Riflessioni nella crisi
su qualcosa che dura: il Chaplin.
1949-1982/83. Trentaquattro anni di attività non sono pochi per una struttura culturale che opera nel Mezzogiorno. Specie in quella Calabria che è considerata il margine estremo dell'Europa, la regione dove i problemi che assillano il nostro Paese si sono raggrumati e amplificati in modo parossistico, dove il livello di imbarbarimento progressivo sembra frantumare tutti gli argini della resistenza civile.
Questi cedono sotto la spinta di gravi ed angustianti problemi, antichi e nuovi non risolti; sotto il maglio di una emigrazione che in 25 anni ha allontanato un terzo dei Calabresi dalla loro casa; sotto il lavorio costante di governi inefficienti e corrotti; sotto il morso della disoccupazione e sotto quello degradante e famelico della mafia.
Diamo per scontata la conoscenza di questi ed altri dati della società, che testimoniano del suo stato di degrado fisico e di irrespirabilità morale. Su Essa il recupero di un impegno civile è ormai una questione che riguarda l'esistenza stessa della vita, della civiltà, dell'idea di democrazia. Del rapporto ormai balbettante tra cittadini, società e istituzioni. E delle voci che sì affaticano per far sopravvivere e per rivitalizzare questo rapporto.
Tra esse inseriamo quella della nostra associazione.
Sappiamo che durare per tanti anni in questa regione e questa città, è difficile. Ma questo non è certo un contenuto.
Il contenuto è, semmai, nel come si vive, nel come si dura. Nel perché. Nelle scelte di politica generale della FICC per la difesa del concetto di pubblico piuttosto che di privato. E ancora per il progetto di creare un "nuovo pubblico", responsabile, attrezzato di fronte alle lusinghe e al progressivo intorpidimento creati dai mass media, per la scelta del Mezzogiorno come area preferita di intervento, avendo compreso già tanti anni or sono che senza la soluzione di
questo problema non vi sarebbe stata soluzione di alcun problema. Il Mezzogiorno come centro del problema nazionale. La FICC scelse così nel 1966. Oggi il Paese ne torna a parlare. Nel dramma.
Ci è stato detto, in anni passati di fervente e a volte non ragionata e non lucida attività politica, che dovevamo cambiare tutto. Abbiamo cercato di capire, cercato di mantenere fede a un principio: studiare con freddezza la realtà, porci come strumento e dentro il movimento del cambiamento, ma senza recidere le radici storielle per amore di un "nuovo" non ben definito, della novità come moda. Altre volte, spesso dalle stesse persone e dalle stesse fonti, ma in tempi molto più recenti, negli anni di altrettanto fervente, forse dovrei dire furiosa, attività rivolta però a ritirarsi, a rinchiudersi, all'abbandonare, al consumare, al privatizzare, altre volte, dicevo, ci è stato detto che siamo un'associazione triste, che cerchiamo sempre di far discutere la gente, di metterla davanti a problemi che è bene dimenticare; che il cinema è evasione, divertimento, "spettacolo"; che buttiamo tutto in politica.
Abbiamo sempre fatto profonda distinzione tra tristezza e serietà. La vita della nostra città è triste ma non seria, per esempio. Ma è vero che crediamo, e forse ancora una volta contro corrente, che la gente debba conoscere i propri problemi e non dimenticarli. Che tutto sia politica e che questa vada tolta da quelle menti che la rendono sospetta, distante dai bisogni
della gente.
Quanto al cinema non l'abbiamo mai visto come una forma di divertimento narcotizzante e rassicurante, né come evasione dalla realtà. Ma come una forma di comunicazione di idee e di conoscenza, come gioia dell'intelligenza, strumento di analisi. Un mezzo di emancipazione, di liberazione dall'ignoranza. Di libertà, vedere, conoscere, capire per essere liberi...
...Enorme lavoro, grande soddisfazione, molti errori! Quante cose che si davano per certe si sono dimostrate poi idee fallaci! Quante volte il cambiamento che sembrava alle porte, quasi raggiunto, ci ha lasciati poi con il senso del vuoto e della frustrazione...E quante poche invece, le cose veramente compiute, i risultati concreti, le battaglie vinte.
Questi risultati che sono un prezioso bagaglio per la nostra associazione pensiamo che siano anche patrimonio di tutto l'associazionismo della città...
Posso dire che, nel bene e nel male, ma sempre sostenendo ciò che sembrava giusto, abbiamo lavorato, studiato, discusso, lottato, perso, vinto, sbagliato, inciso, insomma vissuto; che abbiamo sempre cercato di capire perché abbiamo perso e come e dove abbiamo sbagliato, e che l'avere avuto molte volte ragione e l'aver a volte vinto non è mai stato accompagnato da trionfalismo e dal disprezzo. E che su questa strada vogliamo continuare.
Sebastiano Di Marco
Blog dedicato a Sebastiano Di Marco