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anatole dikansky: "la fine delle città" (La Casa, gennaio, febbraio, marzo 1935)
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Indice: I NUOVI ASPETTI DELL'URBANISMO
; II. CITTÀ E CAMPAGNA; III. LA CITTÀ CONTRO LA CAMPAGNA; IV INDUSTRIA DI DOMANI; V FUNZIONE IDEALE, AMMINISTRATIVA E CULTURALE DELLE CITTÀ; VI IL COMMERCIO DI DOMANI; VII LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE URBANAVIII I DIVERTIMENTIIX. ARTE E  CITTÀ; X ARCHITETTURA DELLE CITTÀ XI LA GUERRA E LE CITTAXII IL DECENTRAMENTO

Premessa

Il testo dal perentorio titolo "la fine delle città" che propongo qui, si inserisce in un particolare dibattito internazionale che negli anni Trenta (complici alcune innovazioni tecnologiche e organizzative) condiziona gran parte del dibattito sul futuro del rapporto fra umanità e territorio. Esplode, letteralmente, quella che all'epoca si chiama suburbanizzazione, o in senso non semplicemente residenziale decentramento, e che oggi in forme diverse e articolate chiamiamo anche città diffusa. Un fenomeno dapprima solo o prevalentemente anglosassone, americano soprattutto, ma che ad esempio anche in Italia comincia a fare sentire i suoi effetti, se non altro sul dibattito scientifico.
Nel nostro paese, si svolvono in parallelo sia la sotterranea fascinazione per le suggestioni wrightiane di Broadacre, sia l'adesione alle politiche ufficiali antiurbane del fascismo, sia la loro interpretazione "estensiva", che non a caso sostiene le prime proposte di pianificazione territoriale di scala superiore al singolo comune.
Non è certo un caso, se "la fine delle città" viene pubblicato dalla rivista milanese La Casa, animata dal responsabile dell'ufficio comunale di piano regolatore Cesare Albertini, proprio nel periodo in cui con maggiore insistenza (almeno  a parole) si sostiene la necessità di pianificare a scala metropolitana, anticipando molti dei temi che saranno propri del secondo dopoguerra, e che a ben vedere erano già stati intravisti anche dal locale movimento per le città giardino nei primi anni del secolo.
Resta, ben oltre la contingenza del dibattito milanese o la specificità di quello italiano di metà anni Trenta, il fascino di un testo di largo respiro, ricco di temi ancora attuali.

fabrizio bottini

***

NUOVI ASPETTI DELL’URBANISMO
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Vi sono problemi che vengono studiati in tutti i loro aspetti senza che gli indagatori si accorgano che l’oggetto stesso dell’inchiesta si sia trasformato sotto l’azione degli agenti sfuggiti alla loro osservazione o sia del tutto svanito. Non intendiamo con ciò disconoscere i meriti di quelli che hanno trattato con molta dottrina questioni della massima gravità come quelli dell’urbanesimo e di altri problemi concomitanti.
Basta passare in rassegna la materia studiata dagli urbanisti per valutarne l’importanza. L’igiene dell’abitazione, l’igiene delle città, la circolazione urbana, il problema degli alloggi, piani regolatori e tanti altri argomenti hanno un’importanza capitale per il benessere della società.
La questione gravissima dell’isterilimento delle popolazioni urbane, questione di vita è di morte per tutta la nostra civiltà, viene a collegarsi intimamente con le manifestazioni materiali e morali della vita delle agglomerazioni urbane, oggetto degli studi urbanistici.
Sono generalmente conosciuti i disagi delle popolazioni dei grandi centri e gli effetti negativi del fenomeno di urbanizzazione delle masse rurali. In seguito allo studio degli aspetti dell’urbanesimo ed alle iniziative coraggiose nel campo sociale, tecnico e in quello della polizia urbana si sono ottenuti alcuni risultati, ma in seguito essi si sono dimostrati transitori. Così, un miglioramento delle condizioni igieniche delle abitazioni può essere facilmente annullato da susseguenti movimenti demografici e dagli sviluppi della situazione economica.
Tutto ciò consiglia di affrontare il problema delle città nel suo complesso, al disopra delle manifestazioni particolari, conseguenti al fenomeno principale dell’urbanizzazione della popolazione rurale.

Nelle nostre considerazioni abbiamo cercato di determinare gli effetti di due elementi: prevedibile sviluppo del progresso tecnico ed armonizzazione di tutta l’attività individuale e collettiva nel complesso organico dello stato. La valutazione delle conseguenze di questi nuovi fattori rende possibile prevedere una modificazione profonda degli aspetti fondamentali del fenomeno urbanistico, modificazione che porterà forse alla soluzione dei problemi rimasti tuttora insoluti.

II. CITTÀ E CAMPAGNA
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Nella vita delle nazioni, la città e la campagna rappresentano due elementi spesso contrastanti e sempre interdipendenti che determinano in ogni momento la fisionomia economica, culturale e politica delle nazioni stesse.
Nel binomio produzione-consumo l’elemento urbano e quello rurale si completano e si compensano reciprocamente. La campagna con la sua produzione agricola costituisce l’elemento indispensabile ai processi fondamentali della vita. Le città sono le sedi della nostra civiltà meccanica, centri di gravitazione, zone di elevato potenziale delle attività umane, punti di condensazione culturale, industriale, mercantile, amministrativa.
L’epoca classica della formazione delle città contemporanee può essere considerata il secolo XIX. Cause profonde determinarono il loro sviluppo. Meuriot[1], in un suo studio sull’argomento, disse: “Non è il capriccio che manda la gran parte della popolazione rurale nelle città, ma la più grande rivoluzione economica che il mondo abbia mai conosciuto, consistente nella totale trasformazione dei metodi del lavoro agricolo ed industriale”.
Senza entrare nei particolari del processo di urbanizzazione, ci limiteremo ad osservare che i principali stimoli per lo sviluppo di esso, nel secolo trascorso, dalle Guerre Napoleoniche alla Grande Guerra del 1914, furono: per i singoli individui: relativa facilità dei guadagni e abbondanza di svaghi ; per le industrie: facilità di rifornimento e di smercio dei prodotti.

L’analisi dei dati statistici dimostra che l’accrescimento delle grandi città è assai più rapido di quello delle città minori. Lo sviluppo delle città con oltre 100.000 abitanti ed il suo rapporto all’accrescimento totale della popolazione per l’Europa, esclusa la Russia ed i paesi balcanici, risulta chiaramente dallo specchietto di Sombart che pubblichiamo qui sotto[2]: 

Anno

1700

1800

1900

Popolazione complessiva

80.000.000

120.000.000

280.000.000

Popolazione delle città con oltre 100.000 abitanti

2.600.000

3.600.000

36.000.000

Rapp. in % della popolazione delle grandi città

3,6%

3,0%

13,0%

Questi dati ci dicono inoltre che la forza di attrazione esercitata da una città sulla popolazione rurale è in funzione della grandezza della città stessa. Detta constatazione ha indotto, per quanto arbitrariamente, a formulare una specie di legge, analoga a quella di Newton, sull’attrazione dei corpi in rapporto alle loro masse.
Il grado di sviluppo che hanno assunto le città al principio del nostro secolo, ha determinato una serie di problemi di somma importanza per l’avvenire delle popolazioni raccolte nelle grandi Metropoli. Sotto la denominazione di urbanismo furono elevate alla dignità di una vera e propria disciplina la questione dei piani regolatori, quella dei servizi pubblici etc. Abbiamo già accennato ad una delle più gravi manifestazioni dell’urbanesimo, la denatalità nelle città, manifestazione contro la quale non si è potuto trovare sinora rimedio, nonostante gli sforzi compiuti per una razionale soluzione dei problemi inerenti.
Qui sorgono spontanee le domande:
- Quale sorte è riservata alla popolazione delle grandi città?
- Vi sono dei limiti nella urbanizzazione delle masse rurali?
In un primo tempo si dovette desistere dal proposito di rispondere ad esse di fronte alla mancanza di elementi per una più o meno attendibile estrapolazione del fenomeno di urbanizzazione. Cosi Buecher[3] ebbe a dichiarare: “Non possiamo ancora prevedere i limiti di applicazione del lavoro nell’ambito delle grandi industrie ed è perciò che ci risulta impossibile di prevedere la fine dell’accrescimento delle nostre maggiori città”.
In vent’anni di storia densa di nuovi rivolgimenti politici, morali ed economici sono entrati in gioco fattori che andremo analizzando e che diminuirono l’importanza funzionale delle città dopo aver segnato un massimo nel dopoguerra e nell’epoca della “prosperity” americana.
In conseguenza di questa diminuzione delle forze agglomeranti è prevedibile un graduale e spontaneo scioglimento del nuclei urbani. Esso sarà provocato dalle forze centrifughe agenti su migliaia di individui che si trovano oggi su zone relativamente ristrette ed in condizioni di manifesto disagio. Le forze disgregatrici cominceranno ad agire con un ritmo veloce, non appena i benefici che procura la città andranno diminuendo. Le forze repulsive intanto sono oggi in un continuo aumento.

III. LA CITTÀ CONTRO LA CAMPAGNA  (torna all'indice)

Il contrasto psicologico e quello economico esistente fra la città e la campagna, genera in seno alle nazioni squilibri deleteri per la prosperità delle nazioni stesse. La diversità della valutazione del lavoro e della moneta, la diversità delle concezioni della vita, la diversità del modo di fare, di reagire, tutto ciò crea nell’ambito di una nazione due popoli, radicalmente diversi nel loro abito mentale e fisico.
La necessità di cancellare la linea di demarcazione fra questi due gruppi è vivamente sentita in tutti i paesi che hanno raggiunto un grado elevato di differenziazione sociale. Un ordine del giorno dell’Accademia della cooperazione di Mosca (Dicembre 1930), riferendosi al piano della nuova città di Magnitogorsk dice: “occorre porre il problema dell’inserzione del lavoro agricolo nel lavoro industriale”. Esso consiglia a questo scopo di fondere la zona agricola con la zona industriale e con la zona delle abitazioni operaie. L’impressione che la città in mezzo alle campagne deserte, sia un che di anormale nasce spontanea in un viaggiatore che si avvicini ad una grande metropoli. “Il più curioso è - scrive ad esempio Paolo Muratov - che non vi è nessun abitato per chilometri e chilometri. E tutto ciò a due ore di treno da New York. Non è così che ci immaginiamo la immediata vicinanza di una città mostruosa, nella sua immensità... “. Lo scrittore prosegue accennando alla incongruenza degli esseri umani: “Che cosa li obbliga a fuggire queste distese ed a qualunque costo raggrupparsi nei terribili tristi e miseri sobborghi dei formicolai umani?”
Lo scambio demografico tra la città e la campagna avviene oggi in modo unilaterale: la città nelle condizioni di lavoro febbrile e dell’ambiente antigienico esaurisce le famiglie in poche generazioni. La campagna fornisce alla città sempre fresco materiale umano. Riportare le popolazioni urbane esuberanti verso la campagna è altrettanto difficile come guarire un morfinomane.

Nel momento attuale di depressione economica si riscontra un certo rallentamento di immigrazione dei rurali nelle città. Questo rallentamento non può essere considerato come la soluzione del problema urbanistico essendo transitorio com’è transitoria la crisi che lo ha provocato.
Siamo di fronte alla necessità di una soluzione radicale, come potrebbe essere la sparizione delle città nella loro forma attuale e l’estensione dei benefici che gode la popolazione cittadina alle popolazioni rurali.
Ciò porterà alla unificazione etnica entro i confini delle singole nazioni ed alla limitazione del fenomeno dello spopolamento delle campagne e della denatalità nelle città.
Nell’intento di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni urbane furono tentate varie soluzioni basate sull’opportunità di sottrarre l’uomo agli inconvenienti delle città attuali, creare gli abitati secondo le norme igieniche, avvicinare l’uomo alla natura.
Si è cominciato col proporre città-giardino destinate al solo soggiorno delle persone, mentre le città attuali dovrebbero rimanere come centri commerciali. L’idea della decongestione delle città ha subito però in questi ultimi tempi una trasformazione radicale.
I nuovi elementi venuti in giuoco rendono inutile la conservazione delle città attuali anche per quegli scopi per i quali queste sembravano trent’anni fa indispensabili. La concezione delle città-giardino come nuclei abitati delimitati, aventi un nocciolo centrale di gravitazione formato da edifici pubblici, è superata.
Come i fiumi per l’uomo primitivo, così per l’uomo moderno le strade costituiscono quella trama su cui vengono ad innestarsi tutte le manifestazioni della vita della società umana[4].
Le abitazioni e tutti i luoghi di attività dell’uomo di domani saranno disseminate lungo le strade, confondendosi completamente con le zone agricole. Il progresso della tecnica moderna, come vedremo più innanzi, renderà possibile di eliminare le cause che determinarono il deprecato fenomeno dell’urbanesimo e che portarono l’umanità in un vicolo cieco della disoccupazione e della denatalità.

INDUSTRIA DI DOMANI  (torna all'indice)

La razionalizzazione dei procedimenti di produzione in tutti i campi di lavoro ha reso esuberante la quantità di mano d’opera disponibile oggi sul mercato. Per mitigare la disoccupazione si è dovuto ricorrere alla riduzione della settimana lavorativa. In un primo tempo la riduzione fu interpretata come una misura eccezionale ed ai fenomeni che l’hanno provocata si attribuì il significato di crisi. Oggi però prevale l’opinione che questo stato abbia carattere di stabilità e debba risolversi in definitiva in un beneficio. Infatti, grazie ad un largo impiego di macchine, si rende possibile la diminuzione globale della quantità di lavoro occorrente per la produzione dei beni consumati dalla collettività, tenuto conto anche dell’aumento continuo di consumo. Il problema della disoccupazione si riduce così ad una questione puramente tecnica di un’equa distribuzione del lavoro e del suo prodotto.
Considerato il fenomeno sotto questo aspetto si dovrebbe parlare di una crisi di assestamento, di passaggio al nuovo regime, di adeguamento delle paghe, dei costi di lavorazione e delle materie prime ai guadagni delle imprese industriali.
L’effetto della nuova situazione sul fenomeno urbanistico non dovrebbe tardare a manifestarsi se si volesse con provvedimenti opportuni facilitare la disurbanizzazione sulle vie indicate dalle attuali contingenze economiche.
La diminuzione delle giornate lavorative renderà più agevole la distribuzione della popolazione su vaste zone permettendo tragitti più lunghi dall’abitazione al luogo del lavoro che si compieranno tre o quattro volte alla settimana anzi che sei. Si presuppone l’adozione generale dell’orario unico del lavoro oggi adottato in alcuni paesi con esito soddisfacente, e di tutti gli altri provvedimenti che dovrebbero formare un piano organico atto ad eliminare spostamenti inutili di persone addette alle industrie e spostamenti di materiale da lavorare e quello lavorato. È da osservarsi però che la razionalizzazione dei processi industriali, essendo nell’interesse delle stesse imprese, è oggi in atto. Qui dovrebbe essere sufficiente lasciare agire i fattori soggetti alle leggi economiche nel loro naturale sviluppo.
Per quello che riguarda lo spostamento delle persone, la questione si presenta più complessa. La scelta delle abitazioni da parte delle maestranze è soggetta oltre che alle condizioni di ubicazione, all’economia, alle ragioni famigliari, etc. Ne deriva spesso per un operaio od un impiegato la necessità di percorrere giornalmente molti chilometri per recarsi al lavoro, servendosi di tutti mezzi a sua disposizione, dalla bicicletta al treno. Questo movimento provoca uno sperpero di danaro e di tempo, senza dare alcun beneficio né al lavoratore, né all’industriale.
L’operaio e l’impiegato dovrebbero trovare l’abitazione nella prossimità del proprio luogo di lavoro, lasciando nello stesso tempo alle vicinanze immediate della fabbrica il loro carattere agricolo. Per chiarire il concetto esposto consideriamo un caso schematico. Una fabbrica che dà lavoro a 2000 persone si trova nel punto d’incrocio di due strade. Nelle quattro direzioni della croce così formata sono disposti lungo le strade appezzamenti aventi 12 metri di fronte. Le duemila famiglie vengono alloggiate con questa sistemazione entro un raggio di tre chilometri. Le più lontane abitazioni saranno raggiungibili dalla fabbrica in 10 minuti di bicicletta. Il terreno compreso fra i quattro angoli formati dalle abitazioni è coltivabile, verso il vertice, - a orto, verso la periferia - eventualmente a colture meno ricche.
Ci siamo limitati di illustrare un caso astratto senza pretendere con ciò di dare insegnamento per le soluzioni planimetriche concrete che possono essere infinite e che dipendono dalle condizioni topografiche della località.
Il caso analizzato dimostra la possibilità di creare delle zone miste agricole ed industriali, con popolazione assai diradata, convergendola per il lavoro quotidiano verso un dato di tempo e di mezzi. Nelle note successive ci proponiamo di analizzare altri elementi che si inseriscono nel problema degli abitati dell’avvenire come rifornimenti, istituti di proprietà immobiliare, attrezzamento bellico, ecc.

V. FUNZIONE IDEALE, AMMINISTRATIVA E CULTURALE DELLE CITTÀ  (torna all'indice)

Abbiamo analizzato nelle nostre precedenti note i rapporti che legano oggi la città e la campagna. Proseguiamo nella rassegna delle varie manifestazioni della vita odierna coll’intento di individuare in esse le nuove vie di realizzazioni urbanistiche dell’avvenire più o meno remoto.
Nell’inquadramento delle nazioni entro le maglie dello stato moderno possono essere fissati due momenti principali: quello ideale e quello tecnico-amministrativo. L’idea dello stato si concretizza nella mente di ogni singolo cittadino sui confini geografici della nazione, sulle sue vicende storiche, e sui punti di massimo potenziale nazionale che sono le città. Ed è in virtù di questa associazione intima fra l’idea dello stato e quella delle sue città che ci risulta assai difficile concepire uno stato senza le città. Però, una sana maturazione della coscienza nazionale crea negli individui evoluti un concetto integrale della patria. Da questo momento le coordinate geografiche corrispondenti alle singole città perdono qualsiasi valore ideale, e ciò in armonia con la possibile ed augurabile perdita anche del loro valore materiale.
Per quanto riguarda il momento amministrativo, l’organizzazione dello Stato sta subendo delle profonde trasformazioni. Necessariamente questo processo è lento ed è faticoso a causa della inevitabile inerzia della macchina dello Stato. L’amministrazione della Giustizia, quella fiscale, quella dei Lavori Pubblici stanno facendo uno sforzo per l’adeguamento psicologico dei loro quadri al ritmo della vita attuale e alle sue esigenze.
La burocrazia, liberata dagli impedimenti delle procedure antiquate e valendosi di mezzi di comunicazione adeguati, potrà facilmente svolgere la sua opera, senza richiedere contatti troppo stretti col pubblico, pure compenetrando l’organismo nazionale, seguendo, riordinando e regolando ogni attività. La Banca, più agile e più maneggevole dell’amministrazione statale, ci dà un esempio in questo senso. Difatti nelle sedi di grandi istituti di credito il traffico delle persone si riduce al minimo, mentre le operazioni più importanti si preparano per corrispondenza o per telefono e si concludono spesso anche fuori della sede dell’istituto, agevolate dalla decentralizzazione tecnica a mezzo delle agenzie e succursali.
Così, la funzione di centro amministrativo non è necessariamente collegata colla popolazione numerosa; l’esempio di Washington, una piccola Capitale di un grande Stato, conferma questa constatazione.
Contrariamente a quello che è la funzione industriale, amministrativa e mercantile, la funzione culturale delle grandi città è rimasta sempre limitata. Basta citare l’importanza delle piccole città universitarie come Pavia, Cambridge, Heidelberg, Oxford, Bologna per poter affermare che nessun danno potrà avvenire alla cultura della disurbanizzazione auspicata.

VI. IL COMMERCIO DI DOMANI  (torna all'indice)

La funzione delle città come mercati di contrattazione, di smistamento e di distribuzione dei prodotti agricoli ed industriali non si sottrae, nelle sue trasformazioni, ai fattori di evoluzione dell’economia moderna. Le operazioni di compra-vendita tendono verso una razionale semplificazione. La normalizzazione e la standardizzazione della produzione, il perfezionamento delle operazioni di trasporto, carico e scarico permettono nella maggior parte dei casi la contrattazione in base ai campioni ed ai cataloghi, senza dover prendere visione della merce che si acquista. La produzione dei generi di prima necessità va pure verso uniformità di tipi in seguito alla azione regolatrice di diversi fattori, come generalizzazione dei metodi di produzione, prescrizioni di leggi e regolamenti, riduzione del numero delle qualità con conseguente aumento dei quantitativi prodotti della stessa qualità ecc.
Tutto ciò semplifica le operazioni d’acquisto e di rifornimento permettendo di ordinare a distanza con estrema semplicità quasi tutto, dai generi di consumo minuto alle grandi partite di merci all’ingrosso per uso industriale.
Gli ulteriori sviluppi di questo processo di semplificazione mercantile invocato dai maggiori economisti, e fra questi recentemente da Alberto De Stefani, renderanno sempre più agevole il rifornimento delle industrie e della popolazione, anche molto più esigente di quella attuale, distribuita in vaste zone a bassa densità.
Naturalmente resta indispensabile la funzione dei grandi porti marittimi e dei magazzini centralizzati nell’interno, ma l’attività dell’uomo intorno ad essi si limiterà alle operazioni materiali di manipolazione, abolendo tutto quello che vi è di parassitario nell’attuale apparato di distribuzione.

VII LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE URBANA  (torna all'indice)

Per essere in grado di intravedere la sorte riservata alle grandi città occorre analizzare la situazione cui è venuto a trovarsi l’istituto della proprietà immobiliare urbana.
I servizi di interesse generale, come le comunicazioni, le forniture di acqua, energia, gas, sono gestiti dallo Stato, dai Comuni o da privati appaltatori facilmente controllabili dalle autorità dello Stato. Il servizio delle abitazioni è quasi interamente in mano dei privati, mentre l’importanza delle abitazioni per la popolazione supera di gran lunga quella di qualsiasi altro servizio.

E per ciò nelle grandi città l’edilizia privata è regolata da norme complesse di carattere tecnico, da leggi dello Stato e da regolamenti locali. Nonostante questa regolamentazione lo sfruttamento degli immobili urbani non è mai razionale. Basta considerare la suddivisione ed il frazionamento dei lotti, troppo piccoli o troppo grandi, eccessivamente od insufficientemente profondi e così via. Ne derivano le abitazioni costose, irrazionali, malsane.
Entro poche decine di metri, lungo una via, troviamo un vero campionario di strisce di diverse altezze, vario stile, misura, colore, con servizi autonomi di scale, ascensori, custode, riscaldamento, uguali tanto per venti che per duecento locali. Sperpero di mezzi e di energie inspiegabile per chi si astrae dalle vicende storiche di formazione di una città.
Ci sarebbe difficile immaginare sul binario del tram o della ferrovia una serie di diverse vetture private, ognuna con le proprie fermate, velocità, direzione etc. Ciò che sembra assurdo nella dinamica di un binario viene tollerato nella statica di una pubblica via.
Per rimediare a questa situazione antieconomica e quindi antisociale gli enti pubblici vengono spesso a sostituirsi al privato, oppure si creano dei gruppi finanziari per affrontare lo sfruttamento di quartieri interi, abbattendo talvolta vaste zone di vecchi fabbricati.
È evidente che queste misure incomplete ed eccezionali, spesso faticose, non possono sanare la contraddizione principale, derivante dalla natura antiquata dell’istituto della proprietà immobiliare.
Detta contraddizione si fa sentire maggiormente quando si passa dalle considerazioni tecnico-sociali a quelle economiche. Il capitale che alimenta l’edilizia reagisce con estrema sensibilità a tutte le influenze economiche e politiche del momento. Esso viene attratto verso l’edilizia dalle garanzie e dalle protèzioni che la legge accorda al reddito immobiliare e dal carattere di monopolio che riveste il servizio degli alloggi. D’altra parte, la eventualità di una regolazione forzosa dei redditi respinge il capitale dagli investimenti edilizi.
Questi fattori agiscono spesso in discordanza di fase e, ciò che è molto peggio, senza che la loro oscillazione corrisponda in ogni momento all’interesse della collettività.
La proprietà edilizia nella sua forma attuale ben difficilmente si inquadra nel complesso dell’economia moderna. Il disagio è vivamente sentito, ma i rimedi variano secondo chi li propone. Un ordine del giorno del Congresso internazionale della proprietà edilizia, svoltosi a Roma e a Milano nel maggio 1933, afferma che “solo assicurando un reddito normale alla proprietà edilizia si consegue un vero rimedio contro la crisi degli alloggi”. Il reddito normale può essere assicurato, sempre secondo il Congresso, dalla libertà delle contrattazioni. L’esperienza, invocata a difesa e dimostrazione di questa tesi, ha ben presto dimostrato l’impossibilità di mantenere nelle condizioni attuali la libertà degli affitti. Sotto la pressione delle circostanze di ordine economico e politico si è dovuto limitarla, giustificando questo provvedimento colla instabilità della situazione economica generale e colle condizioni specifiche dell’epoca di passaggio al regime corporativo.
Sotto diverse forme e denominazioni il regime corporativo sta diffondendosi nelle varie nazioni. La sua reazione sulla questione degli alloggi presenta perciò il massimo interesse. Secondo una delle formule fondamentali del corporativismo “il diritto privato del singolo , si arresta di fronte al diritto pubblico della società nazionale, la quale va salvaguardata, da ogni defezione o sperpero”.
La proprietà edilizia urbana si trova appunto nelle condizioni specifiche ove il diritto privalo e l’interesse dei singoli entrano continuamente in contrasto col diritto pubblico, diritto della collettività nazionale.
Nei confronti dell’industria in genere lo Stato, attraverso gli organi corporativi, si riserva il diritto di un ampio e rigido controllo. L’istituzione di una speciale Commissione presso il Ministero delle Corporazioni per l’esame delle domande per l’autorizzazione a costruire nuovi impianti industriali permette di impedire il sorgere di nuovi impianti non corrispondenti all’economia generale del paese. Lo Stato si rende così in grado “di evitare, come dice H. Molinari in un suo articolo sull’argomento, l’inflazionismo industriale, seguendo e controllando lo sviluppo delle industrie per inquadrarlo ed adeguarlo alla economia produttiva”.
L’industria edilizia non può essere soggetta ad un inquadramento di questo genere. Un fabbricato, avendo una posizione definita nello spazio, ha delle caratteristiche di monopolio assoluto nello sfruttamento della superficie da esso occupata. Il grado di monopolio è insignificante nel caso di immobili rurali, ove un dato terreno è quasi sempre sostituibile da un altro avente le medesime caratteristiche economiche del primo.
Nelle città il grado di monopolio si accentua ed aumenta verso il centro cittadino, ove ogni metro di terreno acquista le caratteristiche proprie e diventa insostituibile. Ed è in virtù di queste considerazioni che il privato proprietario di stabili urbani risulta non altro che un amministratore che incassa affitti legalmente stabiliti, paga tasse, interesse, servizi, ricevendo in compenso una parte delle somme versate. Qualora egli, per inabilità od altro, venisse a mancare a questa sua precisa funzione sociale, il fisco, o l’ente finanziatore, passa ad un altro “proprietario” lo stabile. Il nuovo venuto deposita una cauzione sotto forma di prezzo d’acquisto a garanzia di regolare svolgimento delle operazioni summenzionate. Ad un proprietario di case viene a mancare la libertà, lo stimolo di perfezionamenti, di migliorie, stimolo che agisce nei confronti di un industriale.
Risulta così evidente che fino a che i terreni urbani restano di proprietà privata, la loro razionale sistemazione nell’interesse della società è impossibile. Lo Stato, d’altronde, non può lasciare che perdurino forti sperperi attuali a danno di tutti. Non si tratta di mancanza di buona volontà dei privati possessori, ma della loro impossibilità assoluta, per ragioni di carattere tecnico, di sfruttare razionalmente la loro proprietà.
Qui si presenta un’alternativa: o lo Stato si sostituisce ai privati nello sfruttamento dei fabbricati urbani, o si fa diminuire la densità delle città togliendo ai loro centri le caratteristiche odierne di un forte aumento locale del potenziale economico derivante dalla densità demografica. In questo modo viene ad eliminarsi l’aumento continuo del reddito immobiliare che negli ultimi cent’anni è avvenuto in grado impressionante, portando agli utenti degli stabili un aggravio crescente ed ai proprietari un ingiustificato guadagno a danno dell’economia nazionale.

VIII. I DIVERTIMENTI  (torna all'indice)

L’amara ironia di Giovenale verso i suoi concittadini reclamanti panem et circenses ci sembra oggi eccessiva ed anche ingiusta. Siamo tutti pronti ad ammettere che un popolo sano ha diritto di avere a sufficienza tanto l’uno quanto gli altri. Ci sembra perfettamente naturale che l’abbondanza di svaghi offerti da una grande città costituisca una delle sue maggiori attrattive. Ma i perfezionamenti nella riproduzione meccanica degli spettacoli rendono quello che era il privilegio delle Metropoli alla portata di ogni singola famiglia situata in un punto qualsiasi della terra, senza nessun vincolo nello spazio.
La possibilità di portare a proprio domicilio uno svago sonoro è di oggi. La possibilità di avere a casa anche uno spettacolo visivo è di un prossimo domani. E non è da escludere che fra uno spettacolo pubblico e quello entro le pareti domestiche il secondo possa essere goduto più del primo.
Restano le grandi manifestazioni sportive ed artistiche di masse. Il loro effetto emotivo viene fortemente diminuito nelle trasmissioni meccaniche. Si deve supporre che per tali manifestazioni sarà sempre necessaria la folla che non è solamente una spettatrice passiva ma costituisce anche la fonte attiva di ispirazione per gli attori e per gli atleti. L’oratore, il musicista, l’attore, di fronte all’obbiettivo, al microfono, all’occhio vitreo delle cellule fotoelettriche, non possiede quella forza di persuasione e di comunicazione che nasce in lui dinnanzi a mille occhi vivi. Basta pensare che nessuna delle opere strettamente teatrali può essere resa con efficacia in riproduzione cinematografica nella sua forma originale. Ai grandi spettacoli rappresentati da persone vive, attori in carne ed ossa, è necessaria la grande folla degli spettatori.
Per raccogliere il numero sufficiente degli spettatori queste manifestazioni hanno già varcato le mura cittadine. Non è più il quartiere, la città o la provincia che fornisce il pubblico delle grandi adunate. Oberammegau, Weimar, Verona ed altre sedi permanenti od occasionali delle manifestazioni artistiche o sportive raccolgono nelle loro arene, nei loro teatri gli spettatori di varie nazioni e diversi continenti. Al godimento dello spettacolo si unisce il piacere del viaggio, reso oggi facile, comodo, sicuro, indipendente da orari e da tracciati prestabiliti. Le ulteriori facilitazioni e perfezionamenti negli spostamenti individuali renderanno possibile di organizzare le grandi manifestazioni, senza necessità di avere vicino un nucleo abitato, nei luoghi più adatti per condizioni climatiche, naturali e topografiche.
L’importanza della disurbanizzazione non si limita, però, nella migliore organizzazione della vita quotidiana. Essa, come vedremo, può influire anche sulla sorte dei popoli nei casi di emergenza, nelle guerre, epidemie ecc.

ARTE E CITTÀ  (torna all'indice)

L’arte nelle sue manifestazioni, come lettere, poesia, pittura, riflette l’ambiente esteriore della sua epoca inquantochè l’artista opera con le immagini delle cose materiali dando a loro vita spirituale indipendente nel tempo e nello spazio dalla vita dell’artista medesimo. Le cose materiali restano però sempre come sfondo, come materia grezza di cui si serve l’arte per le sue meravigliose trasfigurazioni.
È evidente che l’opera, almeno nelle sue forme esteriori, resta influenzata dall’ambiente nel quale vive l’artista, portando l’impronta di quella materia prima che gli servì per modellare le sue immagini.
La nostra civiltà meccanica ed il ritmo veloce della vita hanno impresso profondamente il proprio marchio sull’arte generando anche un penoso equivoco di glorificazione delle manifestazioni transitorie, oggi sorpassate, dell’urbanesimo e della ipertrofia industriale. Un esempio assai significativo in questo senso ci dà il movimento futurista nato nel primo decennio del nostro secolo.
Alcuni giovani si sono commossi davanti alle rumorose officine, davanti ai rombi dei motori, e pieni di estasi per le incomprensibili evoluzioni delle trasmissioni e degli ingranaggi hanno proclamato la nova poesia delle macchine.

L’arte dell’avvenire, per essi, si spirava alle manifestazioni più rumorose della tecnica, manifestazioni che venivano riflesse nella più caotica confusione, a dispetto della intima armonia della meccanica, loro ispiratrice, con frastuono della musica, composizioni rombanti e prive di significato nella poesia, caos di colori nella pittura. Se questo atteggiamento era comprensibile nel periodo d’infanzia del macchinismo, esso si dimostra oggi falso e si risolve a danno del progresso, facendo nascere il timore di annientamento dell’Uomo da parte della macchina. Un futurista si commuoverà certamente meno in una moderna e quasi silenziosa centrale elettrica che feconda con la sua misteriosa energia l’operosità di regioni intere, che nella bottega di un fabbro di campagna dove trova rumori, faville, e tutto l’occorrente per una grande commozione marinettiana.
La produzione nel campo dei valori spirituali costituisce un indice sensibilissimo per la valutazione della salute fisica e morale dei popoli. L’esempio del futurismo da noi riportato ci avverte delle condizioni false ed arteficiose della vita attuale. L’uomo richiede, oltre al soddisfacimento del suo istinto sociale, anche la possibilità di quiete e di isolamento per sfuggire all’eccitamento continuo provocato dalle condizioni dell’ambiente attuale, eccitamento che esaurisce le sue facoltà creative. Non si tratta di isolamento di rinuncia, di isolamento di anacoreta, ma di raccoglimento di un creatore. Chi vorrà negare il significato simbolico alla nascita de Tavole della Legge sul Monte Sinai o alla apparizione delle visioni dell’ Apocalisse nelle solitudini dell’isola di Pathmos?

ARCHITETTURA DELLE CITTÀ  (torna all'indice)

Negli studi urbanistici, nei progetti dei piani regolatori delle città e dei piani di ampliamento delle loro zone periferiche, le ragioni estetiche hanno sempre avuto una parte importante, e si è cercato di sistemare nel modo migliore gli esistenti monumenti aventi valore storico od artistico, o di creare nuovi gradevoli complessi architettonici.
L’idea di abbandonare le città attuali può, certamente, offendere un male inteso senso tradizionalistico. Si cerca giustamente di conservare i monumenti di storia millenaria, le tradizioni collegate con strade, quartieri, singoli edifici, costituenti un prezioso patrimonio artistico, di salvare dalla distruzione l’ambiente che custodisce la continuità della stirpe di fronte alle sorti mutevoli delle generazioni che si susseguono. L’obiezione, giusta in se stessa, cade di fronte alla realtà dei fatti. In pratica risulta impossibile di conservare immutabile l’aspetto di una città in via di sviluppo e di adattamento alle sempre variabili esigenze della vita. Non si può insistere seriamente sul valore tradizionale di un paesaggio urbano, se chiunque, facendo costruire edifici secondo propri gusti ed esigenze, può mutare i panorami artistici di una città. I piani regolatori non determinano che planimetricamente il
tracciato delle strade. Le Commissioni municipali destinate a sorvegliare l’attività edilizia non hanno mai impedito i gravi attentati contro le bellezze architettoniche delle città. Le esigenze del traffico, dell’igiene, quelle economiche vengono spesso a soverchiare le aspirazioni dei cultori delle antichità e delle tradizioni.
Gli edifici monumentali civili e religiosi che nella maggior parte sono nati nella cornice uniforme di case lisce, basse, monocrome, nell’ambientazione che accentua la maestosità dei monumenti, si sono trovati oggi soffocati e rimpiccioliti entro le masse dei palazzi mostruosi e pretenziosi di costruzione recente e recentissima.
Allontanando la vita esuberante dal nucleo monumentale delle città del Medio Evo e del Rinascimento, si viene a salvare e mettere in valore il patrimonio artistico nazionale. Per gli edifici monumentali non si potrà certamente ricostruire lo scenario di qualche secolo fa, ma se dall’ambiente anarchico, caotico, deforme, eterogeneo delle architetture attuali, riuscissimo a portarli entro le zone sistemate a parco e a prato, il loro valore artistico e la loro monumentalità ne sarebbero certamente avvantaggiate.

LA GUERRA E LE CITTA’.  (torna all'indice)

In guerra come in pace il valore delle città, nella vita nazionale, ha subito uno spostamento profondo. La loro funzione come punti fortificati, per la difesa contro le invasioni dei vicini e dei popoli nomadi, è finita con la fine del Medio Evo. Nei tempi moderni le città sono diventate degli obbiettivi delle operazioni belliche, senza quasi mai prenderne parte attiva. Le fortificazioni, in un primo tempo, furono portate fuori delle città ed in un secondo tempo si sono costituite delle linee continue fortificate lungo le frontiere, ove questo per ragioni topografiche e politiche fu ritenuto necessario, sempre però fuori dell’abitato.
Agli eserciti belligeranti si sostituiscono oggi le nazioni armate. Con la estensione delle operazioni belliche a tutto il territorio degli Stati in guerra si rende inutile e pericolosa ai fini della guerra stessa l’esistenza dei grandi agglomerati urbani, facilmente individuabili e vulnerabili dall’alto. L’effetto che può ottenere un attacco, un’operazione offensiva sulla città è infinitamente superiore a quello ottenuto coi mezzi medesimi, sulla medesima popolazione razionalmente distribuita ed
organizzata su una zona più vasta. Le manovre aeree eseguite dalle grandi potenze in questi ultimi anni avrebbero dimostrato secondo taluni che una città non può essere efficacemente difesa contro le incursioni aeree. La città può essere distrutta prima che i difensori entrino in contatto con gli invasori. Mentre nelle città si rendono necessarie le opere di mascheramento, costosissime e poco efficaci, nelle campagne tali opere sono superflue inquantochè sono sostituite dalla vegetazione e da accorgimenti costruttivi e di colorazione. I grandi impianti ferroviari, origine e conseguenza nello stesso tempo delle nostre città del secolo ferroviario, sono destinati ad essere sostituite per la maggior parte dalla rete delle strade ordinarie prive di stazioni ed altri punti vulnerabili.

Anche gli aeroporti muteranno radicalmente il loro aspetto non appena i velivoli saranno resi meno ingombranti e potranno decollare e atterrare senza dover percorrere centinaia di metri sul campo. Un’area limitata davanti  alle rimesse private od alle stazioni pubbliche sarà sufficiente per il movimento dei velivoli. Per non essere facilmente individuabile dall’alto il piazzale degli aeroporti maggiori può venire opportunamente frazionato da piantagioni, fabbricati etc.
Agli effetti della guerra chimica le città attuali presentano inconvenienti ancora maggiori. Le vie poco ventilate delle città costituiscono ottimi canali di espansione dei gas tossici pesanti. Nelle grandi città la situazione si aggrava per mancanza di visibilità e per la difficoltà di orientamento. Dal fondo delle vie e dalle finestre dei piani inferiori si osserva una porzione minima del cielo, ciò che dà in generale al pericolo il carattere dell’improvviso.
Le istituzioni segrete del Ministero della Guerra germanico pubblicate alla fine del giugno 1934 sulla rivista Nineteenth Century and After confermano pienamente queste preoccupazioni. Le istruzioni citate, dirette ad una Società, incaricata di controllare con una serie di esperienze la diffusione artificiale dei microrganismi patogeni nei diversi quartieri di Parigi partono dalla supposizione che le opere difensive francesi rendono impossibile la rottura della linea di frontiera da parte dell’esercito invasore. Come mezzo di offesa per la Germania resta la guerra aerea, “specialmente contro la popolazione borghese delle grandi città”.
Questa pubblicazione, come anche tanti altri elementi che si hanno oggi sul carattere di un’eventuale guerra dell’avvenire, confermano assai esplicitamente il pericolo grave al quale si espongono gli agglomerati urbani in questo caso. Ciò si riferisce naturalmente tanto alla guerra microbica, quanto a quella chimica ed alle altre operazioni belliche dirette contro le popolazioni civili. Nelle campagne aperte, con case disseminate in mezzo al verde una vasta visibilità permette di orientarsi facilmente. La rete fina delle strade ed i mezzi individuali di locomozione agevolano rapidi spostamenti per sottrarsi al pericolo.
A parte qualsiasi considerazione di ordine politico internazionale, una guerra è sempre considerata possibile agli effetti dell’attrezzatura di tutte le nazioni che affrontano in vista di questa eventualità sacrifici non indifferenti. La disurbanizzazione in questo caso non va considerata come un sacrificio inquantochè essa risulta perfettamente aderente a tutte le altre manifestazioni della vita.

Sotto questo aspetto l’affermazione del Cancelliere Bismark che “le grandi città dovranno sparire dalla faccia della terra”, l’affermazione che a suo tempo sembrò priva di qualsiasi significato pratico, acquista un nuovo ed inaspettato fondamento.

XII IL DECENTRAMENTO  (torna all'indice)

L’abbandono delle città attuali si rende facile grazie al rapido progresso industriale e tecnico dei nostri giorni. Infatti, sotto l’azione della concorrenza che impone il massimo sfruttamento degli impianti industriali, questi invecchiano assai rapidamente. L’introduzione tempestiva di tutte le modifiche e perfezionamenti suggeriti dalla scienza e dalla pratica richiede spesso costosi rifacimenti che equivalgono alla ricostruzione degli impianti altrove. Lo stesso dicesi per gli impianti di servizi pubblici. Così, la modifica graduale ed organica di tutta la attrezzatura della nostra vita non comporterà quasi nessun altro impiego di mezzi economici oltre a quelli ordinariamente investiti per il rinnovamento delle industrie private e dei servizi pubblici.
Per quello che riguarda l’edilizia delle abitazioni, questa ha oggi il vizio della monumentalità: siamo costretti a vivere nelle case costose e scomode, costruite per l’eternità, mentre la tecnica offre continuamente dei nuovi ritrovati per la maggior comodità e l’igiene dell’abitazione. Se la convenienza di modificare un impianto industriale o di abbandonare un autoveicolo antiquato per quello moderno, è evidente per tutti; la modernità, la comodità della casa e le possibilità economiche delle abitazioni costruite in serie non hanno avuto ancora la loro giusta valutazione[5]. È da ritenersi però che la soluzione del problema degli alloggi non potrà venire che per questa via.
Qualsiasi tentativo da parte nostra di immaginare le forme concrete delle abitazioni dell’avvenire potrebbe essere considerato come arbitrario. Vi saranno quelli che preferiranno i grandi fabbricati a più piani, gli altri, le ville isolate, ma tanto le ville, quanto i grattacieli, saranno sempre fortemente distanziati, con intercalate le zone agricole e quelle a giardino.
Anche sulla sistemazione planimetrica degli abitati non si possono fare che induzioni vaghe. Qualche studioso del problema, come l’americano Frank Lloyd Wright crede che le città dovranno rimanere come centri degli uffici presso le fabbriche solo per la permanenza diurna delle persone. Egli scrive: “qualunque cosa diventi la città, non rappresenterà più che un servitore della macchina, simile alla macchina stessa, dopo che l’uomo sia fuggito da essa ed abbia trovato altrove tutto quello che la città gli dava ed abbia ottenuto inoltre l’isolamento individuale che la città non gli ha mai dato e gli vuole far credere che egli non lo abbisogna”.
Ci siamo limitati, senza entrare nel campo delle utopie, ad evocare gli agenti principali che concorrono oggi a determinare le manifestazioni esteriori della vita di domani. La macchina è un elemento preponderante fra questi agenti.
Il progresso tecnico fino ad oggi ha portato alla centralizzazione dando il maggior impulso per lo sviluppo delle grandi città. I sintomi di carattere obbiettivo ci avvertono che il fenomeno di concentramento ha raggiunto il suo massimo ed è entrato nella fase di una morbosa ipertrofia, determinando una pericolosa instabilità nel sistema attuale politico-economico. Lo stesso progresso tecnico porta con sé il rimedio del male da esso creato, dando la possibilità di un largo decentramento.
Così, se il secolo trascorso fu il secolo di grande accentramento materiale e di decentramento, se non anarchia, morale, il secolo nostro ci porta un decentramento materiale ed una fortissima e totalitaria organizzazione statale.

La tecnica moderna permette agli uomini di vivere uniti, di soddisfare il loro istinto sociale, non a migliaia ed a milioni entro le mura delle città, ma a decine e centinaia di milioni entro i confini della patria. In questo nuovo assetto l’umanità potrà finalmente riposare distendendo i propri centri nervosi localizzati nei nuclei urbani. Il turbinoso movimento, se non anarchia morale, il secolo nostro di vita delle metropoli non ha nulla a che vedere col progresso, coll’operosità feconda di lavoro e di pensiero che è soprafatta oggi da una finta operosità, da quel grande equivoco, da quel superstite morboso del secolo passato che è la civiltà meccanica delle grandi capitali. Le energie enormi accumulate nelle grandi città sono destinate inevitabilmente a scaricarsi ed è la saggezza della nostra generazione che deciderà se questa scarica dovrà essere graduale e fecondatrice o se si risolverà in una folgore che tutto capovolge e distrugge.

 


[1] Des agglomérations urbaines dans l’Europe contemporaine, Paris, 1898

[2] Der moderne Kapitalismus, Leipzig, 1902

[3] Le grandi città, Pietroburgo, 1905

[4] Frank Lloyd Wright, Modern Architecture, Princeton, 1931

[5] Confr. : M. Dikansky - La ville moderne -Parigi 1927 .pag 125

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