Avrei voluto pensare alla musica come fosse un gesto
magnanimo, un regalo del buon Dio nei sette giorni della Genesi: la musica
frutto della creazione, assieme agli animali, alle piante, al sole, alla luna,
alle stelle. Se c'è un buon motivo per pensare che Dio non esiste, è in questo
universo muto, profondo, insopportabile.
Da bambino guardavo le stelle e non pensavo solo che erano belle, che riempivano
di luccichii tutta la volta del cielo; pensavo a quelle palle di fuoco, lontane
miliardi di chilometri, mute, senza suono: perché il vuoto non diffonde musica,
solo l'aria, gli oggetti, le cose che vibrano, hanno un loro suono. Studiavo i
pianeti e immaginavo le loro rivoluzioni lente, in quel mare di nulla e di buio,
acceso soltanto da lontani bagliori, e pensavo che nessuna musica avrebbe potuto
interrompere quel dramma del silenzio che doveva durare da milioni, miliardi di
anni. E allora forse mi poteva consolare l'esistenza di un Artefice, o magari un
Dio, un motore immobile capace di spezzare questo orrore. Sì, era meglio che un
Dio esistesse, e fosse come una voce, meglio una nota, magari grave, che
interrompeva per qualche secondo quell'eterno universo muto, quel silenzio
siderale.
Oggi comincio a credere a un Dio che sta da qualche parte, me lo hanno insegnato
gli astrofisici, ultimi sacerdoti di questa fine millennio: mi hanno fatto
sapere che esiste un suono dell'universo, un rumore di fondo, che si può udire
e immaginare soltanto attraverso sofisticati radiotelescopi (e pensare che un
tempo le stelle si "vedevano", oggi pare che si
"ascoltino"), ma non riesco ad abituarmi: per tanti anni le mie stelle
e i miei pianeti si muovevano in un mondo senza suono, come la geometria piana
si spiega senza una terza dimensione. Mi sentivo come un triangolo equilatero
sbattuto d'imperio in un mondo di solidi: poliedri, coni, cilindri, piramidi.
Però ci ho pensato, e assai spesso, a quel suono: meglio, a quel rumore di
fondo.
E mi sono chiesto da quale strumento uscisse: non da un pianoforte, neppure da
un arpa, e da nessuno strumento che produce suoni attraverso vibrazioni di
corde. Allora forse un tamburo di pelli tese, un rullìo incessante? No, nemmeno
quello; credo di essermi fermato a qualcosa di molto simile a un corno, o magari
persino un sassofono basso. Una sola nota, grave e bassissima, lunga, e persino
lenta, come una macchia d'olio che avvolge densamente l'universo, ma senza
spezzarsi in rivoli o diramazioni, rimanendo costante, come una valanga vista al
rallentatore.
Quello è il mio suono dell'universo, la giustificazione che un Dio c'è, e non
perché ha creato i pianeti, le stelle e l'uomo; ma perché, geniale e razionale,
dopo essersi compiaciuto di quello che aveva fatto, e di tutte le sue
meraviglie; dopo che la sua mente aveva concepito l'infinito, ed era riuscito
anche a riempirlo, quell'infinito, aveva sentito il bisogno di dare un suono a
tutto questo, uno solo, indistinguibile, ma esistente: semplice, primitivo, come
un essere vivente unicellulare, un'ameba sonora, un miracolo e un sollievo per
tutti.
Qual è la nota di Dio? Un do, un re, o forse un mi bemolle, un fa diesis. E se
non fosse una nota sola, e neppure un rumore, ma qualcosa di più complesso? Un
accordo di quinta, di settima, o persino un passaggio vero e proprio che si
ripete all'infinito, ruotando anche lui su sé stesso, come se la partitura di
quel passaggio assomigliasse a certe scritture musicali contemporanee, che hanno
talvolta il pentagramma circolare, che sembra un disco, e non ha un inizio e una
fine, ma può essere suonato partendo da qualunque punto.
E allora l'universo avrebbe una sua tonalità: eterna,
fissa e costante, e scoprire la tonalità dell'universo vorrebbe dire accordarsi
con il mondo, con la totalità delle cose. Mi deluderebbe un universo in do
maggiore: troppo definito. E non mi piacerebbe neppure che fosse in una
tonalità minore, notturna, melanconica; sarebbe un universo triste, quello in
minore. Forse preferirei che l'universo suonasse come un accordo: e allora
vorrei un accordo musicale di quinta eccedente. Un suono formato da queste note,
assai semplici: do, mi, sol diesis. La nota più alta, il sol diesis, apre
l'accordo, lo estende all'infinito, e fa pensare a un universo sempre più
concavo.
Provo a suonare questo accordo sul mio pianoforte, lo suono sull'ottava centrale
della tastiera: do, mi, sol diesis; poi riprovo, con più leggerezza sulle dita:
tengo il do e il mi premuti e con il quinti dito suono prima il sol diesis, poi
passo al sol naturale. Sento ancora la differenza tra un do maggiore eccedente e
un do maggiore naturale: è un intervallo di un semitono, un mezzo spostamento
di frequenza, e già cambia tutto. Il mio universo si apre, si chiude: passo dal
sistema tolemaico a quello copernicano, dal cielo dei greci e dei romani, al mio
cielo, dal loro mondo compiuto e solare, al mio, impreciso, inquieto, fatto di
mille citazioni, attraversato dalle opere di Spinoza e di Nietzsche; e mi
compiaccio di tanta potenza in un solo semitono, in un piccolo intervallo, in una
differenza di vibrazione: Il sol naturale sulla tastiera è un tasto bianco, il
sol diesis è un tasto nero: è il giusto contrasto tra i due mondi, che sto
scorrendo nella mia memoria in questo momento.
da
Roberto Cotroneo
«Presto con fuoco»
Mondadori
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