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L’Amazzonia sta finendo! Prosegue la distruzione del polmone verde del pianeta Terra Se si osserva con attenzione un mappamondo, si scopre che all’altezza dell’Equatore il nostro pianeta è cinto da una fascia verde e folta, che comprende il bacino del Congo, le giungle dell’Asia sud-orientale e il bacino del Rio delle Amazzoni. Quest’ultimo, che deve il suo nome alle mitiche guerriere, si estende per 6 milioni di chilometri quadrati (una superficie pari a 20 volte l’Italia) e racchiude in sé molte contraddizioni. Da una parte, infatti, si può ammirare un ambiente forestale rimasto immutato per milioni di anni (si ritiene che la foresta pluviale sia l’ecosistema più antico e stabile del mondo), molto ricco di biodiversità, con una piovosità che può raggiungere i 6 metri annui, con zone ancora inesplorate e popolazioni native rimaste all’età della pietra; dall’altra si può osservare l’operato di uomini civilizzati, che si impegnano nella distruzione di questa terra con ogni mezzo possibile. Si pensi che il diboscamento arriva a 20 mila chilometri quadrati all’anno (una superficie pari alla Campania) e viene praticato per ricavare terre coltivabili per sfamare masse di contadini privi di terra, per consentire il pascolo al bestiame che poi ritroviamo sulle nostre tavole (a tal fine sono stati creati anche recinzioni e villaggi fatti di lamiere), per scoprire luoghi adatti per trivellare la terra in cerca di petrolio, per saccheggiare i tronchi di legname pregiato (come il mogano) in favore di un fiorentissimo contrabbando. Quest’ultima attività viene svolta anche all’interno delle Riserve, come il Parco Nazionale Manu, dichiarato Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1977 e Patrimonio dell’Umanità. Un altro mezzo di distruzione è il bracconaggio, che colpisce le specie più rare come il giaguaro, il tapiro, la lontra gigante, il coccodrillo nero, i pappagalli di diverse specie, i pecari (mammiferi simili a piccoli cinghiali), le scimmie urlatrici, minacciandone la sopravvivenza. Lungo le rive dei fiumi gruppi di desperados difesi da tettoie di lamiere, pompano acqua e la riversano a pressione sulle sabbie e il limo dei greti (la parte ghiaiosa del letto del fiume) da cui, con sistemi di lavaggio, grigliatura e amalgama con il velenoso mercurio, ricavano pagliuzze d’oro per un guadagno di poche lire. Le acque di questi fiumi, rese torbide e velenose, sono prive di fauna selvatica, se si esclude qualche rarissimo uccello acquatico. Tale scenario non lascia ben sperare sul futuro delle giungle dell’Amazzonia e del mondo. Perché accade tutto questo? Sicuramente uno dei fattori che va considerato è l’aumento della popolazione che si è verificato in queste zone. Si pensi che in Brasile la popolazione è passata dai 92 milioni di abitanti nel 1970 ai 175 milioni attuali. Contemporaneamente un sesto della selva amazzonica è scomparso. Molte persone hanno lottato coraggiosamente per difendere questo territorio, alcune hanno sacrificato la loro stessa vita, come Chico Mendes, il sindacalista brasiliano difensore di coloro che dalla giungla ricavano, senza distruggerla, “castagne” e caucciù, ucciso nel 1988 dai latifondisti. Si ricordi anche l’eroica difesa del loro habitat da parte delle tribù indie, come gli Yanomami. Una notizia positiva c’è: il ministro dell’Ambiente brasiliano, l’ecologista Marina Silva, afferma che il tasso di deforestazione si sta stabilizzando, pur ritenendolo ancora intollerabile. Quale sarà il futuro di questa foresta così preziosa e così devastata? Gli esseri umani saranno capaci di rispettare la Terra che li ospita? Riusciranno un giorno a comportarsi come suoi figli e non come suoi padroni? Gli ultimi nativi amazzoni, persone non “civilizzate”, ricordano a tutti che “gli alberi reggono la volta celeste e, se li si elimina, questa ci cadrà addosso”. Pensiamoci.
Eliana Paradiso
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Peperoncino rosso vergogna Il Colorante Sudan I rende la spezia cancerogena In data 20 Giugno 2003 la Commissione Europea si riuni’ per deliberare una misura di emergenza relativa al peperoncino rosso ed ai suoi derivati .Questa misura di emergenza si rese necessaria poiche’, un mese prima in Francia,alcuni laboratori avevano riscontrato in partite di peperoncino di provenienza indiana delle dosi elevate di un colorante denominato rosso Sudan di tipo 1. I livelli accertati erano di 1000-4000 mg/kg:numeri spaventosi se consideriamo che tale sostanza di sintesi ha proprieta’ cancerogene(e’ infatti classificata come tale) ed e’ genotossico .Questo colorante, che ha funzione puramente estetica, puo’, con assunzioni ripetute e continuative,causare alterazioni cromosomiche di numero,di struttura e tutte queste problematiche genetiche possono essere asintomatiche nel portatore divenendo pero’ patologiche nella progenie. Insomma, un banale colorante,uno dei tanti e molteplici additivi chimici che accompagnano gran parte degli alimenti oggi in commercio, puo’ essere veramente pericoloso.Tutto questo ovviamente, miei cari consumatori, fa gia’ parte di un passato astutamente taciuto dalle case produttrici: il polverone e’ stato sollevato nel giugno del 2003 in Provincia di Torino, dove grazie alle attente analisi dell’ARPA Regionale, si sono riscontrate tracce di questo additivo in numerosi prodotti di produzione nazionale. La tipologia degli alimenti riscontrati positivi al Sudan 1 e’ molto eterogenea e comprende miscele di spezie, condimenti come paprica e pepe,sughi piccanti, salami, pesti rossi e pasta piccante. Il problema in realta’ non si trova nel prodotto finale, bensi’ in uno dei suo componenti presi singolarmente:non e’ il peperoncino in se’ a detenere proprieta’ di fattore di rischio, ma il colorante rosso Sudan 1 che vi viene appunto aggiunto. Questo tipo di spezia “addizionata” ha come esportatore la Patos export CO (con sede in India) ed e’ stata venduta in tutta la Comunita’ Europea e nel resto del mondo;e’ stata poi lavorata dagli importatori,addizionata negli alimenti,riposta sugli scaffali della grande distribuzione,acquistata da una persona ignara del fatto e servita sulle nostre tavole. Continuo ad usare il passato poiche’,come gia’ detto prima, la situazione critica e’ stata apparentemente superata,almeno in Italia:con la comunicazione della Gazzetta Ufficiale Dell’UE si comunicava che “e’ impossibile stabilire una dose giornaliera tollerabile” ed al fine di tutelare la salute pubblica si ordinava un’immediata ispezione delle partite provenienti dall’India e dun ritiro dei lotti positivi. Gli ultimi lotti con scadenza 2004 ed inizio 2005 sembrano essere stati totalmente sequestrati e distrutti, ma nessuno ci puo’ dare garanzia di come questo sia avvenuto in modo tempestivo, ugualmente in tutte le regioni e dal supermercato piu’ grande al negozietto di provincia. Come ovvio, la tutela delle persone fisiche e’ stata soverchiata dalla tutela delle persone giuridiche, ovvero le grandi compagnie coinvolte nella commercializzazione (bandita dal 1919) di questo additivo: nomi come Kraft, Star, Cirio, Del Monte, Barilla, Arena non hanno avvertito la loro clientela dello “spiacevole inconveniente” e, ad oggi, molte persone non avevano cognizione del fatto accaduto. Ringraziamo solo la catena di supermercati Conad che ha avvisato i propri clienti dei ritiri in atto, comunicando nomi e marchi sul suo sito Web. Il Procuratore aggiunto Guariniello ha indagato attivamente sulla questione, sollevando l’ipotesi di reato di somministrazione di sostanze alimentari pericolose per la salute pubblica: come in tutte le questioni ambientali o riguardanti la salute, si tenta inutilmente di rendere responsabili delle aziende, quando in realta’ chi paghera’ il prezzo sara’ forse qualcun’ altro, piu’ sensibile a certi agenti ed ignaro di farsi del male con un banale sugo. Certo, non allarmiamoci in modo esasperato: il mio invito e’ sempre quello di avere piu’ cognizione nell’acquisto e di potenziare il valore delle nostre scelte, intese non solo come boicottaggio alle grandi corporazioni ma, soprattutto, come ritorno alla naturalita’. Elisa Biondi
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Ecco chi sono i finanziatori delle guerre I Governi europei sono i più coinvolti nel traffico d’armi Che l’Italia esporti armi, non è certo una novità, sorprende invece sapere che molto spesso il commercio “legale” avviene eludendo normative italiane ed europee a riguardo. Qualche esempio? La legge 222/92 per altro inglobata anche in una direttiva dell’UE, prevede la regolamentazione e il controllo delle esportazioni dei prodotti a elevata tecnologia, per evitare che questi vengano impiegati per usi militari, anziché civili; bene, è noto che negli anni scorsi l’Italia ha fornito all’aviazione civile sudanese attrezzature radar di sorveglianza e controllo del traffico aereo, indirizzate presso aeroporti internazionali in piena zona di conflitto e che quindi gestivano prevalentemente un traffico militare. Caso analogo, quello delle Siria cui l’Italia ha fornito, già a partire dal 1998, ben 102 kit di sofisticati sistemi di puntamento e controllo del tiro, anche notturno, destinati ai carri armati dell’esercito siriano. Durante la fase clou del conflitto in Iraq, Rumsvelt, aveva accusato la Siria, che sembra ora essere nel mirino di Bush, di aver esportato clandestinamente in Iraq proprio dei visori notturni (non saranno mica quelli made in Italy?). Ma, il governo italiano, sembra non si preoccupi molto dell’eventuale doppio uso che tali armamenti potrebbero avere e sembra, inoltre, che armi italiane finiscano anche in Paesi africani, alcune mediante triangolazioni commerciali che vedono il passaggio intermedio di armi italiane attraverso Paesi come Repubblica Ceca, Romania, Polonia, Bulgaria e Turchia, Paesi questi dove i controlli e la regolamentazione circa il commercio delle armi risultano ancora lacunosi, tant’è che nel 2002 questi Paesi figuravano come i principali esportatori illegali di armi. Le vendite dirette, invece, ai Paesi africani vedono fra i principali clienti italiani, Egitto, Nigeria, Tunisia, Marocco, Kenya, Sudafrica, Ghana, Algeria ed infine Zambia. Verso quest’ultima vi è un record di esportazioni di armi per un valore di 24 milioni e 600 mila euro, cifra questa per altro assai relativa se si considera che l’Istat non riporta tutti i dati relativi all’export delle armi, ma solo alcuni, vale a dire quelli non riservati, quelli di industrie ufficialmente note come produttrici di armi e non quelli relativi a sistemi a doppio uso, cioè quelli che potrebbero essere utilizzati sia per scopi civili che militari (come quelli esportati in Sudan, per intenderci). Ma, il mercato italiano delle armi punta soprattutto sui paesi del Medio Oriente, dall’Arabia Saudita al Kuwait e alla Siria e, inoltre, prima della guerra in Afghanistan i migliori affari dell’industria bellica occidentale, non solo italiana, sono stati conclusi proprio con il regime dei talebani con la benevola approvazione degli Stati Uniti. Armi italiane arrivano, inoltre, anche in Cina e Malaysia e inaspettatamente anche negli USA, che solo nei primi mesi del 2001 avevano importato un quantitativo di armi pari a 98 miliardi e mezzo di euro e che costituiscono il nostro principale cliente in fatto di armi leggere, cioè quelle utilizzate per sparare all’impazzata nelle scuole, negli autogrill e per le strade. Ivana Guagnano | |||||||||||||||||||||||||||||||
Ferrari: lo scandalo dei pneumatici Firestone-Bridgestone che violano i diritti umani Quasi un anno fa, nel giugno ‘05, il mensile Nigrizia, pubblicava un editoriale dal titolo “Pneumatici con catene”, in cui si denunciavano pesanti violazioni di diritti umani a danno dei dipendenti della multinazionale nippo-americana Firestone-Bridgestone, produttrice di pneumatici e nota soprattutto per la sua collaborazione con la Ferrari. Da allora, nonostante il polverone sollevato dal succitato articolo, sembra che la situazione non sia cambiata per gli oltre 20000 lavoratori dipendenti dell’azienda. A confermarlo il fatto che lo scorso febbraio gli operai si sono riversati per le strade di Harbel City, in Liberia, dove il gruppo detiene la più grande piantagione di caucciù, per manifestare contro la multinazionale, rivendicare i propri diritti e denunciare ancora una volta il modus operandi dell’azienda, che, dichiarazioni di facciata a parte,nella sostanza non accenna a cambiare.Quel che è peggio tuttavia, è che le condizioni di lavoro e di vita nella piantagione di Harbel City, sono rimaste grossomodo immutate dal lontano 1926, anno in cui Harvey Firestone chiese e ottenne in concessione al governo della Liberia, 240 miglia quadrate di piantagione di caucciù, con l’obiettivo di rendere gli USA indipendenti dalle importazioni di gomma provenienti da Gran Bretagna e Olanda. Da allora la Liberia risulta essere il terzo più grande produttore al mondo di caucciù, eppure nessuno stabilimento per la lavorazione della gomma è stato impiantato in territorio liberiano e il Paese non produce un solo oggetto di gomma. Oggi come allora gli operai vivono all’interno della piantagione in costruzioni fatiscenti, assegnate loro dall’azienda, costituite da una sola stanza nella quale dimorano assieme alla propria famiglia, senza servizi igienici, acqua ed elettricità. Costretti a lavorare 12 ore al giorno, dalle 4 del mattino alle 16, percepiscono uno stipendio giornaliero di poco superiore ai 3 dollari, che si dimezza allorquando il lavoratore non raggiunga l’inumana quota di 1125 alberi al giorno assegnatagli e da cui vengono peraltro detratte le spese a sostegno di un sindacato fantoccio alla mercé dell’azienda. Risultato: circa 20 dollari netti al mese, in un contesto in cui ribellarsi equivale a morire di fame assieme alla propria famiglia. Il compito dei lavoratori è quello di estrarre il lattice dagli alberi produttori di caucciù. Prima incidono la corteccia, poi vi applicano contenitori di raccolta che successivamente svuotano e ripuliscono. Un lavoratore riesce a incidere in media un totale di 850 alberi al giorno, ben al di sotto della quota giornaliera fissata dall’azienda, il che li porta molto spesso a richiedere l’aiuto della propria famiglia, compresi bambini piccolissimi, pur di non vedersi dimezzare il già misero stipendio. Responsabili e dirigenti della Firestone-Bridgestone sono perfettamente a conoscenza delle dinamiche che portano all’impiego dei minori nelle loro piantagioni, ma nonostante ciò non solo non fanno nulla per contrastare il fenomeno,ma al contrario lo incoraggiano. Significativo in proposito il fatto che all’interno della piantagione sono presenti 10 scuole elementari, 4medie e nemmeno una scuola superiore, cosicché nella maggior parte dei casi i figli degli operai, terminate le medie, restano a lavorare nella piantagione non potendosi permettere di recarsi a studiare fuori. Non a caso uno dei principali capi d’accusa presenti nella denuncia presentata lo scorso novembre contro la multinazionale dal sindacato americano IRLF, è proprio lo sfruttamento del lavoro minorile. Come se non bastasse, a tutto ciò si aggiunge il fatto che i dipendenti, adulti e bambini, sono quotidianamente a stretto contatto con sostanze chimiche, quali pesticidi, fungicidi o stimolanti applicati agli alberi per indurli a produrre quanto più lattice possibile, violentando oltre modo la natura. Gli effetti immediati o quanto meno più evidenti derivanti dall’utilizzo di tali sostanze, senza la benché minima protezione, sono una grave compromissione della vista e in non pochi casi la cecità. Al quadro di degrado, miseria e disperazione appena delineato,fa da sfondo invece la lussuosissima Harbel Hills, la zona ricca della città, dove dimorano i dirigenti della multinazionale, in abitazioni assegnategli dalla stessa azienda,dotate di ogni comfort, dalle parabole ai campi da golf e da tennis e dove sono ubicate le scuole frequentate dai figli dei responsabili, ben diverse ovviamente da quelle dei figli degli operai, sprovviste praticamente di tutto. Eppure lo scandaloso risvolto di questo mondo di plastica, composto da prati curati, piscine e centri congressi non è fatto solo di dignità umane denigrate e svilite,di infanzia violentata e sfruttata,di linee di demarcazione tracciate fra esseri assolutamente uguali accomunati dalla loro natura umana, ma come sempre più spesso accade a tutto ciò si associa anche uno spaventoso degrado ambientale. I responsabili dell’associazione ambientalista “Save my Future”in un rapporto dal titolo “Firestone: il marchio della schiavitù”, denunciano la scandalosa politica ambientale portata avanti dalla multinazionale. James Makor, direttore esecutivo dell’associazione, parla di scarti di fabbrica sistematicamente scaricati nel fiume Farmington, nel quale dalle analisi eseguite sono stati rinvenuti diversi tipi di sostanze tossiche tra cui ammoniaca, acido solforico e formaldeide in grande quantità. All’inquinamento delle acque e del suolo si aggiunge poi quello dell’aria, causato dall’incessante emissione nell’atmosfera di fumi tossici provenienti dallo stabilimento. Eppure nonostante tutto questo il governo liberiano non ha esitato a rinnovare il contratto di gestione della piantagione in favore della multinazionale, fino al 2061. Quanto alla Ferrari invece, considerata uno dei principali clienti del gruppo, ha eluso tutto le domande che il mensile Nigrizia chiamandola in causa, le aveva posto, come ad esempio se fosse a conoscenza delle condizioni nelle quali cui vessano gli operai del gruppo loro fornitore, della politica ambientale portata avanti dalla medesima azienda e che garanzie gli venissero fornite in proposito dal proprio partner. A tali interrogativi i vertici della casa modenese si sono limitati a rispondere di essere “…orgogliosi della partnership con la Bridgetone”. Parole queste che lasciano sconcertati o se non altro dubbiosi circa la credibilità di alcuni vertici della casa di Maranello, perlomeno quando parlano di “ eticità del lavoro”. Ivana Guagnano
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I veri portatori di pace Niente bagni di folla o personaggi illustri ai loro funerali, niente pellegrinaggi alle loro tombe, niente telecamere e poche, pochissime righe sui giornali. Di loro, capita di leggere fra le ultime pagine dei quotidiano o forse, su giornali che si occupano nello specifico di tematiche sociali. Il circo mediatico ha ben altro di cui occuparsi! Fra un papa morto e uno eletto, fra il Grande Fratello e la Fattoria, poco spazio rimane per persone come loro, per chi non si è accontentato di inviare un SMS e lavarsi la coscienza dinanzi alla tragedia di turno, o meglio la più mediatica, quella che fa più audiance, quella dietro la quale se ne nascondono ogni giorno altre mille, quelle per cui i telegiornali non hanno spazio perché, per esempio, Schumacher ha già acceso il motore della sua Ferrari, o perché qualche calciatore ultra miliardario ha dichiarato di drogarsi. Morti per sbaglio perché avevano deciso di vivere in luoghi insicuri, pericolosi o uccisi perché scomodi come spesso capita di essere a chi corre controcorrente e a chi dice la verità. Ma d’altronde a chi volete che interessi di Marla Ruzicka che a soli 28 anni aveva già curato gli ammalati di AIDS in Zimbawe, i rifugiati in Palestina, i campesinos in Nicaragua, che nel 2002 era in Afghanistan e fino allo scorso 16 aprile, quando un’autobomba se l’è portata via era in Iraq. Qui era arrivata subito dopo la caduta di Saddam e qui come in Afghanistan si era data un compito preciso: contare quelli che gli americani, senza andare troppo per il sottile, chiamano “danni collaterali”, quei danni che a volte hanno un nome, un cognome e che quando non rimangono inerti al suolo, se ne tornano a casa (se ancora ne hanno una) mutilati a vita. Marla, cha aveva anche fondato una sua Ong, Civic (Campagna per le vittime innocenti dei conflitti) se ne andava in giro a contare i civili iracheni uccisi durante i conflitti, quei civili che gli americani avevano detto a chiare lettere di non voler contare, casa per casa, obitorio per obitorio. Inoltre, si era battuta, ed era riuscita ad ottenere che il parlamento USA stanziasse, 2,5 milioni di dollari per le vittime di guerra afghane e ben 20 milioni per quelle provocate dall’operazione “Iraqi freedom”. Ma Marla è solo una delle ultime vittime di una lista lunghissima, interminabile, la lista di chi ha deciso di mettere la propria vita e il proprio entusiasmo a disposizione degli altri. Qualche altro esempio? Maria Bonino, pediatra, 51 anni da 10 in Africa, è morta qualche giorno fa per aver contratto il virus Marburg, che in Angola, dove operava, sta facendo strage soprattutto di bambini. Il virus si contrae attraverso i fluidi delle persone infette e dove operava Maria mancano guanti, mascherine, tute di protezione e farmaci, eppure quando sono arrivati da lei quei bambini che perdevano sangue e vomitavano, pur consapevole del rischio che correva, non si è tirata indietro e li ha curati. E ancora: tre volontarie uccise in Afghanistan lo scorso 3 maggio. Le fonti non riportano nemmeno il loro nome. Si tratterebbe di una madre e delle sue due figlie. Afghane, avevano deciso di sfidare la cultura del loro Paese e lavoravano per una ONG straniera, i loro corpi sono stati ritrovati in una discarica, dove prima di esservi gettate, sarebbero state violentate e uccise a bastonate e a colpi di pietra. Sempre in Afghanistan, lo scorso anno furono uccisi a colpi di arma da fuoco 5 volontari appartenenti alla sezione tedesca di Medici Senza Frontiere, mentre tornavano dalla clinica di un villaggio. Poco meno di due righe, invece, per Maryan Kuusow operatrice umanitaria somala, uccisa da sicari lo scorso 18 aprile. Già, solo due righe, eppure la Kuusow sembra essere stata fortunata, perché invece nel più assoluto silenzio mediatico, sono saltati in aria su una mina nel deserto del Darfur, 3 volontari dell’associazione Save the Children. Non si tratta solo di operatori umanitari, moltissimi sono i giornalisti uccisi in zone come l’Iraq dall’inizio del conflitto, fra quali figura anche l’italiano Enzo Baldoni. A Gaza, invece, il 3 Maggio 2003 il giornalista James Miller (foto a sinistra) è stato colpito a morte da alcuni soldati israeliani mentre filmava alcuni bambini per la realizzazione di un documentario sulla demolizione di case palestinesi in un campo profughi. Ovviamente i casi citati sono solo alcuni, volutamente meno noti, fra centinaia di casi analoghi. Medici, come Carlo Urbani (foto a destra) ucciso dalla Sars che per primo aveva individuato e alla quale cercava una cura, missionari, giornalisti, semplici volontari...persone che hanno deciso di lasciare i loro comodi uffici, il loro lavoro sicuro, le loro case, le loro famiglie, le loro ricchezze e comodità, e si sono lanciate in realtà fatte di guerra, violenze, malattie, diritti violati, catastrofi naturali e hanno scelto di dedicare la loro vita agli altri fino alla fine, fino alla morte, perché questo era ed è il loro sogno, veramente per un ideale. Eppure i loro nomi non li conosce nessuno, niente bandiere (per fortuna), niente medaglie e funerali di Stato per loro, se ne vanno nel più assoluto silenzio, così come hanno operato e a piangere per loro sono solo le famiglie e le persone per cui hanno dato la vita. La volontà di dedicare loro un articolo nasce dal desiderio, non di donargli quella celebrità momentanea che i media non gli concedono, ma dalla speranza che le loro storie, le loro vite possano diventare esempi e modelli da seguire. E tenendo presente questi uomini e queste donne, il loro operato, la loro passione, entusiasmo, il loro coraggio e la loro vita, si possa rivedere quell’idea di “eroe” e “portatore di pace” che oggi troppo spesso viene accostata non a loro, ma paradossalmente a chi muore impugnando un arma. Ivana Guagnano
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Spariscono 30 chili di rifiuti radioattivi E’ di qualche giorno fa la notizia che a Sellafield (Gran Bretagna) manca all’appello un quantitativo di plutonio sufficiente per la costruzione di 7 ordigni nucleari. La cittadina britannica, che ospita un impianto di riprocessamento di combustibile nucleare, purtroppo non è nuova a questo genere di sparizioni, già nel 2003 erano scomparsi 19 chili di plutonio, per un totale di 50 chili negli ultimi 10 anni. Lo scopo ufficiale di strutture come quelle di Sellafield è quello di estrarre plutonio e uranio dai rifiuti degli impianti nucleari, per poi poterli riutilizzare, nel caso si tratti di combustibile irraggiato (cioè, ancora potenzialmente efficiente) per uso “civile”. Ora, se si considera che attualmente nel mondo solo 4 Paesi stanno costruendo nuove centrali nucleari (India, Ucraina, Cina e Russia) che gli Stati Uniti non costruiscono un reattore dal ‘79; che in Europa, 5 degli 8 Paesi nuclearizzati hanno da tempo deciso la moratoria, che l’Italia ha chiuso la sua stagione nucleare (speriamo definitivamente) col referendum dell’87; che Danimarca, Portogallo, Grecia, Austria, Irlanda e Lussemburgo non hanno programmi nucleari e infine che, l’unico Paese dell’UE che ha deciso di costruire un nuovo reattore è la Finlandia, viene da chiedersi: è davvero necessario il riprocessamento del combustibile nucleare o meglio, lo è davvero per scopi civili? L’alternativa meno pericolosa al riprocessamento è quella dello “stoccaggio a secco” di questo tipo di rifiuti, che consiste nell’isolarli in appositi contenitori (cask) nell’attesa dell’individuazione di un sito per lo smaltimento finale e definitivo (come quello esistente negli Stati Uniti, finora unico al mondo). Lo stoccaggio a secco, non è sicuramente la soluzione al problema, ma è indubbiamente meno pericoloso, perché le operazioni di trattamento dei rifiuti nucleari producono un’enorme contaminazione ambientale, nonché rischi sanitari non solo per i lavoratori che ne so no a diretto contatto, ma anche per i siti abitati, circostanti gli impianti. Inoltre, lo stoccaggio a secco avverrebbe in loco, vale a dire, direttamente negli impianti che producono o hanno prodotto in passato i rifiuti e questo vorrebbe dire che le scorie non dovrebbero percorrere chilometri e chilometri per raggiungere gli impianti di riprocessamento che, in Europa, sono solo due (Sellafield appunto e La Haugue in Francia), evitando quindi anche il rischio di incidenti, nonché eventuali sparizioni durante i trasporti. Il Governo italiano sembrava aver optato per questa alternativa, ma a cambiare le carte in tavola è stato il decreto Marzano, del dicembre 2004, che consente lo smaltimento dei rifiuti fuori dal confine nazionale. Ed è dunque, proprio grazie a tale decreto che 235 tonnellate di rifiuti speciali provenienti dagli impianti nucleari di Trino Vercellese, Saluggia e Caorso verranno inviati proprio a Sellafield (che tra l’altro già ospita plutonio e uranio provenienti dalle centrali italiane di Latina e Garigliano). L’operazione che potrebbe essere già conclusa entro il 2007, dovrebbe prevedere circa 70-80 trasporti eccezionali di combustibile irraggiato, sulle cui misure cautelative da adottare in fatto di informazione della cittadinanza, nonché di tutela di quest’ultima e dell’ambiente, non si conosce ancora nulla. Ma non è finita qui, sembra infatti che i rifiuti si vorrebbe cederli definitivamente ai britannici al contrario di quanto sostiene la legge, che prevede invece che questi debbano rientrare nel Paese d’origine entro e non oltre 20 anni dall’esportazione. Ma è giusto che al momento un altro popolo si faccia carico dei danni sanitari e ambientali che i rifiuti provenienti dalla stagione nucleare italiana provocheranno? Non tutti sono a conoscenza, infatti, dell’elevata incidenza di leucemie e tumori infantili esistente nei Paesi prossimi all’impianto di Sellafield, incidenza, che supera di 14 volte la media nazionale; che l’intera regione del West Cumbria, tra l’altro una delle più povere del Regno Unito (il 25% della popolazione ha un reddito al di sotto della soglia di povertà) è stata dichiarata zona ad alto rischio sanitario, per l’elevato tasso di tumori soprattutto della pelle e di malattie cardiocircolatorie, per non parlare poi degli ingenti quantitativi di plutonio riscontrati mediante analisi post-morte nei lavoratori e negli abitanti delle zone circostanti. E questo solo per citare alcuni dati. Ovviamente, la BNFL, la società che gestisce l’impianto, ha sempre negato responsabilità dirette e ha solo concesso, sotto pressione dei sindacati, una ricompensa finanziaria solo per quei lavoratori che dovessero contrarre un tumore, nessun compenso, né garanzia invece, per gli abitanti delle zone circostanti. In realtà il provvedimento adottato dal Governo italiano altro non è che un escamotage temporaneo, per una soluzione definitiva al problema che non si ha la reale volontà di cercare, scaricando pertanto la responsabilità di farlo non solo su un altro popolo a breve termine, ma anche su un’altra generazione. A dimostrazione di questo, vi è il fatto che l’unico scopo degli impianti di riprocessamento è come già detto quello di rendere riutilizzabile nelle centrali nucleari uranio e plutonio, centrali nucleari che in Italia sono ormai inattive da anni. L’Italia ha alle spalle una lunga storia di cattiva gestione dei rifiuti. Già nel ‘97 Greenpeace aveva denunciato l’esistenza di un mercato clandestino italiano che prevedeva lo smaltimento di rifiuti radioattivi e non in Italia e in Paesi poveri dove tale operazione può avvenire a costi irrisori rispetto ad uno smaltimento legale. Ivana Guagnano | ||||||||||||||||||||||||||||||||
Ruanda 1994: “E VOI? MUTI.”
Il 7 aprile di undici anni fa in Ruanda, tra l’indifferenza generale, è iniziato e si è perpetrato fino al giugno dello stesso anno uno dei più efferati crimini della storia dell’uomo: un genocidio che ha causato la morte di circa 800 000 persone. In occasione dell’undicesimo anniversario del genocidio ruandese, si vuole dedicare questo articolo a tutti coloro che non sono sopravvissuti ai massacri e si vuole anche cogliere l’occasione per ricordare ciò che è accaduto, perché “ricordare vuol dire non morire” (Kriton Athanasulis, “Testamento”). Nella zona dell’attuale Ruanda hanno convissuto pacificamente per secoli tre diversi gruppi etnici: i Tutsi, gli Hutu e i Twa (o Batwa). Verso la fine del 1800, nel periodo coloniale, il Ruanda ha visto succedersi l’occupazione tedesca e quella belga. Dopo la seconda guerra mondiale, l’area è diventata protettorato delle Nazioni Unite, rappresentata da un re Tutsi sotto il governo del Belgio, che ha così controllato il paese iniziando la prima vera discriminazione razziale nei confronti degli Hutu (in maggioranza) ed a favore dei Tutsi (circa un decimo dei connazionali), soprattutto riguardo ai diritti di impiego nel settore pubblico. Col tempo gli Hutu hanno avvertito il bisogno di far sentire la loro voce ed il loro peso demografico, formando raggruppamenti politici e costringendo il re ed altri Tutsi ad emigrare in Uganda (1959). Nel 1961 il Ruanda è proclamato repubblica e nel 1962 ottiene l’indipendenza, mettendo a capo un presidente Hutu. Il paese attraversa un trentennio di violenze inter-etniche, molti Tutsi emigrano, gruppi di Hutu precedentemente emigrati per la situazione sfavorevole creata dal Belgio, ritornano in patria, colpi di Stato mutano i vertici governativi. Intanto, nei paesi vicini (Zaire, Uganda, Burundi), si organizzano gruppi militari (il più importante è il RPF, Rwandan Patriotic Front), pronti ad entrare in azione. Tutto questo sotto gli occhi della comunità internazionale. All’inizio degli anni ’90, le truppe del RPF invadono il Ruanda, aumentando la tensione tra le due etnie e istigando all’odio razziale, che viene fomentato attraverso le trasmissioni radio da parte di cronisti Hutu. I Tutsi, soprannominati “blatte”, sono considerati nemici che occorre sterminare. Per sopravvivere, indica la propaganda ufficiale, gli Hutu devono uccidere tutti i Tutsi. Qualche voce si è sforzata di fa, opporsi a questo delitto di genocidio. Invano. In questa situazione di tensione, il minimo pretesto avrebbe potuto far scatenare il conflitto. Il 6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggiava il presidente Hutu viene colpito e abbattuto: il 7 aprile inizia il genocidio dei Tutsi, accusati dalla maggioranza Hutu di responsabilità sul fatto. Circa 800 000 Tutsi sono stati sterminati a colpi di machete o con armi da fuoco in poco più di tre mesi, senza distinzione tra uomini, donne e bambini, coinvolgendo spesso tra le vittime molti Hutu moderati o legati da vincoli familiari a persone di etnia Tutsi. La comunità internazionale evita discussioni e interventi nella zona, inviando un piccolo contingente di pace delle Nazioni Unite, che con il passare del tempo viene anche ridotto (da 2400 a circa 500 uomini), nonostante le ripetute richieste d’aiuto. Le colpe principali ricadono sugli Stati Uniti, in quanto posero il veto sui finanziamenti in favore dei contingenti di pace (si ricordi che nel 1994 Bill Clinton, pur di evitare l’impegno Usa in Ruanda, chiese al dipartimento di Stato di “fare acrobazie legali per evitare di parlare di genocidio”), sulla Francia, perché appoggiò il governo provvisorio formato da estremisti Hutu, sul Belgio, paese colonizzatore, che ritirò tutti i suoi connazionali dal Ruanda dopo le prime schermaglie in cui dieci persone di nazionalità belga persero la vita, e infine sulle Nazioni Unite, perché mostrarono sempre ottimismo su ciò che accadeva in Ruanda. Va anche sottolineato il favorevole disinteresse dell’opinione pubblica e dei media, che non hanno mai rivolto particolare attenzione alla tragedia. Il conflitto volge ormai al termine quando le fonti di informazione affrontano la questione ruandese, costringendo l’opinione pubblica e, indirettamente, le istituzioni coinvolte, ad operare per evitare il protrarsi di altri massacri. A giugno il RPF pone fine ai massacri, sebbene con altrettanta violenza: il governo provvisorio viene sciolto e il RPF, con a capo Paul Kagame, ottiene il controllo del Ruanda. Oltre 2 000 000 di Hutu, sentendosi minacciati, fuggono nei paesi limitrofi, in particolare nello Zaire. Qui gli estremisti Hutu si organizzano per ritornare in Ruanda a combattere contro i Tutsi. Intanto l’ONU istituisce il Tribunale Internazionale per i Crimini in Ruanda (ICTR, 1995), nel quale vengono processati numerosi Hutu con l’accusa di crimini contro l’umanità. Nella zona del Kivu, al confine tra Zaire e Ruanda, continuano le schermaglie tra Hutu e Tutsi fino al 1996, quando i Tutsi invadono lo Zaire per riportare i rifugiati Tutsi in Ruanda e continuare a combattere sia contro gli Hutu sia contro il governo dello Zaire (governo Mobutu), che li appoggia. Nel 1997 il presidente Mobutu viene deposto e al suo posto sale il presidente Kabila: lo Zaire diventa Repubblica Democratica del Congo. In questo conflitto perdono la vita circa 3 000 000 di congolesi. La guerra termina formalmente nel 2002, quando il Ruanda decide di ritirare le sue truppe dal Rd Congo a patto di vedersi consegnare i profughi Hutu disarmati. Il periodo post-bellico vede il Ruanda in preda ad una crisi politica, economica e sociale. Subito dopo i “cento giorni”, oltre 50 000 Hutu sono stati accusati di genocidio o di partecipazione ai crimini e sono stati incarcerati, spesso senza regolare processo e sulla base di semplici testimonianze non comprovate. Le condizioni nelle carceri sono drammatiche e i diritti umani (come denunciano Human Right Watch ed Amnesty International) sono oltremodo ignorati, in quanto spesso i detenuti sono costretti a vivere e dormire anche in sei in celle di due metri quadrati. I Tutsi, al governo con Paul Kagame (riconfermato con elezione popolare nel 2003, la prima dopo il genocidio), accusano l’ICTR di lentezza e soprattutto di corruzione. Per risolvere questa situazione, si decide di decentralizzare i procedimenti giudiziari, ripristinando i tradizionali tribunali “gacaca”, termine della lingua ruandese che descrive il campo erboso su cui si radunano le comunità e che indica appunto i tribunali i cui giudici sono spesso gli anziani o “persone di impeccabile integrità” elette dal villaggio. Circa 50 000 dei processi più importanti, quelli che riguardano i pianificatori e i leader del genocidio, sono gestiti dai tribunali penali convenzionali. La vasta maggioranza dei crimini e dei delitti (omicidi, violenze, aggressioni, torture e sciacallaggi), però, sono esaminati da tribunali “gacaca”. Si stima che negli anni a venire circa 11 000 tribunali “gacaca” si troveranno ad esaminare e giudicare 1 000 000 di casi, ovvero un ottavo della popolazione ruandese. In questi tribunali i presunti colpevoli vengono giudicati sulla base di testimonianze oculari dei parenti delle vittime del genocidio. I procedimenti sono però nebbiosi e sicuramente il problema principale è quello di verificare l’attendibilità delle confessioni. Questa breve analisi della storia ruandese invita a qualche riflessione. Sicuramente si rimane colpiti nell’osservare come una convivenza pacifica di circa sei secoli tra due etnie si sia tramutata in odio razziale nel giro di pochi anni a partire dall’intervento dei paesi occidentali, diventando poi intolleranza razziale, fino al compimento di un genocidio. Sebbene allo stato attuale la convivenza sia (formalmente) pacifica, non si possono purtroppo escludere nuove esplosioni di violenza, come si deduce anche dai rapporti di Human Right Watch ed Amnesty International sul Ruanda. Gli attuali ruandesi, dopo aver affrontato un periodo di guerra, hanno come obiettivo la pace e la tranquillità, ma quale sarà l’obiettivo dei loro figli e dei futuri ruandesi? Si rifletta anche sul fatto che, come sessant’anni gli Hutu sono nuovamente costretti al silenzio, visto che i Tutsi sono al governo con Paul Kagame e che l’unico partito esistente in Ruanda (RPF) è composto esclusivamente da ruandesi Tutsi, e ciò potrebbe portare a nuovi risentimenti etnici. Infine, va ricordato il disinteresse della comunità internazionale che, probabilmente per la scarsa remunerabilità del territorio ruandese, ha preferito abbandonare il Ruanda a se stesso dopo averlo condotto al tracollo. Eliana Paradiso
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Topolino e lo sfruttamento cinese Un gruppo di ricercatori universitari di Hong Kong scopre gli abusi nelle fabbriche cinesi della Disney Ancora uno scandalo che coinvolge una multinazionale. Questa volta ad essere sotto accusa è il brand del divertimento per bambini. I suoi cartoni animati ne hanno fatto la storia, ma dalla morte del vecchio Walt, la Disney ha iniziato il suo periodo di discesa, conclusosi con la scoperta da parte di alcuni ricercatori universitari di Hong Kong degli abusi perpetrati dai fornitori dell’azienda d’animazione nelle fabbriche cinesi. Violenza, violazione dei diritti umani e dei lavoratori sono i reati imputati alle aziende che per Disney producono giocattoli e libri per bambini. La “Nord Race”, la “Lam Sun” e l’azienda tipografica che produce anche i giocattoli Mattel “Hung Hing” sono sotto inchiesta. Gli operai delle fabbriche ricevevano un pagamento di circa 600– 700 yuan (circa 60-70 euro) al mese ed in più erano costretti a pagare un alloggio non meno di 100-185 yuan. Una giornata media lavorativa prevedeva 13 ore con straordinari obbligatori non pagati. Aumentando l’attività produttiva le aziende costringevano i lavoratori a fermarsi in fabbrica oltre l’orario stabilito per poter completare la produzione. Agli operai non era consentito di entrare a far parte di sindacati di categoria ed a chi ha protestato è stato riservato un trattamento di cortesia: picchiati dalle guardie e licenziati. L’assistenza sanitaria non c’è, nonostante i frequenti e numerosi incidenti. Alcuni operai sono morti schiacciati dai macchinari, altri feriti gravemente o mutilati alle mani ed alle braccia. Una condizione di lavoro insostenibile, anche per gli instancabili cinesi. Ecco che affiorano i motivi per cui molte multinazionali americane ed europee investono nel promettente mercato orientale e ne traggono notevoli guadagni. Non c’è da stupirsene. I controlli, soprattutto in Cina, sono quanto mai scarsi e la sicurezza esercitata dalle forze dell’ordine va a discapito proprio degli indifesi. Un duro colpo quest’indagine, per la Disney, che ha già fatto il giro del mondo proprio mentre l’agenzia d’animazione presentava il suo nuovissimo parco divertimenti dell’Oriente. Pochi mesi fa, inoltre, alcune ricerche commissionate da Greenpeace, avevano denunciato che i giocattoli ed i pigiami per bambini della multinazionale americana contengono un alto tasso di ftalati ed altre sostanze tossiche che i bambini spesso ingeriscono tenendo in bocca tali prodotti. Insomma, care mamme, guardatevi bene dal finanziare un’azienda che viola i diritti umani ed intossica i vostri figli. E’ davvero un peccato che i creatori di capolavori come Bambi, Dumbo ed il Re leone si siano macchiati le mani con sporchi abusi ed ora rischiano di vedere annullati tutti gli sforzi creativi. E’ difficile riappropriarsi della stima delle persone dopo simili scandali e non basta un cartone animato tiralacrime. | ||||||||||||||||||||||||||||||||
Attenti ai profumi tossici! Causano danni alla salute di chi li utilizza spesso Luigi XIV in parte aveva ragione inneggiando ai “profumi naturali”. Secondo una recente indagine l’utilizzo di alcuni profumi sarebbe nocivo per l’organismo. Praticamente tutti i profumi testati contengono ftalati e muschi sintetici: livelli molto elevati di dietil ftalato (DEP) sono stati trovati in "Eternity" di Calvin Klein per donne (22.299 mg/kg, cioè 2,2% del peso totale) e in "Le Mâle" di Jean Paul Gaultier (9.884 mg/kg, appena al di sotto dell'1% in peso). Invece, "Vanderbilt" di Gloria Vanderbilt non contiene nessun livello riscontrabile degli ftalati testati. Alte concentrazioni di nitromuschi e muschi policiclici sono stati riscontrati in "Le Baiser Du Dragon" di Cartier (45.048 mg/kg, o 4,5% in peso) e "Muschio bianco" del Body Shop (94.069 mg/kg, o 9,4% del peso totale). I livelli più bassi, invece, sono emersi in "Puma Jamaica Man " della Puma (0,1 mg/kg). Studi scientifici hanno mostrato che il DEP penetra rapidamente nell'epidermide, entrando nell'organismo dopo ogni esposizione: il corpo lo converte subito in monoetil ftalato (MEP), che è sospettato di possibili effetti sul DNA dello sperma e di contribuire a diminuire le funzioni polmonari negli uomini. I muschi sintetici si concentrano nei tessuti degli organismi viventi: alcuni possono interferire con il sistema di comunicazione ormonale di pesci, anfibi e mammiferi ed amplificare l'effetto dell'esposizione ad altre sostanze tossiche. La presenza di queste sostanze raramente compare sulle confezioni dei profumi e degli altri articoli di consumo che li contengono, dunque il consumatore non può decidere di evitarli. Per questo, attenti, perché il fascino profuso attraverso un buon profumo potrebbe tramutarsi di colpo in un danno irreversibile per l’audace dongiovanni. Roberto Cazzolla | ||||||||||||||||||||||||||||||||
Bambini, vittime del dio denaro Tra le tante forme di abuso sui bambini, una è sicuramente il lavoro minorile. Kaushik Basu, professore di economia presso la Cornell University, ha condotto degli studi riguardo a tale fenomeno, grazie ai quali possiamo comprendere meglio le cause che sono alla base del lavoro minorile e le modalità di intervento. Si stima che più di 8 milioni di bambini siano venduti come schiavi a causa dei debiti delle famiglie oppure costretti a fare i soldati. Altre attività illecite che vedono protagonisti i bambini sono la prostituzione, la pornografia e il traffico di stupefacenti. Circa mezzo milione di loro vive in aree sviluppate, come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Secondo l’Organizzazione internazionale del Lavoro, si considera lavoratore chiunque, al di sotto dei 12 anni, lavora per una paga; dai 12 ai 14 anni non è ritenuto lavoratore chi lavora fino a 14 ore alla settimana; dai 15 in su è lecito svolgere qualunque lavoro che non sia pericoloso. Viste le difficoltà a quantificare il lavoro minorile, tali dati potrebbero non corrispondere perfettamente alla realtà: a volte, una modesta prestazione d’opera basta a classificare un bambino come lavoratore, con conseguente aumento delle cifre; d’altra parte, il lavoro domestico delle bambine, che spesso va a scapito dell’istruzione, viene sottostimato. Oggi, un ampio numero di ricercatori si occupa di questo argomento, che è stato studiato e conosciuto in modo approfondito. In passato molti politici hanno assunto nei confronti del lavoro minorile un atteggiamento di “tolleranza zero”. Negli anni novanta, ad esempio, venivano fatti appelli per il bando immediato all’importazione dei prodotti del lavoro minorile o imporre sanzioni commerciali alle nazioni con il più alto tasso di lavoro minorile. In alcuni casi, gli effetti di tali campagne furono estremamente negativi, come di mostra il caso del Nepal, dove molti fabbricanti di tappeti decisero di licenziare la manodopera infantile. Il risultato fu che 4000 bambine furono avviate alla prostituzione. Una conoscenza più approfondita dell’economia locale avrebbe evitato tale disastro. La causa principale del lavoro minorile è la povertà delle famiglie. Nel 1991 è stato condotto uno studio nel Pakistan rurale che dimostrava tale tesi. Considerando, anche, il caso della Cina, si nota che la percentuale di bambini che lavorano è passata dal 48% del 1950 al 12% del 1995; l’abbattimento più drastico si è verificato negli anni 80, quando la Cina ha attraversato un periodo di crescita economica. In nazioni con minore crescita economica, invece, il declino del lavoro minorile è stato irrisorio. Si potrebbe pensare che le azioni governative contro il lavoro minorile siano inutili e pericolose, ma non è così. Ci sono dei casi in cui un bando legale può essere utile per eliminare il lavoro minorile senza ripercussioni negative per i bambini e le loro famiglie. Questo emerge dall’analisi delle curve della domanda e dell’offerta, strumenti fondamentali in economia per mostrare come fa un mercato a raggiungere un equilibrio nel quale il prezzo di un prodotto viene regolato in modo da assicurare che la domanda equivalga all’offerta. La famiglie normalmente mandano i propri figli a lavorare quando non riescono a raggiungere un salario di sussistenza. Le persone che hanno lavorato nella loro infanzia non hanno ricevuto un’istruzione completa e tendono ad essere povere da adulte: è molto probabile che queste persone mandino i propri figli a lavorare. Così si crea un circolo perpetuo di lavoro minorile. La situazione opposta è rappresentata da un circolo virtuoso di benessere crescente. L’azione legislativa non è il modo migliore per controllare il lavoro minorile. I politici dovrebbero tentare di migliorare il tenore di vita degli adulti in modo da diffondere condizioni di vita che sconsiglino l’invio dei bambini al lavoro. Oggi, grazie alle conoscente acquisite è possibile agire in modo efficace per porre fine a tale sfruttamento usando un’attenta progettazione degli interventi politici. Eliana Paradiso | ||||||||||||||||||||||||||||||||
Si può vietare la caccia sul proprio terreno? La legge italiana non lo consente, ma il cittadino proprietario di un fondo può ricorrere alla giustizia europea IL CODICE CIVILE Per l’articolo 842, il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l’esercizio della caccia, a meno che non sia chiuso nei modi stabiliti dalla legge oppure vi siano colture in atto suscettibili di danno; egli può però opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall’autorità. Il codice, quindi, sancisce che nessuno può entrare senza permesso in un terreno di proprietà privata, nemmeno per svolgere ricerca scientifica, fotografia naturalistica o per escursionismo; l’unica rilevante eccezione viene stabilita a favore di chi intende esercitare attività venatoria. Tuttavia, al cittadino che nella sua proprietà intende proibire la caccia, la legge (n. 968/1977) concede tre possibilità. 1) LA RECINZIONE DEL TERRENO L’esercizio venatorio è vietato a chiunque nei fondi chiusi da muro o da rete metallica oppure da altra effettiva chiusura, di altezza non inferiore a 1,80 metri. La proprietà privata può essere delimitata anche da corsi o specchi d’acqua perenni, il cui letto abbia la profondità di almeno 150 centimetri e sia largo non meno di tre metri. 2) IL DANNO ALLE COLTURE La caccia è inoltre vietata, in forma vagante, nei territori in attualità di coltivazione, secondo le leggi regionali, che ne determinano i modi di individuazione e di salvaguardia, con particolare riferimento alle colture specializzate. 3) LA LICENZA DI CACCIA La licenza di porto d’armi per uso di caccia è rilasciata in conformità delle leggi di pubblica sicurezza e dopo aver sostenuto un esame di fronte a un’apposita commissione (nominata dalla regione in ogni capoluogo provinciale). Il proprietario può pretendere l’allontanamento di chi non ne sia in possesso o si rifiuti di mostrarla. LE SANZIONI Chi viola la legge sulla caccia è punito con una sanzione amministrativa fino a 1.550 euro. Sono competenti tutte le forze di polizia giudiziaria, sebbene sia preferibile rivolgersi ad organismi specializzati, quali gli agenti venatori che operano presso ogni provincia oppure le guardie volontarie del WWF (tel. 06 844971) IL RICORSO EUROPEO All’infuori dei tre casi esplicitamente previsti, la legge non concede altri strumenti legali al proprietario del fondo, che tuttavia ha la possibilità di ricorrere alla corte di Strasburgo. L’esercizio della caccia su terreni privati, infatti, potrebbe essere giudicato incompatibile con il principio secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto del suo domicilio, sancito dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questa normativa (recepita in Italia con la legge n. 848/1955), consente a tutti i cittadini di adire la corte, chiedere la condanna “politica” della repubblica italiana e ottenere persino un risarcimento. Il ricorso, però, può essere fatto solo dopo aver esaurito le possibilità processuali offerte dall’ordinamento nazionale, quindi non prima di una sentenza pronunciata ai massimi livelli (corte costituzionale, cassazione, consiglio di stato, ecc.). Si tratta di un limite di non poco conto, in quanto comporta inevitabilmente tempi assai lunghi, soprattutto tenendo conto della lentezza della giustizia nel nostro Paese. Michele Patruno | ||||||||||||||||||||||||||||||||
Truccato lo studio sulla dieta vegetale Finanziatori i magnati della carne e indagine condotta su bambini denutriti Niente da fare. I magnati della carne non riescono proprio a sopportare l’idea di vedere calate le vendite dell’oro alimentare. E provano con ogni artifizio a sviare le menti dei consumatori verso l’idea di una salutare dieta a base di carne. Questa volta nel grande bluff è cascato anche il Corriere della Sera, che in prima pagina ha pubblicato uno studio realizzato dalla ricercatrice Lindsay Allen (foto sotto), ex dell’Università della California, che dimostra i danni alla salute, alla capacità cognitiva ed all’intelligenza dei bambini provocati da una dieta a base di vegetali. L’imbarazzante falso scientifico creato dalla Allen ha assunto contorni eclatanti, considerata la grande risonanza che ha avuto tra i media. Il danno maggiore sta nel fatto che spesso il consumatore disattento che vive del “sentito dire” accoglie questo tipo di studi come se fossero un dettame divino e modifica o incentiva le proprie scorrette abitudini alimentari quotidiane in base a ciò che viene fatto passare per ricerca. In questo caso è un obbligo morale far luce sulla vicenda, prima che si diffonda un nuovo falso mito e che la scienza lasci posto al sondaggio falsato. Innanzi tutto bisogna che i lettori sappiano che la ricerca effettuata è stata finanziata, promossa e supportata da importanti industrie della carne come la National Cattleman’s Beef Association (Associazione nazionale degli allevatori di manzo), il Global Livestock ed il Pond Dynamics and Aquaculture che certo, tengono a incentivare il consumo del loro prodotto. Quello che è ancora più vergognoso e che inculcherà nel lettore l’idea della totale presa in giro, è che lo studio è stato condotto su bambini di Egitto, Kenya e Messico e che quindi vessano dal canto loro, già in una non felice condizione alimentare. I 544 bambini divisi in 4 gruppi, sono stati alimentati con tre pasti supplementari al giorno per 21 mesi, di cui ognuno era fatto da Githeri (alimento locale di origine vegetale composto da mais, fave e verdure non specificate) con l’aggiunta per tre dei differenti gruppi, di carne (dal 10 al 20%), latte o olio. La ricerca tende a dimostrate che i bambini alimentati con Githeri più carne hanno un migliore sviluppo della massa muscolare ed un’intelligenza superiore agli altri 3 gruppi. Appare ovvio che bambini in stato di denutrizione o cattiva alimentazione che ricevono un aggiunta di carne ai loro pasti incostanti e squilibrati, assumono rapidamente ed contemporaneamente le proteine essenziali che l’organismo non sintetizza. Ma i benefici sono momentanei e tra l’altro, accertati inopportunamente. Uno dei metodi utilizzati per constatare le capacità intellettive e fisiche dei bambini era il videomonitoraggio scolastico per 30 minuti al giorno. Ora, non bisogna essere insegnanti per sapere che in trenta minuti non si possono valutare le capacità psico-fisiche di un bambino, tanto meno le differenze tra uno che si alimenta con carne ed uno con vegetali. A prescindere dai discutibili metodi di valutazione, lo studio non dimostra che una dieta a base di carne aumenta a lungo termine la possibilità di insorgenza di tumori, di gotta e problemi epatici, arterioscelrosi, obesità, diabete e ipertensione. Non spiega che con una quantità pari ad un chilo di carne di manzo si alimentano all’incirca quattro persone al giorno in un paese del Terzo mondo e che con 20 chili di frumento o grano, valutabile ipoteticamente come il quantitativo medio giornaliero utile ad alimentare un chilo di mucca, si potrebbero sfamare ben 50 persone. Lo studio non cita neppure che una famiglia vegetariana risparmia ben 81 Euro al mese rispetto ad una che si alimenta con carne e pesce; non spiega che i pascoli destinati agli animali da macelleria riducono il suolo forestale autoctono diminuendo le materie prime utilizzabili delle popolazioni indigene e la biodiversità; non evidenzia che sarebbe ridotto l’utilizzo di fertilizzanti, impiegati all’80% per colture destinate agli animali e dell’acqua potabile utilizzata per irrigare, che potrebbe sostentare di gran lunga il fabbisogno idrico dei bambini nei paesi sottosviluppati. Acqua che è una delle cause dei maggiori decessi preadolescenziali tra africani e asiatici. Ed è, inoltre, ben lungi dall’affermare che con i fondi stanziati per portare a termine questa ricerca in due anni, si sarebbero potuti alimentare in maniera equilibrata e con il giusto apporto di una variegata dose di alimenti, anche solo di origine vegetale (è impossibile pensare che il solo mais o le fave possano apportare un equilibrio alimentare di calcio, proteine, vitamine, ferro e Sali minerali, senza altri vegetali, ad organismi in via di sviluppo e quindi sarebbe bastato questo per giudicare l’indagine scorretta) i bambini “vittime” del campionamento. Se poi a questo si aggiunge che il 31% dei bambini monitorati era affetto da malaria e quindi notevolmente debilitato, che i pasti supplementari differenziati erano forniti solo nelle ore pomeridiane, escludendoli dalla colazione (ritenuta da molti nutrizionisti il pasto fondamentale della giornata), si completa il quadro di ciò che appare come un attacco alla libertà di informazione ed alla verità scientifica. Sono indagini false, corrotte e compromesse come queste che hanno permesso a fabbriche come la Mc Donald’s di costruire la propria fortuna sulle spalle e sulla salute dei consumatori. Fonti: nutrition.org, FAO, Eurispes, Istat Roberto Cazzolla | ||||||||||||||||||||||||||||||||
DOSSIER: I profitti di Benetton contro il popolo Mapuche “Marici weu !!! Dieci volte vinceremo!” di Micaela Laterza Un viaggio strano attraverso i colori, i volti, gli sguardi attoniti e ancora innocenti immolati per potere, sfruttati per derubare ricchezze naturali, patrimoni di ineguagliabile e inestimabile bellezza. Socchiudo gli occhi, gonfi di lacrime e la sua ombra nefasta mi perseguita ma non mi impaurisce. Vestito di crudeltà, smanioso di soldi, ipocrita perbenista, divora terre insinuandosi nelle loro vene succhiandole la vita. La vita che, lieve, ondeggia col vento sui sogni di chi lotta per la Libertà. Corro lungo strade deserte, odo alberi piangere le loro radici, una notte cieca che non potrà più accarezzare le amate fronde, corro, corro lungo il mio paese addormentato e m’imbatto in una moltitudine di colori, i miei occhi esterrefatti non vogliono guardare, si accelerano i pensieri spingendomi in un luogo lontano, nelle speranze di un popolo. Molti si lasciano abbindolare dalle multietniche pubblicità, bambini con aria innocente invitano ad entrare in un disastro quotidiano, occhi grandi segnati da un destino insopportabile. Pensare che per secoli nel sud del Cile e in Argentina il popolo dei Mapuche viveva ignaro che la nostra società moderna, civilizzata, assassina, assetata di potere un giorno avrebbe distrutto la loro storia. Avete inteso di chi sto scrivendo? E’ facile, basta passeggiare per un qualsiasi centro di città e subito capirete, forse anche voi, se vi è rimasto un cuore, piangerete quando indosserete i colori uniti dello sfruttamento. Ebbene sì, la famiglia Benetton ha rubato in Patagonia ben 900000 ettari di terra… questo dovrebbe bastare!!!Ma la mente umana, a volte, ha bisogno di qualche dato più impressionante per stimolarle la coscienza! La regione dell’Alto Biobio si trova a 5oo km. a sud di Santiago del Cile, una delle più grandi riserve naturali del pianeta. Il fiume Biobio , lungo 380 km, fornisce acqua potabile a circa 500000 abitanti. Qui vive il popolo Mapuche con un atavico legame che solo multinazionali potevano infastidire e derubare. La famiglia Benetton nasce come un piccolo maglificio, utilizzando da sempre pubblicità dove compaiono varie etnie, animali, un labirinto di colori e bontà in apparenza… ma non è vero La multinazionale veneta ha giocato sulla catastrofica situazione della Patagonia per arricchirsi sulla pelle degli altri, multinazionale neo-colonialista, comprando a cifre ridicole, immensi territori. La famiglia Benetton è la più grande latifondista dell’Argentina, ha rubato Terra, Acqua e Libertà al popolo dei Mapuche, e non solo… dietro solidali manifesti pubblicitari ricatta e sfrutta il resto del mondo… C’è un detto in Patagonia che spiega con poche parole il male che le multinazionali hanno inflitto nei loro animi: “sono arrivati i nuovi padroni e hanno comprato tutto, terre, fiumi, animali, e persino le persone”. Ora, il popolo dei Mapuche continua ogni sacro giorno a lottare contro la globalizzazione di multinazionali, per recuperare la loro Vita, la loro Storia, le loro terre. Anche noi possiamo aiutarli in maniera molto semplice: non comprare capi Benetton, pensate che ogni indumento indossato sia una lacrima versata dai bambini che dietro quel falso sorriso stampato dicono di non aver più una terra in cui vivere. Apro gli occhi e penso… anche nel mio paese in un viale che ormai è un cimitero di alberi è giunta la famiglia Benetton | ||||||||||||||||||||||||||||||||
TELETHON FINANZIA LA SPERIMENTAZIONE ANIMALE Ecco dove finiscono realmente i soldi delle donazioni Siamo ipocrisia, ignoranza. La razza umana sta raggiungendo livelli di malvagità raccapriccianti, in un fallace scenario di solidarietà e giustizia con i contorni di un buon televisore, un assassino in camice bianco e una buona dose di indifferenza. Addestrati a dar per buono tutto ciò che dicono i “medici” la televisione ed i troppi servi di un sistema marcio! La scienza assassina si nutre di ignoranza, di indifferenza, di gente che non ha la minima idea di cosa “la ricerca” possa fare a un cagnolino indifeso, a un gatto, a una scimmia e a tante altre splendide creature. Ma tutto potrebbe essere giustificato… si “sacrificano” gli animali per “debellare” malattie come il cancro. Quanti di coloro che stanno leggendo questo articolo hanno la minima idea di cosa sia la vivisezione, di come questi scienziati stiano sprecando denaro e tempo a procurare tumori artificiali a topi, cani ecc, tentando poi di curarli, di come questa farsa sia mascherata da maratone televisive tipo Telethon… quanti di voi si sono chiesti dove vanno a finire i soldi che un “buon” cittadino ha donato alla causa? Introduciamo prima di tutto il termine VIVISEZIONE. Con il termine vivisezione si intendono tutte le forme di sperimentazione su animali e non solo quelle che implicano il sezionamento da vivi di quest’ultimi. Nel gran segreto di tutti, in laboratori di tutto il mondo 300 milioni di animali ogni anno vengono avvelenati, ustionati, mutilati, decerebrati, drogati, immobilizzati per anni in apparecchi di contenzione, lasciati morire di fame e di sete, sottoposti a scariche elettriche, a traumi fisici e psicologici e a cruenti operazioni chirurgiche. In gran parte dei casi non viene utilizzata alcuna anestesia, perché sarebbe una perdita di tempo e potrebbe interferire con l’esperimento, ma spesso i vivisettori hanno cura di tagliare agli animali le corde vocali per non sentirne i lamenti e poter praticare quella che definiscono “la disciplina del silenzio” (nessuno deve sentire – nessuno deve sapere). Chi “ha studiato”, chi “ricerca” per migliorare la qualità della vita dovrebbe avere un forte senso di “umanità”(?), empatia, compassione… ma come può un mostro capace di vivisezionare un creatura senziente avere a cuore la vita? Ecco… probabilmente non ce l’ha… probabilmente ha a cuore altre cose (denaro? Potere?)… l’industria farmaceutica legata naturalmente alla scienza medica ed alla ricerca ha introiti miliardari e nessun interesse per la salute... (qualcuno ricorda la vicenda della casa farmaceutica Glaxosmithkline che in accordo con i “medici di famiglia” aveva organizzato delle “raccolte punti”, in base alla quantità di medicinali Glaxosmithkline che il medico prescriveva in un certo lasso di tempo ai poveri pazienti, c’erano dei “premi”… assegni, viaggi, tv color ecc!). Il metodo scientifico basato sulla vivisezione non ha alcun beneficio per l’umanità, è anzi fuorviante per il semplice fatto che le reazioni alle migliaia di sostanze chimiche sono diverse di specie in specie, per il semplice fatto che un tumore o qualsiasi altra malattia indotta artificialmente in laboratorio su un topo o su un cane è nettamente differente da un tumore sviluppatosi “spontaneamente” in un essere umano! Ma ecco cosa dicono i veri scienziati… chirurghi, fisiologi e premi Nobel come Robert Koch:“Dopo una trentina d’anni di ricerche sulle cause e la cura del cancro, che cosa abbiamo? Una montagna di dati e supposizioni ottenuti con molta fatica da fonti animali, ma che non hanno maggior valore d’un tumore: un tumore che non è di alcun giovamento per l’uomo, e decisamente nemmeno per i topi… Adesso vediamo a quale deplorevole spreco di energia, abilità e danaro può condurre questo genere di insensate fatiche accademiche… Ne abbiamo ricavata un’unica indicazione utile, seppure negativa: che il problema delle cause del cancro non é risolvibile attraverso animali da laboratorio”.“Nessun ricercatore su animali è in grado di fornire una sola indicazione utile per una malattia umana”. -“Nessun cancro degli animali ha un rapporto con un cancro degli umani”. -“Purtroppo conosceremo l’effetto sulla nostra salute delle migliaia di composti chimici soltanto in un futuro non precisabile, in quanto essi agiscono molto lentamente nel tempo e per accumulo”. Ma perché si continua a praticarla? Nonostante siano disponibili da sempre metodi di studio e di ricerca che non prevedano la tortura di animali; nonostante nessun serio progresso della chirurgia o della medicina sia stato acquisito tramite l’utilizzo di animali in laboratorio, ma anzi questa pratica abbia rallentato molte scoperte; nonostante oramai negli ambienti scientifici siano evidenti e dimostrate la futilità e l’ipocrisia di tale pratica, la vivisezione continua ad essere largamente praticata. I motivi che sostengono la vivisezione non sono scientifici, ma puramente economici. La vivisezione viene ancora praticata perché è un vero e proprio alibi legale per le industrie, che così potranno difendersi nel caso probabile di vittime dei loro prodotti dicendo di aver svolto i test di dovere. La stessa ditta produttrice del talidomide si difese in tribunale in questo modo aggiungendo che i test su animali non possono dare alcuna certezza. Siamo tutti artefici di questa ecatombe animale umana e animale non umana, il sistema ci ha reso complici… finanziamo la vivisezione con le tasse, con semplici acquisti di cosmetici, detergenti, alimenti per animali, con il nostro senso di solidarietà, quando doniamo denaro durante una delle tante raccolte fondi, ci macchiamo di un orrendo crimine contro la vita… non aiutiamo chi è malato di cancro, chi è affetto da sclerosi multipla, chi è malato di Aids, ma finanziamo l’assassinio di milioni di creature non umane e umane! Come ogni anno, la mastodontica raccolta fondi di Telethon, torna alla ribalta… invadendo le piazze, gli schermi e tanto altro… pensiamo che ci sono associazioni che finanziano la sperimentazione su animali (AIRC, AISM, ANLAIDS, ASID), associazioni che finanziano “alcuni” progetti di ricerca su animali (TRENTA ORE PER LA VITA, TELETHON), associazioni che non finanziano la ricerca su animali (UILDM, LISM, ALA ecc), associazioni che finanziano la ricerca senza l’uso di animali (LILA, LEGA ITALIANA PER LA LOTTA CONTRO I TUMORI). Anna Surico Guarda i video sulla sperimentazione animale Ascolta la clip audio sulla sperimentazione senza animali Vai al sito www.ricercasenzaanimali.org
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Dall’orfanotrofio io voto “NO” 12 e 13 giugno: referendum sulla fecondazione assistita Mi chiamo Alindi, ho 7 anni e da 6 vivo in un orfanotrofio di Gaborone nel Botswana, una Repubblica presidenziale dell’Africa meridionale. Non conosco la mia mamma ed il mio papà. Qui le donne che si prendono cura di noi, dicono spesso parlando tra loro, che i militari che hanno ucciso i miei genitori venivano dall’Europa. Parlano in silenzio, cercando di non farmi sentire ciò che dicono, ma io mi accuccio nell’angolo vicino al mobile con i fornelli ed ascolto. In realtà non so cosa vuol dire “militari”, qui c’è gente che spara con quei lunghi bastoni di ferro e le maestre mi dicono che sono loro i militari. Ma, allora, tutti i grandi sono militari? Comunque, l’unica cosa che ho capito è che la mia mamma ed il mio papà non ci sono. Ed è strano, perché non so come sono fatti una mamma ed un papà ed a cosa servono. Forse sono quell’uomo e quella donna che portano i bambini come me in giro con i secchi d’acqua , sotto il sole. Forse sono quei due che spesso, qui da me, neanche si conoscono prima di sposarsi. Ma io ho visto come sorridevano gli altri bambini alle mamme ed ai papà bianchi che ogni tanto vengono qui, all’orfanotrofio e indicano uno di noi. Ci fanno uscire tutti e ci dicono che sono arrivate delle visite. Poi uno di noi viene indicato e senza sapere bene il perché, inizia a ridere. Forse Ghengi che è più grande di me lo sa perché tutti quelli che vengono indicati dai signori che vengono a farci visita, sorridono. E poi se ne vanno e non tornano più. Però anch’io qualche volta vorrei essere indicata. Chissà dove vanno tutti. Però sono così felici. Sarà che quelli che vengono a trovarci sono la mamma e il papà che dicono Mirna e Ruma quando parlano in silenzio? Poi un giorno all’ora della merenda, mentre stavo leccando la scodella del riso del pranzo, sentii che Mirna diceva che in Italia vogliono far nascere i bambini nelle bottiglie di vetro, così i genitori che sono malati e non possono fare figli possono averli lo stesso. Ma, allora, ho pensato: “Perché queste mamme e questi papà invece di far nascere i bambini piccoli nelle bottiglie, non vengono a farci una visita così, quando ci indicano ci fanno sorridere?”. Visto che a scuola ho imparato a scrivere in stampatello ho deciso di mandare una lettera in Italia sulla quale ho scritto: “Care mamme e cari papà italiani, sono Alindi del Botswana, e anche se non vi conosco e non so a cosa servite, ma siccome ho visto che fate sorridere i miei amici dell’orfanotrofio quando venite a trovarci, volevo dirvi che invece di far nascere i vostri bambini nelle bottiglie, potreste venire qualche volta da noi e portare me o qualche mio amichetto con voi così possiamo capire a cosa serve una mamma ed un papà…quando qui la sera sparano oppure ho fame e non c’è niente da mangiare, sogno sempre che qualcuno bussi alla porta ed indichi me…ciao, venite presto.” Di bambini come Alindi, gli orfanotrofi sono pieni. Solo in Italia ce ne sono decine di migliaia, nel 1999 erano 28.148 ed ogni anno aumentano esponenzialmente. Il costo medio, elargito ad ogni istituto, è di circa 5/6 euro a bambino. Cioè, bassissimo. E se si pensa che in Africa, Russia occidentale, Asia e Sud America le rette giornaliere si dimezzano e le malattie si moltiplicano, si ha ben chiaro il quadro di una situazione molto triste. Eppure, come dice Alindi, i bambini degli orfanotrofi sorridono. Sorridono quando qualcuno li indica. Forse inconsciamente sanno di aver avuto un’altra possibilità dalla vita.Come scrive Jilbert Sinouè: “I bambini poveri sorridono. La povertà sta anche in questo, nel riuscire a trovare da sorridere, anche laddove non c’è nulla per cui sorridere”. Ma tutto questo, ogni volto di orfano, ogni sorriso, ogni speranza, potrebbero essere cancellati per sempre da un referendum che vuole in Italia, l’abrogazione di una legge sulla fecondazione assistita. Quella per cui tutti saremo chiamati a votare. Si tratta di 4 quesiti che il 12 e 13 giugno potranno segnare una svolta medica ed etica. Eccoli in dettaglio: QUESITO 1. UTILIZZO DELLE CELLULE STAMINALI EMBRIONALI L’attuale normativa vieta l’utilizzo delle cellule staminali prelevate da embrioni inutilizzati al fine di limitare il numero di aborti volontari a scopi lucrativi ed eliminare i problemi etici che insorgerebbero con l’uccisione di esseri umani ai fini scientifici. Se si vota NO si mantiene la legge vigente. Se si vota SI si autorizza il prelievo delle staminali, il che vorrebbe dire, milioni di embrioni (con patrimonio genetico diploide, cioè con tutti i geni sia del padre che della madre, dunque esseri viventi) sacrificati per sperimentazione.Parecchio antisonante se si pensa che per salvare una vita se ne sacrificano centinaia in esperimenti che spesso falliscono. QUESITO 2. IMPIANTO DI PIU’ OVULI, CONGELAMENTO DELL’EMBRIONE E ANALISI PREIMPIANTO. La legge attuale prevede che non possano essere fecondati in vitro più di tre ovuli alla volta, affinché in casi rari di successo della fecondazione sia statisticamente improbabile che si sviluppi più di un embrione. Inoltre la legge in vigore prevede, che gli embrioni in sovranumero o in caso di ripensamento della futura madre, non possano essere congelati. Inoltre, non è consentita l’analisi preimpianto, cioè un esame delle malattie dell’embrione prima del suo trasferimento nell’utero. Se si vota NO si mantiene l’attuale normativa e non si pongono alle famiglie problemi come l’uccidere o meno un embrione che è predisposto ad alcune malattie. Se si vota SI si autorizza la fecondazione di numerosi ovuli con la possibilità che si sviluppi più di un embrione che dovrà, quindi, essere ucciso o utilizzato in esperimenti. Si legittima il congelamento di esseri viventi e, con la possibilità di effettuare l’analisi preimpianto, si creano numerosi problemi ai genitori in caso di embrione potenzialmente malato. Inoltre, si lascia ai genitori la scelta di non impiantare un embrione già sviluppato, destinandolo alla morte. QUESITO 3. DIRITTI DELL’EMBRIONE Il testo attuale prevede che il “concepito”, definito come l’embrione dal momento della fecondazione alla sua morte post-parto abbia gli stessi diritti di un qualunque altro uomo. Se si vota NO gli embrioni vengono considerati ancora esseri viventi. Se si vota SI gli embrioni non avranno i diritti degli esseri umani e quindi potranno essere sottoposti a qualunque tipo di sperimentazione, proliferazione e uccisione. QUESITO 4. FECONDAZIONE ETEROLOGA Attualmente i gameti devono provenire dai genitori e non da individui esterni alla coppia. Se si vota NO si mantiene tale norma. Se si vota SI un qualunque donatore esterno può donare il suo patrimonio genetico. Insomma, la morale è una questione personale, ma la vita viene prima di tutto e, quindi, per tutti quei bambini rinchiusi negli orfanotrofi, per tutti quei piccoli esseri viventi chiamati “embrioni” questa volta è meglio votare no o astenersi, per non alzare la soglia del quorum e lasciare invariata l’attuale legge 40. Roberto Cazzolla
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Telethon finanzia la vivisezione Per quanto riguarda i cosmetici (nella categoria cosmetici rientrano anche prodotti come bagnoschiuma, shampoo, prodotti per la pulizia della casa, saponi, dentifrici, ecc) ed ai relativi test sugli animali la questione è abbastanza complessa principalmente per il fatto che ogni singolo prodotto è costituito da una serie di sostanze chimiche che unite tra loro formano il prodotto finito. Una legge stabilisce che tutte le nuove sostanze chimiche debbano essere sottoposte a test generici sugli animali, la pericolosità e l’essenza atavica di tale legislatura è data dal fatto che la risposta all’ingestione, all’inalazione, al contatto epidermico e all’inoculazione delle innumerevoli sostanze chimiche è differente da specie a specie, questo vuol dire che se per un topo o un coniglio una sostanza risulta innocua per l’uomo o per un gatto la stessa sostanza può essere pericolosa, cancerogena o addirittura letale. A tali incongruenze scientifiche si somma poi l’aspetto etico della questione vivisezione, ma illustriamo i vari tipi di test effettuati sugli animali. LD50: dose letale del 50% degli animali utilizzati. Risale al 1927 (che progresso abbiam fatto da allora!!!). consiste nel somministrare, con la forza ad un gruppo di animali, una particolare sostanza, per esempio un rossetto, una crema idratante, ecc, sino alla morte di metà dei soggetti. Poiché la maggior parte dei prodotti cosmetici che viene commercializzata è poco o per nulla nociva, la stragrande maggioranza dei decessi animali avviene per cause estranee alla reale tossicità dei prodotti testati; le cause di morte degli animali sono da ricondursi al deterioramento di alcuni organi vitali o arresti cardiaco per la sofferenza. Può essere usato per la valutazione della tossicità acuta m anche cronica. DRAIZE TEST OCULARE: metodo di valutazione della capacità di una sostanza di irritare i tessuti dell’occhio umano, consistente nell’istillare la sostanza negli occhi dei conigli albini, per poi esaminare a distanza di vari giorni i danni che essa provoca ai tessuti dell’occhio. DRAIZE TEST CUTANEO: metodo di valutazione della capacità di una sostanza di irritare la cute umana consistente nell’applicare la sostanza in esame sulla pelle depilata o abrasa (in punti molto delicati, mucose nasali, ano, vagina), per poi valutare a distanza di tempo l’irritazione provocata. TEST DI CANCEROGENICITÁ: test finalizzato a stabilire se una sostanza è o meno cancerogena (per gli animali su cui si sperimenta non per l’uomo, ovviamente!). Generalmente vengono usati roditori ai quali viene fatta ingerire o inalare la sostanza per un periodo anche di diversi anni. In seguito gli animali vengono uccisi e sottoposti ad autopsia per stabilire la presenza di eventuali tumori nei loro tessuti. Queste sono le pratiche orrende e inattendibili che si celano dietro diciture come “dermatologicamente testato” o “testato clinicamente” ma anche la dicitura “non testato su animali” e il simpatico coniglietto presente sulle confezioni di molti cosmetici ha un significato ambiguo e relativo perché fa riferimento al prodotto finito non ai singoli ingredienti, una diatriba legislativa che si trascina da troppi anni (un esempio tra tanti riguarda proprio i test sul prodotto finito: Al primo gennaio 1998 è stata ipotizzata dalla Commissione la preparazione di una proposta per il divieto di utilizzo di animali per i soli test sul prodotto finito, in quanto la Commissione ha rilevato che in questo campo non erano più necessari test su animali, allo stato corrente del progresso tecnologico. Questo divieto non è comunque mai stato effettivamente sviluppato e posto in essere. Riportiamo di seguito una lista di prodotti quanto più chiara e aggiornata invitando al boicottaggio delle ditte che testano su animali! Anna Surico DAL 2013 STOP AI TEST SU ANIMALI E’ stato finalmente pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n.87 del 15 aprile 2005 il Decreto Legislativo n.50 del 15
febbraio scorso con cui il Governo Italiano ha recepito le direttive
europee 2003/15/CE e 2003/80/CE in materia di prodotti cosmetici.
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Centri di permanenza temporanea Lager quotidiani, Croce Rossa e Regina Pacis L’ingiustizia vive negli occhi di chi ha visto la morte in un viaggio chiamato Speranza, un riscatto dall’incubo di una vita gravida di crudeltà e di sangue, come la fuga da una guerra, ma spesso questo viaggio porta solo morte e disperazione… l’ingiustizia vive nelle mani accaldate dei bambini ai rossi semafori… l’ingiustizia vive nelle labbra corrose dal vento di giovani donne straniere perse sulle strade di notte…l’ingiustizia vive nel nome di questa malattia che noi ostiniamo a chiamare Umanità, per lei si bombarda, si creano campi profughi…l’ingiustizia vive nei pensieri reconditi e abietti di chi si sente poderoso con il suffisso mafioso di “don”… l’ingiustizia vive nei “centri di permanenza temporanea” introdotti in Italia dal 1998, dove i diritti civili e politici di ogni essere sono totalmente ignorati, o peggio, cancellati e chi cerca di ribellarsi va incontro a tali soprusi che una mente non può immaginare, o finge di non poterlo fare per mantenere linda la propria coscienza. L’ingiustizia dei “lager” è insopportabile! Veri e propri campi di sterminio, vengono richiusi individui senza aver commesso nessun tipo di reato, senza alcun procedimento penale il loro internamento, disposto dal questore, è una semplice misura di polizia, lager nazisti dei nostri giorni. Il male non si attenuerà mai e poi mai se gran parte del popolo non saprà cosa si nasconde dietro a tale massacro, si sventolano bandiere della pace, si aprono le frontiere per un mondo diverso e sostenibile, senza sapere che le stesse organizzazioni umanitarie hanno le mani sporche di sangue & soldi, un esempio? La Croce Rossa Italiana, oggi società per azioni, un’istituzione paramilitare che legittima guerre e morti: al mondo ci sono milioni di persone che a causa della povertà, di un regime dittatoriale e belligerante emigrano, cosa fa la CRI? La scelta più semplice e atroce, gestire centri di permanenza temporanea, campi di concentramento dove individui con l’unica colpa di essere stranieri perdono la loro libertà, maltrattati, umiliati in attesa di essere espulsi. Chi è l’uomo per avere tale diritto? E’ qui che nasce l’ingiustizia e qualcuno si è ribellato, sorretto da uomini che credono ancora nell’essenza dell’uomo e una mezza verità è venuta a galla. Il centro Regina Pacis di Lecce è il vessillo di una disumanità inconcepibile, finalmente il sontuoso don Cesare Lodeserto viene arrestato, però essendo un “don” resta ai domiciliari, dopo aver commesso tali atrocità gli è concesso anche un carcere tra le mura di casa… che giustizia la nostra! Chissà se voi avete letto la lettera scritta dal suo beneamato Monsignor Ruppi: “…alcune ragazze hanno denunciato, ora usiamo prudenza nel PUNIRE… le pareti sono di carta velina…” questo potrebbe bastare per capire…Le parole per aiutare chi è meno favorito dal destino non sono mai abbastanza, con l’azione potremmo capire cosa celano questi centri di permanenza, aiutare a ritrovare una libertà smarrita, non pensare sempre e solo a se stessi, credere che la realtà di molti immigrati ben presto potrebbe essere anche la nostra. C’è chi crede nella vita e ogni giorno lotta pur privandosi della propria libertà, loro non sanno di essere anarchici semidei che in questo rancido mondo hanno ridato una speranza a chi l’ha perduta: liberi tutti! Micaela Laterza
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Ecco la verità sui militari italiani a Nassiriya Un’inchiesta di Rai News 24 rivela il ruolo del Governo italiano e dell’Eni Un sospetto che non insospettisce più. Un mistero che si infittisce. Ed ecco che come nei migliori memorandum storici, spunta fuori la verità dei “militi noti”. I soldati italiani, quelli definiti da Ciampi “missionari di pace”, quelli caduti negli attentati, quelli di base a Nasiriya non sono in Iraq per assicurare la pace, per donare la democrazia, per aiutare la gente o per proteggere il patrimonio storico dell’antica Babilonia. E proprio “Antica Babilonia” era il nome della missione supportata dal Governo Berlusconi, che ha visto il contingente tricolore farsi sfoggio dell’interesse umanitario dell’intervento nel Paese mediorientale. Un’inchiesta di Sigfrido Ranucci, inviato di Rai News 24, ha portato alla luce foto, documenti e testimonianze di chi in Iraq sa cosa succede. Ben sei mesi prima dell’inizio conflitto, il Ministero per le Attività Produttive aveva stilato un dossier nel quale si evidenzia la necessità di inviare un imponente numero di soldati proprio nella città di Nassiriya, individuata dal governo come punto strategico per il controllo dei pozzi petroliferi e delle raffinerie. Già a metà degli anni novanta Saddam Hussein fece promessa all’azienda petrolifera italiana Eni di facili concessioni nella città irachena che possiede riserve tra i 2,5 ed i 4 miliardi di barili, in cambio della non belligeranza in caso di attacco Usa. Invece, così non è stato. Appena le truppe americane hanno invaso i territori del dittatore, si è subito conformata la mappa delle stazioni militari e, come si evidenzia dai documenti rinvenuti da Ranucci, Nassiriya è subito stata presa in consegna dagli italiani, che per riconoscenza, hanno assicurato agli Usa il loro intervento militare. Ecco, quindi, che i soldi stanziati dal governo per sostenere la costruzione di un ospedale da campo per la Croce Rossa e le numerose foto diffuse che ritraevano soldati con bambini tra le braccia, sono soltanto una copertura per un’azione ben diversa. La missione a Nassiriya è costata 10 volte più della costruzione dell’ospedale da campo. La base italiana è posizionata in maniera strategica per controllare il maggior oleodotto della città. Il reggimento San Marco, nave della marina, serviva a proteggere gli attacchi da mare. Gli elicotteri ed i pattugliamenti aerei monitoravano possibili azioni di boicottaggio dei pozzi. Insomma, si delinea un quadro che sino ad ora i più scettici avevano rifiutato. L’Italia è coinvolta ed è parte preponderante di un assalto alle riserve petrolifere irachene. Ne controlla alcune zone e la missione di pace di cui si fa vanto è solo un pretesto per zittire l’opinione pubblica. Se poi, a questo, si aggiunge che Saddam aveva concesso la possibilità all’Eni (e quindi al Governo italiano che attualmente gestisce il 30% del capitale dell’azienda) di estrarre petrolio dai sui territori in cambio di “apparecchiature” molto sospette e che non lasciano molti dubbi sul fatto che si trattasse di armi, è davvero giunto il momento in cui, non solo chi si proclama pacifista, ma l’Italia intera deve spingere per il ritiro delle truppe dall’Iraq. Tutti devono chiedere ragguagli sull’esport di armi dall’Italia alle popolazioni in guerra. Perché, il pacifismo non è cosa da pochi, non è lo sfilare con il volto del Che cucito su di un vessillo rosso sangue sovietico e cubano, non è fingersi missionari per creare dipendenza. Pacifismo è combattere la guerra con la pace, con la forza che viene dagli ideali e dall’unione delle persone di qualunque etnia, religione o partito. Roberto Cazzolla
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Ci sono scarpe che non ammazzano esseri viventi... Il proprietario del Bologna Calcio, Giuseppe Gazzoni Frascara, con la sua azienda Gazzoni Ecologia spa entra nel mercato del fashion ecologico. I prodotti a marchio AEQUA realizzati dalla fabbrica del patron rossoblu, saranno infatti riciclabili e non utilizzeranno pelli di animali. Una collezione per la quale il gruppo ecologista di Gazzoni ha investito oltre 5 milioni di euro e all'interno della quale il prodotto di punta sarà costituito, infatti, dalle calzature eco-compatibili. Le scarpe, come tutta la serie degli accessori, sono fabbricate con un basso impatto ambientale in tutta la filiera produttiva poiché come materie prime sono state utilizzate solo microfibre, ultramicrofibre e materiali naturali che non rilasciano componenti tossici per gli ecosistemi.A condire la bella iniziativa con un tocco di classe e di arguzia pubblicitaria, c’è lo spot lanciato dalla Ketchum, un’immagine choc che mostra due piedi umani insanguinati, a sottolineare il fatto che molto spesso la produzione di scarpe in pelle deriva dalla morte di animali che potrebbe benissimo essere evitata. Quindi un grosso plauso all’iniziativa originale e sensibile che mostra ancora una volta come la sensibilità verso l’ambiente ed il rispetto di tutti gli esseri viventi si faccia largo tra l’indifferenza e la crudeltà di una vecchia società che considerava gli animali creature inferiori e l’ambiente creato per soddisfare i nostri bisogni. Ma basta riflettere un po’ per accorgersi che mostrare un paio di scarpe di pitone maculato o una borsa di coccodrillo è soltanto un modo subdolo di mascherare l’ insofferenza verso la propria immagine. Un modo stupido di apparire.
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INDAGINE: ATTENTO A QUELLO CHE MANGI Dentro i cibi una miriade di metalli, censurati i ricercatori Libera ricerca in libero Stato. Almeno così si dice. Ed altro che riforma Moratti, fuga dei cervelli, rivolta dei rettori. Se scegli di restare e fare ricerca, ma quella vera e non finanziata dalle case farmaceutiche o dalle grandi compagnie che non vedono l’ora di apporre un brevetto sulle fatiche di uno scienziato, devi stare ai voleri di chi decide cosa puoi e cosa non puoi scoprire. E’ il caso di Antonietta Gatti e Stefano Montanari, ricercatori italiani all’Università di Reggio Emilia e Modena che grazie ad una sofisticatissima apparecchiatura (microscopio elettronico a scansione ambientale) hanno scoperto che le nanoparticelle metalliche stanno invadendo i nostri tessuti. In pratica, quando mangi una merendina credi di ingerire solo carboidrati, qualche zucchero e grasso e pochi conservanti, in realtà il tuo organismo sta assumendo quantità nanoscopiche di composti che non lasciano più il tuo corpo. E questo non solo attraverso i cibi. Gli inceneritori di rifiuti, anche quelli più recenti i cosiddetti BAT (Best available technologies), emettono sostanze invisibili all’occhio umano che permangono sospese nell’aria per lunghissimo tempo. Dalle analisi effettuate da questi ricercatori si è visto come le cellule di alcuni tessuti, e soprattutto di quelle del tessuto polmonare, sono punteggiate di granuli metallici inalati inavvertitamente. La scoperta è nata dall’osservazione da parte della dottoressa Gatti delle polveri sollevate dalle Twin Towers l’11 settembre al momento dell’ingresso degli aerei a grandi velocità negli edifici. Il calore generato dall’impatto e i pezzi di materiale sgretolatosi hanno innalzato per chilometri un aerosol polveroso inalato da chi era nei paraggi. Ed ora quasi tutti i superstiti od i curiosi avvicinatisi quella tragica mattina al luogo dell’attentato sono colpiti da gravi crisi respiratorie, tumori e infezioni. Non lasciano scampo le nanoparticelle killer. Non si vedono, non hanno odore o sapore, ti invadono senza preavviso e nei luoghi più inaspettati. Ad esempio, sono molto a rischio i vigili urbani, coloro che abitano a ridosso di fabbriche o inceneritori, chi lavora in autostrada. Il proseguo delle ricerche dei due scienziati italiani avrebbe di certo permesso una maggior comprensione dei pericoli ed una ricerca delle possibili misure cautelative. Ma quei due dottorini fastidiosi hanno schiacciato il tasto sbagliato, quello degli interessi economici di moltissime industrie alimentari e sono stati imbavagliati. E’ per questo che Beppe Grillo sul suo blog ha lanciato una raccolta fondi per poter permettere ai due ricercatori di acquistare un nuovo microscopio e proseguire nelle ricerche che potrebbero salvare la vita di tutti (www.beppegrillo.it). Il problema principale sta, però, nel sempre più evidente inquinamento dei comparti biologici (aria, acqua, terra) con metalli e composti organoclorurati che nel tempo finiscono per essere assorbiti dai vegetali e quindi riprocessati sino alle nostre tavole. La bioaccumulazione, fenomeno biologico che va anche sotto il nome di magnificazione, consiste nelle proprietà di alcuni composti, come mercurio o DDT, di accumularsi in quelli che vengono definiti organi bersaglio e restarci a vita. I metalli bioaccumulabili scorrono lungo le catene alimentari e non lasciano mai la materia organica, ecco perché una volta ingeriti per via aerea o alimentare tendono a persistere nell’organismo. Ecco perché aziende come la Motta (vedi lista accanto) preferirebbero far star zitti quei due “cialtroni col camice” che infangano il nome di grandi aziende. Peccato che nel tanto pubblicizzato panettone c’è finito “per sbaglio” qualche residuo di alluminio e argento. Ma la colpa non è solo delle aziende. Il compost di cattiva qualità, i fertilizzanti di sintesi ed i pesticidi stanno rendendo ogni terreno coltivabile, certamente più produttivo, ma altrettanto contaminato. Ottimizzare la produzione agricola vuol dire non soltanto aumentare la quantità di raccolto, ma anche migliorare la qualità dei terreni e delle colture. La superfertilizzazione ed i fitofarmaci sono un pericolo diretto sulla salute umana e sugli ecosistemi. Percolando nella falda, finiscono in laghi e fiumi e poi nei nostri rubinetti. Se a tutto questo si aggiunge la rilevante pressione industriale che sta esponenzialmente incrementando il numero di ciminiere sulla nostra testa, il cocktail è completo. Non bisogna, però, dimenticare i tanto illusori termovalorizzatori, inceneritori di RSU (rifiuti solidi urbani) che oltre alle emissioni che causano l’effetto serra di CO2, NOx, vapor acqueo, emettono diossine e furani oltre alle polveri invisibili PM < 2,5 micrometri che inalate causano seri rischi alla salute. Insomma forse per curare i mali del ventunesimo secolo bisognerebbe iniziare a prevenirne le cause. La ricerca per una cura universale e miracolosa dei vari fenomeni cancerogenici umani, invece di sacrificare migliaia di animali inducendo tumori per curarne altri (che follia se ci si pensa!) dovrebbe focalizzare la sua attenzione più sull’abbattimento delle cause di induzione alla proliferazione cellulare. Ma forse la categoria dei topi non ha un buon sindacato o un buon avvocato in grado di appellarsi per denunciare lo sterminio quotidiano. Forse i magnati delle merendine e i signori degli inceneritori con una valigetta piena di fogli verdi possono gestire la ricerca mondiale. Adesso basta con le raccolte fondi per curare il cancro, il cancro può essere prevenuto visto che le cause si conoscono. MEDICINALI: scarsa tutela per i cittadini vegetariani Nell’Unione Europea ci sono milioni di cittadini vegetariani: alcuni hanno scelto di esserlo in osservanza a canoni religiosi, altri sono costretti a non mangiare carne per problemi di salute. Una motivazione prettamente etica, inoltre, spinge i cosiddetti vegani ad escludere dalla dieta anche uova e latticini, in modo da non arrecare il minimo danno agli esseri viventi non vegetali. In entrambi i casi, si lamenta una scarsa attenzione del Legislatore europeo ai diritti di questi consumatori. Uno dei problemi più delicati è probabilmente quello che riguarda il settore sanitario: gli ingredienti di origine animale, infatti, sono essenziali per la produzione di un vasto numero di medicinali. La soluzione del problema consisterebbe nell’indicare sull’etichetta dei prodotti farmaceutici il loro eventuale contenuto di materiale con simili caratteristiche. Questo espediente consentirebbe a vegetariani e vegani di esercitare il diritto di scelta nei loro acquisti, senza compromettere i loro principi e, soprattutto, la salute. Tuttavia, il diritto comunitario presenta in questa materia delle gravi lacune. La direttiva n. 65/65 è stata adottata per il riavvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative alle specialità medicinali nei paesi del mercato comune europeo. La normativa si propone di garantire la commercializzazione di medicinali sicuri ed efficaci, come pure di informare i pazienti. A questo scopo, per quanto riguarda l’etichettatura dei medicinali dispone in primo luogo che sia indicata la composizione qualitativa e quantitativa in termini di principi attivi. Inoltre è obbligatorio riportare l’elenco degli eccipienti con azione o effetto noti, ovvero di quelli che agiscono sul metabolismo oppure che danno luogo a fenomeni allergici in alcuni individui. In tema di completezza delle informazioni fruite ai pazienti le norme dispongono anche che il foglietto illustrativo indichi la composizione qualitativa completa in termini di principi attivi e di eccipienti. Una direttiva più recente, la n. 92/27, concerne l’etichettatura e le modalità d’uso dei medicinali per uso umano: si dispone che le avvertenze che figurano nel foglietto illustrativo e nell’etichetta siano molto esaurienti, in modo da favorire un corretto impiego del prodotto. Il paziente, dunque dispone senza dubbio di informazioni dettagliate sulla composizione del farmaco. Tuttavia, risulta evidente come il diritto comunitario non contempli la possibilità di riportare sull’etichetta indicazioni specifiche riguardo all’origine animale degli ingredienti. Con un’interrogazione scritta (pubblicata sulla gazzetta ufficiale comunitaria C 261 del 18 settembre) presentata al parlamento di Strasburgo, il deputato liberale Graham Watson ha chiesto quale fosse l’orientamento del Legislatore. Purtroppo, il commissario europeo alla società dell’informazione Erkki Liikanen ha risposto che non è prevista alcuna modifica alla normativa vigente. Si può dunque dedurre che, in assenza di una tutela specifica, i cittadini vegetariani europei debbano affidarsi alle norme generali della protezione dei consumatori e dei pazienti. Coloro che producono e mettono in commercio i prodotti farmaceutici, infatti, sono comunque tenuti a rispettare i canoni di trasparenza imposti dalle due direttive. Il danno alla salute provocato dall’inadempimento della legge comunitaria, dunque, potrebbe venire risarcito mediante il ricorso al giudice civile. Resterebbero privi di solide garanzie processuali, invece, tutti i pazienti che, per motivi morali o religiosi, non riuscissero ad esercitare il diritto a non ingerire sostanze di origine animale. Michele Patruno Caso Morini, l’eccidio che dura E' ormai da tempo, precisamente dal 1953, che in Italia si assiste ad un deliberato massacro di animali. Il mattatoio è meglio conosciuto col nome di Stefano Morini S.a.S ubicato presso S. Polo D'Enza (RE). La gestione di questo "allevamento" è passato nelle mani di Giovanna Soprani, moglie del fu Stefano Morini, coadiuvata dai suoi tre figli. Nuova gestione, ma le terribili abitudini non cambiano. Le entrate di questa società derivano dalla vendita di mangimi, attrezzature e sopratutto di animali a laboratori di studio per esperimenti, effettuati su soggetti vivi. Ma la malvagità umana come sappiamo non conosce limiti. Morini infatti non si limita solamente all'abuso sulla vita di creature viventi, ma va ben oltre: infrange i diritti degli animali. La Soprani è stata giustamente chiamata in causa per varie accuse: trasporto illegale di animali, falsificazione dei libretti sanitari dei cuccioli, mancata denuncia di nascite e di conseguenza la mancanza del microchip nei cani, che non permette la loro identificazione in caso di ritrovamento e maltrattamento. La Soprani l'ha pensata bene per far soldi, evitando le complicazioni legali e sanitarie. Per sua sfortuna nel 2002 fu bloccato un camion che trasportava 56 cani beagle, una delle vittime preferite da Morini. Ovviamente il mezzo non era adibito per il trasporto di esseri viventi. Il procuratore Benno Baumgartner del tribunale di Bolzano ha disposto un decreto penale di tipo pecuniario per Giovanna Soprani e il camionista diretto in Germania. Lo stesso magistrato condannò due veterinari, uno della Soprani, l'altro operante per l'Ausl, per falso ideologico circa vaccinazioni mai effettuate sui cani. Iniziano così le proteste contro gli eccidi, finalizzati alla chiusura del lager Morini. Inizialmente il governo ha appoggiato queste manifestazioni, finchè nel 2004 il ministro La Loggia (FI) ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale. La legge (definita anti-morini) che vietava in Emilia Romagna l'allevamento di cani e gatti a fini sperimentali è stata quindi ritirata. Morini ha dato nuovo ritmo al suo massacro. Un gruppo di animalisti si è palesemente opposto all'ingiustizia della legge, loro portano il nome di "Chiudere Morini". Dal 2002 gli attivisti hanno organizzato numerosissime manifestazioni che tuttavia si sono rivelate poco approvate dalla popolazione sanpolese. Molto spesso lo stesso comune e il sindaco Milena Mancini hanno dimostrato poca attenzione ai cortei: migliaia di persone ignorate. C'è di più. Sono stati tristemente annotati eventi di violenza da parte delle forze armate contro queste dimostrazioni di puro animalismo. Ma di certo i motivi per protestare ci sono. Cuccioli uccisi, animali denutriti, spazi vitali del tutto assenti, igiene men che precaria. Evitiamo poi di descrivere le scene macabre delle carcasse gettate negli inceneritori che, come tante altre cose, sono detenuti illegalmente. Un vero e proprio lager per animali. E i più forti dove vanno a finire? Quelli che riescono a sopravvivere alla malnutrizione, alle malattie, ai maltrattamenti e al trasporto di "oggetti animati" vanno a finire solamente in laboratori. C'è chi, come le università, li usa per la vivisezione. Industrie farmaceutiche sfruttano le cavie e i beagle per testare nuovi farmaci. La questione si aggrava se gli animali, destinati a morire, vengono anche maltrattati e tenuti moribondi in piccole gabbie, come testimoniano le innumerevoli foto in circolazione. Non manca poi lo strapotere delle multinazionali dei cosmetici e prodotti per l'estetica. Sono ormai pubbliche le testimonianze di mutazioni geniche sui topi che hanno indotto lo sviluppo di migliaia di rughe su tutto il corpo. Solo per testare un cosmetico antinvecchiamento, semplice no? Anche le scimmie sono mira di molti scienziati e vivisettori. Loro vengono trasformate in esseri per metà metallici. Ad esempio vengono inseriti degli elettrodi nel cervello, utili per inviare scosse elettriche e verificarne la reazione fisiologica. E' scontato dire che gli elettrodi sono fissi e, una volta inseriti, saranno irrimovibili. Immaginate un gatto steso al sole con un pezzo di ferro che esce dal cranio, non farà più tanta tenerezza. Di fronte a tutto questo il cittadino può agire in vari modi. Prima di tutto è importante l'informazione: ognuno deve essere al corrente di ciò che l'uomo è capace di fare sulle altre creature. Di quanto l'uomo si senta di pari diritti ad un dio sulla vita degli altri. La richiesta a chiunque desideri opporsi alla crudeltà è quella di evitare l'acquisto di prodotti di marche-criminali. Tra questi si ricordano: Dash, Ace, Nelsen, Viakal e Mastro Lindo (per l'igiene della casa); Tampax e Lines (per l'igiene femminile!); Tempo, Topexan, Napisan, AZ, Kukident, Infasil e Pantene (per l'igiene personale), Laura Biagiotti e Hugo Boss (per i profumi). Eugenio Milano Columbus Day: nel nome di Colombo si uccide ancora Lo scorso 12 ottobre, Italia e America hanno festeggiato con parate, cortei, sfilate e concerti il Columbus Day, ossia la giornata nazionale dedicata a Cristoforo Colombo in qualità di “scopritore” dell’America. Tale ricorrenza risulta essere più antica in America, dove alcuni la fanno risalire al 1892, anno in cui l’allora Presidente americano Harris, la istituì al fine politico di placare gli attriti sorti fra i nuovi immigrati cattolici e i vecchi coloni protestanti, mediante la celebrazione di un eroe cattolico. Come ogni anno, in America ma anche in Italia, assieme alle parate e ai cortei sfilano anche le polemiche, di carattere storico ma soprattutto di carattere etico. Storico, perché sembra ormai certo che Colombo non sia stato il primo a sbarcare sul continente americano, ma pare che l’avessero preceduto i Vichinghi e secondo alcuni anche i Romani. Etico, perché l’approdo di Colombo in America oltre a non sancirne la “scoperta” in quanto si trattava di una terra popolata già da 300 mila anni, significò l’inizio del genocidio di migliaia di indigeni, massacrati, sfruttati sino allo sfinimento, violentati nel corpo e nello spirito col bene placido dell’ “eroe Colombo”. Ed è per questo che molti si oppongono a tale festa, in particolare le popolazioni indigene ma non solo. Nei giorni della festa, infatti, numerose contro-parate pacifiche hanno fatto da eco a quelle ufficiali, che si sono svolte soprattutto a New York e anche in alcune città italiane, nel corso di una delle quali, in Colombia, un manifestante è stato assassinato da agenti della sicurezza governativa. Sembra, infatti, che ogni anno il Governo americano cerchi di opporsi alle manifestazioni di protesta, mediante intimidazioni, minacce e censure. Colombo scrive nel suo diario di bordo: "Ci portarono pappagalli e balle di cotone e lance e molte altre cose, che scambiarono con le perline di vetro e i campanelli per i falchi. Essi scambiarono di buon grado tutto ciò che possedevano. Erano ben formati, con corpi armoniosi e fattezze gradevoli. Non portano armi, e non le conoscono, giacchè io gli mostrai una spada ed essi la presero di lato e si tagliarono. Non hanno il ferro. Le loro lance sono fatte di canna di zucchero. Sarebbero degli ottimi domestici. Siamo riusciti in 50 a soggiogarli tutti e e fargli fare qualunque cosa volessimo." Durante il lungo viaggio di ritorno verso la Spagna, molti degli Indiani fatti prigionieri morirono. Ecco una parte del resoconto di Colombo alla Regina Isabella e al Re Ferdinando di Spagna: "Gli Indiani sono cosi’ ingenui e liberali con i propri averi che nessuno che non abbia veduto con i propri occhi ci crederebbe. Quando gli chiedi qualcosa in loro possesso, non rispondono mai di no. Al contrario, spesso si offrono di condividere con chiunque." Colombo concludendo la descrizione di ciò che aveva visto, chiese un piccolo aiuto al Re e alla Regina, promettendogli in cambio "tanto oro quanto ne avete bisogno, e tanti schiavi quanti ne chiedete." Come riferisce Mitchel Choen: “Quando giunsero a Fort Navidad a Haiti, i Taino si erano ribellati e avevano ucciso tutti i marinai che erano rimasti lì dopo il viaggio precedente, dopo che avevano scorazzato per l’isola in bande, stuprando le donne e prendendo bambini e donne come schiavi. Colombo piu’ tardi scrisse: "In nome della Santa Trinita’, ci sia consentito continuare a spedire tutti gli schiavi che possono essere venduti." Gli Indiani cominciarono a resistere, ma non riuscivano a tenere testa ai conquistatori spagnoli, anche se li superavano grandemente per numero. In otto anni gli uomini di Colombo uccisero piu’ di 100.000 Indiani nella sola Haiti. In generale, piu’ di 3 milioni di Indiani furono uccisi tra il 1494 e il 1508, morendo come schiavi nelle miniere, o uccisi direttamente, o decimati dalle malattie portate ai Caraibi dagli Spagnoli”. Da tale resoconto appare evidente quanto sia assurda e strumentale, in America, così come in Italia la celebrazione di un uomo che ha fatto della distruzione di un popolo, della devastazione di habitat incontaminati e dell’imposizione forzata di un dogma religioso la sua fortuna e di quanto sia paradossale definirlo un eroe. Paradossale e anacronistico verrebbe da dire, ma...pensandoci bene, purtroppo ancora non lo è.
Ivana Guagnano Olimpiadi di Torino 2006, uno schiaffo all’ambiente
Le Olimpiadi non sono ancora cominciate e già la fiaccola olimpica sembra scotti più che mai. Già qualcuno sarcasticamente ironizza sulla formula “avventura olimpica” coniata in riferimento alla manifestazione sportiva che si terrà il prossimo anno a Torino fra il 10 e il 26 febbraio 2006. Il sarcasmo deriva in realtà dai dubbi, sorti numerosi, circa la sostenibilità economica e ambientale dell’iniziativa che lascia presagire che tutto sia stato progettato in un’ottica del presente, e proprio come in un’avventura, evitando di interrogarsi su cosa accadrà all’indomani della manifestazione, quando i riflettori saranno ormai spenti. Numerosi studi condotti in quei paesi che hanno ospitato in passato manifestazioni come quella che si terrà a Torino il prossimo anno, hanno evidenziato un notevole indebitamento delle comunità locali e la presenza di impianti sportivi e non, inutilizzati e in disfacimento, per gli insostenibili costi di manutenzione, oltre che un irreversibile impatto ambientale, deleterio di per sé e dannoso anche a livello economico, in quanto causa dello scadimento qualitativo dei siti naturalistici interessati. Tenendo conto di tali rischi, le quattro associazioni ambientaliste piemontesi, Legambiente, Italia Nostra, Pro Natura e WWF si sono unite per formare un osservatorio ambientalista, costituito ad hoc e volto a monitorare progetti e decisioni relative alle Olimpiadi al fine di evitare o, quantomeno, ridurre al minimo l’impatto ambientale e impedire che 15 giorni di gloria mediatica deturpino irrimediabilmente le montagne piemontesi. Quello che le associazioni ambientaliste chiedono è che si tengano presenti le procedure del VIA (Valutazione Impatto Ambientale), vale a dire un documento nel quale sono riassunte le procedure atte a ridurre l’impatto ambientale, cercando soluzioni alternative e meno deleterie per l’ambiente. Le proposte contenute nel VIA sono grossomodo le seguenti: Evitare l’edificazione di strutture, in aree di elevato valore naturalistico. Utilizzare impianti già esistenti (retaggio di altre grandi manifestazioni sportive che hanno interessato la regione in passato) anche se situati fuori provincia, anziché costruire nuovi impianti. La costruzione di strutture smontabili, temporanee, in modo da garantire il ripristino dell’habitat originario. Che gli impianti permanenti vengano progettati tenendo conto di una reale prospettiva di riutilizzo e stabilendone preventivamente la sostenibilità economica. Che i villaggi olimpici siano realizzati prioritariamente attraverso il recupero di strutture già esistenti e non ubicati né in contesti urbani densamente popolati, né in contesti montani, delicati dal punto di vista ambientale; si richiede, inoltre, che il loro utilizzo futuro non ne preveda la trasformazione in abitazioni, ma in sedi di pubblici servizi (di cui le comunità del luogo necessitano da tempo). A preoccupare in particolar modo sarebbero al momento, i ritardi ingiustificati, riguardanti i lavori per le opere olimpiche. Tali ritardi hanno creato una situazione di “emergenza olimpica”, che lascia presagire il ricorso alla legge speciale concepita dal Ministero delle Opere Pubbliche. La suddetta legge prevede che il Ministro interessato possa estendere ai “grandi eventi”, quelle deroghe legislative previste per gli avvenimenti catastrofici e relative allo stato di emergenza. Questo vorrebbe dire che i lavori per le Olimpiadi potrebbero godere della deroga della legge che stabilisce le normali procedure per la realizzazione delle opere pubbliche, oltre che il superamento delle procedure di VIA. In realtà, nonostante le associazioni ambientaliste siano state invitate alle riunioni del comitato olimpico organizzatore, le loro richieste sono state finora perlopiù ignorate. A dimostrarlo il fatto che tutte le strutture realizzate, saranno, per direttiva del CIO (Comitato Olimpico Internazionale), permanenti e che la costruzione della maggior parte di esse comporterà una trasformazione vera e propria della forma delle montagne, un elevato tasso di disboscamento e il taglio di molte piante tipiche del luogo, in contesti, inoltre, già naturalmente a elevato rischio idrogeologico e definiti dall’Autorità del Bacino del Po come “zone a rischio molto elevato in cui sono possibili la perdita di vite umane e lesioni gravi alle persone, danni gravi agli edifici e alle infrastrutture, la distruzione di attività socio-economiche” e su cui l’impatto dei lavori olimpici, non potrà che accentuare il dissesto. Fra le strutture più contestate in questo senso, l’impianto per il salto col trampolino, il quale oltre a destare seri dubbi circa il reale uso post-olimpico, considerando che alle ultime olimpiadi di Salt Lake City vi era un solo italiano iscritto a tele disciplina, va detto che le tribune verranno costruite nell’area esondabile del torrente Chisone, oltre che in un SIC, vale a dire in un Sito di Interesse Comunitario a elevato valore naturalistico e tutelato dall’UE. Praticamente tale struttura insieme a quella per il biathlon sarà realizzata in un’area dalla natura incontaminata che verrà deturpata per sempre per fare spazio a migliaia di metri cubi di cemento, impiegati nella costruzione di parcheggi e strade per consentire l’accesso a decine di migliaia di persone in un luogo praticato al momento da poche decine di anime. I lavori danneggeranno pesantemente l’ecosistema dell’area creando per altro notevoli disturbi alla fauna del luogo, già notevolmente colpita a causa della crescente sottrazione del territorio a opera umana. Anche il punto che chiedeva di evitare la costruzione di villaggi olimpici, all’interno di zone densamente abitate, sembra sia stato ignorato in toto. Torino infatti, trasformata in un enorme cantiere, diventerà la sede di un villaggio olimpico da 200 mila metri cubi, l’equivalente di abitazioni per 2200 persone; due villaggi per giornalisti, che insieme copriranno una superficie di quasi 400 mila metri cubi e atti a ospitare 4000 persone; 3 palazzetti del ghiaccio, 2 per le prove degli atleti e uno solo per lo svolgimento vero e proprio dell’unica gara che vi si svolgerà. Quest’ultima struttura, inoltre, dalle dimensioni colossali (220 metri di lunghezza, 120 di larghezza e 38 di altezza) risulterà economicamente ingestibile sin dal giorno dopo la conclusione della manifestazione. Per non parlare poi, dell’ingente opera di modifica dell’attuale viabilità che prevede l’allargamento dell’autostrada del Frejus, la risistemazione della statale per Sestriere, con varie circonvallazioni e la realizzazione di chilometri e chilometri di nuove strade per rendere Torino raggiungibile praticamente da ogni dove, la costruzione di bacini idrici per consentire l’approvvigionamento a tutti gli impianti per l’innevamento artificiale e altro ancora. Il tutto per soli 15 giorni! Il tutto attraverso un impiego di risorse economiche incalcolabile, che avrebbero potuto essere impiegate per la realizzazione di aree verdi cittadine, di cui alcune zone di Torino risultano carenti o, quantomeno, per accontentare le richieste di tutti quei cittadini che attualmente abitano le “montagne olimpiche” e che da anni denunciano la mancanza di infrastrutture primarie per i servizi, di depuratori, di fognature, l’insufficienza dell’acqua per usi domestici per cui più volte ci si è ritrovati in emergenza idrica in pieno inverno. Inoltre, la parziale mancanza di sponsor finora riscontrata rischia di minare il candore di Biancaneve, vale a dire la carta etica sottoscritta dagli organizzatori col settore del no-profit, al fine di realizzare olimpiadi “pulite”. Sembra, infatti, che se la situazione non dovesse mutare fra i pochi sponsor delle olimpiadi compariranno anche Finmeccanica e Istituto San Paolo, accusate di essere coinvolte nel commercio di armi. Ivana Guagnano
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