Vincitori del premio

VI edizione 2008-2009

Pubblicazioni italiane

 

Ex equo

 

 

 

 

Mauro Carbone, Sullo schermo dell’estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Mimesis  Edizioni, Sesto San Giovanni, 2008

 

 

Motivazione dell'assegnazione del Premio.


Nel suo libro, Mauro Carbone affronta il rapporto tra cinema e filosofia in una prospettiva originale e innovativa che gli consente di aprire un campo di indagine, assai promettente, irriducibile alle due concezioni con cui in generale tale rapporto è stato fin qui pensato: da un lato l’idea tradizionale che considera il cinema come oggetto di riflessione filosofica, dall’altro la tesi, originariamente deleuziana, secondo cui il cinema sarebbe esso stesso una peculiare forma di pensiero. Il gesto teorico grazie a cui Carbone prende fruttuosamente le distanze da queste due posizioni consiste nel valorizzare il ruolo centrale che spetta di diritto al cinema nell’ambito di un’estetica, da intendersi non tanto come una disciplina specialistica ma come un modo di interrogare criticamente l’intero dispiegamento dell’esperienza sensibile. Il cinema in tal modo, proprio come la pittura nell’ultimo Merleau-Ponty, offre a una filosofia del senso, qual è l’estetica, l’opportunità di ripensare se stessa e di rinnovare il suo medesimo vocabolario concettuale.

 
 

 Franceso Ballo: Jacques Tourneur. La trilogia del fantastico, Editore Falsopiano, 2008


 

Motivazione dell'assegnazione del Premio.

Francesco Ballo nel suo prezioso saggio organizza, con acume e finezza analitica, la sua "magnifica ossessione" per il regista de "Il bacio della pantera" e di altri capolavori che lavorano sull'ambiguità delle ombre che ci assediano come spettatori e come essere umani. La missione possibile e feconda di questo saggio è imparare quasi a memoria i film, metabolizzarli, scomporli e ricomporli per svelare il lavoro interno al testo, gli stilemi e le suggestioni di un maestro del fantastico e per ragionare sulla paura e sulla malinconia del suo cinema inimitabile.

 
 

 Pubblicazione francese

 

Luc Moullet
Piges choisies (de Griffith à Ellroy)
Editeur: Capricci,  2009

 

 Motivazione dell'assegnazione del Premio.

 

La particolarità di Luc Moullet è di essere allo stesso tempo autore di film, generalmente dei cortometraggi, e critico, generalmente cinematografico. In quanto autore, egli si definisce come «comico», particolarmente in una raccolta di cortometraggi presentata da lui stesso e che ha intitolato Luc Moullet en shorts, con un doppio senso non equivoco, cioè Luc in pantaloncini aderenti o, se si vuole, Luc Moullet in pantaloncini corti. Vi sono descritti luoghi comuni, geografici o generalmente antropologici, di cui l’autore sottolinea la sostanziale assurdità o la banalità. Tra i giudizi più illuminanti sul lavoro di Luc Moullet cito quelli di Jean-Marie Straub: «Luc Moullet è indubbiamente l’unico erede al contempo di Buñuel e di Tati», o quello di Jean-Luc Godard: «Moullet, è Courteline rivisitato da Brecht»; e quello infine di Jean Douchet: «Non ci sono in lui belle immagini, né effetti ostentati di cinepresa. In modo semplice, rapido e diretto vede ciò che c’è da dire».

Il premio "Maurizio Grande" gli viene consegnato per la raccolta di testi critici pubblicata dalle edizioni Capricci del Centro Pompidou con il titolo di Piges choisies, che potremmo tradurre con Pezzi scelti, pezzi indicando una parola particolare francese, «piges», cioè cartelle o pagine scritte per un giornale. La raccolta, dopo un’introduzione intitolata Prova o saggio d’ouverture, è ridistribuita in una serie di dieci sottotitoli: Gli inizi, I miei maestri, dove spiccano i nomi di Georges Sadoul, François Truffaut, Jean-Luc Godard; Pentagono Reale che sviluppa studi su Sam Fuller, Mizoguchi, Buñuel, Raoul Ruiz et Robert Bresson. Dopo il Pentagono, L’Esagono e le sue sfaccettature, l’Esagono essendo la Francia; poi Il ventre dell’America che riprende il titolo di uno dei cortometraggi dell’autore; seguono Festivals, Teoria con quattro titoli : «Della nocività del linguaggio cinematografico, della sua inutilità… », «Il dispositivismo nel cinema contemporaneo», «Viva le querce !… abbasso i  pinguini!» e «L’itterizia». La serie della raccolta continua con tre lavori sull’Eloquenza del muto, un titolo intraducibile Navets et baudruches, potremmo solo suggerire «Pizze e palloni gonfiati» e infine Star sorpresa e rivelazioni in cui si leggono, non sempre con entusiasmo da parte dell’autore, i nomi di Antonioni e di Gian Vittorio Baldi.

È difficile riorganizzare questa vasta materia critica che ricopre un numero molto ampio di anni e di riviste cinematografiche. Prendendo un po’ a caso tra le pagine leggo questa massima dell’autore:

«Ho scritto qualche testo teorico. Non troppi. È pericoloso. Metz, Deleuze, Benjamin, Debord si sono suicidati. Avevano forse scoperto che la teoria non conduce da nessuna parte, e l’urto è stato troppo violento (per non parlare di Althusser). A questo proposito, i grandi critici muoiono giovani. Delluc, Canudo, Auriol, Agee, Bazin, Truffaut, Staram, Daney. Visionare troppi film divora. Io sono ancora qui, e questa è la prova che non sono un grande critico. È una teoria che vale solo per i buoni critici : Charensol è morto quasi centenario.»

E ci sono infine tre dogmi fondamentali espressi nella cinquantina di articoli raccolti: recito l’autore: «Il mio dogma n° 1, è di far sempre ridere il lettore. Il dogma n° 2: ogni film interessante genera un approccio critico specifico al film in questione: niente programmazione. Dogma n° 3: il critico deve sempre partire da un esempio preciso prima di generalizzare, e non dal Generale (e ancora meno rintanarvisi). Per me, l’Austerità, la Programmazione e il Generale sono i tre cancri della critica.» Forse si potrebbe chiedere a Luc Moullet chi è il Generale, scritto così con la maiuscola ?

Per finire, vorrei citare due brani, uno dedicato a Carmelo Bene, che in questi anni è comunque stato presente, malgrado la sua assenza, in quest’ambito di Reggio Calabria: «Il più audace è Bene: non c’è più trama, ancor meno psicologia. Si tratta proprio di cinema allo stato puro come non ce n’è mai stato. Non c’è assolutamente altro che cinema, che idea di cinema, e senza nessun rapporto con le idee di cinema già assodate. Non parlo di idee tecniche, benché ce ne siano. È mettere assieme idee di ogni sorta, e dunque a volte anche di idee tecniche. Fin qui, tutti i registi che si erano staccati troppo direttamente dalla realtà per arrivare al non-sense, all’assurdo o all’illuminazione, s’étaient cassés la gueule, si erano spaccati la faccia. Penso più particolarmente all’infelice Help di Richard Lester. Bene è il primo a riuscire senza prender appoggio a referenze convenzionali. È anche vero che ricorre alla parodia, sopratutto nella geronterastia. Ma la sua parodia è troppo eccessiva per essere efficace in quanto parodia. Diventa presto lirica e si afferma come un nuovo valore libero da quanto caricaturava. La riuscita di Bene sta probabilmente in un progredire incessante nell’eccessivo, senza nessun ripensamento né tempi morti. Benché vi siano alcuni momenti più forti, diventa quasi impossibile avere coscienza degli elementi, lo spettatore è conquistato dal vortice dell’insieme e gli elementi precedono troppo la realtà per poter essere assimilati dallo spirito.»

L’altra citazione è presa da uno dei testi della raccolta premiata, intitolato Dodici modi di essere cineasta in cui Luc Moullet interpreta i registi e il loro lavoro in funzione del segno zodiacale. Ne ho scelto uno, non a caso; dice questo: «Le Bilance si esprimono benissimo attraverso il comico: Keaton, Tati, MacCarey, Groucho Marx sono nati tutti tra il 2 e l’8 ottobre : la seconda decade. Ce l’ho molto con mia madre : se invece di partorirmi il 14 ottobre avesse fatto un po’ più in fretta, sarei della seconda decade, e avrei fatto dei film molto più divertenti. La prima decade si distingue per un individualismo e un ascetismo pronunciati (Bresson, Antonioni).» Fine della citazione.

 

Jean-Paul Manganaro

 

La giuria del Premio ha deciso di attribuire un Encomio al saggio

 

Marco Dinoi,  Lo sguardo e l’evento.   I media, la memoria, il cinema,           Le Lettere, Firenze 2008.

 

Dal "sembra vero", con cui i primi spettatori cinematografici accoglievano le proiezioni dei fratelli Lumière, al "sembra un film", con cui molli spettatori televisivi hanno reagito alle immagini che ci giungevano da New York l'11 settembre 2001, si è pienamente compiuto un salto cognitivo: la finzione sembra fornire un quadro concettuale che sovrapponiamo alla realtà per comprenderla, fino a una potenziale indistinzione tra reale e immaginario. Lo sguardo e l'evento cerca da un lato di descrivere e interpretare gli effetti di tale salto relativamente alla fruizione mediatica (internet e tv, in primo luogo), a partire dalle sequenze che hanno veicolato l'attentato al World Trade Center, dall'altro di rilevare le "strategie di resistenza" con cui una parte del cinema contemporaneo risponde a questo orizzonte verso cui alcuni cineasti tendono a scardinare le rappresentazioni proprie del nostro habitat comunicativo (in relazione alla realtà, alla storia, alla memoria e allo sguardo; sono queste le quattro grandi aree tematiche che vengono affrontale con un taglio interdisciplinare, dalla sociologia dei media alla teoria del cinema), per far emergere le ambiguità e le funzioni eterogenee dell'immagine, per mettere in scena, ancora, lo sguardo e il mondo.
 

Marco Dinoi (1972-2008) è stato docente di Teorie e tecniche del linguaggio cinematografico e di Metodologia della critica presso l'Università degli Studi di Siena. Come regista ha realizzato cortometraggi e documentari. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo Girare in digitale. Istruzioni per l'uso della nuova tecnologia (2000).
 

V edizione 2007-2008

Pubblicazione italiana

 

 

 

Veronica Pravadelli
La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano

Marsilio, Venezia, 2007

La grande Hollywood racconta come il cinema interpreta e costruisce desideri sociali e stili di vita nell'America del periodo 1930-1960. Forma di intrattenimento dominante, il cinema produce spettatori che in sala vivono più intensamente modelli esistenziali e percorsi possibili della propria identità. La rappresentazione del desiderio e dei rapporti intersoggettivi si modifica negli anni, soprattutto in relazione alla dialettica tra maschile e femminile. Ma anche la messa in scena, le forme del racconto e la qualità visiva dell'immagine mutano. Grazie a un metodo che fonde l'analisi del film e la teoria narrativa con gli studi storici sulle dinamiche di gender, questo libro indaga le diverse forme di convergenza tra stili di vita e modi di messa in scena. La ricerca si sviluppa attraverso i generi più rappresentativi, dalla commedia sofisticata al noir, dal film d'avventura al woman’s film, dal musical al family melodrama. Nella convinzione che il circuito tra socialità e forme dell'identità raggiunga una maggiore intensità simbolica nei film di successo, La grande Hollywood affronta film che hanno raggiunto un vasto pubblico e sono stati apprezzati dalla critica, come Accadde una notte e Venere bionda, La fiamma del peccato e Il romanzo di Mildred, Gli uomini preferiscono le bionde e Cantando sotto la pioggia. E insieme interpreta e celebra le tecniche di recitazione e il fascino straordinario dei divi e degli attori che hanno popolato il nostro immaginario: Cary Grant e Katharine Hepburn, Marlene Dietrich e Joan Crawford, William Holden e Marilyn Monroe, Lauren Bacall e Humphrey Bogart.

IV edizione 2006-2007

Pubblicazione italiana

 

 

 

Emiliano Morreale
Mario Soldati.

Le carriere  di un libertino
Le Mani, Recco, 2006

 

Questo libro è la prima ricognizione complessiva dell’opera di Mario Soldati, personalità centrale del nostro Novecento e ancora poco studiata: scrittore di primissimo ordine (America primo amore, A cena col commendatore, Le lettere da Capri), autore di alcuni capolavori del cinema italiano (Piccolo mondo antico, Malombra, Fuga in Francia, La provinciale), pioniere della televisione (cui ha regalato alcuni programmi leggendari come il Viaggio nella valle del Po). Il libro di Morreale si articola in due parti ben distinte. La prima traccia un rapida biografia del personaggio e ne studia i temi essenziali: il gusto dell’avventura, il peculiare cattolicesimo, la sensibilità per le distinzioni di classe, l’attenzione alle mutazioni sessuali, il confronto con l’America degli anni ’30 e col neorealismo italiano, la passione di viaggiatore, il rapporto con la politica e la società italiana. La seconda parte fornisce una doverosa introduzione ragionata al suo cinema, film per film, a cominciare dalla sua attività di sceneggiatore per Camerini e spingendosi fino alle opere televisive e all’attività critica e giornalistica dagli anni ’60 in poi. Ne risulta un ritratto sfaccettato e sorprendente, documentato e inventivo, che rende giustizia insieme allo scrittore e al regista mostrandolo anche come crocevia di esperienze e momenti culturali i più diversi e insospettabili e scoprendone una assoluta modernità.


 

Pubblicazione italiana

Ex equo

Luca Venzi

Il colore e la composizione filmica

Edizioni ETS,  Pisa, 2006

 

Siamo naturalmente del tutto certi che vi siano sempre i colori nel cinema a colori, più o meno chiari o scuri, più o meno accesi o sfumati, più o meno fedeli ai colori della vita. Ma il colore? Il colore in quanto tale, inteso come valore visivo e concettuale utilizzabile dal film in qualsivoglia direzione formativa, c'è sempre nel cinema a colori? O non ci capita assai spesso di guardare film a colori senza accorgerci, se così si può dire, che in essi vi sia del colore? Articolandosi lungo le linee di una definita prospettiva teorica ed avvalendosi di un confronto analitico serrato con film tra loro anche radicalmente dissimili, questo libro si propone di studiare il colore come elemento della composizione cinematografica. E di mostrare come esso si configuri, sebbene il cinema lungo il corso della sua storia lo abbia assai raramente impiegato in funzione costruttiva, come uno dei più complessi, fecondi e affascinanti strumenti espressivi in dotazione all'immagine filmica.

 

Pubblicazione francese

Jean Narboni:

Naruse. Les temps incertains. Cahiers du Cinèma - Auteurs, 2006

 

Des grands maîtres du cinéma japonais comme Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, c'est  Mikio Naruse qui reste à ce jour le moins connu du public occidental.  Pourtant Ma femme sois comme une rose, fut élu meilleur film de l'année au  Japon en 1935, et le premier film parlant japonais distribué aux USA;  pourtant encore, La Mère, sorti en France en 1954, a toujours été répertorié  dans les catalogues des ciné-clubs comme l'un des fleurons du cinéma  japonais. Mais il faudra attendre les années 80 pour voir reconnu Naruse comme un grand auteur, et une rétrospective à la Cinémathèque française en
2001, pour voir le cinéaste définitivement consacré. Il réalise ses premiers films muets - en 1930 pour la major company japonaise la Sochiku et sa carrière prolifique se termine en 1967 avec Nuages épars, il travaille alors pour l'autre grande major company, la Toho. Nuages flottants, son film aujourd'hui le plus connu, est l'un de ses six films adaptés des livres de la célèbre romancière Fumiko Hayashi avec l'oeuvre de laquelle il entretient une véritable complicité. L'auteur nous permet non seulement de resituer Mikio Naruse dans le cinéma japonais, et particulièrement par rapport à Ozu auquel il fut souvent comparé, mais plus globalement dans l'histoire du  cinéma mondial, en construisant des ponts audacieux avec des cinéastes comme Dreyer, Bergman, Antonioni, Truffaut. our mieux analyser son style et sa mise en scène, Jean Narboni nous entraîne sur les pas de Tchekov pour l'éthique de ses personnages, et de Schubert pour son tempo. «Le naturel comme qualité de la forme, la  sensation du temps de ce qui ne cesse de passer comme effets d'un art du récit si peu voyant qu'on l'a longtemps tenu pour facile : c'est à ces deux constantes que son cinéma doit sa continuité et a tenue. A entendre musicalement et moralement». Par cet ouvrage, et à l'encontre des idées reçues, Jean Narboni restitue à Mikio Naruse, la place qui lui est due, auprès des plus grands cinéastes du XXè siècle.
 

 

III edizione 2005-2006

Pubblicazione italiana

 

Francesco Casetti
L'occhio del Novecento.
Cinema, esperienza, modernità

Bompiani, Milano, 2005

 

Il cinema è stato indubbiamente l'arte che meglio ha saputo incarnare la grande svolta che il Novecento ha rappresentato nella storia dell'uomo, non solo per la modernità tecnologica dei suoi mezzi, ma anche, e in senso più profondo, perché ha saputo dar voce e influenzare una nuova società con diverse esigenze estetiche. Il cinema è stato il mito e il rito di una nuova umanità: nuovo dizionario di simboli e comportamenti in un mondo che ha bruciato i suoi vecchi vocabolari, nuova forma di comunione sociale nell'era dell'avvento della massa. Alternando la rilettura di una quindicina di capolavori fondamentali (da Quarto Potere a Blow Up, da Griffith a Ejsenstejn) a brevi squarci di teoria degli anni venti e trenta (Benjamin, Kracauer, Delluc, Epstein), e a un'analisi rivelatrice di alcuni procedimenti tecnici tipici del linguaggio cinematografico, Francesco Casetti ci guida alla riscoperta del cinema e della modernità, chiarendo in modo magistrale perché il cinema vada considerato l'autentico "occhio del Novecento".

 

II edizione 2004-2005

Pubblicazione italiana

 

Fulvio Carmagnola
Plot, il tempo del raccontare
nel cinema e nella letteratura,

Molteni, Roma, 2004

 

 Il cinema, insieme alla musica, è forse l’espressione della cultura umana più strettamente legata all’idea di tempo. Che sia narrativo o spettacolare, di massa o di avanguardia, il racconto cinematografico si svolge comunque in un segmento definito del tempo. In queste pagine, che sviluppano la riflessione avviata in Pulp times, si entra nel vivo del tradizionale dibattito tra il tempo della rappresentazione e il tempo rappresentato. Lo si fa convocando altri testi, altre tradizioni: alcune riflessioni sulla narratologia e sul tempo narrativo, e alcune delle pratiche esemplari nella letteratura. E confrontando questo tempo emergente dalle teorie letterarie e dalle pratiche del racconto con gli esempi cinematografici e con le considerazioni sempre più frequenti degli osservatori, interni o esterni, del fenomeno-cinema. Dunque diversi sono i domini di riferimento: la discussione su “tempo e racconto”, per riprendere il titolo del celebre studio di Paul Ricœur; alcuni degli esempi più rilevanti di pratica temporale nella narrazione letteraria (ad esempio in Proust, Borges, Dick, Effinger); le riflessioni sul tempo cienmatografico che culminano negli anni Ottanta nel fondamentale lavoro di Gilles Deleuze.
 

Pubblicazione francese

Trafic - Revue de cinéma

N.50 - Qu'est-ce que le cinéma?

 

 

 

 

 Donc, qu’est-ce que le cinéma ? Et tout d’abord, à qui poser la question ? Des romanciers, des cinéastes, des critiques, des historiens, des conservateurs, des philosophes ont été conviés à répondre, sans pourtant que leur "spécialité" d’origine les cantonne à un type précis de réponse. Le numéro s’organise selon une logique plus secrète et moins prédéterminée. Quatre types de questionnements se dégagent : un questionnement essentialiste (qu’est-ce que le cinéma en soi ?), comparatiste (par rapport aux autres arts ?), normatif (que doit être, de tout temps, le cinéma ?), missionnaire (ce que doit être le cinéma vu l’état présent). Deux inquiétudes profondes se manifestent : la pérennité du cinéma, promis par certains à une déliquescence, sinon à une mort prochaines, et son statut d’art à part entière toujours remis en question. Répondre à la question, "Est-ce dans le but que ceux d’entre nous qui savent ce qu’est le cinéma puissent continuer à réaffirmer son existence afin de nous rappeler cette vaste communauté à laquelle nous appartenons tous ? Ou est-ce parce que nous nous inquiétons de son éventuelle disparition – ou de son absorption dans le grand tout de la culture de l’image ?" écrit Kent Jones dans "Le Mot". Si les textes redistribuent à chaque fois ces pistes mentionnées ci-dessus, on peut cependant dégager quelques familles, discrètement désignées par leur proximité dans le sommaire.
Dans la famille des questionnements comparatistes, on peut noter le texte d’Alain Bergala, "De l’impureté ontologique des créatures de cinéma", qui met au jour une figure constitutive du cinéma et seulement du cinéma : "Le cinéma a posé de façon totalement neuve et inédite, dans l’histoire des arts, le rapport entre la créature imaginaire (celle que le créateur, pour aller vite, a dans la tête), la créature réelle (ce que les peintres et les photographes appellent le modèle), et la créature inscrite dans l’œuvre (la figure, le personnage incarné dans le film)." Dans "Marginalia", Pierre Léon interroge la "honte originelle" du cinéma (art saltimbanque et art mixte) et analyse ses points de rencontre avec les autres arts, notamment la littérature, qui prennent la forme de tentations inéluctablement esquivées : "La tentation du cinéma aura toujours été cela : ressembler à la littérature ; celle des cinéastes, de marcher au hasard des rues avec la besace et le manteau de Diogène-le-chien, […] mais le cinéma est grégaire. C’est sa nature économique […]. Ce qui fait une des forces du cinéma, c’est ça aussi : imiter sans jamais copier les expériences solitaires en sachant pertinemment qu’il ne serait possible de rendre compte d’une expérience de ce genre qu’en épaississant le mystère, qu’en voilant un peu plus la vérité, pour que ce voile seul soit son authentique épiphanie."

 

I edizione 2003-2004

Pubblicazione italiana

 

Sergio Arecco,

Il paesaggio del cinema,

Le Mani, Genova, 2002

 

Da Ford a Almodóvar… Dalla mitologia western alla mitologia contemporanea. Dal vuoto della Monument Valley che improvvisamente si popola di uomini e cavalli al pieno dello scenario urbano che improvvisamente si spopola e si fa deserto, luogo di solitudini e derive. Nel passaggio dal cinema classico al cinema postmoderno non cambia la logica di una visione che è sempre visione di confini e sconfinamenti, contrazione e dilatazione di spazi e orizzonti, margini e figure. Costruito attorno all’opera di dieci registi giudicati esemplari del rapporto cinema/territorio – Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Howard Hawks, Terrence Malick, Pedro Almodóvar, Luchino Visconti, Joel e Ethan Coen, Jane Campion, Bernardo Bertolucci, John Ford, secondo il percorso tra “vecchio” e “nuovo” sapientemente tracciato dall’Autore –, il presente libro costituisce un importante contributo all’analisi di quel vero e proprio doppio che, per il grande cinema di ieri come di oggi, è stato ed è il paesaggio. Nel senso di un immaginario che non è mai sfondo o contorno illustrativo, ma presenza viva, interlocutore privilegiato e speculare ai personaggi, complemento insostituibile alla loro articolazione narrativa e alla loro storia.

 

Pubblicazione francese

Jacques Rancière,

La fable cinématographique, Seuil, Paris, 2002

Une fillette et son tueur devant une vitrine, une silhouette noire descendant un escalier, la jupe arrachée d'une kolkhozienne, une femme qui court au-devant des balles : ces images signées Lang ou Murnau, Eisenstein ou Rossellini, iconisent le cinéma et cachent ses paradoxes. Un art est toujours aussi une idée et un rêve de l'art. L'identité de la volonté artiste et du regard impassible des choses, la philosophie déjà l'avait conçue, le roman et le théâtre l'avaient tentée à leur manière. Le cinéma ne remplit pourtant leur attente qu'au prix de la contredire. Dans les années 1920 on vit en lui le langage nouveau des idées devenues sensibles qui révoquait le vieil art des histoires et des personnages. Mais il allait aussi restaurer les intrigues, les types et les genres que la littérature et la peinture avaient fait voler en éclats. Jacques Rancière analyse les formes de ce conflit entre deux poétiques qui fait l'âme du cinéma.

Jacques Rancière analyse les formes de ce conflit entre deux poétiques qui fait l'âme du cinéma. Entre le rêve de jean Epstein et l'encyclopédie désenchantée de Jean-Luc Godard, entre l'adieu au théâtre et la rencontre de la télévision, en suivant James Stewart dans l'Ouest ou Gilles Deleuze au pays des concepts, il montre comment la fable cinématographique est toujours une fable contrariée. Par là aussi, elle brouille les frontières du document et de la fiction. Rêve du XIXe siècle, elle nous raconte l'histoire du XXe siècle. (Quatrième de couverture)

 

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