INNO CRISTOLOGICO
(Filippesi 2, 5-11)


INDICE
Inno cristologico
L'inno è di Paolo?
Ripartizione dell'inno
Il significato dell'inno
Gesù è Dio?
Gesù si è chiamato Dio?
Esame di altri dati biblici
Valore del titolo: Dio
Espressioni subordinazioniste
Ambiente giudaico
Note a margine

Inno cristologico


2. 5  Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo:



6 l quale pur vivendo ad immagine di Dio
non volle per rapina farsi uguale a Dio,
(I)




 

 

ma annichilì sé stesso prendendo la forma di
uno schiavo.
Fatto pari a un uomo e trovato d’aspetto come
un uomo, si abbassò,

(II)



8 ‘divenendo ubbidiente sino alla morte’
(sino alla morte in croce).




9

 

Perciò Dio lo ha elevato 
e gli ha dato un nome
che è sopra ogni altro nome,
(III)

 




10

 

affinché nel nome di Gesù
"ogni ginocchio si pieghi"(1) tra i celesti,
i terrestri e gli inferi
(IV)

 




11 e ogni lingua confessi "che Gesù Cristo è il
Signore della gloria di Dio Padre".

Versetto 5

Il versetto cinque è semplicemente l’introduzione all’inno che Paolo qui presenta e che dobbiamo esaminare a parte.

Per meglio indurre i Filippesi al medesimo sentire, a stare di buon animo, umili anziché esaltarsi al di sopra degli altri, Paolo presenta l’esempio di Gesù Cristo. Il loro sentimento – e quindi anche il nostro – deve essere quello stesso del Cristo.

L’inno propriamente detto inizia al versetto 6.

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L’inno è di Paolo?

Oggi generalmente si va facendo strada l’idea che l’inno, già usato nelle preghiere e nel culto cristiano, sia stato accolto da Paolo: vi si trovano infatti delle parole che non sono propriamente paoline e non sembrano dovute alla sua mano.

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Ripartizione dell’inno

Tre studiosi hanno tentato la ripartizione strofica dell’inno e sono: Lohmeyer, Jeremias e Talbert.

Lohmeyer suddivide l’inno in sei strofe di tre versi ciascuna secondo le divisione seguente:
 
I

 

Il quale essendo in forma di Dio
non volle per rapina
essere uguale a Dio.


II

 

Ma umiliò se stesso
prendendo forma di schiavo,
e divenendo uguale a un uomo,


III

 

e divenuto d’aspetto pari a un uomo,
si abbassò
facendosi ubbidiente sino alla morte(2) .


IV 

 

Perciò Dio lo ha elevato
gli ha donato un nome
sopra ogni altro nome,


 

affinché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
tra i celesti, i terrestri e gli inferi


VI

 

e ogni lingua confessi
che Gesù Cristo è il Signore
alla gloria di Dio Padre.

Lo Jeremias gli oppone la mancanza di parallelismo tra «pieghi ogni ginocchio» e « ogni lingua confessi» che sono in due differenti strofe e in linee differenti; tra somiglianza di uomo e d’aspetto umano; di più la fine della strofa non corrisponde alla fine di un periodo.

Quindi lo Jeremias propone un suo proprio schema che qui riproduco:
 
I.
 

 

Il quale essendo in forma di Dio
non volle per rapina essere uguale a Dio
ma umiliò sé stesso
prendendo la forma di uno schiavo.


II.
 

 

Divenuto pari a un uomo
e trovato d’aspetto uguale a un uomo,
si abbassò,
divenendo ubbidiente fino alla morte.


III.
 

 

Perciò Dio lo ha elevato
e gli ha dato un nome sopra ogni altro nome
affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
e ogni lingua confessi che Gesù è il Signore.

Questa divisione ha trovato accoglienza presso molti studiosi (3) . Jeremias ha però il torto di raggiungere questa divisione a scapito di molte parole che egli è costretto ad eliminare. Sta bene per le parole «sino alla morte in croce » che quasi tutti gli studiosi eliminano in quanto sono parole tipicamente paoline e devono essere state introdotte dall’apostolo nell’inno anteriore. Ma non vi è motivo di eliminare « i celesti, terrestri e inferi» e le parole « alla gloria di Dio Padre ». Se queste parole si lasciano nel loro testo, la terza strofa diviene del tutto impossibile.

Per cui preferisco nella traduzione seguire la divisione strofica di Talbert (indicata all'inizio), la quale ha il vantaggio di presentare dei riferimenti formali caratteristici che si richiamano a vicenda e servono di divisione.

L’inno risulta di quattro strofe, perfettamente parallele: le prime due riguardano la vita terrestre prima della sua resurrezione, le seconde due quelle di Gesù dopo la sua gloriosa resurrezione.

L’inno è poggiato in modo particolare sul parallelismo: si veda nelle prime due strofe il rapporto tra «la forma di Dio » e «la uguaglianza con l’uomo »; tra il «svuotò sé stesso» e il « si abbassò»; tra « prese la forma di servo» e « divenendo ubbidiente sino alla morte». Le seconde due strofe presentano l’effetto, lo scopo dell’umiliazione del Cristo: egli si umiliò perché fosse elevato. Lo stesso concetto si ha pure in Rm 4, 22 dove si legge: « il quale si diede per le nostre trasgressioni e risorse per la nostra giustificazione ».

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Il significato dell’inno

Sin dall’antichità vi sono state due diverse interpretazioni di questo inno: la prima lo riferisce alla preesistenza di Gesù, antecedente alla sua vita umana (vv. 6-8) e l’altra, al contrario, vi vede solo la sua vita terrena (vv. 6-8), senza alcun riferimento ad una vita anteriore.

Nella interpretazione antica e moderna la prima idea è la più diffusa, per cui R.H. Fuller può scrivere: «Ogni tentativo di eliminare del tutto la preesistenza da questo passo . . . deve essere dichiarata un fallimento» (4) .

La interpretazione che sostiene la preesistenza di Gesù presenta diverse difficoltà, di cui ecco le principali:

a) Mentre i più antichi inni presentano l’incarnazione coma la "epifania", la manifestazione di Dio (cf Gv 1, 18; 1 Ti 3, 16), qui essa appare come lo svuotamento di Dio.

b) In tutto il Nuovo Testamento, solo in questo passo si accenna alla decisione del Cristo prima della sua esistenza terrestre (ma cf anche Eb 10, 5 «entrando nel mondo»; quando nacque o quando si presentò al mondo con il battesimo? Meglio questa idea: si suppone già esistente con un corpo: «mi hai dato un corpo»).

c) Lo svuotarsi nel caso presente significherebbe l’eliminazione della divinità per accogliere la umanità (servo).

d) Solo con difficoltà si può evitare la conclusione che l’esaltazione del Signore è uno stato superiore allo stato precedente in cui il Cristo era in forma della divinità. Se fu esaltato dopo, non lo era prima.

Se invece si vede in questo inno soltanto un riferimento storico alla vita terrena di Cristo, tutte queste difficoltà svaniscono.

Ora questa seconda interpretazione è proprio quella che ci viene suggerita dall’esame del passo, inteso nella sua divisione da noi sopra proposta. Le prime due strofe, tra loro parallele, riguardano la vita terrena del Cristo presentata come quella del nuovo Adamo.

Vediamo anzitutto il senso della prima parte della prima strofa: « essendo in immagine (morfén) di Dio ». Generalmente si dice con il Lightfoot che " morfén " indica la « sostanza, la natura » di Dio (p. 110). Ma in realtà se esaminiamo il valore che questa parola ha nella versione dei LXX, vediamo che essa equivale all’ebraico " demuth", che è equivalente al greco " omòioma ". Entrambi questi vocaboli traducono l’ebraico " demuth " = immagine, figura, aspetto, impronta (cf Eb 1, 2 s), che non è usato per indicare " sostanza, natura "(5) :

a) In Dt 4, 12 i LXX hanno omòioma, ma Simmaco ha morfén (ebr. temunah, altrove to’ar, tabnit)(6) .

b) Morfé in Dn 3, 19 traduce l’aramaico celem, altrove l’ebraico celem è tradotto in greco con omòioma (1 Sm 6, 5).

c) la versione siriaca Peshitta traduce morfé con "demutha " (immagine).

Prendendo questa parola nel senso di "immagine", tutto procede chiaro: Adamo era ad immagine di Dio, ma egli volle divenire uguale a Dio per rapina, disobbedendo ed autoelevandosi. Al contrario Gesù, fatto lui pure "ad immagine di Dio", come il primo Adamo (con la sua nascita verginale), non volle rapire l’uguaglianza a Dio, l’autorità divina, il dominio sull’universo con la disubbidienza, bensì con l’ubbidienza e l’umiliazione (cf le tentazioni di Mt 4). Si avrebbe qui la presentazione di Gesù come nuovo Adamo, che anche altrove si trova nella Bibbia (cf Rm 5, 12 ss; 1 Co 15, 45).

Ma Gesù non solo è simile a Dio, è anche della stessa discendenza del primo Adamo; ha quindi da lui la stessa immagine, lo stesso aspetto umano: egli è pure ad "immagine" dell’uomo. Anche qui la parola "omòioma" traduce la terminologia dell’Antico Testamento, dove si parla di Set come discendente di Adamo. Adamo generò Set « nella sua propria identità» (bidemutho: kata ten eidéan) e « secondo la sua immagine» (keçalmo = kata tèn eikòna).

Ora anche qui si vuol dire che Gesù ebbe la natura umana come quella dei discendenti di Adamo; contro la tendenza a farne un angelo o un’apparenza, si dice che lui "fu uguale a un uomo" completamente "identico alla immagine di Adamo", come si afferma di Set.

Si può trovare un perfetto parallelismo con il nostro passo nel testo greco dei LXX a riguardo di Adamo e Set: «Dio fece Adamo secondo la immagine di Dio (kateikona) e lo chiamò Adamo. . . . Adamo generò secondo la sua forma (eidéan) e secondo la sua immagine (eikòna) e lo chiamò Set » (Ge 5, 1-3).
L’espressione "omòioma" attribuita a Cristo sembra voler presentare costui come il figlio di Adamo.

Anche il « svuotò sé stesso», « annichilì sé stesso » si spiega riferito alla morte di Gesù, quando egli « rese lo spirito» sulla croce, e potrebbe riferirsi al «rese il suo spirito » (Is 53, 12). La frase indicherebbe il dare la vita come il Servo di Dio(7) .

Si ha quindi unitamente la figura del nuovo Adamo e la figura del "servo paziente" di Dio profetizzato da Isaia. Ciò sarebbe parallelo a quanto si legge nella seconda strofa, dove si dice che egli si fece ubbidiente sino alla morte abbassandosi in tal modo da essere poi elevato (terza strofa).

Parallelo a questo è l’affermazione che «Gesù si abbassò » (tapeinòo traduce l’ebr. canah, usato nello stesso inno al servo di Jhwh in Is 53, 7). Quindi tanto l’ « annichilì sé stesso» quanto lo « umiliò sé stesso » vanno letti alla luce del servo paziente di Jhwh, di cui si parla nei canti di Isaia, come viene meglio chiarito con il terzo versetto: « rendendosi ubbidiente sino alla morte». Va notato che il "Servo di Dio" è chiamato indifferentemente "servo" (schiavo, cf  v. 7) e anche "Figlio".

Ecco quindi il senso che si può trarre da questo Inno:

1° strofa : Gesù pur essendo, come secondo Adamo, fatto ad immagine di Dio, non si comportò in modo da divenire uguale a Dio per rapina, ma anzi annichilì sé stesso sino a divenire lo schiavo del Signore, assumendo l’aspetto del servo ubbidiente predetto da Isaia.

2° strofa : Secondo il parallelismo ebraico il medesimo concetto è ripetuto una seconda volta: Gesù era davvero un figlio dell’uomo, un uomo che, al pari di Set, aveva la stessa forma e la stessa immagine di Adamo, era perfettamente uomo; ma tuttavia volle abbassarsi e divenire ubbidiente come il servo di Dio sino alla morte.

3° strofa : Ma appunto per questo Dio lo ha elevato al di sopra di ogni essere, dandogli il nome, vale a dire la realtà di essere superiore ad ogni altra creatura, Il nome indica realtà, sostanza. Dare il nome indica qui dargli il dominio su ogni cosa.

4° strofa : In tal modo dinanzi a lui deve piegarsi ogni creatura sia in cielo, sia sulla terra, sia negli inferi, secondo un parallelismo amato dagli Ebrei che ripete il concetto della strofa precedente. Ogni lingua in tal modo deve confessarlo come Signore, ma sempre alla gloria di Dio Padre.

Anche in quest’ultima strofa si noti la superiorità del Padre sopra il Cristo.
Non si parla quindi della preesistenza di Gesù alla sua vita terrena, ma solo della missione che Gesù ebbe sopra questa terra e del modo con cui egli ubbidì al Padre, sino alla morte.

Mentre Adamo volle farsi uguale a Dio e così perse ogni suo privilegio, attirandosi la morte e la rovina su di sé e su tutto il genere umano, Gesù, pur essendo il secondo Adamo, anche dinanzi alla tentazione satanica, non volle farsi uguale a Dio, ma con la sua ubbidienza, resa eroica con la morte, si meritò la gloria per sé e la salvezza per il genere umano. Tutti lo riconoscono loro sovrano alla gloria di Dio. Adamo disubbidendo tentò di farsi uguale a Dio (cf Ge 3, 5): volle divenire uguale a Dio nell’autodeterminarsi come voleva, nel conoscere il bene e il male; ma anziché elevarsi a Dio, decadde; Cristo vi riuscì con l’ ubbidienza, che lo pose alla destra di Dio. Gesù avrebbe potuto conquistare il mondo senza soffrire (tentazione); con le sue doti poteva ridurre tutta l’umanità ai suoi piedi; ma questo sarebbe stato un rapire a Dio tale dominio, un farsi uguale a Dio « per rapina ».
Gesù ottenne proprio di «sedere alla destra di Dio » e di divenire «il Signore di ogni cosa» con la via dell’umiliazione e della croce. Questo esempio diviene più luminoso per noi; anche noi anziché esaltarci per nostro capriccio, dobbiamo metterci al servizio degli altri. L’esaltazione ci verrà da Dio; chi si esalta sarà abbassato, chi si umilia sarà esaltato (cf Mt 23, 12).

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Gesù è Dio ?

Penso che al riguardo sia molto importante l’esame del problema fatto da G.H. Boyer, docente all’Università College of Rhodesia, Jesus as "Theos" in the New Testament, in "Bulletin of John Rylans Library" Manchester 50 (1968), pp. 247-262. Mi sia permesso farne un riassunto, con alcune considerazioni o aggiunte personali.

Aloys Grillmayer, nel suo libro Christ in Christian Tradition (1965), ha un riepilogo nel quale si chiede: «Calcedon End or Beginning? » giungendo alla conclusione che i vescovi presenti al Concilio calcedonese «intesero preservare il Cristo dei Vangeli e dell’età apostolica per la fede dei loro posteri ». Ma Karl Rahner afferma che detto Concilio non era una fine bensì l’inizio di un nuovo studio: « La ricerca di una nuova rivalutazione del pensiero del Cristo e una necessità impellente ai nostri giorni » (citato da Grillmayer, p. 494).

Infatti ciò è assolutamente necessario e improrogabile per quattro ragioni:

a) Per necessità apologetiche. È un fatto che la professione di fede nicena: « Vero Dio dal vero Dio, generato non fatto, di un’unica sostanza con il Padre . . . vero Dio e vero uomo» lascia molto perplesso l’uomo d’oggi. A ragione Donald M. Baillie confessò alcuni anni or sono la sua convinzione che « gran parte della gente riflessiva che si accosta al Vangelo ai nostri giorni è completamente turbata (mystified) dalla dottrina dell’incarnazione, più di quanto i teologi usulmente lo pensino » (p. 29).

b) Ragioni di coerenza. Se si mette nel giusto rilievo il fatto che Gesù fu un vero uomo – come oggi si tende a dimostrare attraverso lo studio del Vangelo – allora come si può dire che questo vero uomo fu anche contemporaneamente « vero Dio dal vero Dio»? Cosi la cristologia ortodossa, pur affermando che il Cristo è vero Dio, non intendeva asserire che egli fosse Dio in modo assoluto, senza qualificazione. Così affermano molti teologi. Tuttavia che razza di Dio è quello che non è tale assolutamente, ma con una certa qualificazione?

c) Per un equivoco sulla realtà del Cristo . Se leggiamo il Nuovo Testamento vediamo che il Cristo, più che nella sua natura è visto nella sua funzione di salvatore escatologico, di Redentore. A ragione O. Cullmann ha scritto nella sua cristologia che « quando il Nuovo Testamento si chiede: chi è il Cristo? non intende in modo primario: che cosa sia la sua natura, bensì quale sia la sua funzione »(8) .

d) Per motivi biblici. Tuttavia ben presto la speculazione personale dei cristiani si è rivolta ad esaminare la natura, spostando il punto focale dell’attenzione neo-testamentaria, per cui dalle prime timide espressioni di Fl 2, 5-11; Cl 1, 15-20; Eb 1, 1-2; Vangelo di Giovanni, si giunse all’asserzione dei concilii di Nicea e di Calcedonia, e ad affermare che egli ha la « stessa sostanza del Padre », che è vero Dio e vero uomo. Si tratta di uno sviluppo della teologia del Nuovo Testamento oppure di una deformazione introdottasi nel pensiero biblico? Come ben scrisse Martin Werner, il dogma della divinità di Cristo ne ha fatto un altro dio-redentore ellenistico, dietro il qual mito si è oscurata la reale umanità del Cristo. Se ne è fatto un essere che tutto conosce, un uomo che non poteva peccare e nemmeno essere tentato come noi nonostante le affermazioni bibliche che asseriscono la sua ignoranza del giorno finale e la sua peccabilità, in quanto tentato come tutti (Eb 4, 16; Fl 2, 6, arpagmos)(9) .

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Gesù si è chiamato Dio?

Attualmente gli studiosi hanno raggiunto la conclusione che mai Gesù si è personalmente proclamato uguale a Dio: basti pensare al passo marciano:
« Perché mi chiami buono? Nessuno è buono tranne uno solo, cioè Dio» (Mc 10, 18), nel quale anzi si distingue da Dio e non vuole affatto che gli si attribuiscano dei titoli propri al Padre, che è l’unico vero Dio.

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Esame di altri dati biblici

Ogni studioso non può non riconoscere che ben di rado Gesù è chiamato Dio nel Nuovo Testamento e per di più anche questi pochi passi sono oggetto di discussione a riguardo della critica testuale e della loro interpretazione (10) .

Raccoglieremo questi passi, facendoli seguire da apposite discussioni:

1. Gv 1, 1.18: « Nel principio era la parola e la parola era con Dio, e la parola era Dio. Essa era nel principio con Dio . . . Nessuno ha mai veduto Dio, ma l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre. È quel che lo ha fatto conoscere ».

La «Parola», quella usata da Dio nella creazione è «Dio», ossia qualcosa di divino. Questa si è incarnata nel Cristo; Gesù ha quindi in sé dimorante la parola di Dio, ma non è detto che sia Dio lui.

Il v. 18 è criticamente discutibile: anziché «unigenito Dio» (monogenès theôs), altri codici hanno monogenès uiòs " figlio unigenito", oppure " monogenès theoù", ossia " unigenito di Dio ".

Questi codici rispecchiano l’originale? Il testo «unigenito Dio » è stato cambiato in "figlio unigenito " per favorire la tesi ariana, oppure l’originale " figlio unigenito " è stato corretto in "unigenito Dio " per meglio difendere la tesi del Concilio di Nicea?

Entrambe le ipotesi sono possibili per cui è difficile chiarire quale sia la lezione genuina. Il fatto che nel v. 18 si dica « che è nel seno del Padre» denota intimità con il Padre (ma non identità), sia pure maggiore di quella di Giovanni che riposa sul seno di Gesù a simbolo della sua intimità con il Cristo (Gv 13).

2. Gv 20, 28: è l’affermazione di Tommaso che si rivolge al Cristo chiamandolo: « Signor mio e Dio mio».

3. At 20, 28: « Pascete la Chiesa di Dio, che oggi si è acquistata con il suo sangue » (adìou aìmatos), dove, attribuendo a Dio il «sangue», si pensa che Paolo intendesse parlare del Cristo chiamandolo in tal modo Dio.

Ma il testo è discutibile: i manoscritti migliori hanno " tou aimatos tou idìou", ossia: " con il sangue del suo proprio (figlio) ". Così ad esempio Sin, A, B, C, D, E, Pap. 33, 181, 326; versione siriaca, armena, georgiana, ecc. Dunque nessuna affermazione della divinità di Gesù. L’espressione qui usata rientra meglio nella terminologia paolina.

4. Rm 9, 5, dove la mancanza di punteggiatura nei codici antichi rende possibile una diversa interpretazione. Ecco il testo:
« Dai quali (padri di Israele) è venuto secondo la carne il Cristo che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno »

a) Alcuni vogliono vedere nella frase un attributo del Cristo e così traducono: « Dai quali è venuto secondo la carne il Cristo, il quale è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno ». Quindi il Cristo è Dio e come tale è posta sopra ogni cosa (S. Cipriani)

b) Ma la frase si può anche dividere nel modo che segue: « Dai quali è venuto secondo la carne il Cristo. Dio, che è sopra ogni cosa, sia benedetto in eterno ». In tal modo colui che sta sopra ogni cosa sarebbe Dio, e il punto precedente fa staccare dal Cristo la confessione della divinità per riferirla solo al Padre.

c) Altri dividono la frase come segue: «Dai quali è venuto secondo la carne il Cristo, che è sopra ogni cosa. Dio (ne) sia benedetto in eterno». Dopo aver proclamato la superiorità del Cristo sopra ogni cosa creata, Paolo sente il dovere di esprimere la sua gratitudine al Padre che ci ha dato Gesù. Il Cipriani vuole negare ciò asserendo che Paolo ricollega le sue lodi a Dio con il contesto che precede; ma il legame vi è ugualmente; Paolo ringrazia il Padre per ciò che ha fatto il Cristo.

5. 1 Te 1, 12: « Grazia e pace a voi da Dio Padre e Signore Gesù Cristo », dove Gesù sarebbe da considerarsi un essere unico con il Padre Dio, prima riferito, in quanto una sola preposizione apo regge tanto Dio quanto il Signore Gesù Cristo. Tuttavia in tal caso si dovrebbe anche identificare il Padre con il Figlio, cosa che mai si attua altrove; il passo può benissimo essere inteso nel senso che la grazia e la pace proviene dal Padre tramite Gesù Cristo. La preposizione unica si spiega con il fatto che tanto Gesù quanto il Padre, pur essendo distinti tra loro, sono quelli che con la loro azione congiunta ci danno la pace e la grazia (cf la frase in Fl 1, 3: « Grazia e pace da Dio Padre e Gesù Cristo »).

6. 1 Ti 3, 16 dove si legge: « Colui che è stato manifestato in carne ». Alcuni codici, al posto di "os" (colui che), hanno qui "theòs", cioè Dio; il che dovrebbe essere tradotto con « Dio si è manifestato nella carne » (così un manoscritto del Sinaitico, dell’Alessandrino, dell’Eframitico, ecc.). Tuttavia la lezione più sicura è quella da noi sopra data, che non ha alcun accenno alla divinità.

7. Tt 2, 13: il cristiano deve vivere piamente in questo mondo: «attendendo la beata speranza e l’apparizione del grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo », dove Gesù Cristo è chiamato « nostro grande Iddio» e anche « Salvatore». Sembra che si tratti di un essere unico chiamato «Dio Salvatore ». Ma, come abbiamo già visto nel caso precedente di 2 Te 1, 12, il passo si può intendere in riferimento a due persone: " Dio Padre " e il " Salvatore ", che agiscono assieme. La Parusia del Salvatore è accompagnata dall’apparizione anche di Dio Padre (cf Ap 22, 3; 21, 1; ecc.). L’apparizione di Gesù in funzione dell’apparizione di Dio.

8. Eb 1, 8 s: del Figlio il Padre dice: « Il tuo trono o Dio, è nei secoli dei secoli ». La citazione è tratta dal Salmo 45, 8-9 dove il titolo "Dio" si riferisce al re e dove del resto, dopo aver chiamato Dio il re, lo si distingue dal vero unico Dio in quanto vi si aggiunge: « Dio, il tuo Dio». È importante per la valutazione della parola "Dio".

9. 2 Pt 1, 1: l’apostolo saluta coloro che hanno ottenuto una fede preziosa «nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo ». Anche qui la mancante ripetizione dell’articolo prima di « Salvatore Gesù Cristo » indusse alcuni a pensare che si parli di Gesù come di una stessa persona con l’Iddio prima considerato (ma cf 1 Te 1, 12). Tuttavia per esaltare l’unità di azione tra Padre e Figlio si poteva benissimo eliminare l’articolo pur distinguendo le due persone: Padre e Gesù Cristo; esse operano assieme nel darci la giustizia.

10. 1 Gv 5, 20: su di esso rimando a un mio studio in "Ricerche Bibliche e Religiose" dove il passo viene tradotto diversamente: «Sappiate che il Figlio di Dio venne e ci diede discernimento per conoscere il vero. E noi siamo nel Vero per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo. Il vero è questo: Dio e la vita eterna». Con questa interpretazione non vi è alcun cenno a Gesù Cristo come Dio (11) .

Sembra quindi strano, nel caso che la confessione della divinità di Cristo fosse essenziale al cristianesimo, che vi si faccia riferimento solo in così pochi passi, per di più discutibili e incerti. Come mai manca ogni confessione di fede nel Nuovo Testamento in Gesù Cristo come Dio, mentre se ne trovano diverse che lo identificano come "il Signore"? Non è forse per il fatto che la identificazione trinitaria non corrisponde al messaggio biblico primitivo?

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Valore del titolo: Dio

Come ben scrive Karl Rahner, anche se talora il N.T. chiama Gesù Dio ("Theòs"), mai usa tale termine in modo da identificare Gesù con Colui che nel Nuovo Testamento è chiamato "l’Iddio" (‘o Theòs), vale a dire il supremo Dio(12) .

Dobbiamo stare bene attenti a non identificare il linguaggio dei Semiti e del Nuovo Testamento con il linguaggio moderno. È vero che per i primi cristiani, Gesù era il riflesso di Dio, il fulgore della gloria divina, il primogenito delle creature, la sapienza di Dio, la parola di Dio, elevato al di sopra degli angeli; per indicare tutto ciò essi lo hanno chiamato il Cristo, il Figlio dell’uomo, il Figlio di Dio, il Signore e in certe circostanze anche Dio.

Ora è un fatto che il linguaggio greco non faceva grande distinzione tra l’umano e il divino, per cui filosofi di valore, re e soldati potevano essere chiamati "figli di Dio, Signori e Dio". Il re seleucida Antioco IV coniò delle medaglie in cui si chiama "Signore e Dio".

Le affermazioni di Gesù come Dio vanno valutate nel contesto dell’Antico Testamento dove, pur asserendosi il monoteismo in modo assai forte, esseri particolari sono chiamati "Figli di Dio", "Signori" e anche "Dio". Ciò è stato confermato anche di recente nei manoscritti di Qumran.

Filone poteva così parlare del Logos, come di un "secondo Dio", e chiamare certi uomini virtuosi "divini" (thèioi), o come "figli di Dio". Mosè una volta è perfino chiamato "Dio"(13) .

Nell’Antico Testamento il re era chiamato "figlio di Dio", anzi in un passo viene detto "dio" accanto al supremo Dio (cf il già citato Salmo 45, 6 s, pure riportato in Eb 1, 8 s), come già abbiamo notato sopra. Quando a Gesù fu rimproverato di bestemmiare perché si proclamava Dio pur essendo uomo. Egli chiarisce il suo concetto riportando un brano di Sal 82, 6, dove si legge: « Io ho detto: Voi siete dèi », applicando a sé stesso un titolo qui riferito ai giudici (Gv 10, 34).

Anche nel Nuovo Testamento Pietro avverte i lettori che essi, come cristiani, sono « partecipi della (o di una) natura divina » (2 Pt 1, 4). La deificazione dei credenti è conseguenza logica della salvezza; è nota la frase di Atanasio: « Dio si è umanizzato, affinché noi fossimo deificati »(14) .

Si è accordata la giusta considerazione a questi fenomeni linguistici dell’Antico e del Nuovo Testamento quando si studia la cristologia neotestamentaria? Se il re o il giudice poteva essere chiamato "Dio" in quanto rappresentava Dio su questa terra, a maggior ragione lo poteva, anzi lo doveva essere il Cristo!

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Espressioni subordinazioniste

Occorre poi sottolineare che la cristologia neotestamentaria, tutta impregnata di subordinazionismo poggia sulla resurrezione di Gesù: è con essa che Gesù è divenuto il Signore (At 2, 36). I titoli sono applicati a Gesù come conseguenza di questo fatto(15) Gesù è divenuto il Cristo con la resurrezione.

Ma anche dopo la sua resurrezione egli è presentato come distinto e separato da Dio, come un altro membro della corte celeste, pari agli angeli, sia pure in una situazione ad essi superiore. Egli si trova alla destra di Dio (At 7, 56) e gli uomini lo vedranno tornare dal cielo come una persona distinta da Dio. Ma se noi lo identifichiamo con Dio (vero Dio da Dio vero), gli si dà ancora la medesima posizione che egli godeva presso i primi cristiani? Data questa sua distinzione dal Padre, il ritenere Gesù come vero Dio non ci conduce necessariamente ad ammettere una specie di diteismo?

Gesù, non solo è separato, ma è anche subordinato a Dio: egli confessa o sconfessa gli uomini dinanzi a Dio (Mt 10, 22 s); intercede presso Dio a nostro favore (Rm 8, 34; Eb 7, 25; 1 Gv 2, 1); è mediatore tra Dio e l’uomo (1 Tim 2, 5). È il sommo sacerdote fedele a Dio che ha appreso ad ubbidire a colui che lo ha mandato e che offre preghiere e suppliche a Dio e può chiamare il Padre suo Dio (Eb 5, 7 s; 1, 8; 10, 7).

Di più Paolo sostiene la subordinazione del Figlio a Dio Padre anche dopo che egli avrà compiuto la sua funzione salvifica e avrà abbattuto tutti gli avversari, morte compresa: « Quando tutte le cose sono così subordinate a lui, allora il Figlio stesso sarà subordinato a Dio . . . e così Dio sarà tutto in tutti » (1 Cor 15, 28).

Si deve poi intendere i singoli passi secondo il contesto generale di tutto lo scritto sacro; ad esempio le attestazioni più forti della divinità del Cristo si rinvengono proprio nel Vangelo di Giovanni, dove più degli altri si mette in risalto la subordinazione del Figlio al Padre: « Il Padre è maggiore di me» (Gv 14, 28); «Da me io non posso fare nulla . . . io non cerco la mia propria volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 14, 30).

Proprio nel IV° Vangelo, all’accusa di farsi uguale a Dio, Gesù, anziché riconfermare tale fatto, lo spiega in modo subordinazionista: se possono chiamarsi "Dio" coloro ai quali la parola è rivolta, tanto più può essere chiamato "Dio" colui che dona tale parola (Gv 10, 34).

Anche il c. 8 di Giovanni va inteso in armonia con il c. 1. Abramo aspirava a vedere i giorni messianici (cf 1 Pt 1, 10-12) e, secondo la esegesi dei maestri rabbinici, Dio gli rivelò i giorni felici del Messia (Gv 8, 56). Inoltre, dal momento che nel Cristo dimorava la parola eterna di Dio, egli, pur essendo nato da Maria non molti anni prima (meno di cinquanta, v. 57), poteva ben dire di esistere già al tempo di Abramo (cf Gv 1, 1).

Possiamo quindi fare nostra l’acuta osservazione di J. M. Creed: « Anche se il prologo di S. Giovanni si avvicina assai alla dottrina del Concilio di Nicea, esso va letto alla luce del subordinazionismo ben pronunciato nel complesso del suo Vangelo» (16) .

Lo stesso va detto per i passi paolini che affermano la divinità del Cristo, come Cl 1, 15-20; essi vanno intesi alla luce del subordinazionismo che si trova in 1 Cor 15, 28. Va anzi ricordato che la sintesi paolina è ben descritta nelle sue famose parole: «Il capo di ogni uomo è Cristo; e il capo di ogni donna è l’uomo; e il capo di Cristo è Dio» (17) .

Si potrà certo dissentire da qualche idea qui presentata, tuttavia ritengo pertinenti le parole di H.W. Montefiore: «Una cristologia intesa in termini funzionali e di relazione personale piuttosto che nella categoria ontologica, è quella che meglio segnerà il ritorno alla prospettiva biblica» (18) .

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Ambiente giudaico

Che la interpretazione precedente sia quella migliore e più conforme all’idea del Nuovo Testamento, appare evidente anche dal fatto che gli Ebrei, pur essendo rigidamente monoteisti, mai accusarono i cristiani di introdurre una nuova divinità, di fare di Gesù un altro Dio. Mai accusarono i cristiani di diteismo, mentre li accusarono di tanti altri misfatti ed errori, come di rendere messia colui che essi avevano crocifisso.

Per loro era evidente che tutte le frasi e tutti gli epiteti attribuiti a Gesù rientravano in una delle categorie veterotestamentarie che già ad altre creature, come al sovrano, al profeta, al giudice, davano il titolo di Dio (= divino). Fu solo più tardi con la conclusione di Nicea che il cristianesimo fu accusato da parte dei musulmani di ammettere una triplice divinità anziché un Dio unico.

Di più anche se si dicesse che Gesù, oltre alla natura umana ha anche quella divina, per cui a lui si possono attribuire tanto le prerogative divine che quelle umane, la uguaglianza divina e la inferiorità umana, va detto che Gesù non fa questa distinzione. La sua personalità è unica ed è appunto questa persona, non la sua natura che ignora la fine del mondo, ma sa ciò che vi è nel cuore umano, che da una parte è uguale a Dio perché riferisce solo ciò che lui vuole, dall’altra è del tutto subordinata al Padre perché gli è sottoposta. La sua uguaglianza poi deve durare sino al compimento della sua missione, dopo la quale egli sarà definitivamente sottoposto al Padre.

La parusia non sarà quindi l’estremo atto di glorificazione del Figlio, ma il momento dell’abdicazione della sua dignità. Come si può chiarire ciò nel caso che Gesù sia uguale a Dio?

Si potrebbe forse tentare una sintesi nel modo seguente: anziché dire che Gesù è Dio, direi che in lui abita in modo del tutto particolare la divinità. In lui è Dio che parla. È Dio che compie miracoli, è Dio che salva. Dio è in lui in modo del tutto particolare. Anche quando parlava un profeta, in quell’attimo era Dio che parlava. Attraverso il profeta si udiva la parola di Dio, ma quel fenomeno durava per breve tempo, poi il profeta tornava un uomo normale come tutti gli altri.

Ma in Gesù, almeno dopo l’inizio della sua missione pubblica, Dio era vivente di continuo: la sua parola era sempre parola di Dio, la sua azione era sempre azione di Dio. Egli era profeta, non solo per un breve momento, ma di continuo.

Sempre in lui si manifestava attraverso la sua parola e i suoi gesti; in lui Dio compiva prodigi, non solo in un dato momento (come nel caso di Elia e di Eliseo), ma di continuo. «So che tu mi esaudisci sempre – dice Gesù nel caso di Lazzaro – ma è per loro che io ti prego; perché sappiano che tu mi hai mandato » (Gv 11, 41).

Lo Spirito Santo è sempre in lui dopo il battesimo e non solo temporaneamente, per cui la potenza di Dio è la sua potenza, e questa potenza divina lo trasformò in Spirito con la resurrezione (2 Cor 3, 17).

Gesù quindi, pur essendo in tutto simile a noi (1 Ti 2, 5 = uomo), è l’unico mezzo con cui ci è possibile su questa terra conoscere Dio. Per noi Gesù è Dio. Vedere Gesù è vedere il Padre, non v’è altra via. Gesù e il Padre relativamente a me sono uguali tra loro, perché la volontà dell’uno è la volontà dell’altro, l’amore dell’uno è l’amore dell’altro, le parole dell’uno sono le parole dell’altro. La salvezza divina mi proviene tramite Gesù (Gv 12, 48 ss).

Ma sarebbe uno sbaglio poggiare su questi passi per asserire l’identità di natura tra il Padre ed il Figlio, poiché le identiche parole che servono a denotare l’unione tra Gesù e il Padre, sono pure quelle che servono a denotare l’unione tra Cristo e i cristiani e tra i cristiani tra di loro, benché ognuno conservi la propria personalità naturale (Gv 17, 21 ss).

Mi sembra che ciò sia espresso chiaramente quando Gesù dice: « Che tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te, anch’essi siano una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17, 21).

Non « tu sei me», ma « tu sei in me»; non « io sono te», ma « io sono in te». Si tratta di abitazione, di unione di vivere l’uno dell’altro (come tra Cristo e il cristiano), non di identificazione di natura o di essenza. Gesù è " funzionalmente" identico al Padre, in lui è l’amore del Padre che si dispiega, è la salvezza del Padre che mi perviene, anche se naturalmente sono distinti e l’uno è subordinato all’altro. Verrà poi il momento in cui, terminata la precedente missione ("funzione") del Cristo, questi si sottometterà definitivamente al Padre, perché « Dio (ossia il Padre) sia tutto in tutti » (1 Cor 15, 28).

Tuttavia le considerazioni precedenti, pur essendo di valore, sono pur sempre interpretazioni umane non infallibili. Per cui se uno ritiene più giusto aderire alla interpretazione tradizionale che ritiene Gesù Dio, lo faccia pure, anche se troverà non poche difficoltà da affrontare. Quel che conta non è tanto discutere la persona o la natura di Gesù, quanto affidarsi a lui come all’unica "immagine" vera di Dio, come l’unico mediatore nel quale Iddio ci salva. Nella gloria del cielo, che per sua intercessione otterremo, ci sarà possibile vedere faccia a faccia la realtà unica del Cristo.

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NOTE A MARGINE

(1) La citazione è tratta da Is. 45, 23,torna al testo

(2) E. Lohmeyer, Der brief an die Philipper, pp. 90 ss. torna al testo

(3) Cf J. Jeremias, Zur Gedenkenführung in den Paulinischen Briefes, in "Studia Paulina", pp. 152-154. Fu accolto tra gli altri da J.W. Robinson, A New Quest of the Historical Jesus, p. 50; cf L. Ligier, L’Hymne Christologique de Philippiens 2, 6-11; la liturgie eucharistique de la Bénédiction synagogal Nichmat kol hay, in "Studiorum paulinorum Congressus", Roma, Biblica 1963, vol. II, pp. 65-74; Cf A. Feuillet, L’Hymne christologique de l’Epitre aux Philippens (2, 6-11), in "Revue Biblique" 72 (1965), pp. 352-380. torna al testo

(4) R.H. Fuller, The Faundations of New Testament Christology, p. 235, n. 9. Sono contrari alla preesistenza i seguenti autori: L.S. Thorton, The Dominion of Christ (1952); L. Cer-faux, L’Hymne du Christ-Serviteur de Dieu, in "Recueil L. Cerfaux" (1964) II, pp. 465 ss; L.B. Strecker, The Christological Hymn in Philippians 2, in "Luteran Quarterly" 16 (1984), pp. 49-58; John Harvey, A New Look in the Christ Hymn in Phil 2, 6-11, in "Expository Times" 76 (1965), pp. 337-339. Favorevoli alla preesistenza sono, oltre al già citato Fuller, O. Cullmann, The Christology of New Testament, Neuchâtel 1968; E. Käsemann, Kritische Analyse von Phil. 2, 5-11, in "Zeitschr. Theol. K." 47 (1950), pp. 313-360. torna al testo

(5) Su queste parole ebraiche cf J. Barr, The Image of God in the Book of Genesis, in "Bulletin of the John Ryland Library" 51 (1968), pp. 11-26. torna al testo

(6) Per l’uso di queste parole cf:                  to’ar: morfé  in Gdc 8, 18a, omòioma in Gdc 8, 18b:
                                                                         tabnith: morfé in Is 44, 13, omòioma in Dt 4, 17.18;
                                                                         temunah: morfé in Gb 4, 16, omòioma in Dt 4, 12.15.16:
                                                                         denuth: omòioma in 2 Re 16, 10; 2 Cron 4, 3. torna al testo

(7) "Servo" (doùlos) in Is 4, 3.5; "Figlio" in Is 42, 1; 49, 6; 50, 10; 52, 13. torna al testo

(8) O. Cullmann, Christologie of rhe New Testament, 1959, pp. 3 ss. Cf B.N.F. van Dersel, "Der Sohn" in der sinoptischen Jesusworten. Christusbezeichnung der Gemeinde oder Selbstbezeichnung Jesu? in "Suppl. Novum Testamentum" t. III, Leisa 1961. torna al testo

(9) Il Prof. H.E.W. Turner ha definito il libro di Werner «brillant, learned and perverse», una possibile combinazione di qualità di ogni specialista erudito. Cf M. Werner, The Faoundation on Christian dogma, 1957, p. 298; H.E.W Turner, The Pattern of Christian Truth, 1954, p. 20; H.W Montefiore, Toward a Christology for Today, in "Soundings", ed. A. Vidler, 1962. torna al testo

(10) Il Rahner nell’articolo che citeremo più avanti ammette soltanto sei passi: Rm 9, 5 s; Gv 1, 1.18; 20, 28; 1 Gv 5, 20 e Tt 2, 13. torna al testo

(11) Cf F. Salvoni: Il verace è questo: Dio e la vita eterna, in "Ricerche Bibliche e Religiose" 3 (1968), pp. 55-59. torna al testo

(12) K. Rahner, Theological Investigations, 1961, pp. 135 ss. Anche Vincent Taylor, uno studioso moderatamente conservativo, dice «che l’unica chiara affermazione della divinità di Cristo si trova nella confessione di Tommaso in Gv 20, 28» Così nel suo articolo: Does the New Testament call Jesus God?, in "Expository Times" 73 (1962), p. 118. torna al testo

(13) Cf F. Hann, Christologische Honeitstitel, 1963, 99. 294 s. torna al testo

(14) De Incarnatione 54 vol III della Library of Christian Classics, p. 107. torna al testo

(15) Barnabas Lindbars, New Testament Apologetic, 1961, p. 29. torna al testo

(16) J.M. Creed, The Divinity of Jesus Christ, (Fontana ed.), pp. 122 ss. torna al testo

(17) 1 Cor 11, 3. Va pure osservato che l’inno al Cristo nella lettera ai Filippesi, come è stato da noi inteso, non ha alcun riferimento alla preesistenza di Gesù. torna al testo

(18) Soundings, op. cit., p. 159. torna al testo


(Fausto Salvoni, dalla dispensa «Vita di Paolo e lettere dalla prigionia», pagg. 77-95)