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                              "Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria"        F. De Andrè

Rivista eco-solidale di opinioni e approfondimenti

L’Italia e l’oro blu: un rapporto conflittuale

Viviamo in un Paese molto ricco di acqua, ma incapace di gestirla in modo responsabile

Per tutti gli esseri viventi l’acqua rappresenta una fonte di vita insostituibile. Essa è la meno rinnovabile di tutte le risorse ed è quella che oggi, più dell’aria e del suolo, viene inquinata, sfruttata e soprattutto sprecata.

Volendo delineare una rapida panoramica della situazione in cui versa il nostro pianeta, si potrebbe iniziare col dire che un miliardo e seicentottanta milioni di persone nel mondo, su un totale di quasi sei miliardi, non dispone di acqua potabile (mentre nei Paesi “ricchi” si usa acqua pura per tirare lo sciacquone del water), e più di due milioni di persone muoiono ogni anno a causa di malattie associate a condizioni idriche scadenti. Sebbene il 70% della superficie mondiale è coperta d’acqua, soltanto il 2,5% di essa è costituito da acqua potabile, che si trova per i tre quarti nelle calotte polari. Solo una porzione minima è presente sotto forma di laghi, umidità del suolo e nei sistemi biologici.

Questo prezioso patrimonio è costantemente vittima di una gestione dissennata e degli sprechi. Gli ecosistemi dell’acqua potabile hanno subito, infatti, un grave degrado: circa metà delle aree umide del pianeta sono andate perse e più del 20% delle diecimila specie mondiali conosciute che vivono in acque dolci sono estinte.

In questo contesto mondiale si inserisce anche l’Italia. Il dossier di Legambiente “H2zero. L’acqua negata in Italia e nel mondo” (scritto nel 2003, che l’Onu ha proclamato “anno internazionale dell’acqua”) offre un quadro molto preciso della situazione italiana. L’Italia con 980 metri cubi di prelievo d’acqua annuo pro-capite è la prima consumatrice d’acqua in Europa e la terza nel mondo, dopo Usa e Canada. Eppure un terzo degli italiani non ha un accesso regolare e sufficiente all’acqua potabile.

La disponibilità teorica annua nel nostro Paese è di circa 155 miliardi di metri cubi di acqua, prelevata per il 49% da pozzi, il 38% da sorgenti, l’8% da bacini artificiali, il 9% da corsi d’acqua superficiali e la restante parte da laghi e acque marine. Ciò significa una disponibilità di 2 700 metri cubi per abitante all’anno, ma a causa di una cattiva gestione e di una scarsa pianificazione degli usi idrici, l’effettiva disponibilità pro-capite si riduce a 920 metri cubi.

L’Italia è un Paese ricco di risorse idriche. Il reticolo idrografico è formato da più di 230 corsi d’acqua significativi e da 56 laghi naturali. Purtroppo, però, le perdite naturali e la natura irregolare dei deflussi abbassano la disponibilità reale a 51 miliardi di metri cubi all’anno, tenendo conto anche delle acque accumulate nel sottosuolo e negli invasi artificiali.

Questa quantità di acqua disponibile non è suddivisa equamente rispetto al territorio nazionale: al Nord spetta il 65%, al Centro il 15%, al Sud il 12% e le Isole si accontentano dell’8%. Anche l’intensità di utilizzo delle risorse disponibili varia: nel Nord, dove sono presenti settori economici più sviluppati, tale disponibilità viene utilizzata per il 78%, al Centro per il 52%, mentre nel Sud e nelle Isole si arriva ad utilizzare il 96% dell’acqua disponibile localmente, valore tutt’altro che sostenibile.

Come viene utilizzata l’acqua in Italia? Una considerevole quantità di acqua viene riservata all’agricoltura, come avviene in tutti i Paesi mediterranei. Uno studio del 1999 mostra come i quantitativi di acqua destinati ad uso irriguo siano stati 20 137 milioni di metri cubi all’anno, contro i 7 940 per uso civile, i 7 986 per uso industriale e i 5 919 per scopi energetici.

Ci sono due problemi legati all’agricoltura in Italia: il primo è la mancanza di controlli sull’effettivo utilizzo di risorse idriche. Secondo uno studio dell’Inea (Istituto nazionale di economia agraria), la superficie irrigata da metà degli anni ’90 si è attestata sui circa 2,7 milioni di ettari. Analizzando in particolare le otto regioni obiettivo 1 (Molise, Basilicata, Abruzzo, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna) emerge una preoccupante disparità tra le superfici irrigate da Consorzi di Bonifica, circa 830 000 ettari, e quelle effettivamente irrigate, che risultano circa il doppio, 1,6 milioni di ettari, facendo emergere un sistema parallelo, che sfugge a qualsiasi tipo di controllo e gestione. Sono carenti e addirittura inesistenti informazioni sulle effettive disponibilità idriche delle diverse fonti di approvvigionamento da parte dei Consorzi di Bonifica. La stima totale fatta dall’Inea sommando i prelievi consortili e quelli privati, porta ad un fabbisogno irriguo solo nelle otto regioni obiettivo 1 di 3 200 miliardi di metri cubi.

Il secondo problema riguarda l’utilizzo razionale delle risorse: la pratica di un’agricoltura intensiva altamente idrovora, i sistemi di irrigazione ad alto consumo e le perdite lungo il percorso determinano fortissimi sprechi. Fulco Pratesi, presidente del WWF, spiega che “gran parte delle risorse vengono sprecate sulle colture, sparando dissennatamente acqua che, invece di bagnare le radici, finisce per vaporizzarsi”. Paolo Togni, braccio destro del ministro dell’Ambiente Matteoli, calcola che almeno il 60% delle risorse assorbite dall’agricoltura vengono metodicamente dissipate in questo modo.

Possibili soluzioni potrebbero essere la creazione di sistemi irrigui più efficaci e moderni, a scorrimento sul terreno, oppure gli impianti a goccia. Sarebbero necessari almeno 4-5 miliardi di euro di investimenti, che gli agricoltori italiani non vogliono assolutamente versare. Il ministro Matteoli ha pensato alla possibilità di lanciare un grande prestito nazionale con obbligazioni dello Stato per finanziare, anche a fondo perduto, gli imprenditori agricoli.

Come si è già accennato, in Italia ogni anno vengono consumati 7 940 milioni di metri cubi di acqua per usi civili. I consumi effettivi di acqua erogata si collocano mediamente intorno ai 282 litri per abitante al giorno, anche se l’acqua prelevata alla fonte ammonta a circa 387 l/ab/giorno, con una perdita media di 104 l/ab/giorno, pari al 27% del totale dell’acqua prelevata. La rete acquedottistica raggiunge la quasi totalità della popolazione (il 90%), ma non è in grado di soddisfare pienamente la domanda.

Il problema principale è lo stato di abbandono e degrado che da decenni affligge le nostre condutture. L’età media delle tubature è compresa tra i 25 e i 42 anni, la loro manutenzione è inadeguata (ci sono da censire i guasti di ben 150 mila chilometri di condutture): tutto ciò provoca perdite in rete (differenza tra il volume immesso e quello alla fine fatturato) che vanno dal 20 al 40%, con un valore medio nazionale del 33%.

Il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche del ministero dell’Ambiente ha stilato una graduatoria delle perdite, in testa alla quale ci sono gli abruzzesi dell’acquedotto Marsicano: le loro dispersioni toccano la cifra del 73%. Al secondo posto, con il 65%, segue l’acquedotto di Reggio Calabria. A ruota, l’acquedotto campano del Sele (62%), quello Chietino (58%) e l’acquedotto Pugliese (56%). I più virtuosi sono i piemontesi dell’acquedotto Torinese, con il 22% di perdite.

Legambiente, invece, ha stilato una graduatoria delle singole città, per vedere come si comportano in tema di spreco. Pistoia, Bari e Campobasso, con il 60% di spreco, sono in testa alla lista. Piacenza, Cuneo e Viterbo, invece, sono le più attente: tra il 4 e il 5% di perdite. Tra i due opposti troviamo Roma (35%), Napoli (31%), Bologna (19%), Firenze (18%) e Milano (11%).

Un altro aspetto da considerare quando si parla dell’utilizzo dell’acqua è quello della depurazione. Oltre un terzo dell’acqua consumata non viene depurata, e quasi un quarto non è nemmeno allacciata alla rete fognaria. Città come Milano e Firenze ancora non hanno sistemi di depurazione in grado di smaltire tutto il carico cittadino. I primi a risentire di questo grave deficit depurativo sono i corsi d’acqua: secondo dati di Legambiente relativi al 2001, su 254 campioni d’acqua analizzati in 18 fiumi, metà risultava inquinato o fortemente inquinato.

La cattiva gestione del territorio e delle aree urbanizzate rende “fragile” il nostro Paese, benché il governo italiano spenda ogni anno circa 3,5 miliardi di euro per riparare ai danni provocati da alluvioni e inondazioni. Nel 2002 in Italia 6 689 aree risultavano a rischio frana, 446 a rischio alluvione e 37 a rischio valanga, per un totale di 9 172 aree a rischio idrogeologico (2 220 i comuni coinvolti).

L’ultimo problema che si vuole analizzare è quello della desertificazione, cioè la degradazione della terra in aree aride e semi-aride, risultante da vari fattori, tra i quali le variazioni climatiche e le attività umane. In Italia sono già interessati dal processo di desertificazione 16 100 km2 di territorio, pari al 5,35% dell’intero territorio nazionale. Cinque le regioni colpite: Sicilia, Puglia, Sardegna, Calabria e Basilicata; 13 le province. Secondo l’Unione europea, invece, sarebbe il 27% del territorio nazionale ad essere minacciato da processi di inaridimento. L’impoverimento dei suoli, tuttavia, coinvolge anche l’Italia settentrionale. Secondo un allarme lanciato dall’Arpa Emilia Romagna il 22% della Pianura Padana è desertificato e il 26% è a rischio, a causa soprattutto dell’eccessivo sfruttamento agricolo e zootecnico di questi terreni.

A questa analisi andrebbero aggiunti tutti quei casi di spreco “alla fonte”, cioè tutte quelle costruzioni e quei progetti realizzati dall’uomo che hanno causato la distruzione o l’impoverimento di sorgenti, falde o corsi d’acqua. I casi sono davvero numerosi.

Il quadro desolante della situazione nel nostro Paese ci spinge a riflettere sull’importanza dell’acqua come risorsa indispensabile per la nostra sopravvivenza e sulla necessità di modificare e migliorare le nostre capacità di gestione di questo bene, anche in segno di rispetto verso coloro che non lo possiedono e, per questo, muoiono, mentre milioni di metri cubi di acqua potabile si perdono lungo i nostri acquedotti.

Eliana Paradiso


RAPPORTO GLOBALE SULLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI: COCA-COLA, NESTLE',

WAL-MART E GOODYEAR NEL MIRINO

 

Il nuovo Rapporto Mondiale della Confederazione Internazionale dei Sindacati rivela i casi di omicidi, violenze e intimidazioni contro sindacalisti.
L’impressionante numero totale di sindacalisti che sono stati assassinati nel 2006 per aver difeso i diritti dei lavoratori è pari a 144, mentre più di 800 hanno subito percosse e torture, secondo il Rapporto Annuale sulle Violazioni dei Diritti Sindacali, pubblicato dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati, organizzazione che conta 168 milioni di iscritti. Il rapporto di 379 pagine riporta in modo dettagliato circa 5000 arresti e più di 8000 licenziamenti di lavoratori legati alla loro attività sindacale. 484 nuovi casi di sindacalisti detenuti dai governi vengono documentati nel rapporto.

“I lavoratori che cercano di migliorare le proprie vite attraverso attività sindacali stanno fronteggiando livelli di repressione e intimidazione in aumento in un numero crescente di paesi. Il dato più scioccante è l’aumento del 25% degli omicidi rispetto all’anno precedente”, ha dichiarato il Segretario Generale dell’ITUC Guiy Ryder. “In molti dei paesi monitorati nel rapporto, la repressione è proseguita nel 2007”, ha aggiunto.

La Colombia rimane il posto più pericoloso al mondo per l’attività sindacale, con 78 omicidi, quasi tutti rimasti impuniti grazie ai legami tra squadre della morte e funzionari amministrativi o perché le stesse agiscono per conto dei datori di lavoro. Dei 1.165 assassinati tra il 1994 e il 2006, solo in 56 casi c’è stato un processo e le condanne sono state 14. Un’altra ondata di violenza antisindacale viene documentata nelle Filippine, con 33 sindacalisti e sostenitori dei diritti dei lavoratori assassinati, in alcuni casi da sicari collusi con l’esercito e la polizia. Il rapporto documenta che licenziamenti di massa, percosse, detenzioni e minacce contro i lavoratori e le loro famiglie vengono utilizzati, in alcuni casi in modo regolare, in paesi situati in ogni regione del mondo.

I governi dittatoriali e autoritari di Bielorussia, Birmania, Cina, Cuba, Guinea Equatoriale, Iran, Corea del Nord e di parecchi paesi del Golfo hanno proseguito nell’azione di soppressione dei sindacati indipendenti, con oltre 100 lavoratori cinesi detenuti nelle prigioni e in campi di lavoro forzato, in condizioni raccapriccianti. Il governo dello Zimbabwe ha proseguito nella violenta repressione del movimento sindacale del paese. Dei 265 partecipanti ad una protesta sindacale arrestati dalle autorità, 15 sono alti dirigenti del Congresso dei Sindacati dello Zimbabwe, che sono stati gravemente percossi in prigione.

Il rapporto documenta anche l’ostilità crescente da parte delle autorità governative nei confronti dei diritti dei lavoratori in alcuni paesi industrializzati, in particolare in Australia, dove la normativa promossa dal Governo e intitolata “work Choices” ha privato i lavoratori di una serie di diritti e benefici e imposto severe restrizioni all’attività sindacale, con dure pene per i lavoratori ed i funzionari del sindacato. Il governo ha portato avanti procedimenti contro 107 lavoratori del settore edile, che hanno riportato gravi conseguenze per aver promosso una mobilitazione a supporto del rappresentante per la salute e la sicurezza che era stato licenziato. Negli Stati Uniti il Comitato Dirigente Nazionale per le Relazioni Sindacali ha privato milioni di lavoratori del diritto di organizzarsi, estendendo la definizione del termine “supervisore”, mentre in Svizzera il governo, con una mossa respinta alla fine dall’organizzazione svizzera affiliata all’ITUC, ha cercato di invalidare l’autorità del Comitato ILO sulla Libertà di Associazione con riferimento alla legislazione svizzera del lavoro.

Vengono evidenziate le attività antisindacali di un certo numero di multinazionali, tra cui alcune recidive, come alcune filiali e fornitori della Coca-Cola, Wal-Mart, Goodyear, Nestlé e Bouygues. Vengono anche segnalate forti repressioni da parte di fornitori di marche molto note, in particolare nei settori tessile e agricolo. Numerose multinazionali hanno tratto vantaggio in Polonia da un ambiente sempre più ostile, imponendo restrizioni ai diritti e alle condizioni dei lavoratori.

In particolare le lavoratrici hanno continuato a confrontarsi con la repressione, anche per lo sfruttamento della forza lavoro principalmente femminile nelle Export Processing Zone in Asia, Africa e America Latina, con numerosi casi di licenziamenti e rifiuti da parte dei datori di lavoro di riconoscere anche i diritti più basilari dei loro dipendenti. In Marocco le lavoratrici del settore tessile hanno subito un processo per aver organizzato uno sciopero, mentre nelle Mauritius lavoratrici che prendevano parte ad un sit-in sono state percosse dalla polizia. Anche l’abuso nei confronti delle lavoratrici domestiche, le più sfruttate tra i 90 milioni di lavoratori immigrati nel mondo, è una questione preminente in diversi paesi, in particolare negli Stati del Golfo.

Nel sud-est asiatico, la repressione di lavoratori in particolare in Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Malesia e Sri Lanka, compreso il licenziamento di circa 500 lavoratori per le loro attività sindacali, e l’assassinio di lavoratori in Bangladesh, India e Nepal dove due sindacalisti sono stati uccisi dall’esercito durante una manifestazione per la democrazia co-organizzata dal movimento sindacale di quel paese. La violenza della polizia ha lasciato il segno con il ferimento di lavoratori in Cambogia, un paese arcinoto per le violazioni dei diritti dei lavoratori, e in Malesia. La violenza contro i sindacalisti è continuata in Cambogia nel corso del 2007, con il leader sindacale Hy Vuthy che è stato assassinato a Febbraio. In Tailandia il colpo di Stato militare ha portato a vessazioni e licenziamenti di leader e iscritti al Sindacato, e come in un certo numero di altri paesi della regione, i lavoratori migranti sono stati particolarmente esposti ad abusi e sfruttamento.

Insieme all’impressionante tributo di morti in Colombia, la violenza contro sindacalisti in altri luoghi dell’America Latina include l’omicidio di due minatori da parte della Polizia in Messico, il ferimento di altri 41, mentre 15 Ecuadoriani sono stati gravemente feriti nel corso di una brutale repressione, da parte della polizia e dell’esercito, di una manifestazione contro l’accordo di libero commercio con gli USA. Una donna, leader sindacale degli insegnanti, è scampata ad un attentato in Guatemala, dove l’interminabile striscia di violenza antisindacale è proseguita nel 2007 con l’assassinio del leader sindacale dei portuali Pedro Zamora avvenuto il 15 Gennaio. Attività anti-sindacali da parte dei datori di lavoro delle Export Processing Zone e dei proprietari delle piantagioni, compresi numerosi casi di licenziamenti su larga scale e intimidazioni nei confronti dei lavoratori, hanno avuto luogo in Costa Rica, nella Repubblica Dominicana, in El Salvador, Honduras e Nicaragua. Lavoratori che stavano organizzando sindacati o partecipando a scioperi in Argentina, Perù e diversi altri paesi sono stati licenziati in massa. Lavoratori sono stati arrestati per aver preso parte ad attività sindacali in nove paesi della regione.

Anche in Africa i lavoratori hanno subito gravi violazioni dei loro diritti all’organizzazione e alla rappresentanza sindacale. Le forze di sicurezza hanno attaccata una manifestazione sindacale in Guinea, uccidendo 20 manifestanti e ferendone molti altri. Un lavoratore municipale è stato ucciso e altri feriti durante una protesta sindacale in Marocco, mentre in Sud Africa la polizia ha sparato sui lavoratori dell’editoria in sciopero e circa 18 altri sindacalisti sono stati feriti dalla polizia in altri incidenti. Come in Asia, i licenziamenti di massa sono un fatto ordinario, principalmente in Kenya, dove più di 1000 lavoratori delle piantagioni di fiori scesi in sciopero sono stati licenziati, e diversi di loro sono stati feriti dalla polizia. I lavoratori dei servizi pubblici e della scuola hanno subito discriminazioni antisindacali in Algeria, Benin ed Etiopia, dove il governo ha continuato la propria repressione nei confronti dell’Associazione degli Insegnanti. Il centro sindacale Djibouti UDT è stato sottoposto ad una dura repressione da parte del governo, e uno dei suoi funzionari anziani, in pericolo di vita, ha dovuto lasciare il paese. Anche i governi libanese e sudanese mantengono severe restrizioni alla libertà di associazione, mentre anche l’Egitto impone limiti ai diritti sindacali.

I passi tentati verso i diritti sindacali in Oman e i positivi sviluppi nel Bahrain sono stati offuscati dalle severe restrizioni o dai boicottaggi di attività sindacale in gran parte del Medio Oriente, in particolare in Arabia Saudita. Restrizioni alla libertà di associazioni sono proseguite anche in Giordania, Kuwait e Yemen, e le autorità siriane hanno virtualmente esercitato il controllo totale dell’organizzazione sindacale ufficiale, l’unica consentita. Molti lavoratori migranti in tutto il Medio Oriente hanno dovuto fronteggiare condizioni di lavoro rischiose e sotto sfruttamento senza nessuna effettiva tutela legale. I sindacalisti irakeni hanno subito una violenza crescente e mirata. Tra tutti gli attacchi, uno dei più impressionanti ha coinvolto un leader sindacale della sanità che è stato rapito, torturato con cavi elettrici e colpito a morte. L’Iran ha continuato a negare i diritti basilari ai suoi lavoratori, reprimendo duramente l’attività sindacale indipendente con arresti di massa e incarcerazioni, compresa una ragazza dodicenne che è stata percossa e scaraventata dentro ad un furgone della polizia. Mansour Osanloo, capo del sindacato degli autisti dei bus di Tehran, è stato mantenuto in isolamento per 4 mesi, poi percosso e arrestato una seconda volta a Novembre. A seguito del suo rilascio su cauzione, è stato nuovamente arrestato dalle autorità nel Luglio 2007 e si trova tutt’ora in prigione, con diversi suoi colleghi.

La violenza permanente in Palestina ha colpito anche il movimento sindacale. In un caso, uomini mascherati hanno gettato bombe a mano contro una stazione radio del sindacato e le hanno dato fuoco, ferendo quattro persone. Le continue restrizioni sui movimenti dei palestinesi tra la West Bank e Gaza da parte delle autorità israeliane hanno reso le attività sindacali ancora più difficili.

In Europa, la sistematica repressione del sindacalismo indipendente è rimasta all’ordine del giorno in Bielorussia e l’Unione Europea ha votato il ritiro dei benefici commerciali dal momento che il regime di Lukashenko non rispetta i principali standard dell’ILO. I datori di lavoro in Azerbaijan e Turchia sono stati responsabili di gravi casi di vessazioni antisindacali, mentre interferenze governative nelle legittime attività sindacali sono documentate in Bosnia/Herzegovina, Lituania e Moldavia. Modifiche delle leggi sul lavoro in Russia e Georgia hanno indebolito il rispetto dei diritti alla rappresentanza sindacale e alla contrattazione collettiva.

Infine anche un messaggio positivo. Nell’introduzione del rapporto, il Segretario Generale dell’ITUC Guy Ryder ha messo in rilievo che “nonostante tutte le difficoltà, milioni di donne e uomini rimangono fermi nel loro impegno nell’azione sindacale, o ne stanno scoprendo i benefici”.

Salutando il coraggio di tutti coloro che resistono alla repressione antisindacale, nonostante i rischi personali che corrono, Ryder ha aggiunto che “l’iniziativa di solidarietà internazionale da parte dei sindacati in tutto il mondo ha portato il necessario supporto a quei lavoratori i cui diritti fondamentali vengono violati. In molti dei casi documentati nel nostro Rapporto, la pressione sindacale esercitata a livello globale dal sindacato su governi e compagnie ha portato risultati.” “Ciononostante,” ha ammonito, “sono ancora troppo scarsi i segnali di miglioramenti dalla fine del 2006, e i governi devono assumersi le proprie responsabilità per assicurare che gli standard globali adottati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro vengano pienamente rispettati ovunque nel mondo”.

 

Fonte: International Trade Unions Confederation

 

Coca Cola: continua la repressione dei sindacati in Colombia

Ucciso il dirigente del Sinaltrainal, sindacato che denunciava gli abusi della fabbrica in sudamerica

L’assassinio di Luciano Enrique Romero Molina, dirigente del Sinaltrainal, il sindacato delle industrie alimentari in Colombia che aveva lavorato per 20 anni per la NESTLE'-Cicolat e che aveva denunciato gli abusi commessi nelle fabbriche della Coca Cola è solo la punta di un iceberg sommerso e tenuto nascosto dalle multinazionali alimentari. Assassinato a Valledupar (Cesar), Luciano è stato ritrovato legato, torturato e presentava sul suo corpo 40 coltellate; attualmente aveva ottenuto misure di protezione da parte della Commissione Interamericana dei Diritti Umani dell'Organizzazione degli Stati Americani (OEA). Aveva 47 anni, lascia 4 figli e la sua compagna Ledys Mendoza.
Era un eccezionale dirigente del Sinaltrainal e attualmente era delegato presso la Fondazione Comitato di Solidarietà con i Prigionieri Politici, dove realizzava le sue attività di solidarietà e assistenza umanitaria ai detenuti. Per le minacce di morte aveva dovuto in varie occasioni lasciare Valledupar. Alla fine del 2004 era rimasto per molti mesi a Gijón, Spagna, in un programma di protezione e solidarietà; era rientrato nel paese all'inizio di questo anno. Il governo di Alvaro Uribe Vélez, presidente della Colombia, ed il suo ingannevole "processo di pace" con i gruppi paramilitari che continuano a massacrare la popolazione inerme, restano nella totale impunità grazie alla Legge di Giustizia e Pace, in vigore nello stato sudamenricano. Inoltre, la Coca Cola continua a chiamare in causa ed a processare tutti i sindacalisti che denunciano gli abusi del brand in Colombia. “Questo è un nuovo tentativo che la Coca Cola utilizza per reprimerci” -si legge in un comunicato del Sinaltrainal- “in questo caso per esserci trovati davanti alle installazioni della fabbrica imbottigliatrice di Bogotà il 5 dicembre 2002, quando in compagnia di molte altre organizzazioni nazionali ed internazionali invitavamo l'impresa ad una sessione della “Udienza Pubblica Popolare” dove si giudicava la multinazionale per le violazioni ai diritti umani e per il benefici che ne ha ottenuto attraverso i crimini di Lesa Umanità commessi dai paramilitari. Questo nuovo processo penale contro i dirigenti del Sinaltrainal si aggiunge a una lunga lista di aggressioni che l'impresa utilizza per stigmatizzare, impaurire ed impedire la protesta sindacale.

“La Coca-Cola è stata chiamata così da Frank Robinson, che ne disegnò anche il logo, in quanto originariamente questa bevanda conteneva effettivamente estratti dalle foglie di coca. L'inventore fu il Dr. John Stith Pemberton, farmacista, che nel 1885 sperimentò una nuova composizione che avrebbe potuto vendere come bevanda analcolica e come medicamento. Al posto dell'acqua naturale usò l'acqua addizionata ad anidride carbonica, ed ecco la bevanda che diventerà la Coca - Cola!". Da questo estratto del libro "La vera storia della Coca-Cola" di Mark Pendergrast edizioni Piemme, si intravede già che la Coca Cola non partì con il piede giusto. Purtroppo gli inganni ai consumatori anche nel XX secolo non sono scomparsi. Per ricercare i composti che vengono dichiarati bisogna basta leggere sul retro delle lattine. Comunque con un po’ di attenzione è possibile leggere: ACQUA, ZUCCHERO, ACIDO FOSFORICO, ESTRATTI VEGETALI, ESSENZE NATURALI, CAFFEINA. Contiene ANIDRIDE CARBONICA. Colorata con CARAMELLO. AROMI NATURALI. Il CARAMELLO (E 150) ottenuto con processi ammoniacali dà il colore alla bibita che apparirebbe grigia come in Olanda dove l'E 150 è vietato. L'acido fosforico è presente in 325 mq/l e l’effetto effervescente viene dalla quantità di anidride carbonica (CO2) presente: 5,4 g per litro. Sostanze in grado di smidollare un osso data l'elevato acidità (pH 2,25). Ed è questo il problema. E’ confermato che l’acido fosforico, un corrosivo di uso industriale, associato a zuccheri raffinati e fruttosio (ciò che avviene nella Coca Cola) che ne riducono l’assorbimento intestinale, può causare anemia e aumentare le possibilità di contrarre infezioni. Non ci credete? Provate a chiedere che uso ne fanno industriali e contadini della “beata bevanda”...la utilizzano come sgrassatore o sverniciatore.

Roberto Cazzolla


VIAGGIO ATTRAVERSO LE SFACCETTATURE DI UN DIAMANTE

Reportage dai paesi dove si perpetra violenza e sfruttamento in nome della vanità

Per definizione, un diamante è carbonio puro cristallizzato per la pressione e l’alta temperatura; molto trasparente, è il corpo più duro che esista in natura; tagliato e lavorato opportunamente, prende forma e aspetto di brillante, cioè di pietra preziosa molto pregiata. In Africa, però, un diamante non è solo questo, il suo nome si lega principalmente ad altri concetti: commercio illegale, armi, guerra, e la sua trasparenza si tinge di rosso.

Le guerre che hanno coinvolto (e che, in alcuni casi, coinvolgono ancora) paesi come Sierra Leone, Liberia, Repubblica democratica del Congo (Rd Congo) e Angola hanno avuto come comune denominatore proprio i diamanti. Nella Rd Congo attualmente la pace resta un miraggio e ogni anno i tanti focolai di crisi uccidono una media di un milione di persone.

Il fenomeno delle guerre dei diamanti è diventato sempre più crescente negli ultimi anni perché è stato facile accedere ai mercati minerari africani. I conflitti attuali si combattono per le risorse economiche su parte dei territori nazionali, rimangono al di fuori del controllo e della mediazione internazionale e vedono il prevalere di forze locali capaci di accedere facilmente al mercato delle armi.

I beneficiari di queste guerre non sono tanto i gruppi ribelli, che sfidano i governi per il controllo di aree di estrazione, quanto gli intermediari dei diamanti (spesso gli stessi che vendono armi di contrabbando), i commercianti, le società di “sicurezza” invischiate nel mercato dell’estrazione e i tanti faccendieri africani o occidentali che si comprano la fiducia dei vari gruppi rifornendoli di armi. Dietro questi conflitti ci sono rispettabili uffici situati nelle metropoli di tutto il mondo (Anversa, Londra, Tel Aviv, Ginevra e New York sono le più importanti), il cui compito è riciclare i diamanti, venderli e farli fruttare.

I paesi coinvolti possono essere divisi in due gruppi: le grandi piazze internazionali e i paesi incaricati di camuffare l’origine dei “diamanti di sangue” (diamanti, cioè, che provengono da zone di guerra). I più importanti paesi riciclatori in questi anni sono stati Liberia, Zambia, Rd Congo, Burkina Faso, Repubblica del Centrafrica, Costa d’Avorio, Congo Brazzaville, Ruanda. Queste nazioni hanno sempre rifiutato di aderire a precise regole sui certificati d’origine e sono riuscite, grazie alla compiacenza di dogane e uffici ministeriali, a partecipare al grande mercato. Non è difficile notare questi traffici illegali se si osserva come paesi con piccole industrie di pietre preziose sono arrivati negli ultimi anni a registrare importanti commerci di diamanti “nazionali”, frutto in realtà di un’industria del riciclaggio. Un esempio: mentre la produzione di diamanti della Liberia è stimata in 150 000 carati annui, nel 1994-1998 sono stati venduti sul mercato di Anversa più di tre milioni di carati di diamanti “liberiani”.

Come mai tutto questo è stato ed è ancora possibile? Per vent’anni in Africa G7, Fmi (Fondo Monetario Internazionale) e Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio) hanno promosso la liberalizzazione e la deregolamentazione dei mercati, misure che legittimano questi commerci, istituzionalizzabili con poche accortezze: liberalizzazione delle licenze di vendita, certificati di origine nazionale a buon mercato e facilmente ottenibili, buoni margini di ritorno per gli intermediari e le casse dell’erario.

Le destinazioni finali dei diamanti estratti in Africa sono essenzialmente Anversa, Londra, Tel Aviv, Bombay e New York. Ad Anversa gli affari ruotano attorno al piccolissimo quartiere di Diamant: qui si svolge l’80% del commercio internazionale. Per quanto riguarda la lavorazione dei diamanti (che prima veniva fatta nella stessa Anversa) bisogna spostarsi in Sri Lanka, Thailandia, India. A Surat, nel Gujarat (India), si lavora alla pulizia, selezione, taglio delle gemme. Il 70% della produzione finale di diamanti è concentrato in questa città, dove un esercito di artigiani lavora senza sosta per un salario che comunque attira manodopera dalla campagna.

In questo quadro internazionale non va dimenticata la De Beers, nota compagnia quotata in borsa a Londra. È la De Beers, leader indiscussa del diamante, che controlla un mercato che si divide principalmente tra Anversa, in Europa, e la 47° strada a New York, considerata la piazza di vendita più importante. Nel 2003, ad esempio, le gioiellerie americane hanno venduto diamanti per 20 miliardi di dollari.

Le borse internazionali hanno dichiarato per anni l’impossibilità di riconoscere le pietre di guerra, adducendo come spiegazione il fatto che nei paesi d’origine esse venivano mischiate con altri beni per essere commerciate più facilmente. Tale giustificazione non è molto convincente se si pensa che mischiare i diamanti grezzi aumenta solo i rischi e i costi di trasporto. In realtà nessun paese ha mai rispettato le clausole sui certificati di provenienza della merce, che dovrebbero rivelare l’origine “insanguinata” dei diamanti. Così non è possibile stimare quanta parte dei diamanti delle guerre africane venga immessa sul mercato. Sicuramente una fetta cospicua, considerando che Angola, Sierra Leone e Rd Congo estraggono diamanti per un valore di oltre due miliardi di dollari l’anno. Quantità tali non possono passare inosservate sulle piazze internazionali.

Ci sono state delle reazioni a tutto questo: sono state organizzate molte campagne contro i diamanti di guerra e, inoltre, non va dimenticata l’attenzione mediatica per il conflitto in Sierra Leone, che ha spinto l’opinione pubblica e soprattutto i governi a prendere dei provvedimenti riguardo al fenomeno dei “diamanti di sangue”.

La Sierra Leone è stata teatro di una cruenta guerra civile durata dieci anni (1991-2001). La guerra iniziò con l’arrivo dalla vicina Liberia (dove era già in atto un conflitto) dei ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf), capitanati da Foday Sankoh. Il loro scopo principale era quello di controllare le zone del nord ricche di diamanti, per venderli poi di contrabbando agli stati confinanti per comprare le armi per proseguire la guerra. Nel 1994 il Ruf riuscì ad assumere il controllo delle miniere e acquistò dimensioni militari e sempre crescenti capacità di controllo del territorio.

Nel 1999 (anno di più intensa guerra civile) le esportazioni legali di diamanti dalla Sierra Leone erano crollate a circa il 2% della produzione stimata. Il resto dei diamanti era finito in Liberia (più della metà), Burkina Faso, Costa d’Avorio e Guinea. All’epoca, infatti, erano queste le nazioni che si occupavano di “ripulire” i “diamanti di sangue”. Tutti questi diamanti, usciti dalla Sierra Leone, venivano certificati come pietre africane di un altro paese.

Questa guerra “ha ucciso più di settantamila cittadini, trasformato due terzi degli abitanti in profughi interni, inflitto amputazioni a più di diecimila persone e distrutto l’80% delle infrastrutture” (Lansana Gberie, “New African”). Due sono stati i caratteri distintivi di questa guerra: la pratica dell’amputazione degli arti e l’uso massiccio dei bambini soldato, bambini con meno di dieci anni, rapiti alle famiglie e indottrinati alla pratica della violenza e dell’efferatezza. Le forze ribelli utilizzarono bande armate infantili per seminare il terrore nei villaggi. Con l’ausilio di iniezioni di cocaina, i militari acuivano l’aggressività dei bambini, tanto da renderli insofferenti alle peggiori atrocità, compiute, osservate, subite.

Tutto questo è avvenuto per il controllo dei diamanti contesi tra le élite militari, la Liberia alleata del Ruf, società britanniche coperte dal governo Blair, gruppi internazionali di mercenari, la Nigeria e il già citato Ruf.

Attualmente in Sierra Leone vige una fragile pace sorvegliata dalle forze dell’Onu, senza neanche un responsabile del monitoraggio del mercato dei diamanti. Nel luglio del 2000 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato l’embargo sui diamanti provenienti dal paese con circa sette anni di ritardo. Nell’agosto dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza ha istituito il Tribunale speciale per i crimini di guerra in Sierra Leone e nel gennaio del 2002 è stata istituita la Corte Speciale per la Sierra Leone, con un accordo tra le Nazioni Unite e il governo del paese.

Il caso della Sierra Leone non è isolato. La storia può ripetersi altrove, bastano i diamanti da comprare e le armi da vendere.

Come si è accennato, la conoscenza di realtà come la Sierra Leone ha provocato varie reazioni.

Per prima la De Beers, principale controllore del mercato, temendo la cattiva pubblicità, si è ritirata dai mercati africani in guerra. Poi la borsa dei diamanti di Anversa, dopo anni di resistenze sostenute dal governo belga, ha dovuto adottare alcune misure contro i diamanti di guerra. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha disposto embarghi contro i paesi ritenuti colpevoli della gestione di questa illegalità, come nel caso dell’Angola: questi provvedimenti hanno funzionato poco e hanno messo in evidenza la scarsa partecipazione dei governi, nonostante la presenza sul territorio di contingenti internazionali che avrebbero dovuto controllarne l’applicazione.

Sicuramente un passo importante è rappresentato dal processo avviato dal Sudafrica sotto l’egida dell’Onu nel maggio del 2000, noto come Processo di Kimberley, dal nome della città sudafricana nota per i suoi giacimenti diamantiferi. I principali paesi produttori e commercianti di diamanti grezzi hanno adottato un sistema internazionale di certificazione per i diamanti. Tale regolamentazione è volta ad impedire che i “diamanti insanguinati” giungano sui mercati legali. Il sistema elaborato prevede che ad ogni importazione ed esportazione di diamanti grezzi sia allegato un certificato d’origine internazionalmente riconosciuto, affida la responsabilità della veridicità dei certificati ai governi dei paesi estrattori e prevede l’esclusione dal commercio internazionale di diamanti grezzi per tutti i paesi che non partecipano al sistema. Il Processo di Kimberley coinvolge sia i principali paesi produttori e commercianti di diamanti grezzi che l’industria dei diamanti e le organizzazioni non governative. Nel 2002 è stato siglato da 52 paesi e il 1/01/2003 è entrato in vigore.

Qualche riflessione: va detto che è praticamente impossibile isolare i diamanti dall’insieme dei commerci illegali, degli scambi tra gruppi armati e trafficanti. Infatti la maniera più conveniente per gli acquirenti di ottenere i diamanti è lo scambio con armi che arrivano con facilità e abbondanza sui mercati africani. Nessun paese è stato perseguito dall’Onu o dall’Oua (Organizzazione dell’Unità Africana) negli ultimi anni per avere violato i divieti al commercio di armi presenti in molti paesi del continente. È molto difficile, quindi, aspettarsi che un provvedimento come il Processo di Kimberley possa bloccare il finanziamento dei gruppi in conflitto.

Senza più barriere alla creazione di società e allo spostamento di capitali in ogni parte del mondo, senza regole e istituzioni di controllo, ovunque vi siano transazioni monetarie possibili i trafficanti avranno vita facile. Tanto da indurre i governi e i grandi gruppi ad entrare nei loro affari, come testimoniano le società di mercenari e servizi minerari operanti col beneplacito di servizi segreti e di governi.

In un rapporto pubblicato nel 2004 da Amnesty International e Global Witness (una organizzazione non governativa britannica) viene denunciato che dall’entrata in vigore del Processo di Kimberley non è cambiato assolutamente niente nella lotta al traffico dei “diamanti insanguinati” e non ci sono prospettive rassicuranti per il futuro. Lo studio è frutto di una indagine condotta nel settore della gioielleria, fra più di 800 fornitori e venditori al dettaglio di Australia, Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svizzera e Italia. L’indagine dimostra che le maggiori catene mondiali di negozi di gioielli non hanno ancora messo in atto le norme che mettono al bando i “diamanti insanguinati”.

Il Processo di Kimberley è basato sulla buona volontà dei commercianti ed è privo di sanzioni severe. Manca inoltre una istituzione internazionale votata al controllo e al rispetto delle regole stabilite. Amnesty International e Global Witness hanno invitato i governi aderenti al Processo di Kimberley a muoversi per primi accertando che l’industria dei diamanti realizzi in toto il proprio codice di comportamento stabilito dal Processo stesso. Solo grazie allo sforzo congiunto degli stati e di tutti i settori dell’industria e del commercio dei diamanti si potranno avere i primi risultati.

Si vuole concludere questa analisi con le parole di Claudio Jampaglia, redattore del mensile “Guerra e Pace”: “Nonostante le dichiarazioni mediatiche dell’industria dei diamanti, le guerre africane sono un affare indissolubile dalle miniere e dalle armi. Nessun certificato d’origine o conferenza internazionale rallenterà i conflitti, se gli stessi paesi che ratificano l’ennesimo trattato partecipano al banchetto dei diamanti insanguinati”.

Eliana Paradiso


Che cosa sono davvero le “ECO-BALLE”?

In tanti le stanno producendo!

E’ un’ECO-BALLA il fatto che l’emergenza rifiuti a Napoli sia dovuta all’assenza dei termovalorizzatori, meglio noti come inceneritori.

E’ un’ECO-BALLA che questi impianti risolvano l’emergenza rifiuti e tengano a freno l’esplosione della spazzatura per le strade.

E’ un’ECO-BALLA che le regioni del nord, grazie ai termovalorizzatori hanno risolto il problema rifiuti. Molte di esse, i propri rifiuti li spediscono a Napoli, nel resto d’Europa o in Africa, e per questo le strade del nord sono sempre pulite.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che gli inceneritori di nuova generazione garantiscano sicurezza ambientale e non siano pericolosi per la salute. Questi, producono comunque scarti sottoforma di ceneri che diventano rifiuti speciali da smaltire comunque in discariche controllate. Inoltre, essi producono sostanze gassose che nel migliore dei casi sono soprattutto metano e anidride carbonica (che aumentano l’effetto serra) e nel peggiore (diossine, idrocarburi aromatici e particelle sottilissime) che minacciano tutti noi.

E’ un’ECO-BALLA che non è possibile riciclare tutto. Già nel 1400 Leonardo da Vinci era convinto che “tutto può essere riciclato”.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che gli inceneritori producano energia, perché questi vengono alimentati mediante combustibili fossili nelle fasi di accensione ed i rifiuti che bruciano sono stati prodotti e trasportati grazie ad un consumo di energia fossile dalle 3 alle 5 volte superiore a quella che saranno in grado di produrre.

E’ un’ECO-BALLA che i rifiuti solidi urbani (RSU) abbiano comunque una frazione non riciclabile. Se questa esista è perché in Italia non vige una regolamentazione sugli imballaggi e sui materiali. Se le aziende fossero vincolate a produrre e vendere solo prodotti riciclabili al 100%, non ci sarebbero rifiuti non riciclabili.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che con gli inceneritori siano virtuosi, perché essi distruggono materie prime (petrolio per produrre plastiche, bauxite per produrre alluminio, alberi per produrre carta, etc.) ricavate con grande impatto ambientale e con notevoli spese energetiche.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che alcune plastiche non possano essere riciclate. I piatti ed i bicchieri in plastica (fatti in polistirene) od il polistirolo, ad esempio, non vengono riciclati solo perché alle aziende non conviene economicamente recuperare materie così leggere e poco redditizie.

E’ un’ECO-BALLA che molta plastica debba essere necessariamente bruciata. Questa viene inserita negli inceneritori perché ha un elevato potere calorifico ed alimenta la combustione.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che la raccolta differenziata sia dispendiosa per i Comuni, perché con il porta a porta si recupera denaro dalla vendita alle aziende delle materie prime, si porta la soglia di differenziazione a più dell’80% e si dà occupazione a decine di giovani.

E’ un’ECO-BALLA che l’emergenza rifiuti sia colpa dell’estremismo degli ambientalisti, dei Verdi e dei pacifisti. In realtà queste sono solo le categorie che possono essere colpite più facilmente. Loro chiedono soltanto di rispettare l’ambiente e la salute delle persone.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che le azioni politiche contro l’emergenza rifiuti siano state bloccate dai Verdi. In realtà la maggior parte dei partiti ha solo intascato soldi sino ad ora e, nel momento della crisi popolare, ha dato la colpa ai pochi che hanno tentato di fare qualcosa.

E’ un’ECO-BALLA che ambientalisti e Verdi non hanno fatto nulla in Parlamento per risolvere il problema rifiuti. Bisogna chiedere a molti Deputati e Senatori perché non hanno approvato e, a volte, neanche preso in considerazione le proposte di legge sulla raccolta differenziata e sulla regolamentazione degli imballaggi.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che i cittadini campani siano i soli responsabili dell’emergenza, perché non hanno cultura dell’ambiente. Se è vero che le eco-mafie attecchiscono in luoghi dove è più facile distendere i tentacoli, sono le imprese come la Impregilo di Cesare Romiti, le municipalizzate, le ditte mafiose, i Commissari mangiasoldi ed i politici affaristi i veri responsabili del problema rifiuti.

E’ un’ECO-BALLA che i politici e le mafie siano le sole responsabili dell’emergenza rifiuti. Molti cittadini di tutt’Italia non sanno neanche cosa sia la raccolta differenziata ma, si lamentano se trovano i sacchi per strada.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che la mozzarella di bufala campana sia la più buona del mondo, che il pomodoro pugliese sia il più saporito, che il parmigiano reggiano il più genuino, che il pesto genovese il più raffinato. La maggior parte dei prodotti che finiscono sulle nostre tavole sono contaminati dai rifiuti che noi stessi produciamo.

E’ un’ECO-BALLA che la Magistratura faccia il possibile contro i reati ambientali. Basta guardare la serie infinita di violazioni mai punite e portate a prescrizione. Basta osservare quante centinaia di discariche abusive sono state sequestrate dalle forze dell’ordine e mai bonificate.

E’ un’ECO-BALLA l’infinita serie di dichiarazioni che molti “tuttologi” della TV e dei giornali che, senza la benché minima consapevolezza di ciò che stanno dicendo, senza alcuna competenza, esprimono pareri e giudizi su come risolvere il problema rifiuti italiano. La maggior parte conviene sul semplicistico e pressappochistico rimedio del bruciare negli inceneritori tutti i rifiuti.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che “meglio un inceneritore oggi che una discarica domani”, perché gli inceneritori sono dei catalizzatori di rifiuti ed una volta costruiti devono essere alimentati costantemente, se no non possono funzionare  e così, scoraggiano la differenziata.

E’ un’ECO-BALLA che i modernissimi termovalorizzatori, dissociatori molecolari, “decompositori della materia”, siano assolutamente sicuri per la popolazione. Anch’essi, come tutti gli impianti, a basse temperature producono diossine e furani. Tutti producono nanopolveri pericolosissime che si insinuano nei bronchioli e causano il cancro.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che i gestori degli impianti di termovalorizzazione tengono alla salute della gente. Innanzitutto questi tengono ai loro soldi. E siccome bruciare ad elevate temperature, in modo da formare poche sostanze tossiche, costa, loro abbassano le temperature, risparmiano ma, intossicano la gente.

E’ un’ECO-BALLA che nei pressi di inceneritori e discariche si viva bene e senza malattie. Chiedetelo alla gente che muore ogni giorno di cancro, come si vive.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che molti politici, da destra a sinistra, siano rammaricati delle vicende di questi giorni, perché sono proprio loro ad averci mangiato sopra. Ed è schifoso che politici come l’ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto, parli di problemi che lui stesso, con politiche affariste e scellerate, ha alimentato.

E’ un’ECO-BALLA che Bassolino e tutti gli altri non abbiano colpe. Loro sanno e sapevano ciò che accadeva. Solo che faceva comodo intascare mazzette e stare zitti.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che non si possa risolvere il problema rifiuti. Chiedetelo a Paul Connet, che in questi giorni rimbalza da una località italiana all’altra per far vedere come in california ci siano città che riciclano tutto.

E’ un’ECO-BALLA che il progresso generi sempre qualche forma di rifiuto. Solo il progresso umano lo fa, in tutto il resto del mondo naturale questo non succede.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che il problema riguardi solo i rifiuti urbani. In realtà ci sono rifiuti industriali speciali che contaminano quotidianamente il suolo, l’aria e l’acqua ed anche tutti coloro che utilizzano materiali, sostanze e prodotti tossici e nocivi.

E’ un’ECO-BALLA che non si possa arrestare la proliferazione di composti chimici pericolosi. Basta una moratoria nazionale ed una regolamentazione.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che noi non abbiamo colpa. In quanti fanno davvero la raccolta differenziata? Ed in quanti hanno sollecitato i propri amministratori a migliorare il servizio?

E’ un’ECO-BALLA il fatto che le ecoballe di Napoli, trasferite in Germania, possano essere bruciate legalmente. Queste sono contaminate dai più svariati rifiuti e la legge vieta la loro combustione. Che senso ha dunque spedirle in Germania? Forse, l’interesse è di molte aziende che guadagnano prendendo rifiuti che altri non vogliono.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che i rifiuti italiani vengano smaltiti regolarmente. La maggior parte viene imbarcata e spedita in Africa lungo le coste orientali ed occidentali. Non dimentichiamo che Ilaria Alpi, giornalista del TG3, è stata uccisa perché investigava su questo e che in Costa d’Avorio sono morte migliaia di persone a causa dello sversamento dalle navi, di rifiuti europei.

E’ un’ECO-BALLA il Commissariamento. Perché i Commissari, l’unica cosa che hanno saputo fare, è stata quella di intascare soldi.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che il governo Prodi risolverà l’emergenza rifiuti a breve.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che i successivi governi risolveranno l’emergenza.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che l’emergenza non faccia comodo.

E’ un’ECO-BALLA che in molti si dichiarino scandalizzati dinanzi a tutto questo, perché dopo un minuto vanno in auto al supermarket e comprano un formaggio confezionato da tre o quattro imballaggi, proveniente dall’altra parte dell’Europa, lo trasportano in buste di plastica, lo tagliano su un foglio di alluminio e lo conservano nel cellophane. Poi buttano tutto nel comodo bidone verde dell’indifferenziato.

E’ un’ECO-BALLA il fatto che noi, da soli non possiamo fare nulla. “Ognuno può fare la differenza” recita Julia Butterfly Hill. Basta crederci ed iniziare.

E’ un’ECO-BALLA sapere che mentre capiamo cosa siano davvero le ecoballe, altre centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti stanno per essere bruciate, sotterrate, sversate nei mari e nei fiumi, spedite in Africa, riciclate in Cina ed infine…confezionate nel panino con lattuga, mozzarella, pomodoro e prosciutto, acquistato in uno dei tanti schifosi fast-food. Nel panino della stessa persona che tutti quei rifiuti poco fa li ha prodotti.

E’ un’ECO-BALLA continuare a dire non lo sapevo. Adesso lo sai…Fa qualcosa!!!

Roberto Cazzolla


“Penso che le cose più grandi della vita succedono nei tuoi sogni. Insegnerei ai nostri bambini ad imparare a sognare, piuttosto che imparare a ricordare. Perché ciò che è importante non è ciò che è successo, ma ciò che potrebbe succedere. E per questo motivo devi essere pronto a sviluppare la tua immaginazione e permetterti di avere un sogno di giorno e di notte.”

                                                                                                      Shimon Peres* (premio Nobel per la pace)

I MOTIVI DI UNA GUERRA

Com’è strano il mondo… Può capitare di  imbattersi in gente con forti ideali, il cui unico scopo nella vita non è la  fama o il denaro, ma è l’aiutare il prossimo. C’è gente come Carlo Urbani, italiano cosmopolita, che ha dato la sua vita per gli altri. Un uomo modesto che non amava essere definito un eroe, ma che in realtà lo era. E’ morto nel silenzio, come se il pianeta fosse satollo di persone così. Era un uomo come pochi, dedito al lavoro ed al sacrificio, che per primo ha fatto da scudo a quel virus che l’ha stroncato. Non è stato solo un “medico senza frontiere”, ha insegnato alla gente modesta la medicina, così che conclusa la sua missione avrebbe saputo curarsi da sé.  Ma più d’ogni altro ha lanciato un messaggio al mondo, un grido irrazionale che sapeva di rabbia, modesto, ma carico di significato. E’ il grido della gente che non sogna di arricchirsi, perché sa che la ricchezza non porta gioia, è il grido di tutti gli eroi sconosciuti che aiutano il prossimo senza chiedere nulla in cambio, senza che la smania di notorietà possa attecchire la loro corazza con evanescenti proseliti economici.

E, può capitare di imbattersi in gente con forti squilibri , il cui unico scopo nella vita non è l’aiutare il prossimo, ma il denaro e la fama. C’è gente come Bush, Blair, Aznar, Berlusconi, Saddam, cosmopoliti dalla mentalità italiana, che tolgono la vita agli altri. Uomini che amano essere definiti eroi perché liberano i popoli oppressi e difendono dalle catastrofi biologiche, ma che in realtà non lo sono. Sono vivi nella confusione, come se il pianeta fosse privo di persone così. Sono uomini come tanti, truffatori del lavoro e oppressori dei sacrifici, che per primi si fanno scudo dalle accuse di assassinio. Non sono soltanto “killer senza scrupoli”, hanno insegnato alle persone modeste che devono morire perché a nessuno interessa di loro, così che conclusa la loro missione i superstiti non avrebbero saputo dove andare a vivere. Ma più degli altri hanno lanciato un messaggio al mondo, un grido irrazionale e...basta, disonesto e carico di menzogne. E’ il grido della gente che sogna di arricchirsi, perché non sa che cos’è la gioia, è il grido di tutti i potenti risaputi, che ammazzano il prossimo dicendo: mi dispiace, senza che la smania di notorietà possa intaccare la loro corazza di guerrieri al servizio della terra.

Com’è strano il mondo… Può capitare di imbattersi in organizzazioni che mettono a repentaglio la vita di uomini per poter consegnare gli aiuti umanitari.

E, può capitare di imbattersi in organizzazioni che mettono a repentaglio la vita di un popolo per potersi appropriare di un altro pozzo di petrolio.

Ma com’è strano il mondo. Può capitare di imbattersi in una donna costretta dal suo regime ad indossare un orribile burqua.

E, può capitare di imbattersi in un’orribile donna che come unico scopo nella vita ha quello di arruolarsi nell’esercito, per buttare bombe sulle donne col burqua.

E’ davvero strano il mondo! Avevano cercato di convincerci (qualcuno c’era anche cascato) che si trattasse di una guerra giusta, che avrebbe liberato un popolo dalla dittatura, che avrebbe scongiurato il pericolo di un attacco con armi chimiche. Avevano cercato di convincerci che si sarebbe trattato di una guerra breve con poche decine di morti.

E, invece, ci siamo convinti che non esistono guerre giuste (anche qui qualcuno ci è cascato), che il popolo da liberare pian piano sta scomparendo (chi libereranno?), che il pericolo di un attacco con armi chimiche è ora imminente. Ci siamo convinti che si tratterà di una guerra lunga con “pochi” miliardi di morti.

E sì, è strano davvero il mondo!!! Mentre ti spiegano i motivi  di una guerra, ti accorgi che chi ti parla ha l’alito cattivo. E smetti di ascoltarlo.       

                                                                               ro.c.


Il Giappone ferma la caccia alle megattere.

Il WWF: "Ora bisogna salvare anche le altre specie"

E' grande la soddisfazione del WWF per la decisione del Giappone di risparmiare le 50 megattere che aveva previsto di cacciare in questa stagione, ma serve uno sguardo critico per cogliere la reale portata del provvedimento.

“Questa rinuncia da parte delle autorità nipponiche è un primo, importante risultato delle pressioni che il WWF ha messo in atto, insieme a governi e associazioni di tutto il mondo, da molti anni a questa parte – dichiara Massimiliano Rocco, responsabile Traffic e Specie del WWF Italia - Ma c'è ancora molto da fare. Oggi più che mai è anacronistico che si continuino a cacciare questi animali in nome di una ricerca scientifica che non ha ragione di essere, quando c'è una ricerca ‘benigna' che non comporta uccisioni o danni agli animali. Sarebbe invece auspicabile che il Giappone rinunciasse completamente alla caccia non solo delle megattere, ma di tutti i cetacei, ogni anno trucidati a migliaia.”

La caccia commerciale ai grandi cetacei è stata messa al bando già dal 1982 dalla Commissione Baleniera Internazionale (IWC, International Whaling Commission), azione fortemente sostenuta dal WWF e dall'IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione). Nonostante ciò, oltre 15.000 balene sono state catturate fino a oggi in base ad esenzioni legali dalla moratoria, fra cui i pretesi scopi di "ricerca scientifica", e altre 2.000 balene sono state uccise con le quote di caccia "tradizionali e di sussistenza" concesse ad alcune popolazioni aborigene (per esempio gli eschimesi).

LA BALENA DALLE ‘GRANDI ALI' E DAI LUNGHI CANTI
La megattera, 15-16 metri di animale con pinne pettorali lunghe fino a 1/3 del suo corpo (di qui il nome, dal greco "mega", grande, e "pteron", ali), è la più acrobatica delle balenottere e delizia whale watchers e naviganti con affascinanti salti fuori dall'acqua. Ma la sua caratteristica più notevole è il canto: un insieme affascinante di grugniti, grida, lamenti e mugolii combinati in sequenze ripetute che possono durare 30 minuti e più. Oggi ne restano circa 20.000.


Il grande occhio che ci osserva

Intrappolati nella diabolica morsa di mamma tv, gli occhi sgranati e secchi dallo sforzo contemplativo, le mani sudate avvinghiate al telecomando dei sogni cristallizzati e trucidi e ombrose sfumano nell’etere immagini a perdifiato. Decidono chi siamo, decidono cosa facciamo, decidono dove e perché andiamo. Come una mantide religiosa che scarnifica e divora l’oggetto del suo desiderio dopo aver consumato e gradito del favore, una scatola di fatal quiete accarezza il limbo dell’inquietudine, convoglia il vascello degli ideali verso l’isola che non c’è. Disperazione futura in un passato già dimenticato di promesse e riscatti scivolati in un push-up  d’abitudine. Mercati d’oriente, compagnie delle indie e carissimo Cristoforo Colombo. Viaggio d’andata in America, viaggio di ritorno nel mondo.

Di Bush ne abbiam fatto banderuola da innalzare a simboleggiare uno Stato, ma che, un Mondo, e di pudore lo straccio di un massaio per strigliare i ciuchi.

Granelli di sabbia al vento, ci muoviamo tutti nella stessa direzione, senza chiederci qual è lo scopo del viaggio. Stanchi e stressati amiamo l’uovo servito in un tegamino dai cinque minuti facili, che preferiremmo condire con lo zucchero sotto mano piuttosto che alzarci per prendere il sale dal davanzale. Difficile pensare, difficile amare, difficile credere in un mondo in cui regna il “Grande Fratello”. Ma non siamo ristretti! Il grande fratello a cui mi riferisco non è solo Casa dolce casa, gente di porta in porta e audience a volontà, il Grande Fratello è quello figlio della Grande Mamma. Una famiglia di truffatori, chiromanti del pensiero che spostano l’idea del progresso dal comodino al rinnale (vaso da notte) con giocosa maestria, colpendo là, dove l’uomo, essere supremo su d’ogni altra forma di vita, marcisce come legno nell’acqua. Cosa c’è da chiedersi il perché di tanta violenza minorile? Cosa c’è da chiedersi perché gli uomini del domani hanno perso gli ideali, i sacrifici? Cosa c’è da chiedersi perché non c’è bambina che non conosca la parola “velina”? Siamo ciò che decidiamo di essere; siamo il frutto delle nostre scelte che ne influenzeranno altre e che ci porteranno ad essere come siamo. Come può accarezzare una generazione in fasce la prospettiva d’azione per un mondo migliore, quando con un semplice pulsante si spalancano le porte del paese dei balocchi? Colori, luci, fama, soldi…

Bè credo che il mondo alla fine rispecchi la natura umana, ma credo anche che ci sia di meglio da fare che essere spiati giorno e notte o fare calendari di pudica irresponsabilità.

Se solo qualche volta provassimo a spegnere quel contenitore infernale e cercassimo di chiudere un po’ l’occhio del “Grande Fratello”, chissà che magari il vero grande occhio che ci guarda, quello che ha creato la magnificenza dell’universo, le stelle, le piante, gli animali, l’uomo smetta di vergognarsi della sua opera e lo riapra fiero di averci consegnato un privilegio inestimabile: vivere!

                                                                                                                       Roberto Cazzolla


In Asia orsi torturati per estrarne la bile

“[…] I 4 uomini immobilizzarono le zampe dell'orso e inserirono una siringa nel tubo di plastica . Quando il liquido verdastro cominciò a riempire la siringa, l'orso aprì la bocca tremando. Questo tipo di tortura andò avanti per circa 2 ore, finché tutti gli orsi furono sottoposti all'estrazione. Le urla e i suoni erano così forti che riempirono la vallata, spaventandomi terribilmente.

Dopo la tortura, gli orsi solitamente si mettono le zampe anteriori sullo stomaco. Si piegano tremanti, con gli occhi umidi...Verso le 10.30 qualcuno disse che c'era stato un incidente alla gabbia numero 5. Seguimmo il proprietario che correva trafelato, e rimanemmo scioccati da quello che vedemmo. Un orso marrone si era strappato le interiora tenendole per aria, ruggendo e urlando come se stesse "protestando" contro la crudeltà degli umani. Il proprietario urlo' "Svelti dobbiamo "salvare" le zampe!" Uno degli uomini all'interno della gabbia sembrava riluttante a proseguire. Ma il proprietario, pestando i piedi, continuava a sbraitare "Dovete troncarle mentre è ancora vivo! E' l'unica maniera per poterle vendere!". Vidi l'ascia scendere e immediatamente all'orso della gabbia n.5 furono troncate le zampe, e il sangue era dappertutto... Forse l'odore di morte aveva pervaso la zona […]”

Quanto riportato sopra è soltanto una parte del racconto terrificante riferito da un testimone, un uomo d’affari capitato per caso in una delle 208 “fabbriche di bile” operanti a pieno ritmo in Cina. La sua testimonianza risale al ‘98, da allora molto è stato fatto per cercare di porre fine alla atroce pratica di estrazione di bile d’orso impiegata nella medicina tradizionale cinese, e moltissimo rimane ancora da fare,ma procediamo con ordine. L’impiego di bile d’animale nella medicina cinese e asiatica in generale affonda le sue radici in tre millenni di storia, in quanto si riteneva e si ritiene tutt’oggi, che la sostanza abbia effetti terapeutici nella cura di alcune malattie legate al fegato, agli occhi o sia semplicemente lenitiva di malesseri passeggeri quali mal di testa, febbre o disturbi legati alla vista. La scelta dell’orso come principale fornitore del prezioso liquido, com’è facilmente deducibile, è legata alle dimensioni dell’animale che risulta quindi più “produttivo” rispetto ad altri animali di più piccola taglia . Fino ad una trentina di anni fa gli orsi venivano cacciati e uccisi nel loro habitat naturale per potergli poi estrarre la cistifellea da cui ricavare la bile. Successivamente l’introduzione dell’ “Orso della Luna” nell’ambito della convenzione CITES, in quanto specie a rischio d’estinzione, fornì la spinta decisiva a quanti da tempo già erano alla ricerca di metodi alternativi, più pratici, ma soprattutto economicamente più vantaggiosi al fine di rispondere alla crescente richiesta di bile. Nacquero così le fabbriche o fattorie della bile, vere e proprie industrie della tortura dove gli animali, costretti in gabbie strettissime paragonabili a delle vere e proprie bare non hanno la benché minima possibilità di movimento e sono costretti in posizione supina per un periodo di tempo lunghissimo che può durare anche 20-25 anni, vale a dire tutto il tempo i cui sono “produttivi”. Agli animali poi,alcuni dei quali ancora catturati in libertà, altri invece nati in cattività ,viene impiantato nell’addome un catetere di ferro conficcato nella cistifellea, alla cui estremità, esterna al momento dell’,estrazione viene collegato un tubo di plastica mentre la parte superiore della gabbia, dotata di un meccanismo appositamente predisposto, si abbassa ulteriormente, fino a pressare ancora di più il torace degli animali, limitando in questo modo la respirazione e facilitando contemporaneamente l’estrazione della bile. L’operazione dura all’incirca un paio d’ore e si svolge solitamente due volte al giorno.Inutile tentare di spiegare la sofferenza di questi giganti immobilizzati i cui arti si atrofizzano e s’incurvano poco la volta, soggetti a piaghe da decubito e privi di acqua e cibo che vengono forniti loro nella quantità minimia necessaria a tenerli in vita a discrezione dei loro carnefici.. Alcuni hanno la “fortuna” di morire a causa di tumori o infezioni causati dai ferri arrugginiti conficcati nella carne o ai maldestri interventi cui vengono sottoposti.Ma da tredici anni a questa parte, grazie al coraggio e alla tenacia di una donna, l’inglese Jill Robinson, tutto ciò non accade più nel silenzio e nell’ indifferenza generale e soprattutto molte cose sono cambiate. Era il 1993 quando Jill visitò per la prima volta una delle suddette fabbriche.Quello che vide la turbò a tal punto che dal quel momento in poi, far conoscere al mondo quello che avveniva in quei luoghi e mettere fine a quella barbarie, sarebbe diventato il senso della sua vita. E cosi è stato .In quello stesso anno la Robinson fonda l’ Animals Asia Foundation, grazie alla quale può dar vita ad una fittissima rete di relazione diplomatiche col governo di Pechino e non solo, volta ad incentivare la ricerca alternativa e diffondere l’uso di bile sintetica, promovendo tra l’ altro le almeno 54 valide alternative erboristiche già disponibili e meno costose.Ma soprattutto predisporre la graduale chiusura di tutte le fabbriche esistenti in Cina..L’impegno incessante di Jill la porta a fondare nel 1998 il “Moon Bear Rescue Centre”, nella provincia di Saichuan, il cui scopo è quello di “recuperare orsi provenienti dalle fabbriche della bile, una volta diventati per così dire “improduttivi”ed evitare quindi che vengano lasciati morire o siano uccisi e smembrati, o magari prevenire addirittura il loro arrivo nelle fabbriche della tortura ,come accadde nel 2004, quando sette orsi provenienti da uno zoo furono strappati al loro destino e accolti nel centro. Appena giunti qui, di solito gli orsi vengono immediatamente sottoposti a un intervento chirurgico, volto ad estrarre loro il catetere di ferro conficcato nell’addome e l’intera cistifellea ,dopo di che gli animali vengono sottoposti a cure antibiotiche e programmi di fisioterapia per sanare le piaghe dovute alla loro precedente condizione, nonché a decenni di immobilità. Purtroppo però gli animali recuperati non possono più essere messi in libertà perché in natura non sopravviverebbero. E’ per questo che Animals Asia sta attualmente costruendo un santuario rieducativo nel mezzo di una meravigliosa foresta di bambù,dove gli orsi possono vivere in un habitat comunque naturale assieme ai loro simili ed essere così recuperati non solo fisicamente, ma anche e soprattutto psicologicamente.Affinché questo sogno possa diventare realtà Animals Asia necessita del nostro contributo,l’associazione infatti non riceve fondi pubblici e si finanzia interamente attraverso le donazioni di privati .Dall’ottobre del 2000 ad oggi 41 fabbriche di bile sono state chiuse ed oltre 200 orsi sono stati salvati,inoltre nel dicembre 2005 ,grazie alla sensibilità e all’intervento del l’europarlamentare Neil Paris, che aveva avuto modo di visitare una delle fabbriche, è stata promossa e approvata una dichiarazione ufficiale del Parlamento Europeo volta a mettere fine agli allevamenti di orsi. Molto è stato fatto quindi, ma moltissimo rimane ancora da fare.Oltre 200 industrie della tortura continuano ad operare ancora nella sola Cina ed altre ve ne sono sparse in tutta l’Asia; tra gli obbiettivi che Jill e i suoi collaboratori ora si pongono v’è la costruzione di un nuovo centro di recupero in Vietnam e soprattutto la chiusura definitiva di tutte le rimanenti fabbriche entro il 2008,anno delle Olimpiadi.

Per sostenere L’Animals Asia Foundation :

Animals Asia Foundation
United Kingdom Office P.O. Box 835
Uxbridge, UB8 9AX England
sito: www.animalsasia.org

Ivana Guagnano


Scoperti i rifiuti “di Ilaria Alpi”

Lo Tsunami li ha dissotterrati dalle coste somale

20 Marzo 1994, in Somalia viene trovata morta Ilaria Alpi, giornalista del TG3 ed il suo operatore Miran Horovatin. Sono passati 11 anni solo ora salta fuori la verità di una delle pagine più sporche e infangate della storia.

La giornalista Alpi investigava in Africa su questioni che, a suo dire, erano “molto delicate”. Per mettere a fuoco bene la vicenda bisogna fare un passo indietro al 21 settembre 1987. In questa data affonda la nave Rigel. Durante le successive indagini nell’abitazione di Garlasco del faccendiere Giorgio Comerio si rinvengono telemine, le stesse utilizzate e progettate dall’industriale per affondare i tre incrociatori inglesi alle Falkland. Lo stesso industriale è uno degli artefici dell’affondamento della motonave Jolly Rosso, nella baia delle Formiciche, in provincia di Cosenza, il 14 dicembre 1990. Alcuni resti della nave furono smaltiti illegalmente in una discarica calabrese e fatti sparire. Si scoprì, in seguito, che il signor Garlasco aveva corrotto il governatore somalo Ali Mahali per ricevere agevolazioni per il sotterramento di scorie nucleari.

Il 13 giugno 1995 viene ucciso da un pezzo di torta avvelenato, mentre sta per recarsi ad interrogare l’equipaggio della Rosso, il capitano di corvetta Natale De Grazia. Qualche mese dopo viene a galla il coinvolgimento di alcuni israeliani che avrebbero ostacolato le indagini perché coinvolti nel traffico d’armi (mitragliatrici, carri armati e mine). Intanto viene arrestato con l’accusa di intimidazioni e pressioni ai magistrati il sindaco di Reggio Calabria, Francesco Gangermi, che su “Il Dibattito” giornale da lui diretto e sequestrato, aveva mosso accuse contro alcuni magistrati e giudici corrotti per insabbiare le indagini sull’assassinio Alpi.

Adesso, come una doppia apocalisse, lo Tsunami ha riportato a galla una verità per troppo tempo tenuta nascosta, insieme ad un mare di rifiuti. L’onda che lo scorso dicembre ha devastato numerosi paesi orientali, si è scontrata anche contro 650 km di costa somala, tra Hafun e Garacad, provocando 300 morti ed oltre 18000 senza tetto come dichiarato dal poco conosciuto rapporto Unep. L’urto dell’onda ha fatto riaffiorare sulle coste ingenti quantità di rifiuti tossici ed alcuni radioattivi, molto probabilmente di provenienza europea. Inoltre, da qualche settimana alcune popolazioni della costa settentrionale somala sono state colpite da insolite patologie, facilmente riferibili a gravi fenomeni di inquinamento, come sanguinamenti dalla bocca, infezioni acute alle vie respiratorie ed emorragie addominali. A tal proposito, un membro del Parlamento somalo Awad Ahmed Ashra ha lanciato un appello alla comunità internazionale per bonificare la zona dai rifiuti tossici disseppelliti dallo Tsunami.

Il ruolo svolto dalle ditte italiane in Somalia nei traffici di rifiuti tossici è da tempo noto allo stesso Unep con l’allarme lanciato nel 1992 dal segretario Mustafà Tolba, ribadito in molti incontri della Commissione di inchiesta sui rifiuti. Nick Nuttal, portavoce dell’Unep e lo stesso parlamentare somalo hanno denunciato una diffusa contaminazione da materiale fortemente pericoloso come uranio, mercurio e cadmio, rifiuti ospedalieri e di industrie farmaceutiche contenuti in cisterne adagiate sui fondali o insabbiate nella battigia, che essendo state sigillate in maniera rudimentale, sono state distrutte dall’onda dello Tsunami.

E’ noto da tempo come molte regioni africane siano state utilizzate per anni come pattumiera da molti paesi europei, compresa l’Italia. Sono stati rinvenuti circa 1400 siti contaminati da rifiuti tossici in Africa, dove si concentrano le più alte dosi di sostante bandite da anni, come i POP’s (tra cui il DDT).

La ragione è semplice: se in Europa smaltire una tonnellata di rifiuti tossici costa oltre 1000 dollari, in Africa la cifra si riduce ad appena 8 dollari a tonnellata ed è il motivo per cui faccendieri e malavita approfittano della latitanza o dell’inesistente governo locale per disfarsi di materiale compromettente.

Ecco, dunque, che appare svelato il mistero Alpi da un onda che rappresenta davvero un messaggio per l’umanità intera. Traffico d’armi, di rifiuti e criminalità organizzata sono stati smascherati non solo da gente coraggiosa come Ilaria, ma dal supporto dell’unica vera forza di giustizia che è la natura.

Adesso però, per la legge del contrappasso, c’è da pagare un dazio per quello che si è fatto e quindi si presenta un grave problema ecologico e sanitario che sta mettendo a repentaglio la vita di un’intera area dell’Oceano Indiano.

Purtroppo, a pagare le conseguenze della follia dei superbi, dei lussuriosi e degli egoisti, sono sempre le popolazioni più povere, vittime dello stesso fattore che le ha destinate in quello stato di miseria: l’uomo.

Ma, affinchè i sacrifici di Ilaria Alpi e del suo collaboratore, degli ufficiali onesti e dei giudici puliti, non appaiano vani alla Natura per la quale la legge è davvero uguale per tutti, bisogna che qualcuno paghi, che la giustizia terrena, una volta tanto punisca i colpevoli e grazi gli innocenti.

Ora non si può più ignorare questa pagina nera dell’umanità, bisogna andare avanti con il libro della vita, cercando prima di tutto, di salvare le vite della gente somala che sta subendo atrocità fisiche, nel commercio e nella pesca a causa del disseppellimento di quel materiale radioattivo che un tempo si è voluto far affondare insieme alla Jolly Rosso ed alle altre carrette del mare.

Non c’è più da chiedersi perché e come, ora che la verità è a galla. C’è da mettere in salvo delle vite, interi ecosistemi e non c’è tempo da perdere.

Nella speranza che la nostra inchiesta e la diffusione di essa, possa salvare anche una sola vita, umana o non umana, auguriamo al mondo povero, vittima del mondo ricco la giusta, naturale, sovraumana, giustizia.

Roberto Cazzolla


La città che ricicla tutto

In Giappone una cittadina ha deciso di far sparire, riciclandoli, tutti rifiuti prodotti

2140 abitanti e tutti ecologisti, compreso il primo cittadino. Un sogno si direbbe. Forse un simile paesino esiste su Marte e non sulla Terra. Eppure in Giappone nelle cittadina di Kamikatsu - Cho i sogni per un mondo più pulito si trasformano in realtà. Nel 2003 il sindaco della cittadina sperduta sull’isola di Shikoku dichiarò di voler azzerare entro il 2020 tutti i rifiuti prodotti, riciclandoli. Da quando la raccolta differenziata è partita nel 2001, Kamikatsu—Cho ha iniziato a separare 34 materiali, di cui quattro categorie di carta e metalli e sette tipi di vetro, oltre a tutti gli altri materiali, dalle pile ai farmaci. Nell’ordinanza emessa dal sindaco si legge che dati i comprovati pericoli dovuti all’incenerimento dei materiali, ai residui che devono essere comunque smaltiti in discarica, all’esigua percentuale di energia ricavabile dalla combustione ed allo spreco di materiale che si realizza con l’incenerimento, tutta la comunità di Kamikatsu-Cho si impegna ad investire in sistemi che entro il 2020 porteranno al riciclo completo di ogni scarto prodotto. E così si è dato il via alla raccolta dell’organico, delle fibre tessili e di tutte le tipologie di plastica. Con gli inerti (legno, pietre, etc.) si realizzano infrastrutture e nuove abitazioni. Il paese dei balocchi ha così raggiunto in quattro anni quota 80% di rifiuti differenziati e le previsioni attestano che in qualche anno e ben prima della data stabilita si toccherà quota 100%. Ma il vero tocco di classe in questo progetto fuori dal mondo che chissà se un giorno le città europee o americane adotteranno, è che è stato imposto a fabbricanti e produttori di qualunque tipo di oggetto di diventare loro stessi raccoglitori dei propri materiali dismessi (come elettrodomestici e mobili), imponendo tasse su chi non produce materiali riciclabili e mettendo al bando chi si rifiuta di raccogliere e riciclare ciò che produce. Insomma uno progetto straordinario che ora è diventato di notevole interesse per gli studiosi e che il paesino vuole esportare. Alla fine, basta poco. Basta che le amministrazioni facciano parte delle città e non che le governino dall’alto.


L'8X1000 va alle guerre

Nonostante la legge 222 del 1985 (che istituisce il fondo 8 x 1000) affermi che le somme destinate allo Stato, devono essere utilizzate "per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione dei beni culturali" (art. 48) attualmente agli interventi per la fame nel mondo vengono destinate lo 0,9% delle risorse, ai rifugiati lo 0,6%, ai beni culturali il 13,8%, alle calamità naturali il 5,0%, mentre ben il 79.6% va alle missioni e alle spese militari” si legge in un comunicato di Unimondo."Ormai da anni i fondi dell'8 per 1000 gestiti direttamente dallo Stato (destinati annualmente dai contribuenti allo Stato all'atto della dichiarazione dei redditi) vengono utilizzati per gli scopi più disparati, e tra questi il finanziamento delle missioni militari all'estero. Nel 2004 si è arrivati ad una situazione che ha dell'incredibile: ben 80 dei poco più dei 100 milioni di euro destinati allo Stato dai contribuenti sono stati stornati per finanziare le missioni militari italiane e in particolare quella in Iraq, che pesa per oltre il 50% sui costi di tutte le missioni militari italiane", E' quanto afferma Giulio Marcon, portavoce della Campagna Sbilanciamoci sostenuta dalla società civile italiana. "Si tratta di una violazione di sostanza e di merito della legge 222" - nota Marcon. "I soldi degli italiani sono utilizzati per finalità diverse da quelle previste dalla legge: la volontà dei contribuenti non è rispettata ed è palesemente ingannata - continua Marcon. Il trucco contabile utilizzato dal Governo e dal Parlamento è quello di ridurre, in ogni legge finanziaria, il fondo 8 per mille, stornandone una parte per esigenze di finanza pubblica. In questo caso lo storno è stato di 80 milioni per le missioni militari, che non si sarebbero potute finanziare seguendo la lettera della legge 222/85."


La Nestlè sfrutta i bambini per produrre cioccolato in Costa d’Avorio

Nei giorni scorsi l'International Labor Rights Fund ha depositato presso la Corte federale di Los Angeles una denuncia contro Nestlé, Archer Daniels Midland (ADM) e Cargill, tre compagnie che importano cacao dalle coltivazioni della Costa d'Avorio, maggior produttore mondiale, accusandole di traffico di bambini, torture e lavoro forzato - riporta RsiNews, sito di informazione sulla Responsabilità sociale delle imprese. La denuncia, avviata dallo studio legale dell'Alabama "Wiggins, Childs, Quinn & Pantazis", riprende le accuse di tre persone, che al momento dei fatti erano minorenni, e risiedono nella città di Sikasso, nel Mali dove dal 1996 ad oggi si calcola siano stati a migliaia i bambini costretti ai lavori forzati.
Gli abusi sono avvenuti tra il 1996 ed il 2000.
Secondo questa denuncia i bambini, originari del Mali, furono trasferiti in Costa d'Avorio e costretti a lavorare 12-14 ore al giorno per sei giorni la settimana, senza salario, con scarso cibo, costretti a dormire in stanze affollate, chiuse a chiave e sorvegliate e spesso frustati. Nel Mali non è possibile chiedere risarcimenti per reati compiuti al di fuori dal Paese. Inoltre, il sistema giuridico della Costa d'Avorio, notoriamente corrotto, non risponderebbe alle accuse di cittadini stranieri contro i potenti produttori di cacao. L'International Labor Rights Fund giudica "inammissibile che Nestlé, ADM e Cargill abbiano ignorato i ripetuti e ben documentati allarmi, lanciati diversi anni fa, sul fatto che le coltivazioni di cacao da loro utilizzate impiegano bambini schiavizzati. Le tre compagnie avrebbero potuto fermare questa situazione anni fa, ma hanno scelto di guardare da un'altra parte. Ci siamo rivolti alla Corte come ultima scelta". Nei principi aziendali di Nestlé, si afferma che la compagnia "è contro qualsiasi forma di sfruttamento dei bambini. La Società non dà lavoro ai bambini prima che abbiano completato il loro iter formativo obbligatorio, come stabilito dalle autorità preposte. Chiede, inoltre, che i propri partner applichino i medesimi standard".

Nel Codice etico di Archer Daniels Midland, al paragrafo sul lavoro minorile si afferma che la compagnia "sostiene i partner che trattano i lavoratori con dignità e rispetto, seguendo le leggi locali sul lavoro. ADM non tollererà l'impiego e lo sfruttamento di lavoratori al di sotto del limite di età legale o il lavoro forzato, e non utilizzerà consapevolmente fornitori che impieghino tali lavoratori o metodi di lavoro". Nell'illustrare la propria posizione sul lavoro nell'industria del cacao, Cargill afferma che "trattamenti abusivi nei confronti dei bambini, in agricoltura o in qualsiasi altra industria, non sono accettabili". "Nel settembre 2001, i rappresentanti dell'industria del cioccolato e del cacao statunitense ed europea avevano sottoscritto un protocollo, preparato insieme a due parlamentari democratici americani, il senatore Tom Harkin e il deputato Eliot Engel, da cui ha preso il nome di Protocollo Harkin-Engel. Con tale documento, l'industria s'impegnava a diverse azioni, per eliminare le peggiori forme di lavoro minorile in Africa occidentale, tra cui un sistema di certificazione volontaria, da attuarsi entro il 1° luglio 2005. Tale termine è passato, senza che la scadenza sia stata rispettata. I firmatari del protocollo, però, hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta, in cui ribadiscono i propri impegni" - riporta RsiNews. Da tempo è attiva a livello internazionale la Campagna Anti-slavery che denuncia le diverse forme di schiavitù tuttora presenti nel mondo. Insomma, la Nestlè sembra non smentirsi mai. Eppure, dopo lo scandalo del latte in polvere, sembrava che l’azienda italiana avesse intrapreso una politica rispettosa dei diritti umani e dei lavoratori, consapevole che una tale azione gli avrebbe fatto riconquistare milioni di acquirenti. In realtà era solo una farsa pubblicitaria, la solita copertura che spesso le aziende si concedono per nascondere veri e propri abusi.

Roberto Cazzolla


Le mani russe sulla Cecenia:

tutti i retroscena

Dietro Beslan e l’attentato al teatro si celano abusi e concorsi di colpa

Lo scorso primo settembre la Russia e il mondo intero non hanno potuto fare a meno di ricordare l’attacco alla scuola di Beslan, in Ossezia, che esattamente un anno prima era costato la vita a ben 394 ostaggi, di cui 186 erano bambini. Putin ha incontrato ufficialmente alcune delle madri dei bambini uccisi solo un anno dopo, in occasione dell’anniversario della strage, in quanto all’epoca dei fatti si era limitato ad una rapida e formale visita nella città di Beslan, nell’ambito della quale aveva ribadito “la linea dura” contro il terrorismo ceceno, ma si era guardato bene dall’accennare in qualche modo alle cause dell’attentato. Dopo un anno il dolore e lo sdegno sono tutt’altro che attenuati, anzi la rabbia dei sopravvissuti e di quanti hanno perso i loro cari sembra acuita da recenti polemiche che vedono il Cremlino come primo indagato per complicità nel sequestro e l’FSB, i servizi segreti russi, per aver favorito la strage. D'altronde non sarebbe certo una novità, già in passato FSB e vertici russi sarebbero stati attivamente coinvolti in attentati attribuiti poi a terroristi ceceni, strumentalizzando l’accaduto. Ma, mentre Putin risponde alle accuse di voler infangare la verità e di coprire i veri responsabili, temporeggiando col finto processo all’unico dei terroristi catturati, il solo modo per porre ordine e capire a fondo al questione cecena è quello di fare un passo indietro, prima fino a quel tragico primo settembre 2004 e poi, ancora a ritroso, fino a risalire a quelle che sono le cause nascoste di un conflitto che molti vorrebbero dimenticato.

Sono circa le 8:24, quando trenta fra uomini e donne pesantemente armati fanno irruzione nella scuola di Beslan, prendendo in ostaggio per 3 giorni le 1100 persone presenti in quel momento nell’edificio. I sequestratori chiedevano il ritiro delle truppe russe dal territorio ceceno, le dimissioni del presidente russo Putin e il rilascio da parte delle autorità russe di detenuti ribelli ceceni. Le richieste, ovviamente, non vengono accolte e l’epilogo della vicenda lo conosciamo tutti.

Ottobre 2002, terroristi ceceni prendono in ostaggio 800 presone nel teatro Dubrovka di Mosca, analoghe le richieste dei sequestratori, simile anche in questo caso, l’esito della vicenda: le teste di cuoio si lanciano in un discutibile assalto al teatro, ricorrendo probabilmente a gas nervino. Il blitz, ordinato direttamente da Putin, fece 90 morti fra gli ostaggi e 60 fra i terroristi. I medici degli ospedali dichiararono che la maggior parte delle morti fu causata non da ferite da armi da fuoco ma da intossicazione. E ancora, un attacco terroristico nella metropolitana di Mosca costò la vita a 10 persone; 89 i morti provocati dall’esplosione di bombe innescate da kamikaze su 2 aerei di linea. Nel 2000, un’esplosione in un palazzo governativi provocò la morte di 70 persone; altre 60 vittime fece un attentato terroristico nella parte nord della Cecenia; e si potrebbe continuare ancora...ma i morti non sono solo numeri con cui riempire pagine di giornali o servizi televisivi e gli assassini a volte, non sono solo folli assetati di sangue, a volte, sono disperati che scelgono il modo sbagliato per dare sfogo al proprio dolore e alla propria rabbia, per attirare sulla loro misera situazione l’attenzione di una comunità internazionale che finge di non sapere, che gira la testa e che ha a cuore democrazia, libertà e diritti umani solo quando questi profumano di petrolio o quando il rispetto di tali diritti non mina interessi e amicizie consolidate da tempo fra le grandi potenze. E’ per questo che la questione cecena trova sempre poco spazio nei dibattiti nazionali ed internazionali ed emerge soltanto quando, come un pugno nello stomaco provoca la morte di migliaia di civili innocenti. Ma, mentre giornali e telegiornali si limitano a fornire una sterile cronaca dei fatti, finché il clamore e lo sdegno per il sangue versato, si placa, perché non fa più notizia, quello che in pochi raccontano della questione cecena sono le sue origini, la sua storia e ancor meno le cause reali che stanno alla base di tanta violenza, perché nessuno racconta che in Cecenia si muore tutti i giorni, che centinaia di migliaia sono i profughi ceceni sparsi qua e là fra Inguscezia, Daghestan e la Cecenia stessa, accampati tra campi profughi ufficiali e insediamenti spontanei di gente che ha trasformato stalle, vecchie fabbriche abbandonate e capannoni nella loro nuova dimora, dopo che villaggi e città intere sono stati saccheggiati e letteralmente rasi al suolo dall’armata russa. Va detto, inoltre, che la Russia non riconosce lo stato di profughi alle 180000 persone rifugiatesi in Inguscezia, questo vuole dire che non hanno alcun diritto ad aiuti umanitari. Quello che non si racconta, è che le organizzazioni umanitarie non sono costantemente presenti in territorio ceceno, sia per questioni di sicurezza, ma ancor più per i 1000 ostacoli burocratici predisposti dalle autorità russe, che rendono la presenza di occhi estranei, a dir poco impossibile, perché questi porterebbero alla luce gli abusi e i soprusi che i militari russi esercitano sulla popolazione civile. Nel 2000, un rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in Cecenia, fu sequestrato all’aeroporto di Mosca alla ricercatrice che lo aveva realizzato, in quanto considerato propaganda anti-russa. Quello di cui nessuno parla, sono video realizzati da alcuni operatori umanitari, che mostrano la testa decapitata di un uomo che viene cotta in un secchio ad opera dei soldati russi, atrocità questa che costituirebbe un vero e proprio rituale, come quello di appendere teste di ceceni decapitati ai carri armati russi, esposte come trofei. Quello di cui non si parla, sono le purghe nei villaggi, le esecuzioni sistematiche della gioventù cecena, le torture e gli stupri, i traffici di cadaveri, che vengono poi venduti alle famiglie a prezzi elevatissimi.

Non solo le organizzazioni umanitarie, ma anche i mezzi di informazione hanno vita dura in Cecenia. Difficilmente i giornalisti riescono ad accedere in territorio ceceno a causa dei vari ostacoli burocratici che glielo impediscono e qualora vi riescano l’accompagnamento dei militari russi è obbligatorio. E’ facile immaginare quanto distorte possano essere le informazioni che ne derivano. Ma quali sono le motivazioni fittizie e reali di questa guerra? La Russia dichiara di non voler concedere l’indipendenza per impedire l’istaurarsi in Cecenia di uno Stato basato sull’integralismo islamico, retto dalla sharia e guidato dal sanguinario Basaev, capo della guerriglia e regista di molti degli attentati verificatisi. Le motivazioni reali sarebbero invece altre, innanzitutto l’importanza strategica del territorio per la Russia, legata alla presenza di oleodotti e gasdotti. Il transito dell’oro nero e del gas naturale che viaggiavano dal mar Caspio all’Europa era sempre stato monopolio russo, questo però fino al 1999, quando la costruzione di nuovi oleodotti a opera dei Paesi del GUAM (dal nome delle iniziali dei Paesi componenti: Georgia, Ucraina, Azerbaijan e Moldavia), ha creato vie alternative al transito delle risorse energetiche che percorrono ora territori al di fuori della Federazione russa e sui quali questa non avrebbe controlli diretti. Ora, poiché tali Stati hanno già annunciato la costruzione di un nuovo oleodotto che collegherebbe la città di Baku e di Novorossijk, passando proprio per Grozny, la Russia, non può permettersi di perdere quest’altra fonte di guadagno.

L’aver adottato, inoltre, la linea dura nei confronti del separatismo ceceno costituisce una sorta di monito alle altre regioni che potrebbero decidere di seguire l’esempio ceceno rischiando di minare l’unità della Federazione.

Creare un nemico esterno per la Russia è stato, poi, di fondamentale importanza al fine di distogliere lo sguardo dai problemi interni oltre che per affermare la necessità di un “potere forte” retto da Mosca e da un uomo forte, dal pugno di ferro alla guida del Paese. A conferma di ciò, la testimonianza della giornalista francese Milene Sauloy, che riuscita ad entrare clandestinamente in Cecenia afferma che per l’FSB, sarebbe facilissimo scovare gli indipendentisti e che lei stessa era riuscita più volte a incontrarli. Questo vuol dire che non c’è una reale volontà di porre fine alla questione, perché va bene così, il banditismo ceceno fa comodo. Per non parlare, poi, delle numerose prove che vedrebbero Basaev, pericolosamente vicino ai vertici di Mosca, all’FSB e al GRU, il servizio segreto militare russo. Lo stesso Boris Berezovsky, personaggio di spicco della finanza moscovita e particolarmente vicino alla famiglia Eltsin, ammise pubblicamente di aver finanziato Basaev per le sue attività. Sempre a proposito di Basaev, va chiarito che tutto è tranne che un partigiano della libertà cecena, che non rappresenta né la popolazione, né l’esercito regolare, ma una minoranza molto potente, che all’ombra dell’integralismo religioso e della lotta per l’indipendenza persegue in realtà personali interessi politico economici legati a traffici illeciti. Purtroppo, però, la falsa bandiera con cui si fa scudo gli ha permesso talvolta di ottenere la fiducia e il consenso di molti disperati, soprattutto ragazzi o donne, cui i russi avevano massacrato mariti e figli, che hanno visto nella lotta armata o nel fanatismo religioso l’unico modo per dare una svolta alla loro misera situazione. Basaev, insomma, è un bandito che fa comodo e questo spiega perché non si sia ancora riusciti a catturarlo; è un amico-nemico di Mosca e soprattutto di Putin, che molti hanno definito figlio di questa guerra. E’ opinione diffusa, infatti, che la II guerra cecena sia stata magistralmente architettata dai vertici del Cremlino e in particolar modo da Eltsin, che ne fece un’occasione per mantenere in qualche modo il potere, proponendo Putin, suo uomo di fiducia come “l’uomo forte” che avrebbe risolto la situazione. Il successo di Putin crebbe vertiginosamente di pari passo con l’affermarsi come punto cardine della sua campagna elettorale “la liquidazione dell’infezione cecena”, fino a portarlo al Cremlino.

L’ipotesi della guerra “su misura” sarebbe, inoltre, avvalorata da forti indizi che fanno pensare che la serie di attentati che nel ‘99 sconvolse quattro città russe, provocando la morte di 300 persone, che vennero immediatamente attribuiti ai terroristi ceceni e che costituirono il pretesto per scatenare la II guerra russa contro Cecenia, sarebbero invece stati opera del Cremlino e dell’FSB. A convalidare tale ipotesi la confessione di Aleksei Galatin, ufficiale del GRU, secondo il quale quest’ultimo sarebbe direttamente coinvolto negli attentati dell’99. Ulteriore indizio si baserebbe sul materiale esplosivo utilizzato per compiere gli attentati dinamitardi, gli investigatori hanno accertato che si trattasse di exogene e che per ogni bomba ne era stata utilizzata una quantità compresa fra i 200 e i 300 Kg. Ora, considerando che le autorità russe dichiararono di aver disinnescato altre 5 bombe della stessa portata, viene automatico desumere che i terroristi disponevano di un quantitativo di esplosivo pari a 1800 Kg. Un quantitativo non indifferente se si pensa che l’exogene viene prodotto in un'unica fabbrica russa ben nascosta fra gli Urali. Questo, vorrebbe dire 2 cose, o che i terroristi sarebbero stati in grado di sottrarre furtivamente il materiale esplosivo dalla fabbrica ed eludendo i rigidi controlli se ne sarebbero andati a spasso fra le città russe, piazzandolo qua e là oppure che non siano stati terroristi ceceni ad organizzare gli attentati, tanto più se si pensa che l’exogene viene spesso utilizzato dalle forze armate russe per la nuova generazione di proiettili. Nel 2002 un referendum ha posto formalmente fine alla questione e i ceceni un po’ per stanchezza, un po’ per timore di ritorsione, un po’ per brogli hanno confermato fedeltà e obbedienza a Mosca. “La situazione è ormai sotto controllo” fanno sapere dal Cremlino, ma in realtà, chi lì ci vive o chi ci lavora come i funzionari delle ONG, dice che da allora, è cambiato poco o nulla e che il referendum è stato soltanto una grandiosa messa in scena.

Dinanzi a tutto questo viene spontaneo chiedersi qual è stato e qual è il ruolo dell’Italia. Probabilmente basterebbe citare un solo episodio per capire quanto l’Italia ha a cuore la questione: quando il 6 dicembre 1999 nel corso della II guerra cecena Eltsin ordinò alle truppe russe di invadere il Paese, radendo al suolo Grozny con raid aerei, l’Italia pensò bene di ratificare due accordi di cooperazione militare, firmati con la Russia già nel 1996. Nonostante la Russia fosse già stata accusata di aver violato la convenzione di Ginevra, in quanto l’esercito russo aveva chiuso la frontiera con l’Inguscezia, unica via di fuga per i profughi.

Italia e Russia, hanno interessi reciproci di natura economica, politica e militare troppo forti per poter essere messi in discussione dalla “parentesi cecena” e lo si capisce dagli onori e abbracci reciproci che le autorità politiche e clericali dell’uno e dell’altro Paese, si riservano ogni qualvolta si fanno visita. La vita di centinaia di migliaia di persone vale sicuramente meno degli interessi di 3 fra le più grandi imprese nazionali: ENI, Fiat e Mediobanca.

L’ENI risulta uno fra i principali partner industriali e commerciali della Russia, con un flusso annuo di capitali pari a 2 miliardi di dollari. Quanto alla Fiat pare siano stati firmati accordi per la costruzione di vetture della casa torinese in alcune fabbriche russe. Mediobanca, invece, è al centro di un accordo italo-russo con la concessione di circa 1,5 miliardi di dollari volto a finanziare la creazione di una società a capitale misto. A rendere l’idea di quanto potenti siano gli interessi in gioco fra Russia e Italia è il monito rivolto a un giornalista italiano da un funzionario ONU, a Mosca: “Non aspettatevi aiuto dal governo italiano o dall’ambasciata. Se vi accade qualcosa è molto probabile che decidano di sacrificare la vita di 3 o 4 italiani in nome di un quadro più grande”. Deve essere successo così per Antonio Russo, giornalista italiano trovato morto nel 2000 nelle campagne della Georgia. Russo aveva raccolto numerosi documenti che proverebbero le sperimentazioni di armi non convenzionali in generale nel territorio ceceno, già compromesso dal punto di vista ambientale e in particolare l’impiego di tali armi su bambini ceceni gravemente ustionati e sfigurati. Dalle indagini effettuate sul posto si giunse alla conclusione che si trattava di un omicidio pulito, ossia senza nessuna traccia, da veri professionisti insomma, mentre i documenti erano stati trafugati. E’ evidente che per lo Stato italiano né la vita di Russo né la dignità dei civili ceceni rientravano nella definizione di “qualcosa di grande”.

Ivana Guagnano


Clima estremo: un monito per tutti

Gli uragani Katrina e Nabi li abbiamo alimentati noi

Si è abbattuto come una profezia l’uragano Katrina sulla sponda atlantica degli Stati Uniti. Ha spazzato via in poche ore un’intera città, New Orleans, con il suo jazz ed i suoi miti.

Ma la gente che in quella città viveva, era tra le più povere tra tutte le contee. La maggior parte di essi erano neri che vivevano con salari minimi e con famiglie numerose. Dell’arrivo dell’uragano si sapeva da mesi e le sue previsioni erano state effettuate addirittura nel 2001.

Come sia possibile che la macchina degli aiuti non sia partita in tempo è un vero mistero. Che i poveri ed oltretutto neri per il Presidente Bush contino meno di qualunque altra cosa lo si è potuto notare dalla totale disinvoltura e falsità delle dichiarazioni riguardanti gli aiuti ritardati. Morire di fame dopo un uragano in una città famosa d’America è davvero un fenomeno paranormale. Eppure molta gente ne è morta. In tanti si sono ammalati, ma il maestoso esercito statunitense era tutto impegnato a cercare ancora le armi terroristiche nascoste da quei due o tre iracheni rimasti in vita.

Questa volta, però, il caso è sulla bocca di tutti. Il caro G.W. Bush ha perso consensi in tutto il mondo ed ha ricevuto numerose critiche, all’indomani delle contestazioni delle madri di soldati vittime della guerra.

L’ignobile pacatezza di un uomo dinanzi alla morte è ciò che più spaventa di Bush. Sembra talmente insensibile davanti ad ogni evento accaduto nel proprio Paese, tanto da fare ogni volta di una tragedia, il motivo di un’azione da campagna elettorale.

In questo caso ha davvero esagerato. Non può, il Paese più ricco del Mondo, lasciar morire i fame i propri abitanti solo perché questi sono poveri e neri. Non può un Presidente fingere commozione per un disastro che egli stesso ha causato.

Si, proprio così. L’incidenza di fenomeni meteorologici estremi aumenta proporzionalmente all’incremento dei mutamenti climatici dovuti alla distruzione dell’ambiente. Gli uragani, come quello americano e come Nabi, si formano dall’incontro delle correnti calde ascensionali che provengono dagli oceani, e dai mari dei golfi in particolare, con quelle fredde derivanti dall’atmosfera e dai Poli. Vi sono annualmente fluttuazioni dei venti che migrano negli strati più bassi dell’atmosfera a partire dall’equatore e dai tropici, dove i mari sono più riscaldati, e si incontrano con i venti che giungono, attraverso gli strati più alti dell’atmosfera terrestre, dai Poli e man mano che si riscaldano scendono.

Come ormai tutti ben sanno, l’utilizzo di combustibili fossili che producono CO2 ed altri gas serra, il taglio delle foreste e l’allargamento del buco dell’ozono stanno modificando il clima sulla Terra ed entro il 2050 è previsto un innalzamento delle temperature medie stagionali dai 2 ai 6°C. Tale surriscaldamento globale ha come effetto quello di alterare gli equilibri del pianeta che, dovendosi adattare alla nuova situazione in breve tempo, provocano modificazioni devastanti dal punto di vista umano. In realtà si tratta soltanto di modifiche che un organismo autoregolatore come la Terra (vedi teoria di Gaia di James Lovelock) ed in grado di autopoiesi (letteralmente, in grado di “farsi da se”) come affermato con chiarezza da Lynn Margulis, apportate al fine di raggiungere un nuovo equilibrio. L’errore che spesso si compie è quello di considerare gli elementi come parti separate e confinate. In passato molti errori sono stati fatti assoggettandosi alle definizioni meccanicistiche di Descart (italianizzato Cartesio) che vedeva gli esseri viventi come orologi, semplici macchine chiuse con ingranaggi. Da simili definizioni sono derivate le più astruse e abominevoli forme di sperimentazione scientifica come la vivisezione. Oggi tale apoptosi del pensiero sembra essere stata superata ma, si incorre ancora nel considerare in un livello di astrazione più assoluto, le parti componenti del sistema Terra come autonome. Mari, suoli, aria e calore rappresentano elementi imprescindibili e indivisibili di un corpo vivo, che si alimenta e si sostiene e mantiene in vita tutti le sue cellule. Noi esseri viventi, gli uomini, le scimmie e le farfalle, siamo le cellule del grande omone che è la Terra. Qualunque cosa facciamo alla terra, noi la facciamo a noi stessi. Se abusiamo con la produzione di CO2 espellendola dai nostri sistemi (le macchine) e diffondendola nel pianeta, noi intossichiamo l’intero organismo e prima o poi anche noi soccomberemo. Come le cellule degli esseri viventi possono secernere composti nocivi per l’organismo ed esso dunque si adatta a liberarsi velocemente di queste sostanze, così la Terra cerca di liberarsi dei gas serra che la minacciano, ma l’emissione delle sue cellule (cioè noi uomini) sono più veloci della sua eliminazione.

L’effetto serra è ormai sulla bocca di tutti, ma poche volte si fa chiarezza su questo fenomeno.

A causa della composizione chimica dell’atmosfera terrestre il nostro pianeta si trova rivestito di uno strato relativamente spesso di anidride carbonica. I raggi provenienti dal Sole sono fatti di raggi ultravioletti ed onde elettromagnetiche (quelle che riscaldano). Lo schermo di C02 respinge circa il 30% di radiazioni infrarosse emesse dal sole. La restante parte di energia che proviene dal sole, filtra dall’esterno verso il centro della terra e riscalda gli ecosistemi. Tale energia è fondamentale per la vita, basti pensare a che effetti avrebbe la sua assenza sulla fotosintesi delle piante verdi. Il problema è che con l’aumento dei livelli di CO2 causato dalle industrie, dalle automobili e dal fuoco in maggioranza, si è passati da 270 ppm (parti per milione è l’unità di misura della concentrazione dell’anidride carbonica nell’aria, corrispondente a 0,027%) dell’era preindustriale a circa 650 ppm del 2004 e nei prossimi vent’anni si toccherà quota 680. Tale incremento ha ispessito lo strato protettivo ed impedisce alle radiazioni infrarosse emesse dalla terra di ritornare verso lo spazio, riportandole sottoforma di calore sui continenti e negli oceani. La maggior parte dei climatologi concorda sul fatto che l’aumento della temperature degli oceani sino ai 27°C raggiunti quest’estate è la maggiore causa della formazione di uragani e tifoni, così come l’aumento delle tempeste tropicali.

Altro fattore che alimenta simili mutamenti climatici è la deforestazione. Il taglio indiscriminato delle foreste temperate e soprattutto di quelle tropicali, elimina di netto una grande fetta di organismi in grado di convertire la CO2 in O2 (ossigeno), di stabilizzare le falde freatiche e di trattenere le frane, oltre a creare l’ambiente ideale per mantenere integra un’intrecciata rete di catene alimentari.

In minima parte, a sconvolgere gli equilibri planetari, ci si mette anche il buco dell’ozono. Tale buco formatosi nello strato di ozono (O3) che riveste la stratosfera terrestre, è situato sopra il circolo polare antartico e si è ingrandito negli ultimi decenni a causa dell’utilizzo da parte dell’uomo di CFC ed altri gas contenuti soprattutto negli spray e nei frigoriferi, come il freon che permette il raggiungimento delle basse temperature. Tale assottigliamento dello strato di ozono comporta il passaggio diretto di quei pochi raggi solari rifratti che raggiungono il Polo sud causando lo scioglimento dei ghiacciai e, oltre ad un aumento del livello degli oceani (quantificato secondo una recente ricerca in 2 mm su tutta la superficie d’acqua mondiale), causa la dispersione di vapori freddi dai ghiacciai in scioglimento con la formazione di correnti con più basse temperature rispetto alle normali, che incontrandosi con quelle troppo calde causate dall’effetto serra, generano le catastrofi naturali.

Si stima che nei prossimi 50 anni, i cataclismi aumenteranno esponenzialmente se non si prendono azioni serie. La politica di molti governatori come Bush, che si ostinano a non considerare il problema del riscaldamento globale dovuto al consumo di petrolio, carbone e metano, rischia di mettere a repentaglio la vita sulla Terra. E per uno strano scherzo del destino, i primi ad accorgersene sono proprio gli americani. Solo che le vittime sono...poveri e neri.

Gli sbalzi repentini delle temperature stagionali sono il preludio di un clima che col tempo, se non si agisce in fretta, diventerà incontrollabile. Ma le nostre azioni potrebbero fermare l’avanzare dei fenomeni estremi? No, ma potrebbero rallentarli permettendo al pianeta ed alle forme di vita di adattarsi ai mutamenti. E’ sempre questo il problema. L’uomo si evolve più velocemente della Terra e come le cellule si evolvono più velocemente dell’organismo, la proliferazione incontrollata e l’escrezione di sostanze inquinanti provocano il cancro e in alcuni casi la morte. Bush non può più ignorare la ratifica al protocollo di Kyoto ed ogni Capo di Stato deve impegnarsi per cambiare politica energetica. Le fonti rinnovabili, l’interruzione della deforestazione ed un rapporto più armonico con le parti che compongono gli organi della dea Terra, potranno essere le uniche speranze di salvezza per evitare la morte di tutto il sistema.

Roberto Cazzolla


Elogio per gli affetti dalla sindrome N.I.M.B.U.

 

Hai stancato sindrome NIMBY, acronimo dell’inglese Not In My Back Yard “no nel mio giardino, vessillo d’oltranza per chi fa la morale, stucchevole pretesa per chi fa l’interesse. Il giardino, luogo sacro, quello di Voltaire s’intende, s’effige di rappresentare la speranza dell’esistenza e non la tracotante banalità di ogni contenzioso tra il Davide e Golia, il Pubblico e Privato. “Coltivalo”, ammoniva il mantra dei saggi lumi, illuminato, illuminista…ed allevierai d’incanto le sofferenze insite nella vita. E non fanne buco, fosso, tomba ove seppellire le tue speranze. Se t’affacci ora in Ucraina dell’Ovest, capisci perché nel tuo giardino non vorresti che transitino carrozze stracolme di verde liquame. T’accorgi d’incanto che schifezza s’avanza furiosa verso la tua casa. E scopri dopo giorni in cui il tuo caro, democratico, partecipato governo, che lo stesso bitume ha offerto in tazzina da thé al rivale pretendente al trono dello stato, un sorso memorabile, e forse l’invito era più ampio, ha negato il fatto come si nega l’esistenza del sole schermandolo con un ombrellone, che è fosforo radioattivo che tracima sul prato. E dov’è ora il giardino. Vallo a chiedere ai poveri ucraini perché i treni radioattivi proprio non ce li volevano nel proprio giardino.

Vallo a dire, adesso, ai giapponesi che il nucleare è la fonte energetica del futuro. Forse, visto che la più grande centrale nucleare al mondo è franata sotto i colpi della terra, riversando uranio in ogni acque, secondo Tokyo, il nucleare è la risorsa idrica del futuro. Ne bevi un po’ e risolvi i problemi di sovrappopolazione d’oriente.

Ma tanto assicurano, che se ciò che ficcano nel giardino è partecipato pubblicamente, se c’è l’occhio dello Stato, tutto fila. Chiedilo ora al governo di Kiev, c’è pericolo per la nube? Ma ché, solo un po’ di bruciore agli occhi.

Ecco allora che il giardino, secco come un arso divenire, segna il passo a quel mostro che è il dire e non il fare. Sembra quasi ci sian stati dei momenti in cui ognuno lo diceva: NIMBY, NIMBY, NIMBY…e che diavoleria è? Sarà una malattia. Ma se invece di pronunciarle, le parole le si adoperasse forse migliaia di persone adesso ci sarebbero, riconsegnate alla storia nonostante la voglia di cancellarle. Ora dunque, elogiamo la nascita di una nuova sindrome. Me ne faccio promotore, portavoce manifesto. E’ una rara malattia, cronica ed incurabile. Porta sintomi nefasti. Vede il bello universale, va a scuola nelle foreste, sente voci di animali. Non conosce civiltà, il civile non ha senso, è soltanto un compromesso per giustificare la follia. Nasce oggi un nuovo pensiero, trova sfogo nell’incanto, mangia pane e ammirazione, nel giardino universale. Non lo voglio a casa mia, ma nemmeno a casa tua ed allora come fare, troviamo un modo per farne a meno. Aderire non costa nulla, serve solo lo stupore, di vedere in una foglia il disegno di un artista. Ciò che è brutto non lo decide un essere a caso con il pollice opponibile, lo decide il mondo intero, l’universo, il tutto. Qui si parla di una nuova filosofia, di chi è stufo di vedere l’uomo brutto e l’uomo bello. Siamo parte della natura e non possiamo che esser belli. Ma ci imbruttiamo indegnamente quando vogliamo starne fuori. Oggi nasce il N.I.M.B.U., sta per “Not In My Beautiful Universe”. Perché se è brutto a casa mia lo sarà anche per la tua ed allora convinciamo chi per noi e chiamato a decidere, e strapagato, a cambiare direzione, scegliere il bello universale. Quando pensi che il bello è relativo, commetti un errore. E non perché non lo sia, ma perché ne esiste uno universale. Fonda il suo paradigma sul principio d’armonia. Vivi e lascia vivere, non vuol dire fatti gli affari tuoi, ma significa permetti a tutti l’esistenza. Se prevale la voracità stai pur certo che sta per nascere un frutto brutto. L’uomo è l’unico animale grasso. Trovate un leone obeso o una lucertola in sovrappeso. Loro esistono per vivere. Noi viviamo per esistere. Loro mangiano per vivere. Noi viviamo per mangiare. Sostenere il NIMBU è facile e possono farlo tutti. Non opponendosi a ciò che è brutto solo perché lo fai vicino casa, ma ostruendo l’obbrobrioso perché è ingordo e non sa esistere. Basta essere più semplici, viver dentro l’universo. Esser certi che il nostro posto non è unico, né speciale. E’ un posto e di certo non va disprezzato, ma dobbiamo permettergli di esistere degnamente, smettendo di creare mostri, per interessi di pochi e distruzione per tutti.

 

Roberto Cazzolla

 


     

L’Amazzonia sta finendo!

Prosegue la distruzione del polmone verde del pianeta Terra

Se si osserva con attenzione un mappamondo, si scopre che all’altezza dell’Equatore il nostro pianeta è cinto da una fascia verde e folta, che comprende il bacino del Congo, le giungle dell’Asia sud-orientale e il bacino del Rio delle Amazzoni. Quest’ultimo, che deve il suo nome alle mitiche guerriere, si estende per 6 milioni di chilometri quadrati (una superficie pari a 20 volte l’Italia) e racchiude in sé molte contraddizioni.

Da una parte, infatti, si può ammirare un ambiente forestale rimasto immutato per milioni di anni (si ritiene che la foresta pluviale sia l’ecosistema più antico e stabile del mondo), molto ricco di biodiversità, con una piovosità che può raggiungere i 6 metri annui, con zone ancora inesplorate e popolazioni native rimaste all’età della pietra; dall’altra si può osservare l’operato di uomini civilizzati, che si impegnano nella distruzione di questa terra con ogni mezzo possibile.

Si pensi che il diboscamento arriva a 20 mila chilometri quadrati all’anno (una superficie pari alla Campania) e viene praticato per ricavare terre coltivabili per sfamare masse di contadini privi di terra, per consentire il pascolo al bestiame che poi ritroviamo sulle nostre tavole (a tal fine sono stati creati anche recinzioni e villaggi fatti di lamiere), per scoprire luoghi adatti per trivellare la terra in cerca di petrolio, per saccheggiare i tronchi di legname pregiato (come il mogano) in favore di un fiorentissimo contrabbando. Quest’ultima attività viene svolta anche all’interno delle Riserve, come il Parco Nazionale Manu, dichiarato Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1977 e Patrimonio dell’Umanità.

Un altro mezzo di distruzione è il bracconaggio, che colpisce le specie più rare come il giaguaro, il tapiro, la lontra gigante, il coccodrillo nero, i pappagalli di diverse specie, i pecari (mammiferi simili a piccoli cinghiali), le scimmie urlatrici, minacciandone la sopravvivenza.

Lungo le rive dei fiumi gruppi di desperados difesi da tettoie di lamiere, pompano acqua e la riversano a pressione sulle sabbie e il limo dei greti (la parte ghiaiosa del letto del fiume) da cui, con sistemi di lavaggio, grigliatura e amalgama con il velenoso mercurio, ricavano pagliuzze d’oro per un guadagno di poche lire. Le acque di questi fiumi, rese torbide e velenose, sono prive di fauna selvatica, se si esclude qualche rarissimo uccello acquatico.

Tale scenario non lascia ben sperare sul futuro delle giungle dell’Amazzonia e del mondo.

Perché accade tutto questo? Sicuramente uno dei fattori che va considerato è l’aumento della popolazione che si è verificato in queste zone. Si pensi che in Brasile la popolazione è passata dai 92 milioni di abitanti nel 1970 ai 175 milioni attuali. Contemporaneamente un sesto della selva amazzonica è scomparso.

Molte persone hanno lottato coraggiosamente per difendere questo territorio, alcune hanno sacrificato la loro stessa vita, come Chico Mendes, il sindacalista brasiliano difensore di coloro che dalla giungla ricavano, senza distruggerla, “castagne” e caucciù, ucciso nel 1988 dai latifondisti. Si ricordi anche l’eroica difesa del loro habitat da parte delle tribù indie, come gli Yanomami.

Una notizia positiva c’è: il ministro dell’Ambiente brasiliano, l’ecologista Marina Silva, afferma che il tasso di deforestazione si sta stabilizzando, pur ritenendolo ancora intollerabile.

Quale sarà il futuro di questa foresta così preziosa e così devastata? Gli esseri umani saranno capaci di rispettare la Terra che li ospita? Riusciranno un giorno a comportarsi come suoi figli e non come suoi padroni?

Gli ultimi nativi amazzoni, persone non “civilizzate”, ricordano a tutti che “gli alberi reggono la volta celeste e, se li si elimina, questa ci cadrà addosso”. Pensiamoci.

 

Eliana Paradiso


 

     

Peperoncino rosso vergogna

Il Colorante Sudan I rende la spezia cancerogena

In data 20 Giugno 2003 la Commissione Europea si riuni’ per deliberare una misura di emergenza relativa al peperoncino rosso ed ai suoi derivati .Questa misura di emergenza si rese necessaria poiche’, un mese prima in Francia,alcuni laboratori avevano riscontrato in partite di peperoncino di provenienza indiana delle dosi elevate di un colorante denominato rosso Sudan di tipo 1. I livelli accertati erano di 1000-4000 mg/kg:numeri spaventosi se consideriamo che tale sostanza di sintesi ha proprieta’ cancerogene(e’ infatti classificata come tale) ed e’ genotossico .Questo colorante, che ha funzione puramente estetica, puo’, con assunzioni ripetute e continuative,causare alterazioni cromosomiche di numero,di struttura e tutte queste problematiche genetiche possono essere asintomatiche nel portatore divenendo pero’ patologiche nella progenie. Insomma, un banale colorante,uno dei tanti e molteplici additivi chimici che accompagnano gran parte degli alimenti oggi in commercio, puo’ essere veramente pericoloso.Tutto questo ovviamente, miei cari consumatori, fa gia’ parte di un passato astutamente taciuto dalle case produttrici: il polverone e’ stato sollevato nel giugno del 2003 in Provincia di Torino, dove grazie alle attente analisi dell’ARPA Regionale, si sono riscontrate tracce di questo additivo in numerosi prodotti di produzione nazionale. La tipologia degli alimenti riscontrati positivi al Sudan 1 e’ molto eterogenea e comprende miscele di spezie, condimenti come paprica e pepe,sughi piccanti, salami, pesti rossi e pasta piccante. Il problema in realta’ non si trova nel prodotto finale, bensi’ in uno dei suo componenti presi singolarmente:non e’ il peperoncino in se’ a detenere proprieta’ di fattore di rischio, ma il colorante rosso Sudan 1 che vi viene appunto aggiunto. Questo tipo di spezia “addizionata” ha come esportatore la Patos export CO (con sede in India) ed e’ stata venduta in tutta la Comunita’ Europea e nel resto del mondo;e’ stata poi lavorata dagli importatori,addizionata negli alimenti,riposta sugli scaffali della grande distribuzione,acquistata da una persona ignara del fatto e servita sulle nostre tavole. Continuo ad usare il passato poiche’,come gia’ detto prima, la situazione critica e’ stata apparentemente superata,almeno in Italia:con la comunicazione della Gazzetta Ufficiale Dell’UE si comunicava che “e’ impossibile stabilire una dose giornaliera tollerabile” ed al fine di tutelare la salute pubblica si ordinava un’immediata ispezione delle partite provenienti dall’India e dun ritiro dei lotti positivi.

Gli ultimi lotti con scadenza 2004 ed inizio 2005 sembrano essere stati totalmente sequestrati e distrutti, ma nessuno ci puo’ dare garanzia di come questo sia avvenuto in modo tempestivo, ugualmente in tutte le regioni e dal supermercato piu’ grande al negozietto di provincia.

Come ovvio, la tutela delle persone fisiche e’ stata soverchiata dalla tutela delle persone giuridiche, ovvero le grandi compagnie coinvolte nella commercializzazione (bandita dal 1919) di questo additivo: nomi come Kraft, Star, Cirio, Del Monte, Barilla, Arena non hanno avvertito la loro clientela dello “spiacevole inconveniente” e, ad oggi, molte persone non avevano cognizione del fatto accaduto. Ringraziamo solo la catena di supermercati Conad che ha avvisato i propri clienti dei ritiri in atto, comunicando nomi e marchi sul suo sito Web. Il Procuratore aggiunto Guariniello ha indagato attivamente sulla questione, sollevando l’ipotesi di reato di somministrazione di sostanze alimentari pericolose per la salute pubblica: come in tutte le questioni ambientali o riguardanti la salute, si tenta inutilmente di rendere responsabili delle aziende, quando in realta’ chi paghera’ il prezzo sara’ forse qualcun’ altro, piu’ sensibile a certi agenti ed ignaro di farsi del male con un banale sugo.

Certo, non allarmiamoci in modo esasperato: il mio invito e’ sempre quello di avere piu’ cognizione nell’acquisto e di potenziare il valore delle nostre scelte, intese non solo come boicottaggio alle grandi corporazioni ma, soprattutto, come ritorno alla naturalita’.

Elisa Biondi


 

   

 

 

Ecco chi sono i finanziatori delle guerre

I Governi europei sono i più coinvolti nel traffico d’armi

Che l’Italia esporti armi, non è certo una novità, sorprende invece sapere che molto spesso il commercio “legale” avviene eludendo normative italiane ed europee a riguardo. Qualche esempio? La legge 222/92 per altro inglobata anche in una direttiva dell’UE, prevede la regolamentazione e il controllo delle esportazioni dei prodotti a elevata tecnologia, per evitare che questi vengano impiegati per usi militari, anziché civili; bene, è noto che negli anni scorsi l’Italia ha fornito all’aviazione civile sudanese attrezzature radar di sorveglianza e controllo del traffico aereo, indirizzate presso aeroporti internazionali in piena zona di conflitto e che quindi gestivano prevalentemente un traffico militare. Caso analogo, quello delle Siria cui l’Italia ha fornito, già a partire dal 1998, ben 102 kit di sofisticati sistemi di puntamento e controllo del tiro, anche notturno, destinati ai carri armati dell’esercito siriano. Durante la fase clou del conflitto in Iraq, Rumsvelt, aveva accusato la Siria, che sembra ora essere nel mirino di Bush, di aver esportato clandestinamente in Iraq proprio dei visori notturni (non saranno mica quelli made in Italy?). Ma, il governo italiano, sembra non si preoccupi molto dell’eventuale doppio uso che tali armamenti potrebbero avere e sembra, inoltre, che armi italiane finiscano anche in Paesi africani, alcune mediante triangolazioni commerciali che vedono il passaggio intermedio di armi italiane attraverso Paesi come Repubblica Ceca, Romania, Polonia, Bulgaria e Turchia, Paesi questi dove i controlli e la regolamentazione circa il commercio delle armi risultano ancora lacunosi, tant’è che nel 2002 questi Paesi figuravano come i principali esportatori illegali di armi. Le vendite dirette, invece, ai Paesi africani vedono fra i principali clienti italiani, Egitto, Nigeria, Tunisia, Marocco, Kenya, Sudafrica, Ghana, Algeria ed infine Zambia. Verso quest’ultima vi è un record di esportazioni di armi per un valore di 24 milioni e 600 mila euro, cifra questa per altro assai relativa se si considera che l’Istat non riporta tutti i dati relativi all’export delle armi, ma solo alcuni, vale a dire quelli non riservati, quelli di industrie ufficialmente note come produttrici di armi e non quelli relativi a sistemi a doppio uso, cioè quelli che potrebbero essere utilizzati sia per scopi civili che militari (come quelli esportati in Sudan, per intenderci). Ma, il mercato italiano delle armi punta soprattutto sui paesi del Medio Oriente, dall’Arabia Saudita al Kuwait e alla Siria e, inoltre, prima della guerra in Afghanistan i migliori affari dell’industria bellica occidentale, non solo italiana, sono stati conclusi proprio con il regime dei talebani con la benevola approvazione degli Stati Uniti. Armi italiane arrivano, inoltre, anche in Cina e Malaysia e inaspettatamente anche negli USA, che solo nei primi mesi del 2001 avevano importato un quantitativo di armi pari a 98 miliardi e mezzo di euro e che costituiscono il nostro principale cliente in fatto di armi leggere, cioè quelle utilizzate per sparare all’impazzata nelle scuole, negli autogrill e per le strade.

Ivana Guagnano


     

Ferrari: lo scandalo dei pneumatici Firestone-Bridgestone che violano i diritti umani

Quasi un anno fa, nel giugno ‘05, il mensile Nigrizia, pubblicava un editoriale dal titolo “Pneumatici con catene”, in cui si denunciavano pesanti violazioni di diritti umani a danno dei dipendenti della multinazionale nippo-americana Firestone-Bridgestone, produttrice di pneumatici e nota soprattutto per la sua collaborazione con la Ferrari. Da allora, nonostante il polverone sollevato dal succitato articolo, sembra che la situazione non sia cambiata per gli oltre 20000 lavoratori dipendenti dell’azienda. A confermarlo il fatto che lo scorso febbraio gli operai si sono riversati per le strade di Harbel City, in Liberia, dove il gruppo detiene la più grande piantagione di caucciù, per manifestare contro la multinazionale, rivendicare i propri diritti e denunciare ancora una volta il modus operandi dell’azienda, che, dichiarazioni di facciata a parte,nella sostanza non accenna a cambiare.Quel che è peggio tuttavia, è che le condizioni di lavoro e di vita nella piantagione di Harbel City, sono rimaste grossomodo immutate dal lontano 1926, anno in cui Harvey Firestone chiese e ottenne in concessione al governo della Liberia, 240 miglia quadrate di piantagione di caucciù, con l’obiettivo di rendere gli USA indipendenti dalle importazioni di gomma provenienti da Gran Bretagna e Olanda. Da allora la Liberia risulta essere il terzo più grande produttore al mondo di caucciù, eppure nessuno stabilimento per la lavorazione della gomma è stato impiantato in territorio liberiano e il Paese non produce un solo oggetto di gomma. Oggi come allora gli operai vivono all’interno della piantagione in costruzioni fatiscenti, assegnate loro dall’azienda, costituite da una sola stanza nella quale dimorano assieme alla propria famiglia, senza servizi igienici, acqua ed elettricità. Costretti a lavorare 12 ore al giorno, dalle 4 del mattino alle 16, percepiscono uno stipendio giornaliero di poco superiore ai 3 dollari, che si dimezza allorquando il lavoratore non raggiunga l’inumana quota di 1125 alberi al giorno assegnatagli e da cui vengono peraltro detratte le spese a sostegno di un sindacato fantoccio alla mercé dell’azienda. Risultato: circa 20 dollari netti al mese, in un contesto in cui ribellarsi equivale a morire di fame assieme alla propria famiglia. Il compito dei lavoratori è quello di estrarre il lattice dagli alberi produttori di caucciù. Prima incidono la corteccia, poi vi applicano contenitori di raccolta che successivamente svuotano e ripuliscono. Un lavoratore riesce a incidere in media un totale di 850 alberi al giorno, ben al di sotto della quota giornaliera fissata dall’azienda, il che li porta molto spesso a richiedere l’aiuto della propria famiglia, compresi bambini piccolissimi, pur di non vedersi dimezzare il già misero stipendio. Responsabili e dirigenti della Firestone-Bridgestone sono perfettamente a conoscenza delle dinamiche che portano all’impiego dei minori nelle loro piantagioni, ma nonostante ciò non solo non fanno nulla per contrastare il fenomeno,ma al contrario lo incoraggiano. Significativo in proposito il fatto che all’interno della piantagione sono presenti 10 scuole elementari, 4medie e nemmeno una scuola superiore, cosicché nella maggior parte dei casi i figli degli operai, terminate le medie, restano a lavorare nella piantagione non potendosi permettere di recarsi a studiare fuori. Non a caso uno dei principali capi d’accusa presenti nella denuncia presentata lo scorso novembre contro la multinazionale dal sindacato americano IRLF, è proprio lo sfruttamento del lavoro minorile. Come se non bastasse, a tutto ciò si aggiunge il fatto che i dipendenti, adulti e bambini, sono quotidianamente a stretto contatto con sostanze chimiche, quali pesticidi, fungicidi o stimolanti applicati agli alberi per indurli a produrre quanto più lattice possibile, violentando oltre modo la natura. Gli effetti immediati o quanto meno più evidenti derivanti dall’utilizzo di tali sostanze, senza la benché minima protezione, sono una grave compromissione della vista e in non pochi casi la cecità. Al quadro di degrado, miseria e disperazione appena delineato,fa da sfondo invece la lussuosissima Harbel Hills, la zona ricca della città, dove dimorano i dirigenti della multinazionale, in abitazioni assegnategli dalla stessa azienda,dotate di ogni comfort, dalle parabole ai campi da golf e da tennis e dove sono ubicate le scuole frequentate dai figli dei responsabili, ben diverse ovviamente da quelle dei figli degli operai, sprovviste praticamente di tutto. Eppure lo scandaloso risvolto di questo mondo di plastica, composto da prati curati, piscine e centri congressi non è fatto solo di dignità umane denigrate e svilite,di infanzia violentata e sfruttata,di linee di demarcazione tracciate fra esseri assolutamente uguali accomunati dalla loro natura umana, ma come sempre più spesso accade a tutto ciò si associa anche uno spaventoso degrado ambientale. I responsabili dell’associazione ambientalista “Save my Future”in un rapporto dal titolo “Firestone: il marchio della schiavitù”, denunciano la scandalosa politica ambientale portata avanti dalla multinazionale. James Makor, direttore esecutivo dell’associazione, parla di scarti di fabbrica sistematicamente scaricati nel fiume Farmington, nel quale dalle analisi eseguite sono stati rinvenuti diversi tipi di sostanze tossiche tra cui ammoniaca, acido solforico e formaldeide in grande quantità. All’inquinamento delle acque e del suolo si aggiunge poi quello dell’aria, causato dall’incessante emissione nell’atmosfera di fumi tossici provenienti dallo stabilimento. Eppure nonostante tutto questo il governo liberiano non ha esitato a rinnovare il contratto di gestione della piantagione in favore della multinazionale, fino al 2061. Quanto alla Ferrari invece, considerata uno dei principali clienti del gruppo, ha eluso tutto le domande che il mensile Nigrizia chiamandola in causa, le aveva posto, come ad esempio se fosse a conoscenza delle condizioni nelle quali cui vessano gli operai del gruppo loro fornitore, della politica ambientale portata avanti dalla medesima azienda e che garanzie gli venissero fornite in proposito dal proprio partner. A tali interrogativi i vertici della casa modenese si sono limitati a rispondere di essere “…orgogliosi della partnership con la Bridgetone”. Parole queste che lasciano sconcertati o se non altro dubbiosi circa la credibilità di alcuni vertici della casa di Maranello, perlomeno quando parlano di “ eticità del lavoro”.

Ivana Guagnano


 

     

I veri portatori di pace

Niente bagni di folla o personaggi illustri ai loro funerali, niente pellegrinaggi alle loro tombe, niente telecamere e poche, pochissime righe sui giornali. Di loro, capita di leggere fra le ultime pagine dei quotidiano o forse, su giornali che si occupano nello specifico di tematiche sociali. Il circo mediatico ha ben altro di cui occuparsi! Fra un papa morto e uno eletto, fra il Grande Fratello e la Fattoria, poco spazio rimane per persone come loro, per chi non si è accontentato di inviare un SMS e lavarsi la coscienza dinanzi alla tragedia di turno, o meglio la più mediatica, quella che fa più audiance, quella dietro la quale se ne nascondono ogni giorno altre mille, quelle per cui i telegiornali non hanno spazio perché, per esempio, Schumacher ha già acceso il motore della sua Ferrari, o perché qualche calciatore ultra miliardario ha dichiarato di drogarsi. Morti per sbaglio perché avevano deciso di vivere in luoghi insicuri, pericolosi o uccisi perché scomodi come spesso capita di essere a chi corre controcorrente e a chi dice la verità. Ma d’altronde a chi volete che interessi di Marla Ruzicka che a soli 28 anni aveva già curato gli ammalati di AIDS in Zimbawe, i rifugiati in Palestina, i campesinos in Nicaragua, che nel 2002 era in Afghanistan e fino allo scorso 16 aprile, quando un’autobomba se l’è portata via era in Iraq. Qui era arrivata subito dopo la caduta di Saddam e qui come in Afghanistan si era data un compito preciso: contare quelli che gli americani, senza andare troppo per il sottile, chiamano “danni collaterali”, quei danni che a volte hanno un nome, un cognome e che quando non rimangono inerti al suolo, se ne tornano a casa (se ancora ne hanno una) mutilati a vita. Marla, cha aveva anche fondato una sua Ong, Civic (Campagna per le vittime innocenti dei conflitti) se ne andava in giro a contare i civili iracheni uccisi durante i conflitti, quei civili che gli americani avevano detto a chiare lettere di non voler contare, casa per casa, obitorio per obitorio. Inoltre, si era battuta, ed era riuscita ad ottenere che il parlamento USA stanziasse, 2,5 milioni di dollari per le vittime di guerra afghane e ben 20 milioni per quelle provocate dall’operazione “Iraqi freedom”. Ma Marla è solo una delle ultime vittime di una lista lunghissima, interminabile, la lista di chi ha deciso di mettere la propria vita e il proprio entusiasmo a disposizione degli altri. Qualche altro esempio? Maria Bonino, pediatra, 51 anni da 10 in Africa, è morta qualche giorno fa per aver contratto il virus Marburg, che in Angola, dove operava, sta facendo strage soprattutto di bambini. Il virus si contrae attraverso i fluidi delle persone infette e dove operava Maria mancano guanti, mascherine, tute di protezione e farmaci, eppure quando sono arrivati da lei quei bambini che perdevano sangue e vomitavano, pur consapevole del rischio che correva, non si è tirata indietro e li ha curati.

E ancora: tre volontarie uccise in Afghanistan lo scorso 3 maggio. Le fonti non riportano nemmeno il loro nome. Si tratterebbe di una madre e delle sue due figlie. Afghane, avevano deciso di sfidare la cultura del loro Paese e lavoravano per una ONG straniera, i loro corpi sono stati ritrovati in una discarica, dove prima di esservi gettate, sarebbero state violentate e uccise a bastonate e a colpi di pietra. Sempre in Afghanistan, lo scorso anno furono uccisi a colpi di arma da fuoco 5 volontari appartenenti alla sezione tedesca di Medici Senza Frontiere, mentre tornavano dalla clinica di un villaggio. Poco meno di due righe, invece, per Maryan Kuusow operatrice umanitaria somala, uccisa da sicari lo scorso 18 aprile. Già, solo due righe, eppure la Kuusow sembra essere stata fortunata, perché invece nel più assoluto silenzio mediatico, sono saltati in aria su una mina nel deserto del Darfur, 3 volontari dell’associazione Save the Children.

Non si tratta solo di operatori umanitari, moltissimi sono i giornalisti uccisi in zone come l’Iraq dall’inizio del conflitto, fra quali figura anche l’italiano Enzo Baldoni. A Gaza, invece, il 3 Maggio 2003 il giornalista James Miller (foto a sinistra) è stato colpito a morte da alcuni soldati israeliani mentre filmava alcuni bambini per la realizzazione di un documentario sulla demolizione di case palestinesi in un campo profughi. Ovviamente i casi citati sono solo alcuni, volutamente meno noti, fra centinaia di casi analoghi. Medici, come Carlo Urbani (foto a destra) ucciso dalla Sars che per primo aveva individuato e alla quale cercava una cura, missionari, giornalisti, semplici volontari...persone che hanno deciso di lasciare i loro comodi uffici, il loro lavoro sicuro, le loro case, le loro famiglie, le loro ricchezze e comodità, e si sono lanciate in realtà fatte di guerra, violenze, malattie, diritti violati, catastrofi naturali e hanno scelto di dedicare la loro vita agli altri fino alla fine, fino alla morte, perché questo era ed è il loro sogno, veramente per un ideale. Eppure i loro nomi non li conosce nessuno, niente bandiere (per fortuna), niente medaglie e funerali di Stato per loro, se ne vanno nel più assoluto silenzio, così come hanno operato e a piangere per loro sono solo le famiglie e le persone per cui hanno dato la vita. La volontà di dedicare loro un articolo nasce dal desiderio, non di donargli quella celebrità momentanea che i media non gli concedono, ma dalla speranza che le loro storie, le loro vite possano diventare esempi e modelli da seguire. E tenendo presente questi uomini e queste donne, il loro operato, la loro passione, entusiasmo, il loro coraggio e la loro vita, si possa rivedere quell’idea di “eroe” e “portatore di pace” che oggi troppo spesso viene accostata non a loro, ma paradossalmente a chi muore impugnando un arma.

Ivana Guagnano


 

     

Spariscono 30 chili di rifiuti radioattivi

E’ di qualche giorno fa la notizia che a Sellafield (Gran Bretagna) manca all’appello un quantitativo di plutonio sufficiente per la costruzione di 7 ordigni nucleari. La cittadina britannica, che ospita un impianto di riprocessamento di combustibile nucleare, purtroppo non è nuova a questo genere di sparizioni, già nel 2003

erano scomparsi 19 chili di plutonio, per un totale di 50 chili negli ultimi 10 anni. Lo scopo ufficiale di strutture come quelle di Sellafield è quello di estrarre plutonio e uranio dai rifiuti degli impianti nucleari, per poi poterli riutilizzare, nel caso si tratti di combustibile irraggiato (cioè, ancora potenzialmente efficiente) per uso “civile”. Ora, se si considera che attualmente nel mondo solo 4 Paesi stanno costruendo nuove centrali nucleari (India, Ucraina, Cina e Russia) che gli Stati Uniti non costruiscono un reattore dal ‘79; che in Europa, 5 degli 8 Paesi nuclearizzati hanno da tempo deciso la moratoria, che l’Italia ha chiuso la sua stagione nucleare (speriamo definitivamente) col referendum dell’87; che Danimarca, Portogallo, Grecia, Austria, Irlanda e Lussemburgo non hanno programmi nucleari e infine che, l’unico Paese dell’UE che ha deciso di costruire un nuovo reattore è la Finlandia, viene da chiedersi: è davvero necessario il riprocessamento del combustibile nucleare o meglio, lo è davvero per scopi civili?

L’alternativa meno pericolosa al riprocessamento è quella dello “stoccaggio a secco” di questo tipo di rifiuti, che consiste nell’isolarli in appositi contenitori (cask) nell’attesa dell’individuazione di un sito per lo smaltimento finale e definitivo (come quello esistente negli Stati Uniti, finora unico al mondo). Lo stoccaggio a secco, non è sicuramente la soluzione al problema, ma è indubbiamente meno pericoloso, perché le operazioni di trattamento dei rifiuti nucleari producono un’enorme contaminazione ambientale, nonché rischi sanitari non solo per i lavoratori che ne so no a diretto contatto, ma anche per i siti abitati, circostanti gli impianti. Inoltre, lo stoccaggio a secco avverrebbe in loco, vale a dire, direttamente negli impianti che producono o hanno prodotto in passato i rifiuti e questo vorrebbe dire che le scorie non dovrebbero percorrere chilometri e chilometri per raggiungere gli impianti di riprocessamento che, in Europa, sono solo due (Sellafield appunto e La Haugue in Francia), evitando quindi anche il rischio di incidenti, nonché eventuali sparizioni durante i trasporti. Il Governo italiano sembrava aver optato per questa alternativa, ma a cambiare le carte in tavola è stato il decreto Marzano, del dicembre 2004, che consente lo smaltimento dei rifiuti fuori dal confine nazionale. Ed è dunque, proprio grazie a tale decreto che 235 tonnellate di rifiuti speciali provenienti dagli impianti nucleari di Trino Vercellese, Saluggia e Caorso verranno inviati proprio a Sellafield (che tra l’altro già ospita plutonio e uranio provenienti dalle centrali italiane di Latina e Garigliano). L’operazione che potrebbe essere già conclusa entro il 2007, dovrebbe prevedere circa 70-80 trasporti eccezionali di combustibile irraggiato, sulle cui misure cautelative da adottare in fatto di informazione della cittadinanza, nonché di tutela di quest’ultima e dell’ambiente, non si conosce ancora nulla. Ma non è finita qui, sembra infatti che i rifiuti si vorrebbe cederli definitivamente ai britannici al contrario di quanto sostiene la legge, che prevede invece che questi debbano rientrare nel Paese d’origine entro e non oltre 20 anni dall’esportazione. Ma è giusto che al momento un altro popolo si faccia carico dei danni sanitari e ambientali che i rifiuti provenienti dalla stagione nucleare

italiana provocheranno? Non tutti sono a conoscenza, infatti, dell’elevata incidenza di leucemie e tumori infantili esistente nei Paesi prossimi all’impianto di Sellafield, incidenza, che supera di 14 volte la media nazionale; che l’intera regione del West Cumbria, tra l’altro una delle più povere del Regno Unito (il 25% della popolazione ha un reddito al di sotto della soglia di povertà) è stata dichiarata zona ad alto rischio sanitario, per l’elevato tasso di tumori soprattutto della pelle e di malattie cardiocircolatorie, per non parlare poi degli ingenti quantitativi di plutonio riscontrati mediante analisi post-morte nei lavoratori e negli abitanti delle zone circostanti. E questo solo per citare alcuni dati. Ovviamente, la BNFL, la società che gestisce l’impianto, ha sempre negato responsabilità dirette e ha solo concesso, sotto pressione dei sindacati, una ricompensa finanziaria solo per quei lavoratori che dovessero contrarre un tumore, nessun compenso, né garanzia invece, per gli abitanti delle zone circostanti. In realtà il provvedimento adottato dal Governo italiano altro non è che un escamotage temporaneo, per una soluzione definitiva al problema che non si ha la reale volontà di cercare, scaricando pertanto la responsabilità di farlo non solo su un altro popolo a breve termine, ma anche su un’altra generazione. A dimostrazione di questo, vi è il fatto che l’unico scopo degli impianti di riprocessamento è come già detto quello di rendere riutilizzabile nelle centrali nucleari uranio e plutonio, centrali nucleari che in Italia sono ormai inattive da anni.

L’Italia ha alle spalle una lunga storia di cattiva gestione dei rifiuti. Già nel ‘97 Greenpeace aveva denunciato l’esistenza di un mercato clandestino italiano che prevedeva lo smaltimento di rifiuti radioattivi e non in Italia e in Paesi poveri dove tale operazione può avvenire a costi irrisori rispetto ad uno smaltimento legale.

Ivana Guagnano


     

Ruanda 1994: “E VOI? MUTI.”

 

Il 7 aprile di undici anni fa in Ruanda, tra l’indifferenza generale, è iniziato e si è perpetrato fino al giugno dello stesso anno uno dei più efferati crimini della storia dell’uomo: un genocidio che ha causato la morte di circa 800 000 persone. In occasione dell’undicesimo anniversario del genocidio ruandese, si vuole dedicare questo articolo a tutti coloro che non sono sopravvissuti ai massacri e si vuole anche cogliere l’occasione per ricordare ciò che è accaduto, perché “ricordare vuol dire non morire” (Kriton Athanasulis, “Testamento”).

Nella zona dell’attuale Ruanda hanno convissuto pacificamente per secoli tre diversi gruppi etnici: i Tutsi, gli Hutu e i Twa (o Batwa). Verso la fine del 1800, nel periodo coloniale, il Ruanda ha visto succedersi l’occupazione tedesca e quella belga. Dopo la seconda guerra mondiale, l’area è diventata protettorato delle Nazioni Unite, rappresentata da un re Tutsi sotto il governo del Belgio, che ha così controllato il paese iniziando la prima vera discriminazione razziale nei confronti degli Hutu (in maggioranza) ed a favore dei Tutsi (circa un decimo dei connazionali), soprattutto riguardo ai diritti di impiego nel settore pubblico.

Col tempo gli Hutu hanno avvertito il bisogno di far sentire la loro voce ed il loro peso demografico, formando raggruppamenti politici e costringendo il re ed altri Tutsi ad emigrare in Uganda (1959).

Nel 1961 il Ruanda è proclamato repubblica e nel 1962 ottiene l’indipendenza, mettendo a capo un presidente Hutu. Il paese attraversa un trentennio di violenze inter-etniche, molti Tutsi emigrano, gruppi di Hutu precedentemente emigrati per la situazione sfavorevole creata dal Belgio, ritornano in patria, colpi di Stato mutano i vertici governativi. Intanto, nei paesi vicini (Zaire, Uganda, Burundi), si organizzano gruppi militari (il più importante è il RPF, Rwandan Patriotic Front), pronti ad entrare in azione.

Tutto questo sotto gli occhi della comunità internazionale.

All’inizio degli anni ’90, le truppe del RPF invadono il Ruanda, aumentando la tensione tra le due etnie e istigando all’odio razziale, che viene fomentato attraverso le trasmissioni radio da parte di cronisti Hutu. I Tutsi, soprannominati “blatte”, sono considerati nemici che occorre sterminare. Per sopravvivere, indica la propaganda ufficiale, gli Hutu devono uccidere tutti i Tutsi. Qualche voce si è sforzata di fa, opporsi a questo delitto di genocidio. Invano. In questa situazione di tensione, il minimo pretesto avrebbe potuto far scatenare il conflitto. Il 6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggiava il presidente Hutu viene colpito e abbattuto: il 7 aprile inizia il genocidio dei Tutsi, accusati dalla maggioranza Hutu di responsabilità sul fatto.

Circa 800 000 Tutsi sono stati sterminati a colpi di machete o con armi da fuoco in poco più di tre mesi, senza distinzione tra uomini, donne e bambini, coinvolgendo spesso tra le vittime molti Hutu moderati o legati da vincoli familiari a persone di etnia Tutsi.

La comunità internazionale evita discussioni e interventi nella zona, inviando un piccolo contingente di pace delle Nazioni Unite, che con il passare del tempo viene anche ridotto (da 2400 a circa 500 uomini), nonostante le ripetute richieste d’aiuto.

Le colpe principali ricadono sugli Stati Uniti, in quanto posero il veto sui finanziamenti in favore dei contingenti di pace (si ricordi che nel 1994 Bill Clinton, pur di evitare l’impegno Usa in Ruanda, chiese al dipartimento di Stato di “fare acrobazie legali per evitare di parlare di genocidio”), sulla Francia, perché appoggiò il governo provvisorio formato da estremisti Hutu, sul Belgio, paese colonizzatore, che ritirò tutti i suoi connazionali dal Ruanda dopo le prime schermaglie in cui dieci persone di nazionalità belga persero la vita, e infine sulle Nazioni Unite, perché mostrarono sempre ottimismo su ciò che accadeva in Ruanda.

Va anche sottolineato il favorevole disinteresse dell’opinione pubblica e dei media, che non hanno mai rivolto particolare attenzione alla tragedia. Il conflitto volge ormai al termine quando le fonti di informazione affrontano la questione ruandese, costringendo l’opinione pubblica e, indirettamente, le istituzioni coinvolte, ad operare per evitare il protrarsi di altri massacri.

A giugno il RPF pone fine ai massacri, sebbene con altrettanta violenza: il governo provvisorio viene sciolto e il RPF, con a capo Paul Kagame, ottiene il controllo del Ruanda. Oltre 2 000 000 di Hutu, sentendosi minacciati, fuggono nei paesi limitrofi, in particolare nello Zaire. Qui gli estremisti Hutu si organizzano per ritornare in Ruanda a combattere contro i Tutsi. Intanto l’ONU istituisce il Tribunale Internazionale per i Crimini in Ruanda (ICTR, 1995), nel quale vengono processati numerosi Hutu con l’accusa di crimini contro l’umanità.

Nella zona del Kivu, al confine tra Zaire e Ruanda, continuano le schermaglie tra Hutu e Tutsi fino al 1996, quando i Tutsi invadono lo Zaire per riportare i rifugiati Tutsi in Ruanda e continuare a combattere sia contro gli Hutu sia contro il governo dello Zaire (governo Mobutu), che li appoggia. Nel 1997 il presidente Mobutu viene deposto e al suo posto sale il presidente Kabila: lo Zaire diventa Repubblica Democratica del Congo. In questo conflitto perdono la vita circa 3 000 000 di congolesi. La guerra termina formalmente nel 2002, quando il Ruanda decide di ritirare le sue truppe dal Rd Congo a patto di vedersi consegnare i profughi Hutu disarmati.

Il periodo post-bellico vede il Ruanda in preda ad una crisi politica, economica e sociale. Subito dopo i “cento giorni”, oltre 50 000 Hutu sono stati accusati di genocidio o di partecipazione ai crimini e sono stati incarcerati, spesso senza regolare processo e sulla base di semplici testimonianze non comprovate. Le condizioni nelle carceri sono drammatiche e i diritti umani (come denunciano Human Right Watch ed Amnesty International) sono oltremodo ignorati, in quanto spesso i detenuti sono costretti a vivere e dormire anche in sei in celle di due metri quadrati. I Tutsi, al governo con Paul Kagame (riconfermato con elezione popolare nel 2003, la prima dopo il genocidio), accusano l’ICTR di lentezza e soprattutto di corruzione. Per risolvere questa situazione, si decide di decentralizzare i procedimenti giudiziari, ripristinando i tradizionali tribunali “gacaca”, termine della lingua ruandese che descrive il campo erboso su cui si radunano le comunità e che indica appunto i tribunali i cui giudici sono spesso gli anziani o “persone di impeccabile integrità” elette dal villaggio. Circa 50 000 dei processi più importanti, quelli che riguardano i pianificatori e i leader del genocidio, sono gestiti dai tribunali penali convenzionali. La vasta maggioranza dei crimini e dei delitti (omicidi, violenze, aggressioni, torture e sciacallaggi), però, sono esaminati da tribunali “gacaca”. Si stima che negli anni a venire circa 11 000 tribunali “gacaca” si troveranno ad esaminare

e giudicare 1 000 000 di casi, ovvero un ottavo della popolazione ruandese. In questi tribunali i presunti colpevoli vengono giudicati sulla base di testimonianze oculari dei parenti delle vittime del genocidio. I procedimenti sono però nebbiosi e sicuramente il problema principale è quello di verificare l’attendibilità delle confessioni.

Questa breve analisi della storia ruandese invita a qualche riflessione. Sicuramente si rimane colpiti nell’osservare come una convivenza pacifica di circa sei secoli tra due etnie si sia tramutata in odio razziale nel giro di pochi anni a partire dall’intervento dei paesi occidentali, diventando poi intolleranza razziale, fino al compimento di un genocidio.

Sebbene allo stato attuale la convivenza sia (formalmente) pacifica, non si possono purtroppo escludere nuove esplosioni di violenza, come si deduce anche dai rapporti di Human Right Watch ed Amnesty International sul Ruanda. Gli attuali ruandesi, dopo aver affrontato un periodo di guerra, hanno come obiettivo la pace e la tranquillità, ma quale sarà l’obiettivo dei loro figli e dei futuri ruandesi?

Si rifletta anche sul fatto che, come sessant’anni gli Hutu sono nuovamente costretti al silenzio, visto che i Tutsi sono al governo con Paul Kagame e che l’unico partito esistente in Ruanda (RPF) è composto esclusivamente da ruandesi Tutsi, e ciò potrebbe portare a nuovi risentimenti etnici. Infine, va ricordato il disinteresse della comunità internazionale che, probabilmente per la scarsa remunerabilità del territorio ruandese, ha preferito abbandonare il Ruanda a se stesso dopo averlo condotto al tracollo.

Eliana Paradiso


 

     

Topolino e lo sfruttamento cinese

Un gruppo di ricercatori universitari di Hong Kong scopre gli abusi nelle fabbriche cinesi della Disney

Ancora uno scandalo che coinvolge una multinazionale. Questa volta ad essere sotto accusa è il brand del divertimento per bambini. I suoi cartoni animati ne hanno fatto la storia, ma dalla morte del vecchio Walt, la Disney ha iniziato il suo periodo di discesa, conclusosi con la scoperta da parte di alcuni ricercatori universitari di Hong Kong degli abusi perpetrati dai fornitori dell’azienda d’animazione nelle fabbriche cinesi. Violenza, violazione dei diritti umani e dei lavoratori sono i reati imputati alle aziende che per Disney producono giocattoli e libri per bambini. La “Nord Race”, la “Lam Sun” e l’azienda tipografica che produce anche i giocattoli Mattel “Hung Hing” sono sotto inchiesta. Gli operai delle fabbriche ricevevano un pagamento di circa 600– 700 yuan (circa 60-70 euro) al mese ed in più erano costretti a pagare un alloggio non meno di 100-185 yuan. Una giornata media lavorativa prevedeva 13 ore con straordinari obbligatori non pagati. Aumentando l’attività produttiva le aziende costringevano i lavoratori a fermarsi in fabbrica oltre l’orario stabilito per poter completare la produzione. Agli operai non era consentito di entrare a far parte di sindacati di categoria ed a chi ha protestato è stato riservato un trattamento di cortesia: picchiati dalle guardie e licenziati. L’assistenza sanitaria non c’è, nonostante i frequenti e numerosi incidenti. Alcuni operai sono morti schiacciati dai macchinari, altri feriti gravemente o mutilati alle mani ed alle braccia. Una condizione di lavoro insostenibile, anche per gli instancabili cinesi. Ecco che affiorano i motivi per cui molte multinazionali americane ed europee investono nel promettente mercato orientale e ne traggono notevoli guadagni. Non c’è da stupirsene. I controlli, soprattutto in Cina, sono quanto mai scarsi e la sicurezza esercitata dalle forze dell’ordine va a discapito proprio degli indifesi.

Un duro colpo quest’indagine, per la Disney, che ha già fatto il giro del mondo proprio mentre l’agenzia d’animazione presentava il suo nuovissimo parco divertimenti dell’Oriente. Pochi mesi fa, inoltre, alcune ricerche commissionate da Greenpeace, avevano denunciato che i giocattoli ed i pigiami per bambini della multinazionale americana contengono un alto tasso di ftalati ed altre sostanze tossiche che i bambini spesso ingeriscono tenendo in bocca tali prodotti.

Insomma, care mamme, guardatevi bene dal finanziare un’azienda che viola i diritti umani ed intossica i vostri figli. E’ davvero un peccato che i creatori di capolavori come Bambi, Dumbo ed il Re leone si siano macchiati le mani con sporchi abusi ed ora rischiano di vedere annullati tutti gli sforzi creativi. E’ difficile riappropriarsi della stima delle persone dopo simili scandali e non basta un cartone animato tiralacrime.


     

Attenti ai profumi tossici!

Causano danni alla salute di chi li utilizza spesso

Luigi XIV in parte aveva ragione inneggiando ai “profumi naturali”. Secondo una recente indagine l’utilizzo di alcuni profumi sarebbe nocivo per l’organismo. Praticamente tutti i profumi testati contengono ftalati e muschi sintetici: livelli molto elevati di dietil ftalato (DEP) sono stati trovati in "Eternity" di Calvin Klein per donne (22.299 mg/kg, cioè 2,2% del peso totale) e in "Le Mâle" di Jean Paul Gaultier (9.884 mg/kg, appena al di sotto dell'1% in peso). Invece, "Vanderbilt" di Gloria Vanderbilt non contiene nessun livello riscontrabile degli ftalati testati. Alte concentrazioni di nitromuschi e muschi policiclici sono stati riscontrati in "Le Baiser Du Dragon" di Cartier (45.048 mg/kg, o 4,5% in peso) e "Muschio bianco" del Body Shop (94.069 mg/kg, o 9,4% del peso totale). I livelli più bassi, invece, sono emersi in "Puma Jamaica Man " della Puma (0,1 mg/kg). Studi scientifici hanno mostrato che il DEP penetra rapidamente nell'epidermide, entrando nell'organismo dopo ogni esposizione: il corpo lo converte subito in monoetil ftalato (MEP), che è sospettato di possibili effetti sul DNA dello sperma e di contribuire a diminuire le funzioni polmonari negli uomini. I muschi sintetici si concentrano nei tessuti degli organismi viventi: alcuni possono interferire con il sistema di comunicazione ormonale di pesci, anfibi e mammiferi ed amplificare l'effetto dell'esposizione ad altre sostanze tossiche. La presenza di queste sostanze raramente compare sulle confezioni dei profumi e degli altri articoli di consumo che li contengono, dunque il consumatore non può decidere di evitarli. Per questo, attenti, perché il fascino profuso attraverso un buon profumo potrebbe tramutarsi di colpo in un danno irreversibile per l’audace dongiovanni.

Roberto Cazzolla


     

Bambini, vittime del dio denaro

Tra le tante forme di abuso sui bambini, una è sicuramente il lavoro minorile. Kaushik Basu, professore di economia presso la Cornell University, ha condotto degli studi riguardo a tale fenomeno, grazie ai quali possiamo comprendere meglio le cause che sono alla base del lavoro minorile e le modalità di intervento.

Si stima che più di 8 milioni di bambini siano venduti come schiavi a causa dei debiti delle famiglie oppure costretti a fare i soldati. Altre attività illecite che vedono protagonisti i bambini sono la prostituzione, la pornografia e il traffico di stupefacenti. Circa mezzo milione di loro vive in aree sviluppate, come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Secondo l’Organizzazione internazionale del Lavoro, si considera lavoratore chiunque, al di sotto dei 12 anni, lavora per una paga; dai 12 ai 14 anni non è ritenuto lavoratore chi lavora fino a 14 ore alla settimana; dai 15 in su è lecito svolgere qualunque lavoro che non sia pericoloso. Viste le difficoltà a quantificare il lavoro minorile, tali dati potrebbero non corrispondere perfettamente alla realtà: a volte, una modesta prestazione d’opera basta a classificare un bambino come lavoratore, con conseguente aumento delle cifre; d’altra parte, il lavoro domestico delle bambine, che spesso va a scapito dell’istruzione, viene sottostimato. Oggi, un ampio numero di ricercatori si occupa di questo argomento, che è stato studiato e conosciuto in modo approfondito. In passato molti politici hanno assunto nei confronti del lavoro minorile un atteggiamento di “tolleranza zero”. Negli anni novanta, ad esempio, venivano fatti appelli per il bando immediato all’importazione dei prodotti del lavoro minorile o imporre sanzioni commerciali alle nazioni con il più alto tasso di lavoro minorile. In alcuni casi, gli effetti di tali campagne furono estremamente negativi, come di mostra il caso del Nepal, dove molti fabbricanti di tappeti decisero di licenziare la manodopera infantile. Il risultato fu che 4000 bambine furono avviate alla prostituzione. Una conoscenza più approfondita dell’economia locale avrebbe evitato tale disastro. La causa principale del lavoro minorile è la povertà delle famiglie. Nel 1991 è stato condotto uno studio nel Pakistan rurale che dimostrava tale tesi. Considerando, anche, il caso della Cina, si nota che la percentuale di bambini che lavorano è passata dal 48% del 1950 al 12% del 1995; l’abbattimento più drastico si è verificato negli anni 80, quando la Cina ha attraversato un periodo di crescita economica. In nazioni con minore crescita economica, invece, il declino del lavoro minorile è stato irrisorio. Si potrebbe pensare che le azioni governative contro il lavoro minorile siano inutili e pericolose, ma non è così. Ci sono dei casi in cui un bando legale può essere utile per eliminare il lavoro minorile senza ripercussioni negative per i bambini e le loro famiglie. Questo emerge dall’analisi delle curve della domanda e dell’offerta, strumenti fondamentali in economia per mostrare come fa un mercato a raggiungere un equilibrio nel quale il prezzo di un prodotto viene regolato in modo da assicurare che la domanda equivalga all’offerta. La famiglie normalmente mandano i propri figli a lavorare quando non riescono a raggiungere un salario di sussistenza. Le persone che hanno lavorato nella loro infanzia non hanno ricevuto un’istruzione completa e tendono ad essere povere da adulte: è molto probabile che queste persone mandino i propri figli a lavorare. Così si crea un circolo perpetuo di lavoro minorile. La situazione opposta è rappresentata da un circolo virtuoso di benessere crescente. L’azione legislativa non è il modo migliore per controllare il lavoro minorile. I politici dovrebbero tentare di migliorare il tenore di vita degli adulti in modo da diffondere condizioni di vita che sconsiglino l’invio dei bambini al lavoro. Oggi, grazie alle conoscente acquisite è possibile agire in modo efficace per porre fine a tale sfruttamento usando un’attenta progettazione degli interventi politici.

Eliana Paradiso


     

 Si può vietare la caccia sul proprio terreno?

La legge italiana non lo consente, ma il cittadino proprietario di un fondo può ricorrere alla giustizia europea

IL CODICE CIVILE Per l’articolo 842, il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l’esercizio della caccia, a meno che non sia chiuso nei modi stabiliti dalla legge oppure vi siano colture in atto suscettibili di danno; egli può però opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall’autorità. Il codice, quindi, sancisce che nessuno può entrare senza permesso in un terreno di proprietà privata, nemmeno per svolgere ricerca scientifica, fotografia naturalistica o per escursionismo; l’unica rilevante eccezione viene stabilita a favore di chi intende esercitare attività venatoria. Tuttavia, al cittadino che nella sua proprietà intende proibire la caccia, la legge (n. 968/1977) concede tre possibilità.

1) LA RECINZIONE DEL TERRENO L’esercizio venatorio è vietato a chiunque nei fondi chiusi da muro o da rete metallica oppure da altra effettiva chiusura, di altezza non inferiore a 1,80 metri. La proprietà privata può essere delimitata anche da corsi o specchi d’acqua perenni, il cui letto abbia la profondità di almeno 150 centimetri e sia largo non meno di tre metri.

2) IL DANNO ALLE COLTURE La caccia è inoltre vietata, in forma vagante, nei territori in attualità di coltivazione, secondo le leggi regionali, che ne determinano i modi di individuazione e di salvaguardia, con particolare riferimento alle colture specializzate.

3) LA LICENZA DI CACCIA La licenza di porto d’armi per uso di caccia è rilasciata in conformità delle leggi di pubblica sicurezza e dopo aver sostenuto un esame di fronte a un’apposita commissione (nominata dalla regione in ogni capoluogo provinciale). Il proprietario può pretendere l’allontanamento di chi non ne sia in possesso o si rifiuti di mostrarla.

LE SANZIONI Chi viola la legge sulla caccia è punito con una sanzione amministrativa fino a 1.550 euro. Sono competenti tutte le forze di polizia giudiziaria, sebbene sia preferibile rivolgersi ad organismi specializzati, quali gli agenti venatori che operano presso ogni provincia oppure le guardie volontarie del WWF (tel. 06 844971)

IL RICORSO EUROPEO All’infuori dei tre casi esplicitamente previsti, la legge non concede altri strumenti legali al proprietario del fondo, che tuttavia ha la possibilità di ricorrere alla corte di Strasburgo. L’esercizio della caccia su terreni privati, infatti, potrebbe essere giudicato incompatibile con il principio secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto del suo domicilio, sancito dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questa normativa (recepita in Italia con la legge n. 848/1955), consente a tutti i cittadini di adire la corte, chiedere la condanna “politica” della repubblica italiana e ottenere persino un risarcimento. Il ricorso, però, può essere fatto solo dopo aver esaurito le possibilità processuali offerte dall’ordinamento nazionale, quindi non prima di una sentenza pronunciata ai massimi livelli (corte costituzionale, cassazione, consiglio di stato, ecc.).

Si tratta di un limite di non poco conto, in quanto comporta inevitabilmente tempi assai lunghi, soprattutto tenendo conto della lentezza della giustizia nel nostro Paese.

Michele Patruno


     

Truccato lo studio sulla dieta vegetale

Finanziatori i magnati della carne e indagine condotta su bambini denutriti

Niente da fare. I magnati della carne non riescono proprio a sopportare l’idea di vedere calate le vendite dell’oro alimentare. E provano con ogni artifizio a sviare le menti dei consumatori verso l’idea di una salutare dieta a base di carne. Questa volta nel grande bluff è cascato anche il Corriere della Sera, che in prima pagina ha pubblicato uno studio realizzato dalla ricercatrice Lindsay Allen (foto sotto), ex dell’Università della California, che dimostra i danni alla salute, alla capacità cognitiva ed all’intelligenza dei bambini provocati da una dieta a base di vegetali. L’imbarazzante falso scientifico creato dalla Allen ha assunto contorni eclatanti, considerata la grande risonanza che ha avuto tra i media. Il danno maggiore sta nel fatto che spesso il consumatore disattento che vive del “sentito dire” accoglie questo tipo di studi come se fossero un dettame divino e modifica o incentiva le proprie scorrette abitudini alimentari quotidiane in base a ciò che viene fatto passare per ricerca. In questo caso è un obbligo morale far luce sulla vicenda, prima che si diffonda un nuovo falso mito e che la scienza lasci posto al sondaggio falsato.

Innanzi tutto bisogna che i lettori sappiano che la ricerca effettuata è stata finanziata, promossa e supportata da importanti industrie della carne come la National Cattleman’s Beef Association (Associazione nazionale degli allevatori di manzo), il Global Livestock ed il Pond Dynamics and Aquaculture che certo, tengono a incentivare il consumo del loro prodotto. Quello che è ancora più vergognoso e che inculcherà nel lettore l’idea della totale presa in giro, è che lo studio è stato condotto su bambini di Egitto, Kenya e Messico e che quindi vessano dal canto loro, già in una non felice condizione alimentare. I 544 bambini divisi in 4 gruppi, sono stati alimentati con tre pasti supplementari al giorno per 21 mesi, di cui ognuno era fatto da Githeri (alimento locale di origine vegetale composto da mais, fave e verdure non specificate) con l’aggiunta per tre dei differenti gruppi, di carne (dal 10 al 20%), latte o olio. La ricerca tende a dimostrate che i bambini alimentati con Githeri più carne hanno un migliore sviluppo della massa muscolare ed un’intelligenza superiore agli altri 3 gruppi. Appare ovvio che bambini in stato di denutrizione o cattiva alimentazione che ricevono un aggiunta di carne ai loro pasti incostanti e squilibrati, assumono rapidamente ed contemporaneamente le proteine essenziali che l’organismo non sintetizza. Ma i benefici sono momentanei e tra l’altro, accertati inopportunamente. Uno dei metodi utilizzati per constatare le capacità intellettive e fisiche dei bambini era il videomonitoraggio scolastico per 30 minuti al giorno.

Ora, non bisogna essere insegnanti per sapere che in trenta minuti non si possono valutare le capacità psico-fisiche di un bambino, tanto meno le differenze tra uno che si alimenta con carne ed uno con vegetali. A prescindere dai discutibili metodi di valutazione, lo studio non dimostra che una dieta a base di carne aumenta a lungo termine la possibilità di insorgenza di tumori, di gotta e problemi epatici, arterioscelrosi, obesità, diabete e ipertensione. Non spiega che con una quantità pari ad un chilo di carne di manzo si alimentano all’incirca quattro persone al giorno in un paese del Terzo mondo e che con 20 chili di frumento o grano, valutabile ipoteticamente come il quantitativo medio giornaliero utile ad alimentare un chilo di mucca, si potrebbero sfamare ben 50 persone. Lo studio non cita neppure che una famiglia vegetariana risparmia ben 81 Euro al mese rispetto ad una che si alimenta con carne e pesce; non spiega che i pascoli destinati agli animali da macelleria riducono il suolo forestale autoctono diminuendo le materie prime utilizzabili delle popolazioni indigene e la biodiversità; non evidenzia che sarebbe ridotto l’utilizzo di fertilizzanti, impiegati all’80% per colture destinate agli animali e dell’acqua potabile utilizzata per irrigare, che potrebbe sostentare di gran lunga il fabbisogno idrico dei bambini nei paesi sottosviluppati. Acqua che è una delle cause dei maggiori decessi preadolescenziali tra africani e asiatici.

Ed è, inoltre, ben lungi dall’affermare che con i fondi stanziati per portare a termine questa ricerca in due anni, si sarebbero potuti alimentare in maniera equilibrata e con il giusto apporto di una variegata dose di alimenti, anche solo di origine vegetale (è impossibile pensare che il solo mais o le fave possano apportare un equilibrio alimentare di calcio, proteine, vitamine, ferro e Sali minerali, senza altri vegetali, ad organismi in via di sviluppo e quindi sarebbe bastato questo per giudicare l’indagine scorretta) i bambini “vittime” del campionamento. Se poi a questo si aggiunge che il 31% dei bambini monitorati era affetto da malaria e quindi notevolmente debilitato, che i pasti supplementari differenziati erano forniti solo nelle ore pomeridiane, escludendoli dalla colazione (ritenuta da molti nutrizionisti il pasto fondamentale della giornata), si completa il quadro di ciò che appare come un attacco alla libertà di informazione ed alla verità scientifica. Sono indagini false, corrotte e compromesse come queste che hanno permesso a fabbriche come la Mc Donald’s di costruire la propria fortuna sulle spalle e sulla salute dei consumatori.

Fonti: nutrition.org, FAO, Eurispes, Istat

Roberto Cazzolla


     

DOSSIER: I profitti di Benetton contro il popolo Mapuche

“Marici weu !!! Dieci volte vinceremo!” di Micaela Laterza

Un viaggio strano attraverso i colori, i volti, gli sguardi attoniti e ancora innocenti immolati per potere, sfruttati per derubare ricchezze naturali, patrimoni di ineguagliabile e inestimabile bellezza. Socchiudo gli occhi, gonfi di lacrime e la sua ombra nefasta mi perseguita ma non mi impaurisce. Vestito di crudeltà, smanioso di soldi, ipocrita perbenista, divora terre insinuandosi nelle loro vene succhiandole la vita. La vita che, lieve, ondeggia col vento sui sogni di chi lotta per la Libertà.

Corro lungo strade deserte, odo alberi piangere le loro radici, una notte cieca che non potrà più accarezzare le amate fronde, corro, corro lungo il mio paese addormentato e m’imbatto in una moltitudine di colori, i miei occhi esterrefatti non vogliono guardare, si accelerano i pensieri spingendomi in un luogo lontano, nelle speranze di un popolo.

Molti si lasciano abbindolare dalle multietniche pubblicità, bambini con aria innocente invitano ad entrare in un disastro quotidiano, occhi grandi segnati da un destino insopportabile.

Pensare che per secoli nel sud del Cile e in Argentina il popolo dei Mapuche viveva ignaro che la nostra società moderna, civilizzata, assassina, assetata di potere un giorno avrebbe distrutto la loro storia.

Avete inteso di chi sto scrivendo? E’ facile, basta passeggiare per un qualsiasi centro di città e subito capirete, forse anche voi, se vi è rimasto un cuore, piangerete quando indosserete i colori uniti dello sfruttamento.

Ebbene sì, la famiglia Benetton ha rubato in Patagonia ben 900000 ettari di terra… questo dovrebbe bastare!!!Ma la mente umana, a volte, ha bisogno di qualche dato più impressionante per stimolarle la coscienza!

La regione dell’Alto Biobio si trova a 5oo km. a sud di Santiago del Cile, una delle più grandi riserve naturali del pianeta. Il fiume Biobio , lungo 380 km, fornisce acqua potabile a circa 500000 abitanti. Qui vive il popolo Mapuche con un atavico legame che solo multinazionali potevano infastidire e derubare.

La famiglia Benetton nasce come un piccolo maglificio, utilizzando da sempre pubblicità dove compaiono varie etnie, animali, un labirinto di colori e bontà in apparenza… ma non è vero

La multinazionale veneta ha giocato sulla catastrofica situazione della Patagonia per arricchirsi sulla pelle degli altri, multinazionale neo-colonialista, comprando a cifre ridicole, immensi territori.

La famiglia Benetton è la più grande latifondista dell’Argentina, ha rubato Terra, Acqua e Libertà al popolo dei Mapuche, e non solo… dietro solidali manifesti pubblicitari ricatta e sfrutta il resto del mondo…

C’è un detto in Patagonia che spiega con poche parole il male che le multinazionali hanno inflitto nei loro animi: “sono arrivati i nuovi padroni e hanno comprato tutto, terre, fiumi, animali, e persino le persone”. Ora, il popolo dei Mapuche continua ogni sacro giorno a lottare contro la globalizzazione di multinazionali, per recuperare la loro Vita, la loro Storia, le loro terre.

Anche noi possiamo aiutarli in maniera molto semplice: non comprare capi Benetton, pensate che ogni indumento indossato sia una lacrima versata dai bambini che dietro quel falso sorriso stampato dicono di non aver più una terra in cui vivere.

Apro gli occhi e penso… anche nel mio paese in un viale che ormai è un cimitero di alberi è giunta la famiglia Benetton


     

TELETHON FINANZIA LA SPERIMENTAZIONE ANIMALE

Ecco dove finiscono realmente i soldi delle donazioni

Siamo ipocrisia, ignoranza. La razza umana sta raggiungendo livelli di malvagità raccapriccianti, in un fallace scenario di solidarietà e giustizia con i contorni di un buon televisore, un assassino in camice bianco e una buona dose di indifferenza.

Addestrati a dar per buono tutto ciò che dicono i “medici” la televisione ed i troppi servi di un sistema marcio!

La scienza assassina si nutre di ignoranza, di indifferenza, di gente che non ha la minima idea di cosa “la ricerca” possa fare a un cagnolino indifeso, a un gatto, a una scimmia e a tante altre splendide creature. Ma tutto potrebbe essere giustificato… si “sacrificano” gli animali per “debellare” malattie come il cancro. Quanti di coloro che stanno leggendo questo articolo hanno la minima idea di cosa sia la vivisezione, di come questi scienziati stiano sprecando denaro e tempo a procurare tumori artificiali a topi, cani ecc, tentando poi di curarli, di come questa farsa sia mascherata da maratone televisive tipo Telethon… quanti di voi si sono chiesti dove vanno a finire i soldi che un “buon” cittadino ha donato alla causa?

Introduciamo prima di tutto il termine VIVISEZIONE. Con il termine vivisezione si intendono tutte le forme di sperimentazione su animali e non solo quelle che implicano il sezionamento da vivi di quest’ultimi. Nel gran segreto di tutti, in laboratori di tutto il mondo 300 milioni di animali ogni anno vengono avvelenati, ustionati, mutilati, decerebrati, drogati, immobilizzati per anni in apparecchi di contenzione, lasciati morire di fame e di sete, sottoposti a scariche elettriche, a traumi fisici e psicologici e a cruenti operazioni chirurgiche. In gran parte dei casi non viene utilizzata alcuna anestesia, perché sarebbe una perdita di tempo e potrebbe interferire con l’esperimento, ma spesso i vivisettori hanno cura di tagliare agli animali le corde vocali per non sentirne i lamenti e poter praticare quella che definiscono “la disciplina del silenzio” (nessuno deve sentire – nessuno deve sapere).

Chi “ha studiato”, chi “ricerca” per migliorare la qualità della vita dovrebbe avere un forte senso di “umanità”(?), empatia, compassione… ma come può un mostro capace di vivisezionare un creatura senziente avere a cuore la vita? Ecco… probabilmente non ce l’ha… probabilmente ha a cuore altre cose (denaro? Potere?)… l’industria farmaceutica legata naturalmente alla scienza medica ed alla ricerca ha introiti miliardari e nessun interesse per la salute... (qualcuno ricorda la vicenda della casa farmaceutica Glaxosmithkline che in accordo con i “medici di famiglia” aveva organizzato delle “raccolte punti”, in base alla quantità di medicinali Glaxosmithkline che il medico prescriveva in un certo lasso di tempo ai poveri pazienti, c’erano dei “premi”… assegni, viaggi, tv color ecc!).

Il metodo scientifico basato sulla vivisezione non ha alcun beneficio per l’umanità, è anzi fuorviante per il semplice fatto che le reazioni alle migliaia di sostanze chimiche sono diverse di specie in specie, per il semplice fatto che un tumore o qualsiasi altra malattia indotta artificialmente in laboratorio su un topo o su un cane è nettamente differente da un tumore sviluppatosi “spontaneamente” in un essere umano!

Ma ecco cosa dicono i veri scienziati… chirurghi, fisiologi e premi Nobel come Robert Koch:“Dopo una trentina d’anni di ricerche sulle cause e la cura del cancro, che cosa abbiamo? Una montagna di dati e supposizioni ottenuti con molta fatica da fonti animali, ma che non hanno maggior valore d’un tumore: un tumore che non è di alcun giovamento per l’uomo, e decisamente nemmeno per i topi… Adesso vediamo a quale deplorevole spreco di energia, abilità e danaro può condurre questo genere di insensate fatiche accademiche… Ne abbiamo ricavata un’unica indicazione utile, seppure negativa: che il problema delle cause del cancro non é risolvibile attraverso animali da laboratorio”.“Nessun ricercatore su animali è in grado di fornire una sola indicazione utile per una malattia umana”.

-“Nessun cancro degli animali ha un rapporto con un cancro degli umani”.

-“Purtroppo conosceremo l’effetto sulla nostra salute delle migliaia di composti chimici soltanto in un futuro non precisabile, in quanto essi agiscono molto lentamente nel tempo e per accumulo”.

Ma perché si continua a praticarla? Nonostante siano disponibili da sempre metodi di studio e di ricerca che non prevedano la tortura di animali; nonostante nessun serio progresso della chirurgia o della medicina sia stato acquisito tramite l’utilizzo di animali in laboratorio, ma anzi questa pratica abbia rallentato molte scoperte; nonostante oramai negli ambienti scientifici siano evidenti e dimostrate la futilità e l’ipocrisia di tale pratica, la vivisezione continua ad essere largamente praticata. I motivi che sostengono la vivisezione non sono scientifici, ma puramente economici. La vivisezione viene ancora praticata perché è un vero e proprio alibi legale per le industrie, che così potranno difendersi nel caso probabile di vittime dei loro prodotti dicendo di aver svolto i test di dovere.

La stessa ditta produttrice del talidomide si difese in tribunale in questo modo aggiungendo che i test su animali non possono dare alcuna certezza.

Siamo tutti artefici di questa ecatombe animale umana e animale non umana, il sistema ci ha reso complici… finanziamo la vivisezione con le tasse, con semplici acquisti di cosmetici, detergenti, alimenti per animali, con il nostro senso di solidarietà, quando doniamo denaro durante una delle tante raccolte fondi, ci macchiamo di un orrendo crimine contro la vita… non aiutiamo chi è malato di cancro, chi è affetto da sclerosi multipla, chi è malato di Aids, ma finanziamo l’assassinio di milioni di creature non umane e umane! Come ogni anno, la mastodontica raccolta fondi di Telethon, torna alla ribalta… invadendo le piazze, gli schermi e tanto altro… pensiamo che ci sono associazioni che finanziano la sperimentazione su animali (AIRC, AISM, ANLAIDS, ASID), associazioni che finanziano “alcuni” progetti di ricerca su animali (TRENTA ORE PER LA VITA, TELETHON), associazioni che non finanziano la ricerca su animali (UILDM, LISM, ALA ecc), associazioni che finanziano la ricerca senza l’uso di animali (LILA, LEGA ITALIANA PER LA LOTTA CONTRO I TUMORI).

Anna Surico

Guarda i video sulla sperimentazione animale

Ascolta la clip audio sulla sperimentazione senza animali

Vai al sito www.ricercasenzaanimali.org


 

     

Dall’orfanotrofio io voto “NO”

 12 e 13 giugno: referendum sulla fecondazione assistita

Mi chiamo Alindi, ho 7 anni e da 6 vivo in un orfanotrofio di Gaborone nel Botswana, una Repubblica presidenziale dell’Africa meridionale. Non conosco la mia mamma ed il mio papà. Qui le donne che si prendono cura di noi, dicono spesso parlando tra loro, che i militari che hanno ucciso i miei genitori venivano dall’Europa. Parlano in silenzio, cercando di non farmi sentire ciò che dicono, ma io mi accuccio nell’angolo vicino al mobile con i fornelli ed ascolto. In realtà non so cosa vuol dire “militari”, qui c’è gente che spara con quei lunghi bastoni di ferro e le maestre mi dicono che sono loro i militari. Ma, allora, tutti i grandi sono militari? Comunque, l’unica cosa che ho capito è che la mia mamma ed il mio papà non ci sono. Ed è strano, perché non so come sono fatti una mamma ed un papà ed a cosa servono. Forse sono quell’uomo e quella donna che portano i bambini come me in giro con i secchi d’acqua , sotto il sole. Forse sono quei due che spesso, qui da me, neanche si conoscono prima di sposarsi. Ma io ho visto come sorridevano gli altri bambini alle mamme ed ai papà bianchi che ogni tanto vengono qui, all’orfanotrofio e indicano uno di noi. Ci fanno uscire tutti e ci dicono che sono arrivate delle visite. Poi uno di noi viene indicato e senza sapere bene il perché, inizia a ridere. Forse Ghengi che è più grande di me lo sa perché tutti quelli che vengono indicati dai signori che vengono a farci visita, sorridono. E poi se ne vanno e non tornano più. Però anch’io qualche volta vorrei essere indicata. Chissà dove vanno tutti. Però sono così felici. Sarà che quelli che vengono a trovarci sono la mamma e il papà che dicono Mirna e Ruma quando parlano in silenzio? Poi un giorno all’ora della merenda, mentre stavo leccando la scodella del riso del pranzo, sentii che Mirna diceva che in Italia vogliono far nascere i bambini nelle bottiglie di vetro, così i genitori che sono malati e non possono fare figli possono averli lo stesso. Ma, allora, ho pensato: “Perché queste mamme e questi papà invece di far nascere i bambini piccoli nelle bottiglie, non vengono a farci una visita così, quando ci indicano ci fanno sorridere?”. Visto che a scuola ho imparato a scrivere in stampatello ho deciso di mandare una lettera in Italia sulla quale ho scritto: “Care mamme e cari papà italiani, sono Alindi del Botswana, e anche se non vi conosco e non so a cosa servite, ma siccome ho visto che fate sorridere i miei amici dell’orfanotrofio quando venite a trovarci, volevo dirvi che invece di far nascere i vostri bambini nelle bottiglie, potreste venire qualche volta da noi e portare me o qualche mio amichetto con voi così possiamo capire a cosa serve una mamma ed un papà…quando qui la sera sparano oppure ho fame e non c’è niente da mangiare, sogno sempre che qualcuno bussi alla porta ed indichi me…ciao, venite presto.”

Di bambini come Alindi, gli orfanotrofi sono pieni. Solo in Italia ce ne sono decine di migliaia, nel 1999 erano 28.148 ed ogni anno aumentano esponenzialmente. Il costo medio, elargito ad ogni istituto, è di circa 5/6 euro a bambino. Cioè, bassissimo. E se si pensa che in Africa, Russia occidentale, Asia e Sud America le rette giornaliere si dimezzano e le malattie si moltiplicano, si ha ben chiaro il quadro di una situazione molto triste. Eppure, come dice Alindi, i bambini degli orfanotrofi sorridono. Sorridono quando qualcuno li indica. Forse inconsciamente sanno di aver avuto un’altra possibilità dalla vita.Come scrive Jilbert Sinouè: “I bambini poveri sorridono. La povertà sta anche in questo, nel riuscire a trovare da sorridere, anche laddove non c’è nulla per cui sorridere”.

Ma tutto questo, ogni volto di orfano, ogni sorriso, ogni speranza, potrebbero essere cancellati per sempre da un referendum che vuole in Italia, l’abrogazione di una legge sulla fecondazione assistita. Quella per cui tutti saremo chiamati a votare. Si tratta di 4 quesiti che il 12 e 13 giugno potranno segnare una svolta medica ed etica. Eccoli in dettaglio:

QUESITO 1. UTILIZZO DELLE CELLULE STAMINALI EMBRIONALI

L’attuale normativa vieta l’utilizzo delle cellule staminali prelevate da embrioni inutilizzati al fine di limitare il numero di aborti volontari a scopi lucrativi ed eliminare i problemi etici che insorgerebbero con l’uccisione di esseri umani ai fini scientifici. Se si vota NO si mantiene la legge vigente. Se si vota SI si autorizza il prelievo delle staminali, il che vorrebbe dire, milioni di embrioni (con patrimonio genetico diploide, cioè con tutti i geni sia del padre che della madre, dunque esseri viventi) sacrificati per sperimentazione.Parecchio antisonante se si pensa che per salvare una vita se ne sacrificano centinaia in esperimenti che spesso falliscono.

QUESITO 2. IMPIANTO DI PIU’ OVULI, CONGELAMENTO DELL’EMBRIONE E ANALISI PREIMPIANTO.

La legge attuale prevede che non possano essere fecondati in vitro più di tre ovuli alla volta, affinché in casi rari di successo della fecondazione sia statisticamente improbabile che si sviluppi più di un embrione. Inoltre la legge in vigore prevede, che gli embrioni in sovranumero o in caso di ripensamento della futura madre, non possano essere congelati. Inoltre, non è consentita l’analisi preimpianto, cioè un esame delle malattie dell’embrione prima del suo trasferimento nell’utero. Se si vota NO si mantiene l’attuale normativa e non si pongono alle famiglie problemi come l’uccidere o meno un embrione che è predisposto ad alcune malattie. Se si vota SI si autorizza la fecondazione di numerosi ovuli con la possibilità che si sviluppi più di un embrione che dovrà, quindi, essere ucciso o utilizzato in esperimenti. Si legittima il congelamento di esseri viventi e, con la possibilità di effettuare l’analisi preimpianto, si creano numerosi problemi ai genitori in caso di embrione potenzialmente malato. Inoltre, si lascia ai genitori la scelta di non impiantare un embrione già sviluppato, destinandolo alla morte.

QUESITO 3. DIRITTI DELL’EMBRIONE

Il testo attuale prevede che il “concepito”, definito come l’embrione dal momento della fecondazione alla sua morte post-parto abbia gli stessi diritti di un qualunque altro uomo.

Se si vota NO gli embrioni vengono considerati ancora esseri viventi. Se si vota SI gli embrioni non avranno i diritti degli esseri umani e quindi potranno essere sottoposti a qualunque tipo di sperimentazione, proliferazione e uccisione.

QUESITO 4. FECONDAZIONE ETEROLOGA

Attualmente i gameti devono provenire dai genitori e non da individui esterni alla coppia.

Se si vota NO si mantiene tale norma. Se si vota SI un qualunque donatore esterno può donare il suo patrimonio genetico.

Insomma, la morale è una questione personale, ma la vita viene prima di tutto e, quindi, per tutti quei bambini rinchiusi negli orfanotrofi, per tutti quei piccoli esseri viventi chiamati “embrioni” questa volta è meglio votare no o astenersi, per non alzare la soglia del quorum e lasciare invariata l’attuale legge 40.

Roberto Cazzolla


 

     

Telethon finanzia la vivisezione

Per quanto riguarda i cosmetici (nella categoria cosmetici rientrano anche prodotti come bagnoschiuma, shampoo, prodotti per la pulizia della casa, saponi, dentifrici, ecc) ed ai relativi test sugli animali la questione è abbastanza complessa principalmente per il fatto che ogni singolo prodotto è costituito da una serie di sostanze chimiche che unite tra loro formano il prodotto finito. Una legge stabilisce che tutte le nuove sostanze chimiche debbano essere sottoposte a test generici sugli animali, la pericolosità e l’essenza atavica di tale legislatura è data dal fatto che la risposta all’ingestione, all’inalazione, al contatto epidermico e all’inoculazione delle innumerevoli sostanze chimiche è differente da specie a specie, questo vuol dire che se per un topo o un coniglio una sostanza risulta innocua per l’uomo o per un gatto la stessa sostanza può essere pericolosa, cancerogena o addirittura letale. A tali incongruenze scientifiche si somma poi l’aspetto etico della questione vivisezione, ma illustriamo i vari tipi di test effettuati sugli animali.

LD50: dose letale del 50% degli animali utilizzati. Risale al 1927 (che progresso abbiam fatto da allora!!!). consiste nel somministrare, con la forza ad un gruppo di animali, una particolare sostanza, per esempio un rossetto, una crema idratante, ecc, sino alla morte di metà dei soggetti. Poiché la maggior parte dei prodotti cosmetici che viene commercializzata è poco o per nulla nociva, la stragrande maggioranza dei decessi animali avviene per cause estranee alla reale tossicità dei prodotti testati; le cause di morte degli animali sono da ricondursi al deterioramento di alcuni organi vitali o arresti cardiaco per la sofferenza. Può essere usato per la valutazione della tossicità acuta m anche cronica.

DRAIZE TEST OCULARE: metodo di valutazione della capacità di una sostanza di irritare i tessuti dell’occhio umano, consistente nell’istillare la sostanza negli occhi dei conigli albini, per poi esaminare a distanza di vari giorni i danni che essa provoca ai tessuti dell’occhio.

DRAIZE TEST CUTANEO: metodo di valutazione della capacità di una sostanza di irritare la cute umana consistente nell’applicare la sostanza in esame sulla pelle depilata o abrasa (in punti molto delicati, mucose nasali, ano, vagina), per poi valutare a distanza di tempo l’irritazione provocata.

TEST DI CANCEROGENICITÁ: test finalizzato a stabilire se una sostanza è o meno cancerogena (per gli animali su cui si sperimenta non per l’uomo, ovviamente!). Generalmente vengono usati roditori ai quali viene fatta ingerire o inalare la sostanza per un periodo anche di diversi anni. In seguito gli animali vengono uccisi e sottoposti ad autopsia per stabilire la presenza di eventuali tumori nei loro tessuti. Queste sono le pratiche orrende e inattendibili che si celano dietro diciture come “dermatologicamente testato” o “testato clinicamente” ma anche la dicitura “non testato su animali” e il simpatico coniglietto presente sulle confezioni di molti cosmetici ha un significato ambiguo e relativo perché fa riferimento al prodotto finito non ai singoli ingredienti, una diatriba legislativa che si trascina da troppi anni (un esempio tra tanti riguarda proprio i test sul prodotto finito: Al primo gennaio 1998 è stata ipotizzata dalla Commissione la preparazione di una proposta per il divieto di utilizzo di animali per i soli test sul prodotto finito, in quanto la Commissione ha rilevato che in questo campo non erano più necessari test su animali, allo stato corrente del progresso tecnologico. Questo divieto non è comunque mai stato effettivamente sviluppato e posto in essere. Riportiamo di seguito una lista di prodotti quanto più chiara e aggiornata invitando al boicottaggio delle ditte che testano su animali!

Anna Surico

DAL 2013 STOP AI TEST SU ANIMALI

E’ stato finalmente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.87 del 15 aprile 2005 il Decreto Legislativo n.50 del 15 febbraio scorso con cui il Governo Italiano ha recepito le direttive europee 2003/15/CE e 2003/80/CE in materia di prodotti cosmetici.
Attualmente sono circa 40.000 gli animali impiegati ogni anno in Europa per testare gli ingredienti di creme, saponi e rossetti, ma entro otto anni nessun animale sarà più sacrificato, se saranno rispettate le scadenze previste nelle Direttive che regolano la produzione di cosmetici in Europa.
Sono quattro le novità per gli animali introdotte dal DL n.50/05 per il settore della produzione di cosmetici in Italia:
-divieto di eseguire test su animali dei prodotti cosmetici finiti a partire dall’11 settembre 2004;
-divieto di commercializzare prodotti cosmetici finiti che abbiano subito test su animali a partire dall’11 settembre 2004: (il bando commerciale garantisce che anche i prodotti cosmetici finiti provenienti dal mercato extra europeo non siano testati su animali);
-la cessazione dei test su animali per materie prime cosmetiche entro il 2013;
-il divieto di indicare il prodotto come “non testato su animali”, a meno che non sia garantito che il test non viene compiuto in nessun punto della filiera produttiva e non solo sul prodotto finito, dall’11 marzo 2005.


 

     

Centri di permanenza temporanea

Lager quotidiani, Croce Rossa e Regina Pacis

L’ingiustizia vive negli occhi di chi ha visto la morte in un viaggio chiamato Speranza, un riscatto dall’incubo di una vita gravida di crudeltà e di sangue, come la fuga da una guerra, ma spesso questo viaggio porta solo morte e disperazione… l’ingiustizia vive nelle mani accaldate dei bambini ai rossi semafori… l’ingiustizia vive nelle labbra corrose dal vento di giovani donne straniere perse sulle strade di notte…l’ingiustizia vive nel nome di questa malattia che noi ostiniamo a chiamare Umanità, per lei si bombarda, si creano campi profughi…l’ingiustizia vive nei pensieri reconditi e abietti di chi si sente poderoso con il suffisso mafioso di “don”… l’ingiustizia vive nei “centri di permanenza temporanea” introdotti in Italia dal 1998, dove i diritti civili e politici di ogni essere sono totalmente ignorati, o peggio, cancellati e chi cerca di ribellarsi va incontro a tali soprusi che una mente non può immaginare, o finge di non poterlo fare per mantenere linda la propria coscienza. L’ingiustizia dei “lager” è insopportabile! Veri e propri campi di sterminio, vengono richiusi individui senza aver commesso nessun tipo di reato, senza alcun procedimento penale il loro internamento, disposto dal questore, è una semplice misura di polizia, lager nazisti dei nostri giorni.

Il male non si attenuerà mai e poi mai se gran parte del popolo non saprà cosa si nasconde dietro a tale massacro, si sventolano bandiere della pace, si aprono le frontiere per un mondo diverso e sostenibile, senza sapere che le stesse organizzazioni umanitarie hanno le mani sporche di sangue & soldi, un esempio? La Croce Rossa Italiana, oggi società per azioni, un’istituzione paramilitare che legittima guerre e morti: al mondo ci sono milioni di persone che a causa della povertà, di un regime dittatoriale e belligerante emigrano, cosa fa la CRI? La scelta più semplice e atroce, gestire centri di permanenza temporanea, campi di concentramento dove individui con l’unica colpa di essere stranieri perdono la loro libertà, maltrattati, umiliati in attesa di essere espulsi. Chi è l’uomo per avere tale diritto? E’ qui che nasce l’ingiustizia e qualcuno si è ribellato, sorretto da uomini che credono ancora nell’essenza dell’uomo e una mezza verità è venuta a galla. Il centro Regina Pacis di Lecce è il vessillo di una disumanità inconcepibile, finalmente il sontuoso don Cesare Lodeserto viene arrestato, però essendo un “don” resta ai domiciliari, dopo aver commesso tali atrocità gli è concesso anche un carcere tra le mura di casa… che giustizia la nostra! Chissà se voi avete letto la lettera scritta dal suo beneamato Monsignor Ruppi: “…alcune ragazze hanno denunciato, ora usiamo prudenza nel PUNIRE… le pareti sono di carta velina…” questo potrebbe bastare per capire…Le parole per aiutare chi è meno favorito dal destino non sono mai abbastanza, con l’azione potremmo capire cosa celano questi centri di permanenza, aiutare a ritrovare una libertà smarrita, non pensare sempre e solo a se stessi, credere che la realtà di molti immigrati ben presto potrebbe essere anche la nostra. C’è chi crede nella vita e ogni giorno lotta pur privandosi della propria libertà, loro non sanno di essere anarchici semidei che in questo rancido mondo hanno ridato una speranza a chi l’ha perduta: liberi tutti!

Micaela Laterza


 

     

Ecco la verità sui militari italiani a Nassiriya

Un’inchiesta di Rai News 24 rivela il ruolo del Governo italiano e dell’Eni

Un sospetto che non insospettisce più. Un mistero che si infittisce. Ed ecco che come nei migliori memorandum storici, spunta fuori la verità dei “militi noti”. I soldati italiani, quelli definiti da Ciampi “missionari di pace”, quelli caduti negli attentati, quelli di base a Nasiriya non sono in Iraq per assicurare la pace, per donare la democrazia, per aiutare la gente o per proteggere il patrimonio storico dell’antica Babilonia. E proprio “Antica Babilonia” era il nome della missione supportata dal Governo Berlusconi, che ha visto il contingente tricolore farsi sfoggio dell’interesse umanitario dell’intervento nel Paese mediorientale. Un’inchiesta di Sigfrido Ranucci, inviato di Rai News 24, ha portato alla luce foto, documenti e testimonianze di chi in Iraq sa cosa succede. Ben sei mesi prima dell’inizio conflitto, il Ministero per le Attività Produttive aveva stilato un dossier nel quale si evidenzia la necessità di inviare un imponente numero di soldati proprio nella città di Nassiriya, individuata dal governo come punto strategico per il controllo dei pozzi petroliferi e delle raffinerie. Già a metà degli anni novanta Saddam Hussein fece promessa all’azienda petrolifera italiana Eni di facili concessioni nella città irachena che possiede riserve tra i 2,5 ed i 4 miliardi di barili, in cambio della non belligeranza in caso di attacco Usa. Invece, così non è stato. Appena le truppe americane hanno invaso i territori del dittatore, si è subito conformata la mappa delle stazioni militari e, come si evidenzia dai documenti rinvenuti da Ranucci, Nassiriya è subito stata presa in consegna dagli italiani, che per riconoscenza, hanno assicurato agli Usa il loro intervento militare. Ecco, quindi, che i soldi stanziati dal governo per sostenere la costruzione di un ospedale da campo per la Croce Rossa e le numerose foto diffuse che ritraevano soldati con bambini tra le braccia, sono soltanto una copertura per un’azione ben diversa. La missione a Nassiriya è costata 10 volte più della costruzione dell’ospedale da campo. La base italiana è posizionata in maniera strategica per controllare il maggior oleodotto della città. Il reggimento San Marco, nave della marina, serviva a proteggere gli attacchi da mare. Gli elicotteri ed i pattugliamenti aerei monitoravano possibili azioni di boicottaggio dei pozzi. Insomma, si delinea un quadro che sino ad ora i più scettici avevano rifiutato. L’Italia è coinvolta ed è parte preponderante di un assalto alle riserve petrolifere irachene. Ne controlla alcune zone e la missione di pace di cui si fa vanto è solo un pretesto per zittire l’opinione pubblica. Se poi, a questo, si aggiunge che Saddam aveva concesso la possibilità all’Eni (e quindi al Governo italiano che attualmente gestisce il 30% del capitale dell’azienda) di estrarre petrolio dai sui territori in cambio di “apparecchiature” molto sospette e che non lasciano molti dubbi sul fatto che si trattasse di armi, è davvero giunto il momento in cui, non solo chi si proclama pacifista, ma l’Italia intera deve spingere per il ritiro delle truppe dall’Iraq. Tutti devono chiedere ragguagli sull’esport di armi dall’Italia alle popolazioni in guerra. Perché, il pacifismo non è cosa da pochi, non è lo sfilare con il volto del Che cucito su di un vessillo rosso sangue sovietico e cubano, non è fingersi missionari per creare dipendenza. Pacifismo è combattere la guerra con la pace, con la forza che viene dagli ideali e dall’unione delle persone di qualunque etnia, religione o partito.

Roberto Cazzolla


 

     

Ci sono scarpe che non ammazzano esseri viventi...

Il proprietario del Bologna Calcio, Giuseppe Gazzoni Frascara, con la sua azienda Gazzoni Ecologia spa entra nel mercato del fashion ecologico. I prodotti a marchio AEQUA realizzati dalla fabbrica del patron rossoblu, saranno infatti riciclabili e non utilizzeranno pelli di animali. Una collezione per la quale il gruppo ecologista di Gazzoni ha investito oltre 5 milioni di euro e all'interno della quale il prodotto di punta sarà costituito, infatti, dalle calzature eco-compatibili. Le scarpe, come tutta la serie degli accessori, sono fabbricate con un basso impatto ambientale in tutta la filiera produttiva poiché come materie prime sono state utilizzate solo microfibre, ultramicrofibre e materiali naturali che non rilasciano componenti tossici per gli ecosistemi.

A condire la bella iniziativa con un tocco di classe e di arguzia pubblicitaria, c’è lo spot lanciato dalla Ketchum, un’immagine choc che mostra due piedi umani insanguinati, a sottolineare il fatto che molto spesso la produzione di scarpe in pelle deriva dalla morte di animali che potrebbe benissimo essere evitata.

Quindi un grosso plauso all’iniziativa originale e sensibile che mostra ancora una volta come la sensibilità verso l’ambiente ed il rispetto di tutti gli esseri viventi si faccia largo tra l’indifferenza e la crudeltà di una vecchia società che considerava gli animali creature inferiori e l’ambiente creato per soddisfare i nostri bisogni. Ma basta riflettere un po’ per accorgersi che mostrare un paio di scarpe di pitone maculato o una borsa di coccodrillo è soltanto un modo subdolo di mascherare l’ insofferenza verso la propria immagine. Un modo stupido di apparire.


 

     

INDAGINE: ATTENTO A QUELLO CHE MANGI

Dentro i cibi una miriade di metalli, censurati i ricercatori

Libera ricerca in libero Stato. Almeno così si dice. Ed altro che riforma Moratti, fuga dei cervelli, rivolta dei rettori. Se scegli di restare e fare ricerca, ma quella vera e non finanziata dalle case farmaceutiche o dalle grandi compagnie che non vedono l’ora di apporre un brevetto sulle fatiche di uno scienziato, devi stare ai voleri di chi decide cosa puoi e cosa non puoi scoprire. E’ il caso di Antonietta Gatti e Stefano Montanari, ricercatori italiani all’Università di Reggio Emilia e Modena che grazie ad una sofisticatissima apparecchiatura (microscopio elettronico a scansione ambientale) hanno scoperto che le nanoparticelle metalliche stanno invadendo i nostri tessuti. In pratica, quando mangi una merendina credi di ingerire solo carboidrati, qualche zucchero e grasso e pochi conservanti, in realtà il tuo organismo sta assumendo quantità nanoscopiche di composti che non lasciano più il tuo corpo. E questo non solo attraverso i cibi. Gli inceneritori di rifiuti, anche quelli più recenti i cosiddetti BAT (Best available technologies), emettono sostanze invisibili all’occhio umano che permangono sospese nell’aria per lunghissimo tempo. Dalle analisi effettuate da questi ricercatori si è visto come le cellule di alcuni tessuti, e soprattutto di quelle del tessuto polmonare, sono punteggiate di granuli metallici inalati inavvertitamente. La scoperta è nata dall’osservazione da parte della dottoressa Gatti delle polveri sollevate dalle Twin Towers l’11 settembre al momento dell’ingresso degli aerei a grandi velocità negli edifici. Il calore generato dall’impatto e i pezzi di materiale sgretolatosi hanno innalzato per chilometri un aerosol polveroso inalato da chi era nei paraggi. Ed ora quasi tutti i superstiti od i curiosi avvicinatisi quella tragica mattina al luogo dell’attentato sono colpiti da gravi crisi respiratorie, tumori e infezioni.

Non lasciano scampo le nanoparticelle killer. Non si vedono, non hanno odore o sapore, ti invadono senza preavviso e nei luoghi più inaspettati. Ad esempio, sono molto a rischio i vigili urbani, coloro che abitano a ridosso di fabbriche o inceneritori, chi lavora in autostrada. Il proseguo delle ricerche dei due scienziati italiani avrebbe di certo permesso una maggior comprensione dei pericoli ed una ricerca delle possibili misure cautelative. Ma quei due dottorini fastidiosi hanno schiacciato il tasto sbagliato, quello degli interessi economici di moltissime industrie alimentari e sono stati imbavagliati. E’ per questo che Beppe Grillo sul suo blog ha lanciato una raccolta fondi per poter permettere ai due ricercatori di acquistare un nuovo microscopio e proseguire nelle ricerche che potrebbero salvare la vita di tutti (www.beppegrillo.it). Il problema principale sta, però, nel sempre più evidente inquinamento dei comparti biologici (aria, acqua, terra) con metalli e composti organoclorurati che nel tempo finiscono per essere assorbiti dai vegetali e quindi riprocessati sino alle nostre tavole. La bioaccumulazione, fenomeno biologico che va anche sotto il nome di magnificazione, consiste nelle proprietà di alcuni composti, come mercurio o DDT, di accumularsi in quelli che vengono definiti organi bersaglio e restarci a vita. I metalli bioaccumulabili scorrono lungo le catene alimentari e non lasciano mai la materia organica, ecco perché una volta ingeriti per via aerea o alimentare tendono a persistere nell’organismo. Ecco perché aziende come la Motta (vedi lista accanto) preferirebbero far star zitti quei due “cialtroni col camice” che infangano il nome di grandi aziende. Peccato che nel tanto pubblicizzato panettone c’è finito “per sbaglio” qualche residuo di alluminio e argento. Ma la colpa non è solo delle aziende. Il compost di cattiva qualità, i fertilizzanti di sintesi ed i pesticidi stanno rendendo ogni terreno coltivabile, certamente più produttivo, ma altrettanto contaminato. Ottimizzare la produzione agricola vuol dire non soltanto aumentare la quantità di raccolto, ma anche migliorare la qualità dei terreni e delle colture. La superfertilizzazione ed i fitofarmaci sono un pericolo diretto sulla salute umana e sugli ecosistemi. Percolando nella falda, finiscono in laghi e fiumi e poi nei nostri rubinetti.

Se a tutto questo si aggiunge la rilevante pressione industriale che sta esponenzialmente incrementando il numero di ciminiere sulla nostra testa, il cocktail è completo.

Non bisogna, però, dimenticare i tanto illusori termovalorizzatori, inceneritori di RSU (rifiuti solidi urbani) che oltre alle emissioni che causano l’effetto serra di CO2, NOx, vapor acqueo, emettono diossine e furani oltre alle polveri invisibili PM < 2,5 micrometri che inalate causano seri rischi alla salute.

Insomma forse per curare i mali del ventunesimo secolo bisognerebbe iniziare a prevenirne le cause. La ricerca per una cura universale e miracolosa dei vari fenomeni cancerogenici umani, invece di sacrificare migliaia di animali inducendo tumori per curarne altri (che follia se ci si pensa!) dovrebbe focalizzare la sua attenzione più sull’abbattimento delle cause di induzione alla proliferazione cellulare. Ma forse la categoria dei topi non ha un buon sindacato o un buon avvocato in grado di appellarsi per denunciare lo sterminio quotidiano. Forse i magnati delle merendine e i signori degli inceneritori con una valigetta piena di fogli verdi possono gestire la ricerca mondiale. Adesso basta con le raccolte fondi per curare il cancro, il cancro può essere prevenuto visto che le cause si conoscono.


MEDICINALI: scarsa tutela per i cittadini vegetariani

Nell’Unione Europea ci sono milioni di cittadini vegetariani: alcuni hanno scelto di esserlo in osservanza a canoni religiosi, altri sono costretti a non mangiare carne per problemi di salute.

Una motivazione prettamente etica, inoltre, spinge i cosiddetti vegani ad escludere dalla dieta anche uova e latticini, in modo da non arrecare il minimo danno agli esseri viventi non vegetali.

In entrambi i casi, si lamenta una scarsa attenzione del Legislatore europeo ai diritti di questi consumatori. Uno dei problemi più delicati è probabilmente quello che riguarda il settore sanitario: gli ingredienti di origine animale, infatti, sono essenziali per la produzione di un vasto numero di medicinali. La soluzione del problema consisterebbe nell’indicare sull’etichetta dei prodotti farmaceutici il loro eventuale contenuto di materiale con simili caratteristiche.

Questo espediente consentirebbe a vegetariani e vegani di esercitare il diritto di scelta nei loro acquisti, senza compromettere i loro principi e, soprattutto, la salute. Tuttavia, il diritto comunitario presenta in questa materia delle gravi lacune. La direttiva n. 65/65 è stata adottata per il riavvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative alle specialità medicinali nei paesi del mercato comune europeo.

La normativa si propone di garantire la commercializzazione di medicinali sicuri ed efficaci, come pure di informare i pazienti.

A questo scopo, per quanto riguarda l’etichettatura dei medicinali dispone in primo luogo che sia indicata la composizione qualitativa e quantitativa in termini di principi attivi. Inoltre è obbligatorio riportare l’elenco degli eccipienti con azione o effetto noti, ovvero di quelli che agiscono sul metabolismo oppure che danno luogo a fenomeni allergici in alcuni individui. In tema di completezza delle informazioni fruite ai pazienti le norme dispongono anche che il foglietto illustrativo indichi la composizione qualitativa completa in termini di principi attivi e di eccipienti. Una direttiva più recente, la n. 92/27, concerne l’etichettatura e le modalità d’uso dei medicinali per uso umano: si dispone che le avvertenze che figurano nel foglietto illustrativo e nell’etichetta siano molto esaurienti, in modo da favorire un corretto impiego del prodotto.

Il paziente, dunque dispone senza dubbio di informazioni dettagliate sulla composizione del farmaco.

Tuttavia, risulta evidente come il diritto comunitario non contempli la possibilità di riportare sull’etichetta indicazioni specifiche riguardo all’origine animale degli ingredienti. Con un’interrogazione scritta (pubblicata sulla gazzetta ufficiale comunitaria C 261 del 18 settembre) presentata al parlamento di Strasburgo, il deputato liberale Graham Watson ha chiesto quale fosse l’orientamento del Legislatore. Purtroppo, il commissario europeo alla società dell’informazione Erkki Liikanen ha risposto che non è prevista alcuna modifica alla normativa vigente.

Si può dunque dedurre che, in assenza di una tutela specifica, i cittadini vegetariani europei debbano affidarsi alle norme generali della protezione dei consumatori e dei pazienti. Coloro che producono e mettono in commercio i prodotti farmaceutici, infatti, sono comunque tenuti a rispettare i canoni di trasparenza imposti dalle due direttive. Il danno alla salute provocato dall’inadempimento della legge comunitaria, dunque, potrebbe venire risarcito mediante il ricorso al giudice civile.

Resterebbero privi di solide garanzie processuali, invece, tutti i pazienti che, per motivi morali o religiosi, non riuscissero ad esercitare il diritto a non ingerire sostanze di origine animale.

Michele Patruno


Caso Morini, l’eccidio che dura

E' ormai da tempo, precisamente dal 1953, che in Italia si assiste ad un deliberato massacro di animali. Il mattatoio è meglio conosciuto col nome di Stefano Morini S.a.S ubicato presso S. Polo D'Enza (RE). La gestione di questo "allevamento" è passato nelle mani di Giovanna Soprani, moglie del fu Stefano Morini, coadiuvata dai suoi tre figli. Nuova gestione, ma le terribili abitudini non cambiano. Le entrate di questa società derivano dalla vendita di mangimi, attrezzature e sopratutto di animali a laboratori di studio per esperimenti, effettuati su soggetti vivi. Ma la malvagità umana come sappiamo non conosce limiti. Morini infatti non si limita solamente all'abuso sulla vita di creature viventi, ma va ben oltre: infrange i diritti degli animali. La Soprani è stata giustamente chiamata in causa per varie accuse: trasporto illegale di animali, falsificazione dei libretti sanitari dei cuccioli, mancata denuncia di nascite e di conseguenza la mancanza del microchip nei cani, che non permette la loro identificazione in caso di ritrovamento e maltrattamento. La Soprani l'ha pensata bene per far soldi, evitando le complicazioni legali e sanitarie. Per sua sfortuna nel 2002 fu bloccato un camion che trasportava 56 cani beagle, una delle vittime preferite da Morini. Ovviamente il mezzo non era adibito per il trasporto di esseri viventi. Il procuratore Benno Baumgartner del tribunale di Bolzano ha disposto un decreto penale di tipo pecuniario per Giovanna Soprani e il camionista diretto in Germania. Lo stesso magistrato condannò due veterinari, uno della Soprani, l'altro operante per l'Ausl, per falso ideologico circa vaccinazioni mai effettuate sui cani. Iniziano così le proteste contro gli eccidi, finalizzati alla chiusura del lager Morini. Inizialmente il governo ha appoggiato queste manifestazioni, finchè nel 2004 il ministro La Loggia (FI) ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale. La legge (definita anti-morini) che vietava in Emilia Romagna l'allevamento di cani e gatti a fini sperimentali è stata quindi ritirata. Morini ha dato nuovo ritmo al suo massacro. Un gruppo di animalisti si è palesemente opposto all'ingiustizia della legge, loro portano il nome di "Chiudere Morini". Dal 2002 gli attivisti hanno organizzato numerosissime manifestazioni che tuttavia si sono rivelate poco approvate dalla popolazione sanpolese. Molto spesso lo stesso comune e il sindaco Milena Mancini hanno dimostrato poca attenzione ai cortei: migliaia di persone ignorate. C'è di più. Sono stati tristemente annotati eventi di violenza da parte delle forze armate contro queste dimostrazioni di puro animalismo. Ma di certo i motivi per protestare ci sono. Cuccioli uccisi, animali denutriti, spazi vitali del tutto assenti, igiene men che precaria. Evitiamo poi di descrivere le scene macabre delle carcasse gettate negli inceneritori che, come tante altre cose, sono detenuti illegalmente. Un vero e proprio lager per animali. E i più forti dove vanno a finire? Quelli che riescono a sopravvivere alla malnutrizione, alle malattie, ai maltrattamenti e al trasporto di "oggetti animati" vanno a finire solamente in laboratori. C'è chi, come le università, li usa per la vivisezione. Industrie farmaceutiche sfruttano le cavie e i beagle per testare nuovi farmaci. La questione si aggrava se gli animali, destinati a morire, vengono anche maltrattati e tenuti moribondi in piccole gabbie, come testimoniano le innumerevoli foto in circolazione. Non manca poi lo strapotere delle multinazionali dei cosmetici e prodotti per l'estetica. Sono ormai pubbliche le testimonianze di mutazioni geniche sui topi che hanno indotto lo sviluppo di migliaia di rughe su tutto il corpo. Solo per testare un cosmetico antinvecchiamento, semplice no? Anche le scimmie sono mira di molti scienziati e vivisettori. Loro vengono trasformate in esseri per metà metallici. Ad esempio vengono inseriti degli elettrodi nel cervello, utili per inviare scosse elettriche e verificarne la reazione fisiologica. E' scontato dire che gli elettrodi sono fissi e, una volta inseriti, saranno irrimovibili. Immaginate un gatto steso al sole con un pezzo di ferro che esce dal cranio, non farà più tanta tenerezza. Di fronte a tutto questo il cittadino può agire in vari modi. Prima di tutto è importante l'informazione: ognuno deve essere al corrente di ciò che l'uomo è capace di fare sulle altre creature. Di quanto l'uomo si senta di pari diritti ad un dio sulla vita degli altri. La richiesta a chiunque desideri opporsi alla crudeltà è quella di evitare l'acquisto di prodotti di marche-criminali. Tra questi si ricordano: Dash, Ace, Nelsen, Viakal e Mastro Lindo (per l'igiene della casa); Tampax e Lines (per l'igiene femminile!); Tempo, Topexan, Napisan, AZ, Kukident, Infasil e Pantene (per l'igiene personale), Laura Biagiotti e Hugo Boss (per i profumi).

Eugenio Milano


Columbus Day: nel nome di Colombo si uccide ancora

Lo scorso 12 ottobre, Italia e America hanno festeggiato con parate, cortei, sfilate e concerti il Columbus Day, ossia la giornata nazionale dedicata a Cristoforo Colombo in qualità di “scopritore” dell’America. Tale ricorrenza risulta essere più antica in America, dove alcuni la fanno risalire al 1892, anno in cui l’allora Presidente americano Harris, la istituì al fine politico di placare gli attriti sorti fra i nuovi immigrati cattolici e i vecchi coloni protestanti, mediante la celebrazione di un eroe cattolico.

Come ogni anno, in America ma anche in Italia, assieme alle parate e ai cortei sfilano anche le polemiche, di carattere storico ma soprattutto di carattere etico. Storico, perché sembra ormai certo che Colombo non sia stato il primo a sbarcare sul continente americano, ma pare che l’avessero preceduto i Vichinghi e secondo alcuni anche i Romani. Etico, perché l’approdo di Colombo in America oltre a non sancirne la “scoperta” in quanto si trattava di una terra popolata già da 300 mila anni, significò l’inizio del genocidio di migliaia di indigeni, massacrati, sfruttati sino allo sfinimento, violentati nel corpo e nello spirito col bene placido dell’ “eroe Colombo”. Ed è per questo che molti si oppongono a tale festa, in particolare le popolazioni indigene ma non solo. Nei giorni della festa, infatti, numerose contro-parate pacifiche hanno fatto da eco a quelle ufficiali, che si sono svolte soprattutto a New York e anche in alcune città italiane, nel corso di una delle quali, in Colombia, un manifestante è stato assassinato da agenti della sicurezza governativa. Sembra, infatti, che ogni anno il Governo americano cerchi di opporsi alle manifestazioni di protesta, mediante intimidazioni, minacce e censure.

Colombo scrive nel suo diario di bordo: "Ci portarono pappagalli e balle di cotone e lance e molte altre cose, che scambiarono con le perline di vetro e i campanelli per i falchi. Essi scambiarono di buon grado tutto ciò che possedevano. Erano ben formati, con corpi armoniosi e fattezze gradevoli. Non portano armi, e non le conoscono, giacchè io gli mostrai una spada ed essi la presero di lato e si tagliarono. Non hanno il ferro. Le loro lance sono fatte di canna di zucchero. Sarebbero degli ottimi domestici. Siamo riusciti in 50 a soggiogarli tutti e e fargli fare qualunque cosa volessimo." Durante il lungo viaggio di ritorno verso la Spagna, molti degli Indiani fatti prigionieri morirono. Ecco una parte del resoconto di Colombo alla Regina Isabella e al Re Ferdinando di Spagna: "Gli Indiani sono cosi’ ingenui e liberali con i propri averi che nessuno che non abbia veduto con i propri occhi ci crederebbe. Quando gli chiedi qualcosa in loro possesso, non rispondono mai di no. Al contrario, spesso si offrono di condividere con chiunque." Colombo concludendo la descrizione di ciò che aveva visto, chiese un piccolo aiuto al Re e alla Regina, promettendogli in cambio "tanto oro quanto ne avete bisogno, e tanti schiavi quanti ne chiedete."

Come riferisce Mitchel Choen: “Quando giunsero a Fort Navidad a Haiti, i Taino si erano ribellati e avevano ucciso tutti i marinai che erano rimasti lì dopo il viaggio precedente, dopo che avevano scorazzato per l’isola in bande, stuprando le donne e prendendo bambini e donne come schiavi. Colombo piu’ tardi scrisse: "In nome della Santa Trinita’, ci sia consentito continuare a spedire tutti gli schiavi che possono essere venduti." Gli Indiani cominciarono a resistere, ma non riuscivano a tenere testa ai conquistatori spagnoli, anche se li superavano grandemente per numero. In otto anni gli uomini di Colombo uccisero piu’ di 100.000 Indiani nella sola Haiti. In generale, piu’ di 3 milioni di Indiani furono uccisi tra il 1494 e il 1508, morendo come schiavi nelle miniere, o uccisi direttamente, o decimati dalle malattie portate ai Caraibi dagli Spagnoli”.

Da tale resoconto appare evidente quanto sia assurda e strumentale, in America, così come in Italia la celebrazione di un uomo che ha fatto della distruzione di un popolo, della devastazione di habitat incontaminati e dell’imposizione forzata di un dogma religioso la sua fortuna e di quanto sia paradossale definirlo un eroe. Paradossale e anacronistico verrebbe da dire, ma...pensandoci bene, purtroppo ancora non lo è.

 

Ivana Guagnano


Olimpiadi di Torino 2006,

uno schiaffo all’ambiente

 

Le Olimpiadi non sono ancora cominciate e già la fiaccola olimpica sembra scotti più che mai. Già qualcuno sarcasticamente ironizza sulla formula “avventura olimpica” coniata in riferimento alla manifestazione sportiva che si terrà il prossimo anno a Torino fra il 10 e il 26 febbraio 2006. Il sarcasmo deriva in realtà dai dubbi, sorti numerosi, circa la sostenibilità economica e ambientale dell’iniziativa che lascia presagire che tutto sia stato progettato in un’ottica del presente, e proprio come in un’avventura, evitando di interrogarsi su cosa accadrà all’indomani della manifestazione, quando i riflettori saranno ormai spenti. Numerosi studi condotti in quei paesi che hanno ospitato in passato manifestazioni come quella che si terrà a Torino il prossimo anno, hanno evidenziato un notevole indebitamento delle comunità locali e la presenza di impianti sportivi e non, inutilizzati e in disfacimento, per gli insostenibili costi di manutenzione, oltre che un irreversibile impatto ambientale, deleterio di per sé e dannoso anche a livello economico, in quanto causa dello scadimento qualitativo dei siti naturalistici interessati.

Tenendo conto di tali rischi, le quattro associazioni ambientaliste piemontesi, Legambiente, Italia Nostra, Pro Natura e WWF si sono unite per formare un osservatorio ambientalista, costituito ad hoc e volto a monitorare progetti e decisioni relative alle Olimpiadi al fine di evitare o, quantomeno, ridurre al minimo l’impatto ambientale e impedire che 15 giorni di gloria mediatica deturpino irrimediabilmente le montagne piemontesi. Quello che le associazioni ambientaliste chiedono è che si tengano presenti le procedure del VIA (Valutazione Impatto Ambientale), vale a dire un documento nel quale sono riassunte le procedure atte a ridurre l’impatto ambientale, cercando soluzioni alternative e meno deleterie per l’ambiente. Le proposte contenute nel VIA sono grossomodo le seguenti:

Evitare l’edificazione di strutture, in aree di elevato valore naturalistico.

Utilizzare impianti già esistenti (retaggio di altre grandi manifestazioni sportive che hanno interessato la regione in passato) anche se situati fuori provincia, anziché costruire nuovi impianti.

La costruzione di strutture smontabili, temporanee, in modo da garantire il ripristino dell’habitat originario.

Che gli impianti permanenti vengano progettati tenendo conto di una reale prospettiva di riutilizzo e stabilendone preventivamente la sostenibilità economica.

Che i villaggi olimpici siano realizzati prioritariamente attraverso il recupero di strutture già esistenti e non ubicati né in contesti urbani densamente popolati, né in contesti montani, delicati dal punto di vista ambientale; si richiede, inoltre, che il loro utilizzo futuro non ne preveda la trasformazione in abitazioni, ma in sedi di pubblici servizi (di cui le comunità del luogo necessitano da tempo).

A preoccupare in particolar modo sarebbero al momento, i ritardi ingiustificati, riguardanti i lavori per le opere olimpiche. Tali ritardi hanno creato una situazione di “emergenza olimpica”, che lascia presagire il ricorso alla legge speciale concepita dal Ministero delle Opere Pubbliche. La suddetta legge prevede che il Ministro interessato possa estendere ai “grandi eventi”, quelle deroghe legislative previste per gli avvenimenti catastrofici e relative allo stato di emergenza. Questo vorrebbe dire che i lavori per le Olimpiadi potrebbero godere della deroga della legge che stabilisce le normali procedure per la realizzazione delle opere pubbliche, oltre che il superamento delle procedure di VIA. In realtà, nonostante le associazioni ambientaliste siano state invitate alle riunioni del comitato olimpico organizzatore, le loro richieste sono state finora perlopiù ignorate. A dimostrarlo il fatto che tutte le strutture realizzate, saranno, per direttiva del CIO (Comitato Olimpico Internazionale), permanenti e che la costruzione della maggior parte di esse comporterà una trasformazione vera e propria della forma delle montagne, un elevato tasso di disboscamento e il taglio di molte piante tipiche del luogo, in contesti, inoltre, già naturalmente a elevato rischio idrogeologico e definiti dall’Autorità del Bacino del Po come “zone a rischio molto elevato in cui sono possibili la perdita di vite umane e lesioni gravi alle persone, danni gravi agli edifici e alle infrastrutture, la distruzione di attività socio-economiche” e su cui l’impatto dei lavori olimpici, non potrà che accentuare il dissesto. Fra le strutture più contestate in questo senso, l’impianto per il salto col trampolino, il quale oltre a destare seri dubbi circa il reale uso post-olimpico, considerando che alle ultime olimpiadi di Salt Lake City vi era un solo italiano iscritto a tele disciplina, va detto che le tribune verranno costruite nell’area esondabile del torrente Chisone, oltre che in un SIC, vale a dire in un Sito di Interesse Comunitario a elevato valore naturalistico e tutelato dall’UE. Praticamente tale struttura insieme a quella per il biathlon sarà realizzata in un’area dalla natura incontaminata che verrà deturpata per sempre per fare spazio a migliaia di metri cubi di cemento, impiegati nella costruzione di parcheggi e strade per consentire l’accesso a decine di migliaia di persone in un luogo praticato al momento da poche decine di anime. I lavori danneggeranno pesantemente l’ecosistema dell’area creando per altro notevoli disturbi alla fauna del luogo, già notevolmente colpita a causa della crescente sottrazione del territorio a opera umana. Anche il punto che chiedeva di evitare la costruzione di villaggi olimpici, all’interno di zone densamente abitate, sembra sia stato ignorato in toto. Torino infatti, trasformata in un enorme cantiere, diventerà la sede di un villaggio olimpico da 200 mila metri cubi, l’equivalente di abitazioni per 2200 persone; due villaggi per giornalisti, che insieme copriranno una superficie di quasi 400 mila metri cubi e atti a ospitare 4000 persone; 3 palazzetti del ghiaccio, 2 per le prove degli atleti e uno solo per lo svolgimento vero e proprio dell’unica gara che vi si svolgerà. Quest’ultima struttura, inoltre, dalle dimensioni colossali (220 metri di lunghezza, 120 di larghezza e 38 di altezza) risulterà economicamente ingestibile sin dal giorno dopo la conclusione della manifestazione. Per non parlare poi, dell’ingente opera di modifica dell’attuale viabilità che prevede l’allargamento dell’autostrada del Frejus, la risistemazione della statale per Sestriere, con varie circonvallazioni e la realizzazione di chilometri e chilometri di nuove strade per rendere Torino raggiungibile praticamente da ogni dove, la costruzione di bacini idrici per consentire l’approvvigionamento a tutti gli impianti per l’innevamento artificiale e altro ancora. Il tutto per soli 15 giorni! Il tutto attraverso un impiego di risorse economiche incalcolabile, che avrebbero potuto essere impiegate per la realizzazione di aree verdi cittadine, di cui alcune zone di Torino risultano carenti o, quantomeno, per accontentare le richieste di tutti quei cittadini che attualmente abitano le “montagne olimpiche” e che da anni denunciano la mancanza di infrastrutture primarie per i servizi, di depuratori, di fognature, l’insufficienza dell’acqua per usi domestici per cui più volte ci si è ritrovati in emergenza idrica in pieno inverno. Inoltre, la parziale mancanza di sponsor finora riscontrata rischia di minare il candore di Biancaneve, vale a dire la carta etica sottoscritta dagli organizzatori col settore del no-profit, al fine di realizzare olimpiadi “pulite”. Sembra, infatti, che se la situazione non dovesse mutare fra i pochi sponsor delle olimpiadi compariranno anche Finmeccanica e Istituto San Paolo, accusate di essere coinvolte nel commercio di armi.

Ivana Guagnano

 

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