anatole
dikansky: "la fine delle città" (La Casa, gennaio, febbraio, marzo
1935)
HOME
- HOME TESTI
|
Indice: I NUOVI ASPETTI DELL'URBANISMO; II.
CITTÀ E
CAMPAGNA;
III. LA
CITTÀ
CONTRO LA CAMPAGNA; IV INDUSTRIA DI DOMANI;
V
FUNZIONE IDEALE, AMMINISTRATIVA E CULTURALE DELLE CITTÀ; VI IL
COMMERCIO
DI DOMANI; VII LA
PROPRIETÀ
IMMOBILIARE URBANA; VIII
I
DIVERTIMENTI; IX. ARTE E
CITTÀ; X ARCHITETTURA DELLE
CITTÀ; XI
LA GUERRA E
LE CITTA’; XII IL
DECENTRAMENTO
Premessa
Il testo dal perentorio titolo "la fine delle
città" che propongo qui, si inserisce in un particolare
dibattito internazionale che negli anni Trenta (complici alcune
innovazioni tecnologiche e organizzative) condiziona gran parte del
dibattito sul futuro del rapporto fra umanità e territorio.
Esplode, letteralmente, quella che all'epoca si chiama
suburbanizzazione, o in senso non semplicemente residenziale
decentramento, e che oggi in forme diverse e articolate chiamiamo anche
città diffusa. Un fenomeno dapprima solo
o prevalentemente anglosassone, americano soprattutto, ma che ad
esempio anche in Italia comincia a fare sentire i suoi effetti, se non
altro sul dibattito scientifico.
Nel nostro paese, si svolvono in parallelo sia la sotterranea
fascinazione per le suggestioni wrightiane di Broadacre, sia l'adesione
alle politiche ufficiali antiurbane del fascismo, sia la loro
interpretazione "estensiva", che non a caso sostiene le prime proposte
di pianificazione territoriale di scala superiore al singolo comune.
Non è certo un caso, se "la fine delle città" viene
pubblicato dalla rivista milanese La
Casa, animata dal responsabile dell'ufficio comunale di piano
regolatore Cesare Albertini, proprio nel periodo in cui con maggiore
insistenza (almeno a parole) si sostiene la necessità di
pianificare a scala metropolitana, anticipando molti dei temi che
saranno propri del secondo dopoguerra, e che a ben vedere erano
già stati intravisti anche dal locale movimento per le
città giardino nei primi anni del secolo.
Resta, ben oltre la contingenza del dibattito milanese o la
specificità di quello italiano di metà anni Trenta, il
fascino di un testo di largo respiro, ricco di temi ancora attuali.
fabrizio bottini
Vi sono problemi
che vengono studiati in tutti i loro aspetti senza che gli indagatori
si
accorgano che l’oggetto stesso dell’inchiesta si sia trasformato sotto
l’azione
degli agenti sfuggiti alla loro osservazione o sia del tutto svanito.
Non
intendiamo con ciò disconoscere i meriti di quelli che hanno
trattato con molta
dottrina questioni della massima gravità come quelli
dell’urbanesimo e di altri
problemi concomitanti.
Basta passare in
rassegna la materia studiata dagli urbanisti per valutarne
l’importanza.
L’igiene dell’abitazione, l’igiene delle città, la circolazione
urbana, il
problema degli alloggi, piani regolatori e tanti altri argomenti hanno
un’importanza capitale per il benessere della società.
La questione
gravissima dell’isterilimento delle popolazioni urbane, questione di
vita è di
morte per tutta la nostra civiltà, viene a collegarsi
intimamente con le
manifestazioni materiali e morali della vita delle agglomerazioni
urbane,
oggetto degli studi urbanistici.
Sono
generalmente conosciuti i disagi delle popolazioni dei grandi centri e
gli effetti
negativi del fenomeno di urbanizzazione delle masse rurali. In seguito
allo
studio degli aspetti dell’urbanesimo ed alle iniziative coraggiose nel
campo
sociale, tecnico e in quello della polizia urbana si sono ottenuti
alcuni
risultati, ma in seguito essi si sono dimostrati transitori.
Così, un
miglioramento delle condizioni igieniche delle abitazioni può
essere facilmente
annullato da susseguenti movimenti demografici e dagli sviluppi della
situazione economica.
Tutto ciò
consiglia di affrontare il problema delle città nel suo
complesso, al disopra
delle manifestazioni particolari, conseguenti al fenomeno principale
dell’urbanizzazione della popolazione rurale.
Nelle nostre
considerazioni abbiamo cercato di determinare gli effetti di due
elementi: prevedibile
sviluppo del progresso tecnico ed armonizzazione di tutta
l’attività
individuale e collettiva nel complesso organico dello stato. La
valutazione
delle conseguenze di questi nuovi fattori rende possibile prevedere una
modificazione profonda degli aspetti fondamentali del fenomeno
urbanistico,
modificazione che porterà forse alla soluzione dei problemi
rimasti tuttora
insoluti.
II.
CITTÀ E
CAMPAGNA
(torna all'indice)
Nella vita
delle
nazioni, la città e la campagna rappresentano due elementi
spesso contrastanti
e sempre interdipendenti che determinano in ogni momento la fisionomia
economica, culturale e politica delle nazioni stesse.
Nel binomio
produzione-consumo
l’elemento urbano e quello
rurale si completano e si compensano reciprocamente. La campagna con la
sua produzione
agricola costituisce l’elemento indispensabile ai processi fondamentali
della
vita. Le città sono le sedi della nostra civiltà
meccanica, centri di
gravitazione, zone di elevato potenziale delle attività umane,
punti di
condensazione culturale, industriale, mercantile, amministrativa.
L’epoca
classica
della formazione delle città contemporanee può essere
considerata il secolo
XIX. Cause profonde determinarono il loro sviluppo. Meuriot[1],
in un suo studio sull’argomento, disse: “Non è il capriccio che
manda la gran
parte della popolazione rurale nelle città, ma la più
grande rivoluzione
economica che il mondo abbia mai conosciuto, consistente nella totale
trasformazione dei metodi del lavoro agricolo ed industriale”.
Senza entrare
nei particolari del processo di urbanizzazione, ci limiteremo ad
osservare che
i principali stimoli per lo sviluppo di esso, nel secolo trascorso,
dalle
Guerre Napoleoniche alla Grande Guerra del 1914, furono: per i singoli
individui: relativa facilità dei guadagni e abbondanza di svaghi
; per le
industrie: facilità di rifornimento e di smercio dei prodotti.
L’analisi dei
dati statistici dimostra che l’accrescimento delle grandi città
è assai più
rapido di quello delle città minori. Lo sviluppo delle
città con oltre 100.000
abitanti ed il suo rapporto all’accrescimento totale della popolazione
per
l’Europa, esclusa la Russia ed i paesi balcanici, risulta chiaramente
dallo
specchietto di Sombart che pubblichiamo qui sotto:
Anno
|
1700
|
1800
|
1900
|
Popolazione
complessiva
|
80.000.000
|
120.000.000
|
280.000.000
|
Popolazione
delle città con oltre 100.000 abitanti
|
2.600.000
|
3.600.000
|
36.000.000
|
Rapp. in %
della popolazione delle grandi città
|
3,6%
|
3,0%
|
13,0%
|
Questi dati
ci
dicono inoltre che la forza di attrazione esercitata da una
città sulla
popolazione rurale è in funzione della grandezza della
città stessa. Detta
constatazione ha indotto, per quanto arbitrariamente, a formulare una
specie di
legge, analoga a quella di Newton, sull’attrazione dei corpi in
rapporto alle
loro masse.
Il grado di
sviluppo che hanno assunto le città al principio del nostro
secolo, ha
determinato una serie di problemi di somma importanza per l’avvenire
delle
popolazioni raccolte nelle grandi Metropoli. Sotto la denominazione di
urbanismo furono elevate alla dignità di una vera e propria
disciplina la
questione dei piani regolatori, quella dei servizi pubblici etc.
Abbiamo già
accennato ad una delle più gravi manifestazioni dell’urbanesimo,
la denatalità
nelle città, manifestazione contro la quale non si è
potuto trovare sinora
rimedio, nonostante gli sforzi compiuti per una razionale soluzione dei
problemi inerenti.
Qui sorgono
spontanee le domande:
- Quale sorte
è
riservata alla popolazione delle grandi città?
- Vi sono dei
limiti nella urbanizzazione delle masse rurali?
In un primo
tempo si dovette desistere dal proposito di rispondere ad esse di
fronte alla
mancanza di elementi per una più o meno attendibile
estrapolazione del fenomeno
di urbanizzazione. Cosi Buecher
ebbe a dichiarare: “Non possiamo ancora prevedere i limiti di
applicazione del
lavoro nell’ambito delle grandi industrie ed è perciò che
ci risulta
impossibile di prevedere la fine dell’accrescimento delle nostre
maggiori
città”.
In vent’anni
di
storia densa di nuovi rivolgimenti politici, morali ed economici sono
entrati
in gioco fattori che andremo analizzando e che diminuirono l’importanza
funzionale delle città dopo aver segnato un massimo nel
dopoguerra e nell’epoca
della “prosperity” americana.
In
conseguenza
di questa diminuzione delle forze agglomeranti è prevedibile un
graduale e
spontaneo scioglimento del nuclei urbani. Esso sarà provocato
dalle forze
centrifughe agenti su migliaia di individui che si trovano oggi su zone
relativamente ristrette ed in condizioni di manifesto disagio. Le forze
disgregatrici cominceranno ad agire con un ritmo veloce, non appena i
benefici
che procura la città andranno diminuendo. Le forze repulsive
intanto sono oggi
in un continuo aumento.
III. LA
CITTÀ
CONTRO LA CAMPAGNA
(torna
all'indice)
Il contrasto
psicologico e quello economico esistente fra la città e la
campagna, genera in
seno alle nazioni squilibri deleteri per la prosperità delle
nazioni stesse. La
diversità della valutazione del lavoro e della moneta, la
diversità delle
concezioni della vita, la diversità del modo di fare, di
reagire, tutto ciò
crea nell’ambito di una nazione due popoli, radicalmente diversi nel
loro abito
mentale e fisico.
La
necessità di
cancellare la linea di demarcazione fra questi due gruppi è
vivamente sentita
in tutti i paesi che hanno raggiunto un grado elevato di
differenziazione
sociale. Un ordine del giorno dell’Accademia della cooperazione di
Mosca
(Dicembre 1930), riferendosi al piano della nuova città di
Magnitogorsk dice:
“occorre porre il problema dell’inserzione del lavoro agricolo nel
lavoro
industriale”. Esso consiglia a questo scopo di fondere la zona agricola
con la
zona industriale e con la zona delle abitazioni operaie. L’impressione
che la
città in mezzo alle campagne deserte, sia un che di anormale
nasce spontanea in
un viaggiatore che si avvicini ad una grande metropoli. “Il più
curioso è -
scrive ad esempio Paolo Muratov - che non vi è nessun abitato
per chilometri e
chilometri. E tutto ciò a due ore di treno da New York. Non
è così che ci
immaginiamo la immediata vicinanza di una città mostruosa, nella
sua
immensità... “. Lo scrittore prosegue accennando alla
incongruenza degli esseri
umani: “Che cosa li obbliga a fuggire queste distese ed a qualunque
costo
raggrupparsi nei terribili tristi e miseri sobborghi dei formicolai
umani?”
Lo scambio
demografico tra la città e la campagna avviene oggi in modo
unilaterale: la
città nelle condizioni di lavoro febbrile e dell’ambiente
antigienico esaurisce
le famiglie in poche generazioni. La campagna fornisce alla
città sempre fresco
materiale umano. Riportare le popolazioni urbane esuberanti verso la
campagna è
altrettanto difficile come guarire un morfinomane.
Nel
momento attuale di
depressione economica si riscontra un certo rallentamento di
immigrazione dei
rurali nelle città. Questo rallentamento non può essere
considerato come la
soluzione del problema urbanistico essendo transitorio com’è
transitoria la
crisi che lo ha provocato.
Siamo di
fronte
alla necessità di una soluzione radicale, come potrebbe essere
la sparizione
delle città nella loro forma attuale e l’estensione dei benefici
che gode la
popolazione cittadina alle popolazioni rurali.
Ciò
porterà alla
unificazione etnica entro i confini delle singole nazioni ed alla
limitazione
del fenomeno dello spopolamento delle campagne e della
denatalità nelle città.
Nell’intento
di
migliorare le condizioni di vita delle popolazioni urbane furono
tentate varie
soluzioni basate sull’opportunità di sottrarre l’uomo agli
inconvenienti delle
città attuali, creare gli abitati secondo le norme igieniche,
avvicinare l’uomo
alla natura.
Si è
cominciato
col proporre città-giardino destinate al solo soggiorno delle
persone, mentre
le città attuali dovrebbero rimanere come centri commerciali.
L’idea della
decongestione delle città ha subito però in questi ultimi
tempi una
trasformazione radicale.
I nuovi
elementi
venuti in giuoco rendono inutile la conservazione delle città
attuali anche per
quegli scopi per i quali queste sembravano trent’anni fa
indispensabili. La
concezione delle città-giardino come nuclei abitati delimitati,
aventi un
nocciolo centrale di gravitazione formato da edifici pubblici, è
superata.
Come i fiumi
per
l’uomo primitivo, così per l’uomo moderno le strade
costituiscono quella trama
su cui vengono ad innestarsi tutte le manifestazioni della vita della
società
umana.
Le abitazioni
e
tutti i luoghi di attività dell’uomo di domani saranno
disseminate lungo le
strade, confondendosi completamente con le zone agricole. Il progresso
della
tecnica moderna, come vedremo più innanzi, renderà
possibile di eliminare le
cause che determinarono il deprecato fenomeno dell’urbanesimo e che
portarono
l’umanità in un vicolo cieco della disoccupazione e della
denatalità.
INDUSTRIA
DI DOMANI
(torna
all'indice)
La
razionalizzazione dei procedimenti di produzione in tutti i campi di
lavoro ha
reso esuberante la quantità di mano d’opera disponibile oggi sul
mercato. Per
mitigare la disoccupazione si è dovuto ricorrere alla riduzione
della settimana
lavorativa. In un primo tempo la riduzione fu interpretata come una
misura
eccezionale ed ai fenomeni che l’hanno provocata si attribuì il
significato di
crisi. Oggi però prevale l’opinione che questo stato abbia
carattere di
stabilità e debba risolversi in definitiva in un beneficio.
Infatti, grazie ad
un largo impiego di macchine, si rende possibile la diminuzione globale
della
quantità di lavoro occorrente per la produzione dei beni
consumati dalla
collettività, tenuto conto anche dell’aumento continuo di
consumo. Il problema
della disoccupazione si riduce così ad una questione puramente
tecnica di
un’equa distribuzione del lavoro e del suo prodotto.
Considerato
il
fenomeno sotto questo aspetto si dovrebbe parlare di una crisi di
assestamento,
di passaggio al nuovo regime, di adeguamento delle paghe, dei costi di
lavorazione
e delle materie prime ai guadagni delle imprese industriali.
L’effetto
della
nuova situazione sul fenomeno urbanistico non dovrebbe tardare a
manifestarsi
se si volesse con provvedimenti opportuni facilitare la
disurbanizzazione sulle
vie indicate dalle attuali contingenze economiche.
La
diminuzione
delle giornate lavorative renderà più agevole la
distribuzione della
popolazione su vaste zone permettendo tragitti più lunghi
dall’abitazione al
luogo del lavoro che si compieranno tre o quattro volte alla settimana
anzi che
sei. Si presuppone l’adozione generale dell’orario unico del lavoro
oggi
adottato in alcuni paesi con esito soddisfacente, e di tutti gli altri
provvedimenti che dovrebbero formare un piano organico atto ad
eliminare
spostamenti inutili di persone addette alle industrie e spostamenti di
materiale da lavorare e quello lavorato. È da osservarsi
però che la
razionalizzazione dei processi industriali, essendo nell’interesse
delle stesse
imprese, è oggi in atto. Qui dovrebbe essere sufficiente
lasciare agire i
fattori soggetti alle leggi economiche nel loro naturale sviluppo.
Per quello
che
riguarda lo spostamento delle persone, la questione si presenta
più complessa.
La scelta delle abitazioni da parte delle maestranze è soggetta
oltre che alle
condizioni di ubicazione, all’economia, alle ragioni famigliari, etc.
Ne deriva
spesso per un operaio od un impiegato la necessità di percorrere
giornalmente
molti chilometri per recarsi al lavoro, servendosi di tutti mezzi a sua
disposizione, dalla bicicletta al treno. Questo movimento provoca uno
sperpero
di danaro e di tempo, senza dare alcun beneficio né al
lavoratore, né
all’industriale.
L’operaio e
l’impiegato dovrebbero trovare l’abitazione nella prossimità del
proprio luogo
di lavoro, lasciando nello stesso tempo alle vicinanze immediate della
fabbrica
il loro carattere agricolo. Per chiarire il concetto esposto
consideriamo un
caso schematico. Una fabbrica che dà lavoro a 2000 persone si
trova nel punto
d’incrocio di due strade. Nelle quattro direzioni della croce
così formata sono
disposti lungo le strade appezzamenti aventi 12 metri di fronte. Le
duemila
famiglie vengono alloggiate con questa sistemazione entro un raggio di
tre
chilometri. Le più lontane abitazioni saranno raggiungibili
dalla fabbrica in
10 minuti di bicicletta. Il terreno compreso fra i quattro angoli
formati dalle
abitazioni è coltivabile, verso il vertice, - a orto, verso la
periferia -
eventualmente a colture meno ricche.
Ci siamo
limitati di illustrare un caso astratto senza pretendere con ciò
di dare
insegnamento per le soluzioni planimetriche concrete che possono essere
infinite e che dipendono dalle condizioni topografiche della
località.
Il caso
analizzato dimostra la possibilità di creare delle zone miste
agricole ed
industriali, con popolazione assai diradata, convergendola per il
lavoro
quotidiano verso un dato di tempo e di mezzi. Nelle note successive ci
proponiamo di analizzare altri elementi che si inseriscono nel problema
degli
abitati dell’avvenire come rifornimenti, istituti di proprietà
immobiliare,
attrezzamento bellico, ecc.
V.
FUNZIONE IDEALE, AMMINISTRATIVA E CULTURALE DELLE CITTÀ (torna
all'indice)
Abbiamo
analizzato nelle nostre precedenti note i rapporti che legano oggi la
città e
la campagna. Proseguiamo nella rassegna delle varie manifestazioni
della vita
odierna coll’intento di individuare in esse le nuove vie di
realizzazioni
urbanistiche dell’avvenire più o meno remoto.
Nell’inquadramento
delle nazioni entro le maglie dello stato moderno possono essere
fissati due momenti
principali: quello ideale e quello tecnico-amministrativo. L’idea dello
stato
si concretizza nella mente di ogni singolo cittadino sui confini
geografici
della nazione, sulle sue vicende storiche, e sui punti di massimo
potenziale
nazionale che sono le città. Ed è in virtù di
questa associazione intima fra
l’idea dello stato e quella delle sue città che ci risulta assai
difficile
concepire uno stato senza le città. Però, una sana
maturazione della coscienza
nazionale crea negli individui evoluti un concetto integrale della
patria. Da
questo momento le coordinate geografiche corrispondenti alle singole
città
perdono qualsiasi valore ideale, e ciò in armonia con la
possibile ed
augurabile perdita anche del loro valore materiale.
Per
quanto riguarda il momento amministrativo, l’organizzazione dello Stato
sta
subendo delle profonde trasformazioni. Necessariamente questo processo
è lento
ed è faticoso a causa della inevitabile inerzia della macchina
dello Stato.
L’amministrazione della Giustizia, quella fiscale, quella dei Lavori
Pubblici
stanno facendo uno sforzo per l’adeguamento psicologico dei loro quadri
al
ritmo della vita attuale e alle sue esigenze.
La
burocrazia, liberata dagli impedimenti delle procedure antiquate e
valendosi di
mezzi di comunicazione adeguati, potrà facilmente svolgere la
sua opera, senza
richiedere contatti troppo stretti col pubblico, pure compenetrando
l’organismo
nazionale, seguendo, riordinando e regolando ogni attività. La
Banca, più agile
e più maneggevole dell’amministrazione statale, ci dà un
esempio in questo
senso. Difatti nelle sedi di grandi istituti di credito il traffico
delle
persone si riduce al minimo, mentre le operazioni più importanti
si preparano
per corrispondenza o per telefono e si concludono spesso anche fuori
della sede
dell’istituto, agevolate dalla decentralizzazione tecnica a mezzo delle
agenzie
e succursali.
Così,
la funzione di centro amministrativo non è necessariamente
collegata colla
popolazione numerosa; l’esempio di Washington, una piccola Capitale di
un
grande Stato, conferma questa constatazione.
Contrariamente
a quello che è la funzione industriale, amministrativa e
mercantile, la
funzione culturale delle grandi città è rimasta sempre
limitata. Basta citare
l’importanza delle piccole città universitarie come Pavia,
Cambridge,
Heidelberg, Oxford, Bologna per poter affermare che nessun danno
potrà avvenire
alla cultura della disurbanizzazione auspicata.
VI.
IL
COMMERCIO
DI DOMANI
(torna
all'indice)
La funzione
delle città come mercati di contrattazione, di smistamento e di
distribuzione
dei prodotti agricoli ed industriali non si sottrae, nelle sue
trasformazioni,
ai fattori di evoluzione dell’economia moderna. Le operazioni di
compra-vendita
tendono verso una razionale semplificazione. La normalizzazione e la
standardizzazione
della produzione, il perfezionamento delle operazioni di trasporto,
carico e
scarico permettono nella maggior parte dei casi la contrattazione in
base ai
campioni ed ai cataloghi, senza dover prendere visione della merce che
si
acquista. La produzione dei generi di prima necessità va pure
verso uniformità
di tipi in seguito alla azione regolatrice di diversi fattori, come
generalizzazione dei metodi di produzione, prescrizioni di leggi e
regolamenti,
riduzione del numero delle qualità con conseguente aumento dei
quantitativi
prodotti della stessa qualità ecc.
Tutto
ciò
semplifica le operazioni d’acquisto e di rifornimento permettendo di
ordinare a
distanza con estrema semplicità quasi tutto, dai generi di
consumo minuto alle
grandi partite di merci all’ingrosso per uso industriale.
Gli ulteriori
sviluppi di questo processo di semplificazione mercantile invocato dai
maggiori
economisti, e fra questi recentemente da Alberto De Stefani, renderanno
sempre
più agevole il rifornimento delle industrie e della popolazione,
anche molto
più esigente di quella attuale, distribuita in vaste zone a
bassa densità.
Naturalmente
resta indispensabile la funzione dei grandi porti marittimi e dei
magazzini
centralizzati nell’interno, ma l’attività dell’uomo intorno ad
essi si limiterà
alle operazioni materiali di manipolazione, abolendo tutto quello che
vi è di
parassitario nell’attuale apparato di distribuzione.
VII LA
PROPRIETÀ
IMMOBILIARE URBANA
(torna
all'indice)
Per essere in
grado di intravedere la sorte riservata alle grandi città
occorre analizzare la
situazione cui è venuto a trovarsi l’istituto della
proprietà immobiliare
urbana.
I servizi di
interesse generale, come le comunicazioni, le forniture di acqua,
energia, gas,
sono gestiti dallo Stato, dai Comuni o da privati appaltatori
facilmente
controllabili dalle autorità dello Stato. Il servizio delle
abitazioni è quasi
interamente in mano dei privati, mentre l’importanza delle abitazioni
per la
popolazione supera di gran lunga quella di qualsiasi altro servizio.
E per ciò nelle
grandi
città l’edilizia privata è regolata
da norme complesse di carattere tecnico, da leggi dello Stato e da
regolamenti
locali. Nonostante questa regolamentazione lo sfruttamento degli
immobili
urbani non è mai razionale. Basta considerare la suddivisione ed
il
frazionamento dei lotti, troppo piccoli o troppo grandi, eccessivamente
od
insufficientemente profondi e così via. Ne derivano le
abitazioni costose,
irrazionali, malsane.
Entro poche decine di
metri, lungo
una via, troviamo un
vero campionario di strisce di diverse altezze, vario stile, misura,
colore,
con servizi autonomi di scale, ascensori, custode, riscaldamento,
uguali tanto
per venti che per duecento locali. Sperpero di mezzi e di energie
inspiegabile
per chi si astrae dalle vicende storiche di formazione di una
città.
Ci sarebbe
difficile immaginare sul binario del tram o della ferrovia una serie di
diverse
vetture private, ognuna con le proprie fermate, velocità,
direzione etc. Ciò
che sembra assurdo nella dinamica di un binario viene tollerato nella
statica
di una pubblica via.
Per rimediare
a
questa situazione antieconomica e quindi antisociale gli enti pubblici
vengono
spesso a sostituirsi al privato, oppure si creano dei gruppi finanziari
per
affrontare lo sfruttamento di quartieri interi, abbattendo talvolta
vaste zone
di vecchi fabbricati.
È
evidente che
queste misure incomplete ed eccezionali, spesso faticose, non possono
sanare la
contraddizione principale, derivante dalla natura antiquata
dell’istituto della
proprietà immobiliare.
Detta
contraddizione si fa sentire maggiormente quando si passa dalle
considerazioni
tecnico-sociali a quelle economiche. Il capitale che alimenta
l’edilizia
reagisce con estrema sensibilità a tutte le influenze economiche
e politiche
del momento. Esso viene attratto verso l’edilizia dalle garanzie e
dalle
protèzioni che la legge accorda al reddito immobiliare e dal
carattere di
monopolio che riveste il servizio degli alloggi. D’altra parte, la
eventualità
di una regolazione forzosa dei redditi respinge il capitale dagli
investimenti
edilizi.
Questi
fattori
agiscono spesso in discordanza di fase e, ciò che è molto
peggio, senza che la
loro oscillazione corrisponda in ogni momento all’interesse della
collettività.
La
proprietà
edilizia nella sua forma attuale ben difficilmente si inquadra nel
complesso
dell’economia moderna. Il disagio è vivamente sentito, ma i
rimedi variano
secondo chi li propone. Un ordine del giorno del Congresso
internazionale della
proprietà edilizia, svoltosi a Roma e a Milano nel maggio 1933,
afferma che
“solo assicurando un reddito normale alla proprietà edilizia si
consegue un
vero rimedio contro la crisi degli alloggi”. Il reddito normale
può essere
assicurato, sempre secondo il Congresso, dalla libertà delle
contrattazioni.
L’esperienza, invocata a difesa e dimostrazione di questa tesi, ha ben
presto
dimostrato l’impossibilità di mantenere nelle condizioni attuali
la libertà
degli affitti. Sotto la pressione delle circostanze di ordine economico
e
politico si è dovuto limitarla, giustificando questo
provvedimento colla
instabilità della situazione economica generale e colle
condizioni specifiche
dell’epoca di passaggio al regime corporativo.
Sotto diverse
forme e denominazioni il regime corporativo sta diffondendosi nelle
varie nazioni.
La sua reazione sulla questione degli alloggi presenta perciò il
massimo
interesse. Secondo una delle formule fondamentali del corporativismo
“il
diritto privato del singolo , si arresta di fronte al diritto pubblico
della
società nazionale, la quale va salvaguardata, da ogni defezione
o sperpero”.
La
proprietà
edilizia urbana si trova appunto nelle condizioni specifiche ove il
diritto
privalo e l’interesse dei singoli entrano continuamente in contrasto
col
diritto pubblico, diritto della collettività nazionale.
Nei confronti
dell’industria in genere lo Stato, attraverso gli organi corporativi,
si
riserva il diritto di un ampio e rigido controllo. L’istituzione di una
speciale Commissione presso il Ministero delle Corporazioni per l’esame
delle
domande per l’autorizzazione a costruire nuovi impianti industriali
permette di
impedire il sorgere di nuovi impianti non corrispondenti all’economia
generale
del paese. Lo Stato si rende così in grado “di evitare, come
dice H. Molinari
in un suo articolo sull’argomento, l’inflazionismo industriale,
seguendo e
controllando lo sviluppo delle industrie per inquadrarlo ed adeguarlo
alla
economia produttiva”.
L’industria
edilizia non può essere soggetta ad un inquadramento di questo
genere. Un
fabbricato, avendo una posizione definita nello spazio, ha delle
caratteristiche di monopolio assoluto nello sfruttamento della
superficie da
esso occupata. Il grado di monopolio è insignificante nel caso
di immobili
rurali, ove un dato terreno è quasi sempre sostituibile da un
altro avente le
medesime caratteristiche economiche del primo.
Nelle
città il
grado di monopolio si accentua ed aumenta verso il centro cittadino,
ove ogni
metro di terreno acquista le caratteristiche proprie e diventa
insostituibile.
Ed è in virtù di queste considerazioni che il privato
proprietario di stabili
urbani risulta non altro che un amministratore che incassa affitti
legalmente
stabiliti, paga tasse, interesse, servizi, ricevendo in compenso una
parte
delle somme versate. Qualora egli, per inabilità od altro,
venisse a mancare a
questa sua precisa funzione sociale, il fisco, o l’ente finanziatore,
passa ad
un altro “proprietario” lo stabile. Il nuovo venuto deposita una
cauzione sotto
forma di prezzo d’acquisto a garanzia di regolare svolgimento delle
operazioni
summenzionate. Ad un proprietario di case viene a mancare la
libertà, lo
stimolo di perfezionamenti, di migliorie, stimolo che agisce nei
confronti di
un industriale.
Risulta
così
evidente che fino a che i terreni urbani restano di proprietà
privata, la loro
razionale sistemazione nell’interesse della società è
impossibile. Lo Stato,
d’altronde, non può lasciare che perdurino forti sperperi
attuali a danno di
tutti. Non si tratta di mancanza di buona volontà dei privati
possessori, ma
della loro impossibilità assoluta, per ragioni di carattere
tecnico, di
sfruttare razionalmente la loro proprietà.
Qui si
presenta
un’alternativa: o lo Stato si sostituisce ai privati nello sfruttamento
dei
fabbricati urbani, o si fa diminuire la densità delle
città togliendo ai loro
centri le caratteristiche odierne di un forte aumento locale del
potenziale
economico derivante dalla densità demografica. In questo modo
viene ad
eliminarsi l’aumento continuo del reddito immobiliare che negli ultimi
cent’anni è avvenuto in grado impressionante, portando agli
utenti degli
stabili un aggravio crescente ed ai proprietari un ingiustificato
guadagno a
danno dell’economia nazionale.
VIII. I
DIVERTIMENTI
(torna
all'indice)
L’amara
ironia
di Giovenale verso i suoi concittadini reclamanti panem et
circenses ci
sembra oggi eccessiva ed anche ingiusta. Siamo tutti pronti ad
ammettere che un
popolo sano ha diritto di avere a sufficienza tanto l’uno quanto gli
altri. Ci
sembra perfettamente naturale che l’abbondanza di svaghi offerti da una
grande
città costituisca una delle sue maggiori attrattive. Ma i
perfezionamenti nella
riproduzione meccanica degli spettacoli rendono quello che era il
privilegio
delle Metropoli alla portata di ogni singola famiglia situata in un
punto
qualsiasi della terra, senza nessun vincolo nello spazio.
La
possibilità
di portare a proprio domicilio uno svago sonoro è di oggi. La
possibilità di
avere a casa anche uno spettacolo visivo è di un prossimo
domani. E non è da
escludere che fra uno spettacolo pubblico e quello entro le pareti
domestiche
il secondo possa essere goduto più del primo.
Restano le
grandi manifestazioni sportive ed artistiche di masse. Il loro effetto
emotivo
viene fortemente diminuito nelle trasmissioni meccaniche. Si deve
supporre che
per tali manifestazioni sarà sempre necessaria la folla che non
è solamente una
spettatrice passiva ma costituisce anche la fonte attiva di ispirazione
per gli
attori e per gli atleti. L’oratore, il musicista, l’attore, di fronte
all’obbiettivo, al microfono, all’occhio vitreo delle cellule
fotoelettriche,
non possiede quella forza di persuasione e di comunicazione che nasce
in lui
dinnanzi a mille occhi vivi. Basta pensare che nessuna delle opere
strettamente
teatrali può essere resa con efficacia in riproduzione
cinematografica nella
sua forma originale. Ai grandi spettacoli rappresentati da persone
vive, attori
in carne ed ossa, è necessaria la grande folla degli spettatori.
Per
raccogliere
il numero sufficiente degli spettatori queste manifestazioni hanno
già varcato
le mura cittadine. Non è più il quartiere, la
città o la provincia che fornisce
il pubblico delle grandi adunate. Oberammegau, Weimar, Verona ed altre
sedi
permanenti od occasionali delle manifestazioni artistiche o sportive
raccolgono
nelle loro arene, nei loro teatri gli spettatori di varie nazioni e
diversi
continenti. Al godimento dello spettacolo si unisce il piacere del
viaggio,
reso oggi facile, comodo, sicuro, indipendente da orari e da tracciati
prestabiliti. Le ulteriori facilitazioni e perfezionamenti negli
spostamenti
individuali renderanno possibile di organizzare le grandi
manifestazioni, senza
necessità di avere vicino un nucleo abitato, nei luoghi
più adatti per
condizioni climatiche, naturali e topografiche.
L’importanza
della disurbanizzazione non si limita, però, nella migliore
organizzazione
della vita quotidiana. Essa, come vedremo, può influire anche
sulla sorte dei
popoli nei casi di emergenza, nelle guerre, epidemie ecc.
ARTE E CITTÀ
(torna
all'indice)
L’arte nelle
sue
manifestazioni, come lettere, poesia, pittura, riflette l’ambiente
esteriore
della sua epoca inquantochè l’artista opera con le
immagini
delle cose materiali dando a loro vita spirituale indipendente nel
tempo e
nello spazio dalla vita dell’artista medesimo. Le cose materiali
restano però
sempre come sfondo, come materia grezza di cui si serve l’arte per le
sue
meravigliose trasfigurazioni.
È evidente che
l’opera, almeno nelle sue forme esteriori, resta influenzata
dall’ambiente nel
quale vive l’artista, portando l’impronta di quella materia prima che
gli servì
per modellare le sue immagini.
La nostra
civiltà meccanica ed il ritmo veloce della vita hanno impresso
profondamente il
proprio marchio sull’arte generando anche un penoso equivoco di
glorificazione
delle manifestazioni transitorie, oggi sorpassate, dell’urbanesimo e
della
ipertrofia industriale. Un esempio assai significativo in questo senso
ci dà il
movimento futurista nato nel primo decennio del nostro secolo.
Alcuni giovani
si sono commossi davanti alle rumorose officine, davanti ai rombi dei
motori, e
pieni di estasi per le incomprensibili evoluzioni delle trasmissioni e
degli
ingranaggi hanno proclamato la nova poesia delle macchine.
L’arte dell’avvenire, per
essi, si spirava alle manifestazioni più rumorose della tecnica,
manifestazioni
che venivano riflesse nella più caotica confusione, a dispetto
della intima
armonia della meccanica, loro ispiratrice, con frastuono della musica,
composizioni rombanti e prive di significato nella poesia, caos di
colori nella
pittura. Se questo atteggiamento era comprensibile nel periodo
d’infanzia del
macchinismo, esso si dimostra oggi falso e si risolve a danno del
progresso,
facendo nascere il timore di annientamento dell’Uomo da parte della
macchina.
Un futurista si commuoverà certamente meno in una moderna e
quasi silenziosa
centrale elettrica che feconda con la sua misteriosa energia
l’operosità di
regioni intere, che nella bottega di un fabbro di campagna dove trova
rumori,
faville, e tutto l’occorrente per una grande commozione marinettiana.
La produzione
nel campo dei valori spirituali costituisce un indice sensibilissimo
per la
valutazione della salute fisica e morale dei popoli. L’esempio del
futurismo da
noi riportato ci avverte delle condizioni false ed arteficiose della
vita attuale.
L’uomo richiede, oltre al soddisfacimento del suo istinto sociale,
anche la
possibilità di quiete e di isolamento per sfuggire
all’eccitamento continuo
provocato dalle condizioni dell’ambiente attuale, eccitamento che
esaurisce le
sue facoltà creative. Non si tratta di isolamento di rinuncia,
di isolamento di
anacoreta, ma di raccoglimento di un creatore. Chi vorrà negare
il significato
simbolico alla nascita de Tavole della Legge sul Monte Sinai o alla
apparizione
delle visioni dell’ Apocalisse nelle solitudini dell’isola di Pathmos?
ARCHITETTURA DELLE
CITTÀ
(torna
all'indice)
Negli studi
urbanistici, nei progetti dei piani regolatori delle città e dei
piani di
ampliamento delle loro zone periferiche, le ragioni
estetiche hanno sempre avuto una parte
importante, e si
è cercato di sistemare nel modo migliore gli esistenti monumenti
aventi valore
storico od artistico, o di creare nuovi gradevoli complessi
architettonici.
L’idea di
abbandonare le città attuali può, certamente, offendere
un male inteso senso
tradizionalistico. Si cerca giustamente di conservare i monumenti di
storia
millenaria, le tradizioni collegate con strade, quartieri, singoli
edifici,
costituenti un prezioso patrimonio artistico, di salvare dalla
distruzione
l’ambiente che custodisce la continuità della stirpe di fronte
alle sorti
mutevoli delle generazioni che si susseguono. L’obiezione, giusta in se
stessa,
cade di fronte alla realtà dei fatti. In pratica risulta
impossibile di
conservare immutabile l’aspetto di una città in via di sviluppo
e di adattamento
alle sempre variabili esigenze della vita. Non si può insistere
seriamente sul
valore tradizionale di un paesaggio urbano, se chiunque, facendo
costruire
edifici secondo propri gusti ed esigenze, può mutare i panorami
artistici di
una città. I piani regolatori non determinano che
planimetricamente il tracciato
delle strade. Le Commissioni municipali
destinate a
sorvegliare l’attività edilizia non hanno mai impedito i gravi
attentati contro
le bellezze architettoniche delle città. Le esigenze del
traffico, dell’igiene,
quelle economiche vengono spesso a soverchiare le aspirazioni dei
cultori delle
antichità e delle tradizioni.
Gli edifici
monumentali civili e religiosi che nella maggior parte sono nati nella
cornice
uniforme di case lisce, basse, monocrome, nell’ambientazione che
accentua la
maestosità dei monumenti, si sono trovati oggi soffocati e
rimpiccioliti entro
le masse dei palazzi mostruosi e pretenziosi di costruzione recente e
recentissima.
Allontanando la
vita esuberante dal nucleo monumentale delle città del Medio Evo
e del
Rinascimento, si viene a salvare e mettere in valore il patrimonio
artistico
nazionale. Per gli edifici monumentali non si potrà certamente
ricostruire lo
scenario di qualche secolo fa, ma se dall’ambiente anarchico, caotico,
deforme,
eterogeneo delle architetture attuali, riuscissimo a portarli entro le
zone
sistemate a parco e a prato, il loro valore artistico e la loro
monumentalità
ne sarebbero certamente avvantaggiate.
LA
GUERRA E
LE CITTA’.
(torna
all'indice)
In guerra come in
pace il valore delle città, nella vita nazionale, ha subito uno
spostamento
profondo. La loro funzione come punti fortificati, per la difesa contro
le
invasioni dei vicini e dei popoli nomadi, è finita con la fine
del Medio Evo.
Nei tempi moderni le città sono diventate degli obbiettivi delle
operazioni
belliche, senza quasi mai prenderne parte attiva. Le fortificazioni, in
un
primo tempo, furono portate fuori delle città ed in un secondo
tempo si sono
costituite delle linee continue fortificate lungo le frontiere, ove
questo per
ragioni topografiche e politiche fu ritenuto necessario, sempre
però fuori
dell’abitato.
Agli eserciti
belligeranti si sostituiscono oggi le nazioni armate. Con la estensione
delle
operazioni belliche a tutto il territorio degli Stati in guerra si
rende
inutile e pericolosa ai fini della guerra stessa l’esistenza dei grandi
agglomerati urbani, facilmente individuabili e vulnerabili dall’alto.
L’effetto
che può ottenere un attacco, un’operazione offensiva sulla
città è infinitamente
superiore a quello ottenuto coi mezzi medesimi, sulla medesima
popolazione
razionalmente distribuita ed organizzata
su una zona
più vasta. Le
manovre aeree eseguite dalle grandi potenze in questi ultimi anni
avrebbero
dimostrato secondo taluni che una città non può essere
efficacemente difesa
contro le incursioni aeree. La città può essere distrutta
prima che i difensori
entrino in contatto con gli invasori. Mentre nelle città si
rendono necessarie
le opere di mascheramento, costosissime e poco efficaci, nelle campagne
tali
opere sono superflue inquantochè sono sostituite dalla
vegetazione e da
accorgimenti costruttivi e di colorazione. I grandi impianti
ferroviari,
origine e conseguenza nello stesso tempo delle nostre città del
secolo
ferroviario, sono destinati ad essere sostituite per la maggior parte
dalla
rete delle strade ordinarie prive di stazioni ed altri punti
vulnerabili.
Anche
gli
aeroporti muteranno radicalmente il loro aspetto non appena i velivoli
saranno
resi meno ingombranti e potranno decollare e atterrare senza dover
percorrere
centinaia di metri sul campo. Un’area limitata davanti
alle rimesse private od alle stazioni
pubbliche sarà sufficiente per il movimento dei velivoli. Per
non essere
facilmente individuabile dall’alto il piazzale degli aeroporti maggiori
può
venire opportunamente frazionato da piantagioni, fabbricati etc.
Agli effetti
della guerra chimica le città attuali presentano inconvenienti
ancora maggiori.
Le vie poco ventilate delle città costituiscono ottimi canali di
espansione dei
gas tossici pesanti. Nelle grandi città la situazione si aggrava
per mancanza
di visibilità e per la difficoltà di orientamento. Dal
fondo delle vie e dalle
finestre dei piani inferiori si osserva una porzione minima del cielo,
ciò che
dà in generale al pericolo il carattere dell’improvviso.
Le istituzioni
segrete del Ministero della Guerra germanico pubblicate alla fine del
giugno
1934 sulla rivista Nineteenth Century and After confermano
pienamente
queste preoccupazioni. Le istruzioni citate, dirette ad una
Società, incaricata
di controllare con una serie di esperienze la diffusione artificiale
dei
microrganismi patogeni nei diversi quartieri di Parigi partono dalla
supposizione che le opere difensive francesi rendono impossibile la
rottura
della linea di frontiera da parte dell’esercito invasore. Come mezzo di
offesa
per la Germania resta la guerra aerea, “specialmente contro la
popolazione
borghese delle grandi città”.
Questa
pubblicazione, come anche tanti altri elementi che si hanno oggi sul
carattere
di un’eventuale guerra dell’avvenire, confermano assai esplicitamente
il
pericolo grave al quale si espongono gli agglomerati urbani in questo
caso. Ciò
si riferisce naturalmente tanto alla guerra microbica, quanto a quella
chimica
ed alle altre operazioni belliche dirette contro le popolazioni civili.
Nelle
campagne aperte, con case disseminate in mezzo al verde una vasta
visibilità
permette di orientarsi facilmente. La rete fina delle strade ed i mezzi
individuali
di locomozione agevolano rapidi spostamenti per sottrarsi al pericolo.
A parte
qualsiasi considerazione di ordine politico internazionale, una guerra
è sempre
considerata possibile agli effetti dell’attrezzatura di tutte le
nazioni che
affrontano in vista di questa eventualità sacrifici non
indifferenti. La
disurbanizzazione in questo caso non va considerata come un sacrificio
inquantochè essa risulta perfettamente aderente a tutte le altre
manifestazioni
della vita.
Sotto questo
aspetto l’affermazione del Cancelliere Bismark che “le grandi
città dovranno
sparire dalla faccia della terra”, l’affermazione che a suo tempo
sembrò priva
di qualsiasi significato pratico, acquista un nuovo ed inaspettato
fondamento.
XII IL
DECENTRAMENTO
(torna
all'indice)
L’abbandono
delle città attuali si rende facile grazie al rapido progresso
industriale e
tecnico dei nostri giorni. Infatti, sotto l’azione della concorrenza
che impone
il massimo sfruttamento degli impianti industriali, questi invecchiano
assai
rapidamente. L’introduzione tempestiva di tutte le modifiche e
perfezionamenti
suggeriti dalla scienza e dalla pratica richiede spesso costosi
rifacimenti che
equivalgono alla ricostruzione degli impianti altrove. Lo stesso dicesi
per gli
impianti di servizi pubblici. Così, la modifica graduale ed
organica di tutta
la attrezzatura della nostra vita non comporterà quasi nessun
altro impiego di
mezzi economici oltre a quelli ordinariamente investiti per il
rinnovamento
delle industrie private e dei servizi pubblici.
Per
quello che
riguarda l’edilizia delle abitazioni, questa ha oggi il vizio della
monumentalità: siamo costretti a vivere nelle case costose e
scomode, costruite
per l’eternità, mentre la tecnica offre continuamente dei nuovi
ritrovati per
la maggior comodità e l’igiene dell’abitazione. Se la
convenienza di modificare
un impianto industriale o di abbandonare un autoveicolo antiquato per
quello
moderno, è evidente per tutti; la modernità, la
comodità della casa e le
possibilità economiche delle abitazioni costruite in serie non
hanno avuto
ancora la loro giusta valutazione.
È da ritenersi però che la soluzione del problema degli
alloggi non potrà
venire che per questa via.
Qualsiasi
tentativo da parte nostra di immaginare le forme concrete delle
abitazioni
dell’avvenire potrebbe essere considerato come arbitrario. Vi saranno
quelli
che preferiranno i grandi fabbricati a più piani, gli altri, le
ville isolate,
ma tanto le ville, quanto i grattacieli, saranno sempre fortemente
distanziati,
con intercalate le zone agricole e quelle a giardino.
Anche sulla
sistemazione planimetrica degli abitati non si possono fare che
induzioni
vaghe. Qualche studioso del problema, come l’americano Frank Lloyd
Wright crede
che le città dovranno rimanere come centri degli uffici presso
le fabbriche
solo per la permanenza diurna delle persone. Egli scrive: “qualunque
cosa
diventi la città, non rappresenterà più che un
servitore della macchina, simile
alla macchina stessa, dopo che l’uomo sia fuggito da essa ed abbia
trovato
altrove tutto quello che la città gli dava ed abbia ottenuto
inoltre
l’isolamento individuale che la città non gli ha mai dato e gli
vuole far
credere che egli non lo abbisogna”.
Ci siamo
limitati, senza entrare nel campo delle utopie, ad evocare gli agenti
principali che concorrono oggi a determinare le manifestazioni
esteriori della
vita di domani. La macchina è un elemento preponderante fra
questi agenti.
Il progresso
tecnico fino ad oggi ha portato alla centralizzazione dando il maggior
impulso
per lo sviluppo delle grandi città. I sintomi di carattere
obbiettivo ci avvertono
che il fenomeno di concentramento ha raggiunto il suo massimo ed
è entrato
nella fase di una morbosa ipertrofia, determinando una pericolosa
instabilità
nel sistema attuale politico-economico. Lo stesso progresso tecnico
porta con
sé il rimedio del male da esso creato, dando la
possibilità di un largo
decentramento.
Così, se il
secolo trascorso fu il secolo di grande accentramento materiale e di
decentramento, se non anarchia, morale, il secolo nostro ci porta un
decentramento materiale ed una fortissima e totalitaria organizzazione
statale.
La
tecnica moderna permette agli uomini di vivere uniti,
di soddisfare il loro istinto sociale, non a migliaia ed a milioni
entro le
mura delle città, ma a decine e centinaia di milioni entro i
confini della patria.
In questo nuovo assetto l’umanità potrà finalmente
riposare distendendo i
propri centri nervosi localizzati nei nuclei urbani. Il turbinoso
movimento, se
non anarchia morale, il secolo nostro di vita delle metropoli non ha
nulla a
che vedere col progresso, coll’operosità feconda di lavoro e di
pensiero che è
soprafatta oggi da una finta operosità, da quel grande equivoco,
da quel
superstite morboso del secolo passato che è la civiltà
meccanica delle grandi
capitali. Le energie enormi accumulate nelle grandi città sono
destinate
inevitabilmente a scaricarsi ed è la saggezza della nostra
generazione che
deciderà se questa scarica dovrà essere graduale e
fecondatrice o se si
risolverà in una folgore che tutto capovolge e distrugge.
.