G. Bortolo Becchetti
Tiburzio Becchetti
Luigi Bertarini
Pietro Caminada
Giuseppe Perotti
Luigi Perotti
Pierino Polotti
Gaspare Rizzo
Primo Rocca
Rosolino Secchiari
Angelo Seneci (Maica)
prelevati dalle loro case e barbaramente assassinati dalla violenza partigiana
a Sant’Eufemia, il 10 maggio 1945.
In un discorso pubblico, Piero Fassino (esponente di spicco dei Democratici
Sinistra) conclude con un’affermazione coraggiosa da sottoscrivere, ma
visto da quale parte arriva, lascia un po’ dubbiosi sulla buona fede.
Sapendo che, non tutti hanno la costanza di arrivare alla fine di un articolo
e sapere la conclusione. Giova ripetere quello che Fassino afferma: “[…]
Quando la vittoria agognata acceca la ragione dei vincitori e i vinti sono sempre
più vinti e indifesi che mai. Non abbiamo chiuso gli occhi, e dobbiamo
continuare a non chiuderli, per restituire giustizia a quanti furono vittime
d’episodi di vendette e d’esecuzioni sommarie che solo la tremenda
asprezza di quella stagione può spiegare ma non giustificare. Così
come non chiudiamo gli occhi di fronte al dramma delle foibe…”
Credo che basti. Bravo, Fassino! Belle parole. Sono dei buoni propositi quelli
che esterna sul quotidiano de “L’Unità”. Il medesimo
giornale che il 27 aprile 1945, in prima pagina, titolava: “La canaglia
nazi-fascista è travolta dall’impeto dell’insurrezione popolare:
bisogna annientarla!”
Il giorno 28 aprile, scrive ancora “L’Unità”: “Snidare
i provocatori fascisti e annientarli…”
Il 4 maggio, Pietro Secchia, rincara la dose e pubblica sul giornale comunista:
“[…] Non si può ricostruire il Paese senza epurarlo…
L’epurazione non si esaurisce con alcune decine di condanne a morte…”
Quel fiume di sangue in piena non finiva mai di scorrere. I partigiani comunisti,
sparsi un po’ ovunque in bande armate, organizzati dal partito, continuavano
dove in previsione di prendere il sopravvento sui “padroni” eliminavano
tutti quelli che erano contrari: fascisti ed ex, anticomunisti. È in
quell’ottica che, dall’Emilia Romagna al Nord, vi furono tante fosse
come quella di sant’Eufemia di Brescia.
Fassino (pare non più avere le fette di salame agli occhi) parla d’esecuzioni
sommarie; si accorge che ci sono state le foibe e i massacri del dopoguerra.
A proposito di massacri e fosse… ecco la storia di una foiba bresciana,
a guerra finita. Coincidenza dei nomi… gli slavi infoibavano in nome di
Tito; nel bresciano, in quella foiba nostrana, fu implicato un partigiano comunista
dal nome di battaglia, Tito Tobegia, di Sant’Eufemia.
Luigi Guitti (alias Tito Tobegia), classe 1911, dopo una permanenza nelle carceri
bresciane (Canton Mombello), durante un bombardamento aereo sulla città,
evade con Giuseppe Gheda. I due fuggiaschi si aggregano alla 122ª Brigata
Garibaldi, operante in Valle Trompia e in Valle Sabbia. Dopo la morte del comandante,
Giuseppe Verginella, avvenuta il 10-01-1945, assumono il comando della banda.
Il quotidiano de “L’Unità”, del 1946, lo elogerà
come comandante di quella Brigata partigiana e come autore d’audaci imprese
alla Croce di Marone, in Vaghezza e l’organizzazione dei GAP (Gruppo d’Azione
Partigiana) in Brescia.
Dopo il 25 aprile, cominciano i crimini da non aver nessuna giustificazione,
se non dal quotidiano comunista che scrisse di annientare i fascisti, arriva
a scrivere, il 15 dicembre (dopo l’arresto di Tito Tobegia): “I
reazionari affermano che è un delinquente, che ha rubato…”
Tito Tobegia ha fatto di peggio!
Il compianto onorevole Sam Quilleri (ex partigiano delle Fiamme Verdi) ricorda
che, arrivata al Comando Zona la notizia di prigionieri maltrattati e detenuti
presso le scuole comunali di Sant’Eufemia, è stato a vedere la
veridicità del fatto. Chiede di parlare con Tito e di conoscere chi sono
i prigionieri. Quilleri è circondato da partigiani armati. Ha ricevuto
l’obbligo di andarsene. Il fatto è segnalato al Comando Alleato
che manda ad arrestare Tito. Dal comunicato nr. 58/4, 9 giugno 1945, del Gruppo
Carabinieri, alla Regia Prefettura, dove si segnala che: “Stamane, per
ordine del Comando Alleato, è stato tratto in arresto il Comandante della
122ª Divisione Garibaldina, Guitti Luigi detto Tito”. Con firma del
Tenete Colonnello Arnaldo Frailich.
Luigi Guitti fu così arrestato. Il Comando Alleato dovette intervenire,
al mattatoio di Sant’Eufemia, con un carro armato! Il ministro della Giustizia,
Palmiro Togliatti, per sopraggiunta amnistia, scarcererà Guitti, nel
1946. Guitti è accolto con una gran manifestazione in piazza della Vittoria,
organizzata dal locale PCI. In seguito troverà rifugio in Cecoslovacchia.
Tre anni dopo, una coraggiosa inchiesta dal titolo: “Trentatré
morti in due foibe bresciane”, fatta da don Faustini di Brescia e pubblicata
il 25/26/27 maggio 1948 sul giornale cittadino “l’Italia”,
si ritorna a parlare di Tito Tobegia; sì, proprio a maggio 1948…
quando era ancora pericoloso parlare di quei morti del dopoguerra, dei massacri
partigiani! Morti che non si poté nemmeno sapere quanti, perché
solo a contarli era vilipendio alla resistenza e si correva il rischio di fare
una brutta fine fisica.
Col libro di G. Pansa “Il sangue dei vinti”, i tempi cambiano. Fassino
non vuole chiudere gli occhi. Gran parte degli italiani vuole ricordare quei
morti dimenticati e sapere quanti sono i massacrati clandestini che fino ad
ieri vigeva il divieto pregarli.
Avanti con la vicenda… La tragedia di Sant’Eufemia, il mattatoio
di Brescia. All’inizio della lettura si leggono nomi degli undici cittadini
di Lumezzane (Bs), assassinati. Con loro molti altri furono uccisi. Il 25 maggio
1948, il giornale “l’Italia” inizia l’inchiesta: “Dieci
furono buttati alla rinfusa in una buca di Botticino. Ventitré in un
fosso di Sant’Eufemia. Uno scampato ha raccontato. C’è dell’altro.
A tutto oggi nessuna luce.”
L’autore dell’articolo, dopo aver premesso di non voler gettare
discredito sul movimento partigiano ma contribuire a far trionfare la giustizia,
venuto in possesso d’elementi sicuri di quel gesto barbaro, vuole raccontare
quanto ha “veduto e udito da gente sicura… perché il popolo
giudichi e la giustizia concluda.”
Prosegue a raccontare come si è svolta la tragica vicenda.
“Chi sale da Botticino Sera verso San Gallo arriva, dopo circa sessanta
minuti di cammino, presso il cosiddetto Muli de l’ora, l’ultima
casa del paese. La casa è posta su un poggio rasente la stradetta montana.
Vicino scorre un ruscello e v’è una cava di marmo. Quivi, la mezzanotte
del 10 maggio 1945, la famiglia Lonati fu svegliata dal rumore di un autocarro
inerpicatosi fin lassù! Fu scorto l’automezzo fermarsi in fondo
al viottolo e si vide della gente trasportare strani involti verso una gran
buca, in località Dosei. La località, tempo fa aveva servito per
fare carbone (una vera foiba profonda). Alla fin fine, l’automezzo ritornò
donde era venuto; coloro che erano sul trasporto si misero a cantare. Attratti
dalla curiosità, uno dei Lonati, Giacomo, e il vicino di casa, Francesco
Ragnoni, si recarono alla buca dove, con orrore, videro sporgere dalla terra
smossa, un pezzo di testa umana e la punta di un piede. Poco appresso, un bottiglione
di benzina, rotto. Ancor oggi l’impagliatura del bottiglione è
visibile nel boschetto dinanzi alla casa di Lonati. Il mattino seguente, i due
avvertirono le Autorità. Presenti il signor Luigi Arici, Giacomo Noventa,
il dottor Luigi Pietroboni. Fu fatto un sopralluogo. Dieci cadaveri rinvenuti.
Ad uno gli usciva le viscere; per contenerle, gli uccisori avevano applicato
un comune lucchetto. Due persone tarchiate, non presentavano particolari lesioni.
Due salme avevano mani legate dietro la schiena, con cordicelle e filo metallico.
Tutti avevano il volto irriconoscibile, sfregiato, corroso. Alcuni erano seminudi.
Nessuno aveva documenti né oggetti di riconoscimento, ad eccezione di
un cadavere che poteva essere riconosciuto per quel che era stato un maresciallo
dei carabinieri di Toscolano (Bs). Il bottiglione di benzina, ritrovato nelle
vicinanze, faceva capire che l’intenzione degli uccisori era di carbonizzare
le salme, ma… rottosi il recipiente, a quanto pare, non avevano potuto
affrettare l’operazione. Sulla scorta di questi particolari già
si capisce trattarsi di una rappresaglia illegale e barbara. L’episodio
avveniva il 10 maggio, a liberazione avvenuta. Inoltre, perché gli uccisori
si sentirono nella necessità di occultare le salme in luogo recondito?
Chi poteva conoscere quella buca? C’era da preoccuparsi di carbonizzare
i cadaveri? Chi poteva aver l’anima così brutale da saper cantare,
dopo aver eseguito un’operazione tanto macabra? Trucidati dove? Sono interrogativi
senza risposta, perché uno di loro, sopravvissuto alla morte, vive per
testimoniare. Qualcuno non è caduto, non è finito dopo il Dosei.
Vive per ricordare, e conferma che queste uccisioni sono avvenute nella campagna
di Sant’Eufemia.”
Dove il comando partigiano comunista era sistemato, nei locali delle scuole
di Sant’Eufemia, e quel posto chiamato “il mattatoio”, per
le torture che erano state inflitte ai militari e civili imprigionati, il pavimento
era “imbrattato” con molto sangue. Poi, uccisi e fatti sparire come
appena visto. Dopo il sopralluogo e il rinvenimento dei cadaveri, il sindaco
di Botticino, il 23 maggio 1945, comunica alla Prefettura di Brescia il ritrovamento
di dieci cadaveri sconosciuti. Protocollo nr. 1776: “Segnalo a V.S. che
il giorno 19 maggio corrente mese, sono stati rinvenuti, in località
Dosei, di questo Comune, dieci cadaveri d’uomini irriconoscibili. Unisco
il processo verbale di rinvenimento, nonché il referto medico. Firmato
il sindaco Luigi Arici”.
Torniamo all’inchiesta di don Faustini che iniziava con una domanda: “È
o non è colpevole Tito di Sant’Eufemia?” Per tutta risposta,
sostennero che la questione di Tito Tobegia era: “Ordinaria rappresaglia
del tempo della liberazione: è sopraggiunta l’amnistia, sono scomparsi
i documenti, ecc.”
L’Autore, conclude la prima parte, promettendo che l’episodio appena
raccontato è macabro. Quello che racconterà il giorno dopo non
è di meno, perché riguarda il rinvenimento, in un campo presso
Sant’Eufemia, d’altre vittime massacrate.
Puntuale, il 26 maggio, l’inchiesta prosegue. Titolo: “Sant’Eufemia:
il mattatoio di Brescia”. Sottotitolo: “Mi trascinai su un gelso;
lassù, attesi che l’autocarro, con il macabro carico, ripartisse.”
Don Faustini, ricorda che giorni prima, il Giornale di Brescia pubblicava una
colonna di necrologi per il terzo anniversario di quell’eccidio; si poteva
leggere: “…dopo tanto orrore, di male, d’odio, di morte, […]
barbaramente trucidato la notte del 10 maggio 1945…”
In un altro, si legge: “…la vedova e i cinque figli ricordano…”
Il sacerdote commenta: “Sono espressioni queste, di gente ferita negli
affetti più cari, che si sono viste strappare i congiunti, non da una
giustizia regolare, ma da una rappresaglia feroce, da gente che aveva il coraggio
di squartare e chiudere e chiudere con un lucchetto le viscere di un uomo e
di nascondere le prove del loro livore, in una buca montana, dopo aver reso
irriconoscibili le vittime.. Questi ed altri sono i morti, di cui ieri abbiamo
detto. Gli stessi, che nella notte del 10 maggio 1945, quando in città
echeggiavano gli spari, cadevano sotto le raffiche di mitra, ai bordi di una
roggia, dopo un sommario interrogatorio innanzi al cosiddetto commissario di
guerra e ai suoi scherani, da nessun’autorità incaricati. Sono
gli stessi che, compiuta la carneficina, ritroveremo nel trincerone rimpetto
alla cascina Monastero di Sant’Eufemia. Uno di loro non era morto; era
riuscito a fuggire e fu cercato, invano, nella campagna.”
Il malcapitato, anche fortunato, che riesce a salvarsi, è un invalido
di guerra, un certo signor B. Era stato preso a Salò, e dai partigiani
portato a Sant’Eufemia, con altre dodici persone, tra le quali gli ex
carabinieri G. Ferrari e A. Del Piano, il colonnello della G.N.R. M. Del Corona,
il dottor A. Fantini. Il gruppo arrestato andò ad aggiungersi agli undici
di Lumezzane. Il signor B. ricorda che durante il tragitto, sul camion, c’era
qualcuno che faceva il doppio gioco, per carpire ai prigionieri qualche confessione
spontanea, da poter motivare i loro crimini.
Prosegue don Faustini: “Terribile la notte del 9 maggio 1945, per le vittime.
È in quella notte che Guitti (Tito) fa la sua apparizione, circondato
da gregari e da Nello, un giovane biondo. Amico anche della moglie di Tito.
Sulla moglie di Tito aleggia un’aureola nera; si sostiene che abbia lavorato
attivamente. I prigionieri sono interrogati, martoriati con bastoni di cuoio,
con calci. Il dottor Fantini ha il cuoio capelluto strappato e il dolore lo
rende pazzo. Il colonnello Del Corona riceve un colpo al ventre: più
tardi, per gli strapazzi nel camminare gli usciranno le viscere e, ancora vivo,
gli metteranno un lucchetto. Ecco che il mattino è vicino… Il biondo
Nello viene a prendersi alcuni prigionieri, legati ai polsi con cordicelle che
fanno delirare il Ferrari per lo spasimo. Giungono altri; pare provengano da
Lumezzane, prelevati alla caserma del villaggio Gnutti. Dopo un’altra
giornata d’interrogatori, di firme fatte apporre su documenti che le vittime
ignorano, ecco la notte famosa. Dice il superstite B: “Ci caricarono su
un automezzo che, passato sotto un ponte… si fermò in aperta campagna,
vicino agli scavi. Due per volta, i prigionieri sono fatti scendere. Alcune
raffiche, delle grida. Tutto è finito”. Il signor B.rimane ultimo,
solo. Va innanzi… si aggrappa al Ferrari che ancora lamenta per le proprie
ferite. Sente sibilare le pallottole. Per un vero miracolo resta illeso. Allora,
B. si butta nel fosso. Lo cercano disperatamente per la campagna. Il superstite
B., fuori di sé, s’issa su un gelso. Lì attese che l’autocarro,
con il carico di morti, ripartisse. Andavano a Botticino a seppellirli.”
Solo per alcuni di quei miseri resti sarà possibile l’identificazione.
Sono un gruppo d’ufficiali e militari del deposito della San Marco (R.S.I.),
di Lumezzane. I loro nomi:
Mauro Zingarelli, Tenente Colonnello;
Archimede Buzzi, Capitano;
Benito Ferro, ufficiale;
Pietro Graziello, ufficiale;
Antonio Virgilio, ufficiale;
Brunello Brunelli, marò;
Aldo Costa, marò;
Francesco Lorenzoni, marò;
Eugenio Nadalin, marò;
? Antonini, sergente maggiore;
Mario Del Corona, Colonnello della G.N.R.;
Gian Guido Spigno, Colonnello della G.N.R.;
Dino Boschi, sott. uff.;
R. Pisa, milite;
Matteo Serini, milite;
Giuseppe Berrini, milite;
Amedeo Mobilio, milite;
Erminio Vignussi, brigadiere Brigata Nera “Capanni”;
Armando Berrini, carrista del gruppo “Leonessa”;
Gian Battista Ferrari, Maresciallo dei Carabinieri;
Amedeo Del Piano, agente P.S.;
Aldo Fantini, medico;
i civili: Renato Alberi, Giuseppe Cavalleri, Andrea Silvio Rigetti, Giuseppe
Sbrollini e Rino Tebaldi.
Per molti altri non fu possibile imporre un nome.
Lodovico Galli, in “La Repubblica Sociale Italiana a Brescia 1943/1945”,
scrive a proposito della strage di Sant’Eufemia: “ Molti corpi senza
vita furono messi in buche comuni perché irriconoscibili. Da un registro
custodito presso il cimitero di San Francesco da Paola ho potuto leggere…
(Galli elenca dei referti di autopsie nr. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 22… tutti
dello stesso tenore – Nota del curatore) Cadavere numero 8. Apparente
età anni quaranta; altezza mt. 1,70; veste camicia di tela stampata a
righe; indossa calze, senza scarpe né abiti; sesso maschile; avanzata
putrefazione.”
L’inchiesta su quella carneficina continuava. Su quei poveri corpi che,
ancor prima d’essere uccisi, furono seviziati, torturati, sfigurati col
vetriolo; poi, i loro cadaveri cosparsi benzina e bruciati. Tutto questo, pubblicato
dal giornale “l’Italia”, con sede a Brescia, infastidisce
e comincia a preoccupare. Si sostiene che Tito, dopo la scarcerazione per amnistia,
si è rifugiato all’estero, minacciando che se l’arrestassero
ancora, avrebbe coinvolto altre persone. Alla redazione di quel coraggioso giornale,
il 26 maggio, si presenta la moglie di Tito; è accompagnata da quel giovane
biondo, Nello, e protesta per l’articolo pubblicato, anche se dice di
non essere preoccupata più di tanto. Lascia detto: “Lei sa che
Tito è un uomo con il quale non si scherza!”
Caspita… che Tito facesse sul serio è dimostrato!
Il 27 maggio esce la terza parte dell’inchiesta. Titolo: “Nella
famigerata cantina”. Sottotitolo: “Non posso più dormire,
disse Tito”.
Don Faustini, continua: “Molti ci hanno raccontato quest’episodio:
un padre era venuto per supplicare la liberazione del figlio e, dopo inutili
richieste, mentre s’aggrappava a lui (il figlio), per il commiato, una
scarica li colpiva entrambi, abbracciati nella morte. È un episodio che
si ricollega ad una lunga carneficina, e il sistema fu sempre uguale. Nella
famigerata cantina delle scuole dominava un sedicente commissario, un trentacinquenne
della Val Trompia, zoppo. Di questo tipo sconosciuto, Tito era piuttosto un
subalterno. Dopo quei fatti, confessò ad una persona: “Non posso
più dormire”. Era il valtrumpino che comandò il maggior
numero di colpi alla nuca; che riempì il fossato dirimpetto alla cascina
Monastero. Gli altri si davano da fare, senza replicare… Noi ci chiediamo:
quale autorità aveva la cellula di Sant’Eufemia? I cadaveri furono
nascosti, nottetempo, e alcuni sfigurati: perché? I documenti e i valori,
dove andarono a finire? Chi ci assicura che non abbiano voluto operare delle
vendette private? Questi i fatti salienti, cui potrebbero aggiungere altri.
Ci si domanderà se la giustizia abbia fatto qualcosa! Ancora, nel 1945,
ci consta che furono segnalati alle autorità come indiziati di soppressione
d’elementi della polizia e del P.F.R. lo stesso Tito, e…”.
Tito Tobegia, ossia Luigi Guitti, ormai era rifugiato oltrecortina. Dal rapporto
nr. 21/29 dei Carabinieri di Brescia Sant’Eufemia, datato 20/02/1955 e
diretto al Distretto Militare, si apprende che Luigi Guitti, residente in Brescia:
“La persona in oggetto non è abitante, di fatto, in questa giurisdizione,
dalla quale si è allontanato per ignota destinazione, da circa sette
anni, per sottrarsi alla Giustizia. Dai familiari si è potuto solo sapere
che fu richiamato negli Alpini, senza poter precisare quando e dove. Gli stessi
hanno dichiarato che il congiunto non fu prigioniero. Nel periodo clandestino
fu comandante della 122ª Brigata Garibaldi che operò sulle montagne
di Brescia. Durante detto periodo, Guitti uccise e fece uccidere diverse persone…
perciò fu, dopo la liberazione, condannato. Dopo la sua scarcerazione,
per sopraggiunta amnistia, si è allontanato da Sant’Eufemia, senza
divulgare notizie di sé. Firmato dal Brigadiere Angelo Campregher”.
Tito Tobegia, nel 1957, lascia i due figli avuti da una donna slovacca e rientra
in Italia. Gli ultimi anni della sua vita, li trascorse rintanato in una cascina
isolata, a Collebeato (Bs). Unico suo passatempo era di rievocare le proprie
avventure a quanti andavano a trovarlo. Una domenica di novembre del 1968, scambiato
un gruppo d’otto giovani buontemponi, per compagni di stesse idee politiche,
si mise a raccontare come divenne partigiano e che cosa fece in Val Trompia,
in Val Sabbia e la vicenda della battaglia del Sonclino. Nell’istante
in cui i ragazzi accennarono ai crimini di Sant’Eufemia e di Botticino,
l’ex terribile partigiano capì della presa in giro. Urlante, li
cacciò da casa, inseguendoli con il lancio dei soprammobili che aveva
a portata di mano. La rabbia era tanta che Tito si accascia sopra una sedia,
colpito da infarto. Luigi Guitti, il Tito Tobegia della bresciana, aveva finito
di raccontare la vita e l’opera di Tito Tobegia. Era il 17 novembre 1968.