di corte, ma di una vera e propria sommossa da parte dei prefetti e dei satrapi i quali sembravano intenzionati a compiere nei confronti del re un' estorsione inducendolo forzatamente a prendere una decisione che forse egli in buona fede non avrebbe mai preso. Come al solito essi si rivolgono al re con la solita frase augurale del cerimoniale di corte che abbiamo già visto essere usata da tutti coloro che si rivolgevano ai precedenti monarchi babilonesi: «O re Dario, possa tu vivere per sempre». Evidentemente si trattava di una frase con cui abitualmente ci si rivolgeva ai sovrani orientali.

V. 7: I prefetti ed i satrapi non rivolgono al re una petizione per indurlo ad emettere un decreto, ma lo informano che loro stessi e tutta una serie di funzionari subalterni «si sono consultati insieme per promulgare un editto reale e fare un fermo decreto ». Si trattava quindi di una proposta di legge di iniziativa dei funzionari, la quale, per avere vigore di legge, doveva solo essere ratificata dal re. Il re stesso una volta ratificato il decreto non aveva più il potere di revocarlo. Questa sembrava essere una prassi comune nel regno Medo-Persiano, come possiamo constatare nel libro di Ester (1, 19; 8, 8). Si noti la differenza fra il potere dei monarchi Medo-Persiani e quello dei sovrani Babilonesi che avevano invece potere di vita e di morte sui loro sudditi (Dn 5, 19). La differenza fra il regno babilonese e quello medo-persiano sotto questo aspetto è messo in evidenza da Daniele stesso quando dà la spiegazione a Nabucodonosor del sogno della grande statua composta da diversi materiali (Dn 2, 37-39). Il regno Medo-Persiano era inferiore a quello Babilonese in quanto i sovrani Medo-Persiani non avevano quel potere assoluto che aveva invece l'impero Babilonese personificato da Nabucodonosor.

L'oggetto del decreto era una proibizione. Si doveva proibire a «chiunque» e quindi indistintamente a tutti i sudditi del regno, a qualunque grado o rango essi appartenessero, di rivolgere richieste (preghiere) a qualsiasi dio o uomo che non fosse il re stesso per la durata di 30 giorni. La pena per la trasgressione consisteva nell'essere gettato in pasto ai leoni. Il decreto quindi era stato concepito con astuzia e sembrava fatto ad arte per incastrare Daniele. I prefetti ed i satrapi dovevano ben conoscere le usanze giudaiche di Daniele. Essi sapevano che egli era solito rivolgersi in preghiera al suo Dio almeno tre volte al giorno.

V. 8: «Ora, o re, promulga il decreto e firma il documento». Questa non sembra tanto una richiesta, quanto piuttosto una formalità che doveva essere necessariamente assolta dal re, dopo che i funzionari del regno avevano già deciso la promulgazione del decreto. La promulgazione del decreto avveniva materialmente mediante la trascrizione dello stesso. Una volta che il documento era stato compilato e sottoscritto dal re esso acquistava automaticamente valore di legge in tutto il regno ed in base alla legge dei Medi e dei Persiani, tale decreto non poteva più essere revocato neppure dal re stesso.

Il re cade nel tranello e firma il documento senza rendersi conto delle conseguenze che tale decreto avrebbe avuto per Daniele. Questo lo vedremo in modo particolare nei versetti seguenti.

Le precisazioni dei vv. 8 e 9 hanno lo scopo di mettere in luce che la persecuzione contro i Giudei e contro Daniele in particolare partiva dagli intrallazzi dei funzionari di corte e non dal re stesso. Infatti tutti i sovrani del periodo persiano, si dimostrarono tolleranti e di vedute larghe verso i sentimenti religiosi di tutti i popoli ed in particolare dei Giudei. Questo ci viene confermato in modo particolare dalle memorie di Esdra e Nehemia, che ci fanno conoscere le congiure di molti funzionari contro i Giudei per motivi di interesse e di prestigio (Esd 4; Neh 4,1 - 7, 4).

Vv 10-18: In questi versetti apprendiamo che l'intrigo escogitato dai dignitari di corte a danno di Daniele funziona. Daniele viene spiato e, scoperto mentre prega, viene denunziato al re che, benché contro voglia, è costretto a farlo gettare nella fossa dei leoni. Il brano fa risaltare l'assoluta fedeltà a Dio da parte di Daniele, ma prepara anche il seguito della storia nella quale, insieme alla fiducia di Daniele, appare anche l'intervento di Dio per difendere e salvare il suo servo fedele.

Il v. 10 sembra voglia mettere in luce lo zelo di Daniele nel testimoniare la sua fedeltà a Dio, disprezzando con coraggio le minacce degli uomini. Pur venendo a conoscenza che il decreto era stato promulgato « entrò in casa» e salito « nella sua camera superiore con le finestre aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si inginocchiava, pregava e rendeva grazie al suo Dio, come era solito fare». La « camera superiore» era il luogo della casa dei giudei riservato al riposo, al raccoglimento ed alla preghiera e veniva di solito costruito in un angolo della terrazza della casa. Abbiamo una testimonianza di questo in Atti 10, 9, quando Pietro nell'ora sesta (a mezzogiorno) sale sul terrazzo per la consueta preghiera. Le finestre di questa camera erano «aperte verso Gerusalemme». L'usanza di orientarsi verso Gerusalemme durante la preghiera era stata introdotta per coloro che si trovavano per vari motivi lontani da Gerusalemme e quindi dal tempio. Essa veniva quindi seguita anche dagli esuli in Babilonia (1 Re 8, 44.48. « Tre volte al giorno ». Il Buon giudeo si rivolgeva in preghiera a Dio almeno tre volte al giorno, come ci viene detto in Sal 55, 17, ma questo non esclude che la preghiera fisse rivolta a Dio anche più volte durante il giorno (Sal 119, 164). Ci viene detto che Daniele « si inginocchiava » per pregare. Il Giudeo però non pregava soltanto stando in ginocchio, ma anche in piedi. Notiamo infatti che anche il re Salomone qualche volta prega in ginocchio e qualche altra in piedi (2 Cron 6, 13; 1 Re 8, 22). Notiamo l'usanza di pregare stando in piedi anche nella parabola di Gesù del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 11). « Pregava e rendeva grazie al suo Dio». La preghiera consisteva generalmente in una richiesta e in una lode a Dio. « Come era solito fare ». La fedeltà di Daniele rimane ferma ed immutata anche durante la persecuzione. Nulla poteva smuoverlo dalla sua consueta devozione a Dio.

V. 11: Ben conoscendo le abitudini devozionali di Daniele che del resto egli praticava apertamente senza nascondersi, gli organizzatori della trama si recano a casa sua proprio nel momento giusto sorprendendo Daniele in preghiera. Questo ci fa presumere che Daniele si raccogliesse in preghiera in ore del giorno ben precise che i suoi avversari conoscevano e cioè al mattino, a mezzogiorno ed alla sera. Il loro accorrere tumultuosamente alla casa di Daniele ci dà ancora l'idea dell'inganno del loro comportamento, nello stesso modo in cui si radunarono tumultuosamente presso il re per indurlo a promulgare l'editto. Daniele naturalmente si aspettava questa irruzione da parte dei suoi avversari e la sua preghiera era anche una supplica al suo Dio affinché lo potesse salvare dalla loro malvagità.

V. 12: I congiurati constatata la trasgressione di Daniele, si recano da re, ma anche questa volta usano l'inganno. Non denunciano subito al re la trasgressione di Daniele, ma gli ricordano il decreto che egli aveva promulgato, con la proibizione e la conseguente punizione, inducendolo a riconoscere che questo decreto una volta emanato non poteva più essere ritirato «in conformità alla legge dei Medi e dei Persiani». Queste parole in bocca al re segnano l'inevitabile sorte di Daniele, giacché il re si impegna solennemente a non violare quanto ha già sancito (v. 9). Queste parole fatte pronunciare al re con l'inganno dai nemici di Daniele, prima che il re sappia chi è il colpevole, lo coinvolgono inesorabilmente nella rete dei congiurati dalla quale non potrà più liberarsi.

V. 13: Una volta fatte pronunciare al re queste parole che egli non poteva più rimangiarsi, ecco che parte l'accusa ben precisa contro Daniele, il quale viene anzitutto additato con disprezzo come « uno degli esuli di Giudea». Se i funzionari pronunciano queste parole con disprezzo nei confronti del loro principale avversario, da parte sua l'autore le riporta nel brano per richiamare l'attenzione sulla condizione di esiliato di Daniele, che tuttavia rimane fedele al suo Dio. Gli accusatori proseguono nella loro requisitoria informando il re che Daniele «non mostra alcun riguardo per te, o re» e neppure « per il decreto che hai firmato». La prima accusa quindi riguarda direttamente la persona del re dal quale Daniele dipende e di cui è ufficiale ricoprendo un posto di particolare fiducia. Nella seconda accusa, oltre all'infedeltà verso il re, c'è la menzione di un delitto ben preciso che Daniele ha commesso infrangendo la proibizione emanata con il decreto. Si nota qui ancora l'ambiguità di queste persone che prima prendono in giro il re forzandolo a promulgare un decreto che essi stessi avevano già preparato, ora invece quando si tratta di colpire un avversario dimostrano per la sua persona e per la sua dignità di re uno zelo eccessivo.

V. 14: «All'udire ciò, Il re fu grandemente rattristato». Le accuse contro Daniele, provocarono un grande dolore nel re, perché ormai si era impegnato solennemente a condannare il trasgressore del decreto, chiunque esso fosse. Il fatto che il trasgressore fosse proprio Daniele acuiva in modo particolare il suo dolore perché egli nutriva verso questo abile e fedele Giudeo una grande stima, tanto di aver deciso di nominarlo suo luogotenente al di sopra di tutti gli altri suoi ufficiali (v. 3). L'atteggiamento benevolo del re nei confronti di Daniele viene qui messo ulteriormente in evidenza. L'inganno dei congiurati è ormai palesemente evidente. Se il re avesse minimamente sospettato che il decreto era stato predisposto ad arte dai suoi funzionari per nuocere a Daniele, molto probabilmente si sarebbe astenuto dal ratificarlo. Il dolore per la sorte di Daniele non era naturalmente un sentimento superficiale. Il re infatti non si limita soltanto a rattristarsi, ma era deciso a « liberare Daniele » e lottò con tenacia «fino al tramonto » per « strapparlo dalle loro mani ». In queste brevi frasi possiamo rivivere tutto il dramma interiore di questo uomo che si vede messo all'angolo dai suoi stessi funzionari di corte e si dibatte fra l'alternativa dell'impegno solenne da lui preso di condannare il trasgressore e la volontà di salvare Daniele. Cerca di procrastinare fino al tramonto l'esecuzione della condanna, ma i congiurati lo incalzano.

v. 15: «Ma quegli uomini vennero tumultuosamente dal re». Per la terza o quarta volta qui l'autore usa l'espressione anonima «quegli uomini» (v. 5, 11, 13, 15) per identificare i prefetti ed i satrapi che si erano messi a congiurare contro Daniele, quasi non volesse più riconoscere in loro il rango di dignitari di corte, ma piuttosto quello di una ciurma anonima di scatenati che infierivano sul giusto Daniele. Il quadro negativo di questi personaggi viene rafforzato dal fatto che essi ancora « tumultuosamente» vengono alla presenza del re per costringerlo a mettere a morte Daniele, nello stesso modo con cui sempre tumultuosamente avevano costretto il re stesso a promulgare il decreto da loro preparato par incastrare Daniele (v. 6), o quando erano accorsi per sorprendere Daniele in preghiera (v. 11). Il giusto perseguitato scatena contro di sé la ciurmaglia che usa anche la spada della lingua e dei tumulti per ottenere la sua condanna. Il Salmo 2, 1-2 richiama questo atteggiamento anche nei confronti del futuro Messia. Il tumulto si accompagna sempre alle grida e all'inganno ed è spesso un'arma usata da coloro che tramano contro la verità. Ne sa qualcosa l'apostolo Paolo che di tumulti ne dovette affrontare parecchi durante i suoi viaggi missionari (At 17, 5; 19, 23). Gli accusatori alla fine ricordano ancora «la legge dei Medi e dei Persiani». Si insiste sempre su questo inderogabile dovere che il re ha di rispettare lui stesso la legge.

Daniele miracolosamente salvato dalla fossa dei leoni

L'episodio che va dal v. 16 al 28 è l'ultimo atto del dramma di Daniele, ma segna anche il capovolgimento della situazione. Protagonista principale qui è Dio che interviene a liberare miracolosamente il suo servo fedele dalle fauci dei leoni. Il re, riconoscendo l'intervento di Dio, punisce i nemici di Daniele infliggendo loro lo stesso castigo al quale era stato condannato Daniele, che viene collocato al supremo governo del regno.

V. 16. Il re, messo all'angolo dagli accusatori di Daniele, non può fare altro che emettere l'ordine di condanna. Il nostro eroe viene quindi portato via e gettato nella fossa dei leoni, secondo il decreto che era stato preparato dai funzionari del regno e sottoposto al re per la ratifica (vv. 7-9). « Ma il re parlò a Daniele . . . ». Ancora una volta in questo episodio l'autore vuole mettere in evidenza il dissenso del re dalle trame dei suoi funzionari e la sua benevolenza verso Daniele e i Giudei. Benché il re non veneri ancora il Dio di Daniele, tuttavia dimostra di aver fiducia nella sua bontà e nella sua potenza. Le parole del re Dario rappresenta anche un ulteriore riconoscimento della fedeltà di Daniele al suo Dio. Una fedeltà che non si arresta neppure di fronte al sacrificio della vita.

v. 17. Evidentemente nella parte superiore della fossa doveva esserci un'apertura da dove veniva calato il cibo per gli animali e da dove venne calato anche Daniele. Questa apertura è chiusa con una pietra e su questa pietra viene posto il sigillo del re e dei suoi funzionari che doveva servire da garanzia affinché nessuno osasse rimuovere tale pietra per salvare Daniele. Una simile sigillatura la troviamo anche nel caso della sepoltura di Gesù. Oltre a mettere delle guardie che dovevano vigilare affinché nessuno sottraesse il corpo, la pietra che chiudeva la tomba venne sigillata allo stesso modo dalle autorità romane (Mt 27, 66). Chiunque avesse infranto il sigillo si sarebbe reso reo di un delitto. Questo sigillo era costituito da un anello con una placca con cui il re ed i suoi funzionari imprimevano il sigillo ai loro atti. Si tratta di un usanza antica che viene testimoniata diverse volte dalla Bibbia (Gn 38, 18; 1 Re 21, 8; Gr 22, 24).

V. 18. Dopo l'esecuzione della condanna, il re si ritira nel suo palazzo ed, in segno di lutto e di dolore, passa la notte digiunando e astenendosi dai soliti piaceri che di solito si concedevano i sovrani nelle corti orientali, come ad esempio la musica e le concubine che allietavano le loro serate. Naturalmente anche il sonno lo abbandonò a causa dell'affanno e della preoccupazione per la sorte di Daniele.

V. 19. Il re dopo una notte passata in bianco, digiunando, senza sonno e senza i soliti divertimenti, alla mattina presto si alza e si reca subito alla fossa dei leoni premuroso di conoscere la sorte di Daniele.

V. 20. Il re, combattuto tra la speranza di trovarlo vivo (v. 16) ed il timore che le belve lo avessero sbranato, chiama Daniele con voce accorata. Sempre più viene messa in evidenza il sentimento di benevolenza e di amicizia che il re nutriva nei confronti di Daniele. Apostrofando Daniele come servo del Dio vivente e ribadendo la sua fedeltà a questo Dio, il re sembra quasi parlare come uno che già cominciava a credere. Non si tratta infatti delle parole di un incredulo che si beffa del credente, ma di una persona veramente soddisfatta per l'avverarsi di un miracolo in cui non si era limitato soltanto a sperare, ma in cui aveva creduto fermamente.

v. 21. La risposta non si fa attendere e Daniele fa sentire la sua voce iniziando con la frase preliminare con cui si era soliti rivolgersi ai sovrani orientali.

V. 22. Il re si era rivolto a Daniele poco prima (v. 20) chiedendo: « . . . il tuo Dio . . . ha potuto liberarti dai leoni? » Daniele risponde direttamente a queste parole del re, dicendo « Il mio Dio . . . » « Il mio Dio ha mandato il suo angelo». Lo stesso angelo era stato mandato da Dio per liberare i compagni di Daniele dal fuoco della fornace ardente (Dn 3, 28). Questo angelo, prosegue Daniele, «ha chiuso la bocca dei leoni », confermando quello in cui il re aveva sperato ardentemente. In altre parole qui Daniele vuol dire soltanto che i leoni sono stati impediti di agire secondo il loro naturale istinto, come è spiegato subito dopo, in quanto non lo avevano sbranato. Daniele spiega quindi il motivo per cui Dio aveva fermato i Leoni: «sono stato trovato innocente davanti a lui». L'espressione «davanti a lui » è un linguaggio corrente per indicare che Dio vede e giudica le azioni di ciascuno. «sono stato trovato innocente» è un espressione ricavata dal linguaggio accadico forense e trasferita in quello religioso per indicare la mancanza di colpa nella legge del Signore, contro quanto invece avevano sperato i nemici di Daniele. Se di fronte a Dio era stato trovato innocente, anche nei confronti del re Daniele era consapevole di non aver fatto alcun male non rivolgendogli la preghiera, perché nessun uomo può legittimamente ambire agli onori divini.

V. 23. Confermando tutta la condotta precedente, il re si rallegra nel sentire la voce di Daniele e ordina di tirarlo fuori dalla fossa. Il miracolo rappresentava una specie di giudizio divino, da cui Daniele appariva veramente innocente, non perché non avesse infranto il decreto del re, ma perché Dio confermava in questo modo la sua condotta. Il fatto che non venisse trovata in lui alcuna lesione rappresentava la prova evidente che il miracolo era realmente avvenuto, come nel caso dei suoi tre compagni usciti illesi dalla fornace ardente (Dn 3, 27). Esso era la ricompensa della sua fedeltà e della sua fiducia nell'aiuto del Signore. Viene seguita quasi la stessa traccia del racconto dei tre amici di Daniele, anch'essi salvati dal fuoco per la loro fedeltà a Dio (Dn 3, 28).

V. 24. Il re convoca coloro che avevano accusato Daniele e facendoli gettare nella fosse dei leoni infligge loro la stessa condanna che essi stessi avevano progettato contro Daniele. In questa condanna vengono coinvolti anche i figli e le mogli degli accusatori secondo l'antica legge della responsabilità corporativa, che vigeva nel popolo ebraico, per cui la responsabilità della colpa di una persona ricadeva su tutta la sua famiglia. In Gs 7, 24-25 troviamo il caso di Akan che si era macchiato di un grave delitto di fronte a Dio appropriandosi abusivamente di una parte del bottino di una città conquistata che era stata votata allo sterminio. Esso venne condannato alla lapidazione assieme a tutti i suoi familiari e perfino ai suoi animali. Questa antica legge però non esisteva più  già al tempo di Ezechiele, il quale mette in evidenza la responsabilità personale (Ez 18, 20; 33, 10-20). Questa rappresenta una prova interna evidente che siamo in presenza di un racconto molto antico. La precisazione che i leoni saltarono loro addosso e li sbranarono prima ancora di aver raggiunto il fondo della fossa, mette ulteriormente in evidenza che nel caso di Daniele si era trattato proprio di un miracolo.

V. 25. A questo punto il re emette un decreto scrivendo a tutti i popoli, nazioni e lingue che abitavano su tutta la terra. Abbiamo già visto che l'espressione «su tutta la terra » può anche essere intesa in senso ristretto, limitata al territorio governato direttamente da Dario. Comunque al di là di questa precisazione va detto che qui l'autore ha un scopo squisitamente teologico. Egli vuole mettere in evidenza che anche il re Dario, come già era avvenuto precedentemente per il re Babilonese (Dn 3, 29-30; Dn 4, 1-3), visto il miracolo, si converte alla fede del vero Dio e ne diventa anzi il  propagatore. Il versetto ripete quasi le stesse parole del v. 4, 1 usando la stessa formula introduttiva e lo stesso messaggio augurale.

V. 26-27. Inizia il contenuto vero e proprio del decreto con l'invito al timore riverenziale nei confronti del Dio di Daniele. Si tratta di quell'atteggiamento che l'uomo deve prendere davanti al riconoscimento dell'assoluta potenza di Dio. Nabucodonosor invece aveva attribuito a se stesso questa potenza non riconoscendo che era stato Dio stesso a stabilirlo nel suo regno (Dn 5, 18-21). « Perché egli è il Dio vivente . . . ». Da questo punto e per tutto il v. 27 si ha la proclamazione della fede di Dario nel Dio di Daniele. Sono gli stessi motivi che ricorrono anche nella proclamazione di fede di Nabucodonosor, sia dopo il miracolo dei tre compagni nella fornace ardente (Dn 4, 3), sia dopo la spiegazione del sogno dell'albero da parte di una voce del cielo (Dn 4, 3). In questi motivi si inneggia all'eternità del Dio di Daniele, che è il vero Dio, all'eternità del suo dominio ed al suo attributo di salvatore per mezzo di eventi miracolosi. «Il suo regno non sarà mai distrutto » la stessa espressione che troviamo anche in Dn 2, 44 e 7, 14. « Il suo dominio non avrà mai fine», un altro ritornello che troviamo ripetuto più volte nel libro di Daniele (4, 3; 4, 34; 7, 14). Questa proclamazione dell'eternità di Dio da parte del re Dario equivale a riconoscere nel Dio di Daniele il solo vero essere supremo al quale appartiene tutto il creato ed ogni essere vivente. Con l'espressione «Egli libera e salva » viene anche proclamato l'intervento di Dio nella storia che salva gli uomini per mezzo della sua azione liberatrice. Un motivo che possiamo dire ricorre costantemente non solo nel libro di Daniele, ma in tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento.

V. 28. L'azione liberatrice di Dio si manifesta non solo salvando Daniele dai leoni, ma accordandogli anche il successo durante tutto il regno di Dario e di Ciro, il persiano. Ricordiamoci quanto abbiamo detto circa l'elezione di Dario da parte di Ciro al governo della provincia di Babilonia e del territorio oltre il Fiume. Il successo di Daniele avviene quindi sotto il regno di Dario, ma, essendo egli un governatore eletto da Ciro, in realtà avviene anche sotto il regno di Ciro.