la
Controvoce
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FRONTE PATRIOTTICO COMUNITA' |
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SANGUE
E ACCIAIO Carlo
Terracciano Stalin
e la Russia del XX secolo - Introduzione a "Sangue e acciaio" “Brindo
al popolo russo innanzi tutto perché è quello che più si è distinto
fra tutte le nazioni che compongono l’Unione Sovietica. Gli dedico
questo brindisi perché esso ha meritato, fra tutti i popoli del nostro
paese, di essere riconosciuto da tutti come la forza dirigente di questa
guerra. Dedico questo brindisi al popolo russo non solo perché è un
popolo dirigente, ma perché ha lo spirito chiaro, il carattere stoico e
molta pazienza”. [Al popolo
russo , 24 maggio 1945] Stalingrado
è la famosa città industriale della Russia meridionale sull’ansa del
Volga dove dall’agosto 1942 al gennaio ‘43 fu combattuta fra
tedeschi e russi una delle più importanti battagli terrestri della IIª
Guerra Mondiale. Forse la più decisiva in assoluto, dopo tre anni di
trionfi delle armate del III Reich. “Stalingrado”
dichiarò Stalin “segnò l’inizio del tramonto dell’esercito
fascista-tedesco”. Con
Leningrado, oggi ritornata all’antico nome di San Pietroburgo, e
Mosca, la roccaforte del Volga rappresenta da sempre l’estrema linea
di difesa russa dalle invasioni occidentali, proprio per la sua
posizione strategica nel fronte sud. Una linea
retta trasversale quasi perfetta dal Baltico al Caspio. Essa è
situata infatti a ridosso dell’ampia ansa della maggiore via fluviale
della pianura sarmatica, dove Volga appunto e Don sembrano quasi
destinati ad unirsi, per poi piegare l’uno a sud-est fino al Caspio,
l’altro verso sud-ovest al Mar d’Azov, a sua volta collegato al Mar
Nero. Il Volga
insomma, attraverso una serie di laghi interni e canali scavati
dall’uomo rappresenta la vena vitale della Russia europea e collega
tra loro i mari del sud russo con il Golfo di Finlandia e il Mar Baltico
a settentrione. In termini storici potremmo dire il mondo nordico
vichingo con quello caucasico a sud-est e balcanico-anatolico a sud
ovest (l’antico impero di Bisanzio, la Seconda Roma e poi quello
Ottomano che ne raccolse l’eredità). Se ci
siamo soffermati su questi aspetti storici e geografici per introdurre
il lettore alla figura di Joseph Vissariovich Djugashvili, passato alla
storia con l’appellativo di STALIN (Acciaio) è perché consideriamo
altamente simbolico l’accostamento del suo nome a quello della città
che tale ruolo ha svolto nella storia moderna dell’impero russo. Se la città
fondata da Pietro il Grande esattamente 300 anni or sono sul Golfo di
Finlandia per aprire alla Russia le vie del mare e del mondo ed essere
la nuova capitale, fu dedicata al capo politico, ideologo e fondatore
della Russia bolscevica, è altrettanto significante il fatto che la
“capitale del sud” abbia assunto per decenni il nome del vero
fondatore della Russia moderna, già seconda potenza mondiale. Il nome
precedente Czaritzyn, oggi reintrodotto dopo la parentesi Volgograd,
evoca chiaramente il passato zarista. E Stalin fu a tutti gli effetti il
nuovo Zar, il nuovo Ivan il Terribile e il nuovo Pietro del restaurato
impero, l’URSS. Il Capo
assoluto cui dedicare la città dell’acciaio. Un uomo
“d’acciaio” che, ironia molto nota nella storia, non apparteneva
per le sue origini al popolo che seppe condurre alla vittoria ed alla
potenza. Alessandro
Magno, il vincitore dell’Oriente, dell’Egitto e della Persia nel
nome dei greci fu un macedone, praticamente un “barbaro” di confine
per l’écumene ellenistico. Carlo
Magno, a sua volta restauratore dell’Impero Romano in Occidente un
Franco, Saladino ri-conquistatore per l’Islam di Gerusalemme un curdo;
il corso Napoleone fece la grandezza della Francia entrando nel mito. Un secolo
dopo l’austriaco Hitler fondava il III Impero Germanico che affrontò
l’impero “rosso” creato dal mezzo ebreo Lenin e difeso dal
georgiano Stalin in una guerra di Titani. A dirla
tutta anzi sembra che egli avesse, per parte materna, discendenza dagli
Osseti, una piccola stirpe caucasica mantenutasi tra le più pure della
grande famiglia indo-europea. Il
velenoso libro di Louis Rapoport “La guerra di Stalin contro gli
ebrei- L’antisemitismo sovietico e le sue vittime” ( riedito a
dodici anni di distanza da Rizzoli), Le tre
città simbolo della Russia ressero all’urto della blitzkreig
germanica che lambì le periferie di Leningrado e Mosca mentre rimase
intrappolata nel cuore di Stalingrado. Ed è qui,
nel luogo dedicato al “generale supremo” che si infranse il sogno
del Reich Millenario, quando l’inetto e poi traditore Feld Maresciallo
von Paulus si arrese con 80mila uomini ancora armati e ben 18 generali! Era il 31
gennaio 1943. 10 anni
esatti dall’ascesa di Hitler al potere. Altri due
anni e tre mesi di guerra, con uno spargimento di sangue imparagonabile
nella storia non avrebbero mutato più le sorti del conflitto mondiale. L’uomo
che sarebbe stato definito per le sue vittorie il “sole della
Russia”, come Aleksandr Nevskij, era nato a Gori il 21 dicembre 1879,
quindi nel giorno del Solstizio d’Inverno, quando secondo la
tradizione più remota il sole, che sembrava destinato a scomparire
preda della tenebra, inizia la sua lenta ascesa celeste di sei mesi,
fino al prossimo solstizio, quello d’Estate. E quanto
Stalin, già padrone assoluto della Russia, si identificasse con la
storia dei grandi che lo avevano preceduto restano a dimostrarlo proprio
i film di Sergej Eisenstein, sia quello del ’38 sulla vittoria del
principe Nevskij sui Teutonici al Peipus, sia il successivo Ivan il
Terribile-La Congiura dei Boiardi, almeno i primi due appoggiati dal
dittatore giorgiano . Un’ascesa
lenta, faticosa, piena di insidie, di persecuzioni, di carcere e di
esilio, quella del georgiano-osseta, che ne forgerà il carattere e le
idee più attraverso l’azione che non nella vuota astrazione
intellettuale di retori e ideologi. Già a
vent’anni, con l’espulsione dal seminario teologico di Tblisi il suo
destino è segnato. In altra
parte del presente scritto è ampiamente trattata la biografia di
Stalin, per cui prenderemo in considerazione la sua opera di
rivoluzionario e capo di stato a prescindere, per quanto possibile,
dalla sua impostazione marxista-leninista, il suo substrato dottrinario
e ideologico che, nonostante le critiche dei suoi oppositori in
particolare Trotzky e i trotzkisti, si dimostrò alla prova dei fatti
ben più vicino al pragmatismo rivoluzionario di Lenin di quello dei
suoi detrattori. Ma prima
di tutto bisognerà sgombrare il campo da alcune questioni che hanno
distorto il giudizio sul vero fondatore dell’URSS moderna. Intanto
l’idea che il regime staliniano, il “terrore rosso”, il sistema
concentrazionario dei gulag o la dittatura del e nel PC abbiano
rappresentato delle “variabili impazzite” rispetto alla originaria,
idealistica purezza del marxismo, pur nella sua versione leninista e/o
trotskista. Niente di
più falso ed antistorico. Il
“compagno Koba (Indomabile !) poi Stalin, da quando fu Segretario
Generale del CC fino alla morte, non fece che applicare l’insegnamento
leninista adattandolo alle situazioni contingenti. Un
comunismo democratico, sensibile alle istanze dal basso, rispettoso
degli oppositori veri o presunti, acerrimo nemico delle dittature e
destinato ad una pacifica convivenza ed equilibrio a livello
internazionale E’ PURA INVENZIONE POSTUMA di un’agiografia
pseudostorica che vorrebbe come sempre rileggere gli accadimenti e le
idee del passato con l’ottica del presente; cioè quanto di più
antistorico possa esistere. E non si
tratta solo di storiografia marxista. Quella demo-borghese antifascista non fu da meno, dovendo giustificare ai posteri l’innaturale alleanza contro Germania e Italia assieme ad un “dittatore così sanguinario” (almeno dopo il famoso “Rapporto segreto Kruscev” al XX Congresso del febbraio ’56) Anche sui
famigerati processi del Terrore staliniano, le “grandi purghe” degli
anni Trenta e Quaranta, fino al processo ai medici ebrei che precede di
poco la sua morte (e qualcuno sospettò che la determinasse), resterebbe
ancora da svolgere una seria opera di ricostruzione degli atti e dei
fatti. Trotzky e
Bukharin, Kamenev e Zinoviev, giù giù fino a Slansky ed Anna Pauker,
furono tutti capi comunisti che utilizzarono gli stessi metodi oggi
attribuiti al solo Stalin, e che ne furono a loro volta stritolati. Nella
lotta di potere all’interno del Movimento Comunista Internazionale
Stalin seppe sempre anticipare le mosse dei suoi avversari interni ed
esterni. In caso
contrario costoro avrebbero applicato nei suoi confronti gli stessi,
medesimi metodi; che sono del resto in auge almeno da oltre due secoli
di movimenti rivoluzionari, dalla Rivoluzione Francese in poi. E se pure
le confessioni venivano estorte prima del processo, non per questo esse
devono considerarsi semplicemente false. Stalin era circondato da nemici
ideologici e politici, ma seppe dimostrarsi più avveduto di loro e
seppe stroncare sul nascere ogni tradimento; almeno fino al marzo del
'’53 data della sua morte, in pieno “processo dei medici”, per la
maggior parte ebrei. Per non
parlare ovviamente e banalmente di cifre di morti a sette zeri, di
deportazioni, guerre, stragi, omicidi singoli e collettivi attribuiti al
“despota rosso”, specialmente dopo il crollo dell’URSS e
l’avvento al potere di governi sempre più reazionari e
filo-americani. Con tali
considerazioni infatti nessun regime, nessun governo e nessun popolo
della storia si salverebbe dalla condanna. Basti
pensare alla scia di sangue che la storia americana, dai primi
insediamenti nel Nuovo Mondo ad oggi, ha lasciato su tutto il globo:
certamente il più grande olocausto, pagato da quasi tutti i popoli che
ebbero la sventura di incrociare l’imperialismo USA. La
grandezza di Stalin va invece, a nostro modesto parere, misurata proprio
sul suo impegno interno nella trasformazione della Russia semi-feudale
in un paese moderno, autosufficiente per quanto riguarda le materie
strategiche, seconda potenza mondiale del dopoguerra. E’ la stessa
politica nazionale e rivoluzionaria che fu propria ai regimi di
mobilitazione di massa nell’Europa degli anni Venti e Trenta o
nell’Era Meji del Giappone della seconda metà dell’800 fino al
1945. La
campagna contro i kulaki e le carestie nella Russia meridionale
servirono anche a lanciare il paese a tappe forzate verso
l’industrializzazione moderna, saltando a piè pari la fase borghese
di concentrazione capitalista. La burocrazia sovietica sostituì nei
fatti quel passaggio storico preconizzato da Marx. In Russia
la rivoluzione comunistica e dall’alto, successiva al colpo di stato
dell’élite di partito armata, anticipò e non seguì la fase borghese
dello schema teorico marxiano. Ne
rappresentò l’attuazione pratica nella contraddizione dottrinaria. Non solo:
ne fu il paradigma futuro di riferimento per tutte le altre rivoluzioni
del Terzo Mondo, dove il comunismo, strumento della Liberazione
Nazionale anticolonialista, si affermò sempre in contesti sociali
pre-industriali e agricoli, dove l’unica borghesia esistente era
quella commerciale e mercantilistica legata agli interessi coloniali
delle potenze occupanti. Così in Cina, a Cuba, nel Vietnamo in Corea
del nord; fino al caso eclatante della Cambogia dei “kmer rossi” che
nella loro breve esperienza di governo invertirono il processo,
riportando alle campagne la popolazione recentemente inurbata e
cercarono di attuare un comunismo agricolo originale ed originario,
addirittura pre-feudale nel marxismo. In Europa
invece il regime sociale e politico fu imposto dall’esterno con
l’occupazione militare dopo la II Guerra Mondiale, e come tale fu
avvertito come una forma di neo-imperialismo, con le conseguenze che
tutti conosciamo. Ma dove il
pragmatismo staliniano rifulse fu nella comprensione dei reali rapporti
internazionali dopo la morte di Lenin e l’evidente fallimento dei
tentativi insurrezionali in Europa occidentale, Italia e Germania in
primis. Tentativi abortiti che avevano anzi favorito l’avvento di
regimi rivoluzionari di segno ideologico opposto. La
teorizzazione del “Socialismo in un solo paese” rappresenta
certamente una rottura notevole con tutta la tradizione marxista
precedente che trovò invece ne “La rivoluzione permanente” di Lev
Bronštein-“Trotzky” il teorico più consequenziale e nella
fondazione della Terza Internazionale nel marzo 1919 il suo apice. Eppure il
fallimento della campagna di Polonia, con la sconfitta della battaglia
di Varsavia (15 agosto 1920), e ancor più i fallimenti nel tentativo di
instaurare repubbliche “sovietiche” in Baviera, Germania, Ungheria,
Italia ecc…dimostrava come il caso russo fosse stato praticamente
unico e non esportabile. Non
dimentichiamo infatti che quello di Lenin a San Pietroburgo fu un vero e
proprio colpo di stato condotto da una ristretta cerchia di militanti
rivoluzionari professionisti, a fronte di una popolazione ancora al 90%
contadina completamente estranea. I
bolscevichi approfittarono del momentaneo vuoto di potere conseguente
alla rivoluzione borghese di marzo e al disfacimento del fronte russo
della I Guerra Mondiale. Proprio
per favorire il quale Lenin era stato riportato in Russia col permesso
del Quartier Generale prussiano, nel celeberrimo treno blindato fino
alla stazione Finlandia della capitale russa. Il colpo
di stato e la successiva guerra civile con i Bianchi aveva consegnato ai
rivoluzionari bolscevichi un paese che nella logica stessa della
dottrina marxista era il più lontano possibile dalla prospettiva
rivoluzionaria propria in una società a capitalismo avanzato e con una
borghesia industriale in crisi. Fu Stalin
che seppe fare di necessità virtù, fino a rovesciare i termini stessi
del rapporto tra Russia e rivoluzione comunista. Per i
trotzkisti non solo era inconcepibile con tutta la dottrina di Marx ed
Engels l’idea del “socialismo in un solo paese”, per quando
immenso come la Russia, ma anche che esso potesse sopravvivere senza la
rivoluzione internazionale cioè in Europa. L’arretratezza
dell’ex impero degli Zar ne avrebbe fatto oggetto delle mire degli
stati capitalistici e delle forze reazionarie interne. Il
bolscevismo aveva mantenuto il potere contro la reazione “bianca”
sia per le divisioni del fronte avversario, mai saldatosi in una
strategia unica, sia perché era riuscito a tenere quell’asse
geopolitico San Pitroburgo-Mosca-Volgograd che, come già detto,
rappresenta da sempre la spina dorsale di ogni resistenza russa alle
invasioni. Stalin,
pur rimanendo sempre idealmente fedele al comunismo, dovette prendere
tuttavia atto della realtà elaborando la nuova strategia: rafforzare e
modernizzare a tutti i costi la Russia o meglio, dal 1923 al 1991, la
Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS, o CCCP se si usano
i caratteri cirillici corrispondenti alle 3 S e R). In questo
nuovo contesto strategico mondiale il ruolo dei vari partiti comunisti
aderenti alla IIIª Internazionale sarà d’ora in avanti solo quello
di uniformarsi in toto alla politica interna ed estera dell’unico
“stato comunista” in attesa che la sua potenza militare “liberi”
i rispettivi paesi dal dominio capitalista. L’URSS
insomma come “Terra promessa” del proletariato, santuario
inviolabile e futuro trampolino di ri-lancio della Rivoluzione mondiale
al seguito dell’Armata Rossa. Con
l’era staliniana il rovesciamento delle posizioni è totale: la Russia
e i popoli federati da STRUMENTO del comunismo internazionalista si
trasformano in FINE, ed il comunismo stesso diviene lo strumento per la
politica neo-imperiale russa. Uno
strumento formidabile perché il suo internazionalismo e una dialettica
marxista impregnata di messianismo salvifico ne permettono
l’applicazione in ogni contesto geografico, in ogni fase storica e
politica. Stalin può
così adattare la teoria rivoluzionaria con svolte radicali a 180°,
passando dall’isolazionismo e dalla teorizzazione del Socialfascismo
ai Fronti Popolari in funzione antinazista, dal Patto
Molotov-Ribbentropp con la Germania Nazionalsocialista per la
spartizione della Polonia e dell’Europa Orientale fino alla Triplice
Alleanza con gli stati capitalisti Gran Bretagna e Stati Uniti in
funzione antitedesca e poi, dopo Yalta alla creazione del Patto di
Varsavia per contrastare l’occupazione dell’Europa occidentale da
parte dell’America con il suo strumento, la NATO. Per inciso
la Guerra Fredda ripropone per l’ennesima volta nella storia la
contrapposizione tra Terra e Mare, tra potenza terrestre e
talassocrazia, come già era stato nel secolo precedente tra Impero
zarista e Impero britannico. E’
infatti evidente che il rovesciamento storico, per quanto solo
strategicamente determinato, riposiziona la Russia in un ruolo centrale
ed “imperiale” se non imperialista e tende negli anni a riannodare
il tessuto storico della nazione, dopo lo strappo rivoluzionario di un
bolscevismo i cui leader, Stalin compreso, erano in massima parte non
russi. E a questo
punto necessita una puntualizzazione. Accusare
Stalin di antisemitismo, come hanno fatto molti storici ebrei quali il
Fisher o Rapoport è pura propaganda di parte sionista. Stalin non
fu antiebraico più di quanto sia stato anticeceno o antiucraino. Come Marx,
figlio del rabbino di Treviri, come Lenin in parte ebreo, il georgiano
Stalin si rifiutò semplicemente di riconoscere gli ebrei come
nazionalità a se stante, in considerazione della loro identità
religiosa e specificità culturale. Del resto,
se tutta la vecchia guardia bolscevica eliminata da Stalin era composta
da ebrei, gli esecutori delle purghe staliniane da Jagoda a Beria
passando per Ežov avevano la medesima origine. Non
dimentichiamo poi che la Russia, nel 1948, fu la prima a riconoscere il
neonato stato di Israele, per inserirsi nel gioco mediorientale allora
dominato da inglesi e francesi, “mandatari” nei territori arabi
dell’ex Impero turco e sostenitori delle corrotte monarchie arabe. Le
rivoluzioni panarabe e socialiste degli anni successivi ribalteranno le
posizioni ed indurranno Stalin ad orientarsi verso il progetto del
Birobidžan, la versione russa del “progetto Madagascar”. Detto
questo è indubitabile che la lotta tra Stalin e Trotski, tra socialismo
russo e internazionalismo, sia stata letta ed avvertita proprio in
Russia anche come uno scontro, sempre rinnovantesi, tra la Patria Russia
ed il cosmopolitismo apolide. Non solo
la classe dirigente della rivoluzione russa era composta di ebrei, ma lo
erano anche tutti i capi dei partiti comunisti che in Germania,
Ungheria, Baviera avevano condotto le fallite insurrezioni. Stalin,
volente o nolente, a ragione o a torto, è “sentito” in Russia
ancora oggi, nonostante le origini caucasiche, come il difensore della
specificità russa, della storia della Russia eterna rispetto
all’elemento estraneo, in particolare ebraico. Specie con
la II Guerra Mondiale, che per i russi è la Grande Guerra Patriottica,
Stalin recupera, seppure solo strumentalmente, valori e simboli della
Russia pre-rivoluzionaria, compresa la religione ortodossa, e i grandi
Zar che avevano creato l’impero, Ivan IV e Pietro il Grande. All’interno
stesso dello stato sovietico le due anime, per così dire, quella
“populista russa” e quella “cosmopolita internazionalista”
trovarono nell’Armata Rossa e nei Servizi Segreti i due poli
istituzionali rispettivi di riferimento. Fino alla
sconfitta afghana e all’avvento di Gorbaciov che portò alla fine del
regime e alla dissoluzione stessa dell’Urss. Semplificando
al massimo Stalin è dunque visto in un contesto unitario della storia
della Russia, superata la cesura rivoluzionario bolscevica di matrice
non russa, come il Grande Padre dei russi e dei popoli federati,
l’Ultimo Zar”: lo Zar
Rosso che ha rifondato l’impero e la grandezza di Mosca, sulla base di
una ideologia messianica di salvezza mondiale che, a sua volta, si
riallaccia alla missione ortodossa di Mosca “Terza Roma”, erede sia
dell’Impero di Roma che di quello di Bisanzio. La
destalinizzazione krusceviana, la condanna del “culto della personalità”,
altro elemento certamente estraneo al centralismo democratico leninista,
ha rimosso per decenni la figura di Josiph Dugashvilij dalla storia
della Russia e del movimento comunista. Paradossalmente
l’ha rovesciato nel suo contrario: “l’anticulto della personalità
di Stalin”, attribuendogli tutte le nefandezze, le deviazioni, gli
errori e gli orrori del passato. E con un
triplice scopo: nascondere le responsabilità dei nuovi dirigenti che
erano stati suoi fedeli esecutori, legittimare il nuovo potere di fronte
ad una personalità così preponderante e, non ultimo, assolvere il
comunismo davanti ai popoli ed alla storia rovesciando sulla figura del
dittatore tutti gli aspetti negativi, come deviazioni personalistiche
dalla purezza originaria. Un destino
che , mutatis mutandis, ha accomunato i più grandi condottieri
rivoluzionari del XX secolo: Stalin e Hitler, Mussolini e Mao Tse Tung,
per non citare che i più famosi. Il
tentativo di rimozione è durato quanto è durata l’URSS stessa. Di fronte
all’implosione dell’Unione Sovietica e al dissolvimento del suo
impero europeo e mondiale, il popolo russo disorientato ha cercato e
cerca nel suo passato, anche il più recente un punto fermo di
riferimento. E torna
una certa vena nostalgica del Grande Padre perduto. Depurato
nel ricordo delle vecchie generazioni di tutti gli aspetti più
sanguinari e dittatoriali, Stalin torna ad identificarsi
nell’immaginario russo semplicemente come l’uomo che aveva ricreato
la potenza, la dignità, la speranza salvifica della Russia nel mondo.
L’uomo d’acciaio che aveva forgiato la Russia moderna rendendola
padrona di metà del globo, superarmata e rispettata, la seconda potenza
mondiale dopo gli Stati Uniti. Questa
linea di pensiero inusitatamente sviluppatasi dal filone della
rivoluzione bolscevica del secolo scorso, è attualmente riscontrabile
nel nuovo comunismo russo, nel PKFR, il Partito Comunista della
Federazione Russa di Gennadij A. Zjuganov. Zjuganov,
già tra i dirigenti del Fonte di Salvezza Nazionale anti-Eltzin, è
anche l’autore di un’opera fondamentale del nuovo pensiero
nazionalcomunista di Russia: “Deržava”
[il simbolo del potere imperiale zarista, il globo sormontato dalla
croce] pubblicato anche in Italia dalle Edizioni all’Insegna del
Veltro, con il titolo “Stato e Potenza”. L’autore
e capo politico, senza citare direttamente Stalin, si riallaccia
direttamente alle tesi leniniane espresse nel 1917 in “Stato e
Rivoluzione”, alla vigilia della rivoluzione d’Ottobre. Per
contestarle. In
particolare l’internazionalismo, la lotta di classe , l’ateismo;
insomma il fondamento stesso del marxismo-leninismo. Anche il
recupero della GEOPOLITICA, scienza tabù nella Russia comunista, la
lotta al Mondialismo, l’identità della Russia eterna sono tutti temi
che pongono il nuovo comunismo russo in una linea di pensiero ben
distante dalle origini, ma certo più prossima alle realizzazioni
pratiche del periodo staliniano, se non alla dottrina del dittatore
georgiano. Non
dovremmo dimenticare, per inciso, che Stalin fu uno studioso del
problema delle nazionalità (“Il marxismo e la questione nazionale”
è del 1913, ben precedente alla rivoluzione e all’ascesa al potere) e
riuscì con pugno di ferro e al costo di molte vittime a tenere salda
l’Unione, integrando e russificando le élites dei vari popoli. Un’unione
certo non definitiva, sempre precaria. La
disintegrazione dell’URSS si produrrà proprio seguendo le faglie
della divisione nazionale dei vari popoli disseminati dal Baltico e dal
Mar Nero fino al Pacifico, dal Polo ai deserti del centro Asia. Le
conseguenze sono oggi sotto gli occhi del mondo, con in primo piano la
guerra per l’indipendenza della piccola Cecenia, proprio il popolo che
Stalin fece deportare in massa nel centro Asia per prevenire ogni
tentativo di secessione favorito dalla guerra mondiale e dall’avanzata
delle armate del Reich verso il centro e il sud russo. E su
queste fratture si inserisce il nuovo piano egemonico planetario della
superpotenza americana, all’offensiva sia nel Caucaso che nel centro
Asia. Potremmo
affermare, con il senno del poi, che la politica di Stalin, PROPRIO nel
divaricarsi nella prassi dalla teoria marxista-leninista-trotzkista, sia
stata quanto mai lungimirante di fronte alle sfide a lui contemporanee e
agli sviluppi della politica mondiale posteriore. Ancora una
volta nella Storia la realtà dei rapporti sociali e delle necessità
geografiche ha saputo piegare ideologie, fedi, propositi alla dura
prassi politica. Se il
marxismo doveva essere nelle intenzioni dello stesso Marx e dei suoi
esegeti rivoluzionari una prassi politico-sociale autorealizzantesi
nella Storia, è evidente che il suo fallimento teorico e pratico ne
condanna anche la pretesa scientificità e razionalità. E
l’affermazione dei marxisti moderni che né l’URSS, né la Cina né
alcun altro paese ha mai realizzato il marxismo e il comunismo ci sembra
non smentire ma ulteriormente confermare l’assunto. Stalin non
fu un condottiero e retore come Lenin, né uno stratega militare o un
ideologo come Trotsky; non ebbe neanche una personalità carismatica
come Adolf Hitler che fu fondatore, ideologo, capo e stratega
contemporaneamente del Nazionalsocialismo. Ma
certamente bisogna riconoscergli il “merito” di aver saputo condurre
con mano ferma, da “Grande timoniere”, sia la Rivoluzione che la
Russia attraverso i frangenti di un periodo così denso di avvenimenti
come quello della prima metà del XX secolo. Tanto da identificarsi con
la Rivoluzione Comunista ben più del suo teorico e del rivoluzionario,
almeno per trenta anni, e con la storia della Russia per sempre. Ed è come
ultimo degli “zar” russi e come fondatore della Russia moderna che
il suo nome verrà ricordato e, forse in un domani non lontano,
venerato; |
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