Addio a Leopoldo Trieste volto bizzarro e
felliniano
Addio Poldino, figura fragile e gentile che ha
attraversato tanto grande cinema. Poldino, Polduccio. Era Fellini a chiamarlo
così, con il suo vezzo infantile dei diminutivi, Fellini che di Trieste era
stato il "magnifico traviatore", colui che ne aveva deviato il
destino, strappandolo a una sicura carriera universitaria. A 22 anni Trieste era
laureato in filologia, appassionato di greco, aveva studiato con Sapegno e Praz,
era stimatissimo, gli era stata subito proposta una cattedra. Ma Trieste era
carico di ardori e fremiti scomposti, intellettuali (aveva frequentato Quasimodo) e non solo, da ragazzo del Sud - era nato a Reggio Calabria - partito
a conquistare il mondo con il sogno della scrittura. E fuori c'era la guerra,
che cancellava le certezze. Abbandonò l'Università, anche se lo studio rimase
il passatempo prediletto, il rifugio dalla solitudine e chi ha avuto il
privilegio di forzare gli eccessi di ritrosia ed entrare nella sua casa (a volte
faceva aspettare anche l'amico Fellini) la ricorda come un cumulo di libri, un
mausoleo di memorie, copioni, feticci, targhe, vestiti di scena, premi. E ne
aveva vinti di Nastri e David, ultimo fu il premio Fellini mesi fa a Cinecittà.
Il teatro fu il primo amore. A 18 anni aveva
già scritto sette commedie, ma il primo testo fu rappresentato nel '45, La
frontiera, che parlava dell'orrore della guerra e del pacifismo, a cui
seguirono Cronaca, Capriccio in La minore, N.N., premiate
dal pubblico e da elogi critici. Ma alla natura irrequieta di Leopoldo Trieste
non bastava, nel dopoguerra il cinema era il grnade richiamo per gli
intellettuali, ci entrò come sceneggiatore. Poi incontrò Fellini. Dice la
leggenda che Fellini, vedendolo in fila con aspiranti attori gli disse: "Non
è Leopoldo Trieste lei? Lei scrive bene, perché viene qui a perdere
tempo?" E Trieste: "Mi interessava una ballerina". E
Fellini lo scritturò per il ruolo di Ivan Cavalli in Lo sceicco bianco.
L'anno dopo lo richiamò per I vitelloni. Cominciò così una carriera di
170 film, una serie di interpretazioni con Sordi, De Sica, Manfredi, Gassman
(altro grande amico dai tempi dell'Accademia), Mastroianni: indimenticabile in Divorzio
all'italiana, uno dei tanti perdenti, tragicomici, stralunati e poetici
personaggi che ha regalato allo schermo. "Tu sei un attore nato, con una
gamma completa dal comico al tragico", gli disse Fellini, che lo
considerava il suo "portatore di saggezza orientale, quello che trova la
porta al fondo del labirinto". E il suo talento attirò non solo i più
grandi registi italiani, ma anche Coppola, Annaud, Vidor, Clement.
Le donne e il calcio furono gli altri grandi
suoi amori. Ammirava la bellezza femminile con lo stupore incantato e timido di
chi non ha mai perso l'innocenza, guardava le partite di calcio come fossero
spettacoli del circo. Negli ultimi anni aveva continuato a lavorare, senza
disdegnare la televisione, scegliendo soprattutto registi giovani, da Tornatore
(Nuovo cinema paradiso, L'uomo delle stelle) ad Alessandro Di Robilant (Il
giudice ragazzino) a Roberto Andò (Il manoscritto del principe):
sempre in nome di quella incontentabile curiosità che ha arricchito e
tormentato tutta la sua vita.