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frederic j. osborn: "la città conquistatrice" ("the conqueror city", Town & Country Planning, aprile 1961)
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Premessa

Frederic James Osborn, "allievo" e collaboratore della prima ora di Ebenezer Howard, attraversa con vari ruoli e responsabilità tutta la vicenda del  movimento per le città giardino, il decentramento e successivamente le new towns britanniche del secondo dopoguerra.
Pur lievemente più giovane di altri planners delle origini (nato nel 1885) è autodidatta per formazione, così come lo erano stati in vario modo lo stesso Howard, o Thomas Adams, o Charles Benjamin Purdom.
osbornAttivista, amministratore/manager di città giardino, poi tecnico, studioso, divulgatore, animatore sociale, Osborn è piuttosto lontano dalla figura del "tecnico", per quanto variegata essa possa presentarsi nell'ambito delle scienze del territorio.
Nello stesso tempo, il punto di vista che propone in questa conferenza, tenuta alla convenzione della American Society of Planning Officials (Miami, 1960) è di straordinario livello, anche scientifico, ben oltre la consumata abilità da propagandista e il linguaggio piano e scorrevole.
La "città" che Osborn ci propone, lontana mille miglia sia dalla metropoli malata del XIX secolo, che dalle utopie tecnologico-verticaleggianti in voga all'epoca di questo testo, è una visione e una riflessione. Visione di quanto immaginato insieme a Howard e ai primi compagni di strada, e in parte anche realizzato, pur se in forme e modi assai diversi. Riflessione (solo apparentemente con un fondo di pessimismo) su quanto è cambiato e quanto potrebbe ancora cambiare, nella società che questa "città conquistatrice" non può e non deve normalizzare o appiattire.


***

INDICE: la perdita principale - I tipi super-urbani - la Metropoli esplosa - diradare la junglail ruolo del Governo - la Gran Bretagna in movimento, ma lento

Sono nato in una città di parecchi milioni di abitanti, e solo giunto quasi alla mezza età ho iniziato a capire cosa era successo, a me e ai miei milioni di compagni. I miei occhi, le mie orecchie e gli altri sensi si sviluppavano solo in parte; imparavo i trucchi della parola dai genitori e da altri; c’era spazio a sufficienza per imparare a camminare, anche se non per movimenti elaborati e atletici; e cibo abbastanza perché il mio corpo crescesse, anche se non avevo nessun indizio su come fosse prodotto o entrasse dentro il negozio o la scatoletta. Fino a quando non ho superato la trentina, non sono riuscito a riconoscere una foglia di patata, e non afferravo il fatto che il latte fosse stato inventato dalla natura per i vitellini, e non specificamente per me.
Mi insegnavano a leggere, scrivere, far di conto; e queste qualità davvero meravigliose potenzialmente mi aprivano porte sull’intero universo. Ma in qualche modo la scelta che facevo tra quelle porte non mi dava niente di paragonabile a una presa equilibrata sulle realtà del mondo, o sul posto dell’uomo in esso. La mia condizione, di bambino di città mi metteva i paraocchi, al punto che ero inconsapevole anche di averli.
E non prendetela come semplice autobiografia! Questa è scienza sociale sulla base di un campione. Io sono il prodotto della nazione più urbanizzata, dove meno del 5 per cento della popolazione ora vive di agricoltura, e il 90 per cento risiede nelle città, o nelle loro frange non-rurali. Visto che anche gli USA e il mondo intero sembrano andare in quella direzione, propongo i miei limiti non come una particolarità personale, ma come un presagio. Posso essere scampato per metà ai paraocchi della città, ma in centinaia di milioni non ce l’hanno fatta, e nuovi milioni vengono bardati così anno dopo anno. Quelli fra noi che mirano ad applicare riflessione e progetto all’habitat dell’uomo devono riconoscere che noi pensiamo e facciamo piani sotto un serio handicap. I nostri milioni di clienti sono privi di una chiara visione prospettica della loro situazione; e anche se noi “pianificatori”, con la nostra particolare formazione, le mappe, le analisi, le statistiche, abbiamo uno sguardo più ampio, noi stessi, come loro servitori e come uomini pratici che non riescono a vivere dentro a torri d’avorio, inevitabilmente tendiamo ad accettare le loro visioni da paraocchi (qualcuno di noi, temo, con allegro compiacimento).
Ora, è vero che accettando come gesto degli dei o legge evolutiva la tendenza corrente al metropolitanismo possiamo sopravvivere professionalmente, e che, togliendo dal conto la bomba H, possono sopravvivere anche i nostri milioni di clienti urbani. L’uomo è, fra tutte le specie, la più adattabile agli habitat più vari, anche a quelli sfavorevoli. È, con l’aiuto della sua superba scienza, quasi onnivoro: può mangiare quasi ogni animale, incluso sé stesso, trasformare in cibo da colazione qualunque cosa, dal plankton al legno, e con i vestiti e l’aria condizionata tollerare qualunque clima, da quello equatoriale a quello artico – compresa Miami – e vivere in qualsiasi alloggio, da un buco sottoterra a un appartamento un miglio in alto nel cielo.
Ma l’uomo non è necessariamente al suo meglio o più felice in ogni specie di habitat dove riesce a sopravvivere. Ho accennato brevemente alla disabilità filosofica che lo coglie quando è chiuso lontano dalla natura viva, dentro una vasta città. Ma ci sono altri danni più facilmente comprensibili: quartieri malsani, stanze sovraffollate, mancanza di spazi da gioco, isolamento dalla comunità, perdita di tempo libero e guadagni nel pendolarismo quotidiano, e così via.

La perdita principale (torna all'indice)
Tutti questi danni al benessere, sono ovviamente accentuati, nonostante i nostri sforzi correttivi, dalla crescita della popolazione urbana oltre un punto da tempo superato nelle grandi aree metropolitane. A parole qualunque urbanista li deplora, tutti. Pure, nelle discussione correnti sui problemi urbani, non credo si ponga sufficiente attenzione alla più fondamentale delle perdite umane. Noi, e i nostri milioni di clienti, stiamo diventando così ossessionati dal quadro delle difficoltà immediate causate dalla moltiplicazione delle automobili che trascuriamo o ridimensioniamo la secolare riduzione della piacevolezza di vita umana associata alla semplice dimensione delle città. Sicuramente il più disastroso di questi aspetti non è la mancanza di spazio sufficiente dentro le città per buoni alloggi familiari, con cortili privati o giardini, per il tempo libero, per l’efficienza industriale, per un ambiente circostante ricco di vegetazione e la quieta e semplice bellezza di cui l’uomo ha bisogno, e desidera, per la pienezza della sua vita?
La relativa inconsapevolezza di questo aspetto del problema urbano in tutti le nazioni, compresa la mia, mi sorprende, perché la più vistosa causa della “esplosione metropolitana” è la richiesta spontanea, da parte di un numero crescente di famiglie urbane, man mano il reddito aumenta, di una casa con proprio giardino. Il movimento verso l’esterno dei ceti agiati non è niente di nuovo; quello che è nuovo è la diffusione del benessere a molte più numerose classi di persone, che possono permettersi quello che il marito di Susanna le dava ai tempi di Babilonia, e i grandi senatori si prendevano per sé nella Roma antica: una casa suburbana in mezzo a un giardino. Ho appena visto magnifici esempi della stessa abitudine dei ceti agiati nei paesi del Centro America, dove la grande maggioranza della popolazione è ancora disperatamente povera. Mi sono seduto fra alberi e fiori, attorno a piscine private nei sobborghi di Kingston (Giamaica), Tegucigalpa (Honduras), Managua (Nicaragua), Guatemala City, Città del Messico, Atlanta, Los Angeles, Philadelphia, Chicago, e molte città europee; e so delle dace suburbane di Mosca e Leningrado. Questi ambienti riflettono un desiderio universale e naturale, a cui l’uomo indulge ovunque e comunque, quando diviene prospero e libero.

I tipi super-urbani (torna all'indice)
Va detto, che ci sono alcuni veri drogati della cultura altamente urbana, che subiscono poco il fascino dello spazio e dei dintorni verdi- tipi a cui piace vivere nei centri città con il ricco assemblaggio di teatri, sale da concerto, gallerie d’arte, ristoranti, locali notturni, snack bar, chioschi di hamburghers – e si sentono rassicurati dal trambusto delle folle, dai rumori del traffico, dal lampeggiare delle insegne, dall’insistente impatto sui loro sensi della vitalità commerciale. Non deploro certo l’esistenza di questi tipi, anche se sospetto che il loro contributo alla nostra cultura sia sopravvalutato. Ma essi sono una minoranza – specialmente se togliete i molto agiati possessori di due case che hanno un appartamento in centro per parte dell’anno e un ritiro campestre per l’altra parte. Sono stato interessato dalla speranza del Dottor Richard Meier, che si possa risolvere il problema della popolazione alloggiando più persone in appartamenti e allargando così la percentuale di “neutri urbani” (R. Meier, “Adjustment of Planning to the Sixties”, Planning 1960, ASPO). Ma non penso che funzionerebbe. Se anche scartiamo il tipo non-familiare, ci rimane una crescente percentuale di “filogenerativi”. Sono piuttosto sicuro che il controllo delle nascite nelle scorse generazioni abbia già avuto il suo effetto.
Sono convinto che sia un terribile sbaglio, nelle nostre politiche di rinnovo urbano, il tentar di copiare su scala minore per un grande numero di lavoratori urbani l’ambiente compatto e sviluppato in altezza che aggrada ai tipi super-urbani. In Inghilterra, stiamo progressivamente facendo proprio questo, insieme a cose più intelligenti, usando enormi sussidi governativi per le abitazioni. Siamo fuorviati dalla provvisoria disponibilità dei non privilegiati ad accettare alloggi sviluppati in altezza ad affitti agevolati, come via di fuga da squallidi slums o situazioni di convivenza bi-familiari. Con l’allargarsi della distribuzione e l’aumento del reddito netto, queste persone vorranno raggiungere il gregge cercando le loro case, dentro o oltre le nostre preziose cinture verdi. Alla lunga, potranno essere tenuti dentro questi posti compressi solo con una generale frustrazione di tutti i comuni desideri umani, il che non si può praticare a lungo in una società fondamentalmente democratica.

La Metropoli esplosa (torna all'indice)
A questo punto, devo sembrare ovvio in modo infantile, a questo circolo di esperti, se dico che il fenomeno della metropoli esplosa si deve alla coincidenza di due cose: 1) l’incremento e ampia distribuzione del reddito netto a cui ho fatto riferimento, che permette a più famiglie di permettersi le buone case che desiderano, e le automobili per andarci; e 2) la crescente concentrazione delle attività economiche, che occupano sempre più persone, dentro le città. Che me debba risultare una costrizione di spazio, e uno strangolamento del traffico, è evidente. Che i benefici degli avanzamenti industriali e commerciali, e dell’integrazione economica, ne siano quindi largamente cancellati, mi sembra ugualmente evidente. La pianificazione altamente raffinata che si pratica all’interno delle fabbriche e degli uffici, e incrementa la produttività, è ostacolata dal caos oltre i cancelli della fabbrica e la porta dell’ufficio. Guadagniamo stipendi e salari più alti, e buttiamo via i soldi extra in costi extra di trasporto. Accorciamo le ore di lavoro, con qualche perdita marginale di produzione, e dissipiamo le ore risparmiate in più lunghi spostamenti per lavoro. Quello che mi stupisce è che tanti osservatori, inclusi brillanti organizzatori di industrie e affari, non riescano a vedere, o decisamente eludano, il semplice e ovvio correttivo: una quota di deconcentrazione delle attività economiche urbane e una decisa limitazione della crescita delle città, troppo grandi o già abbastanza grandi.
Questa limitazione o deconcentrazione, per non portare solo ad un genere diverso di caos, richiedono governo sociale o pubblico su scala geograficamente vasta, e sono difficili. Ma sono sicuro che gli stati moderno ne sono capaci e le attuerebbero, sia quelli democratici che autoritari, se non fosse per una strana cieca fede nel fatto che la crescita delle città sia dettata da leggi economiche a cui sarebbe peccaminoso o pericoloso mettersi contro. Le città non avrebbero mai potuto crescere sino a questo punto senza una gran quantità di aiuto governativo e risorse, che sono stati dati a causa di una moda di lungo periodo nell’opinione più autorevole, alla radice della quale c’è ovunque l’osservazione che la crescita urbana sta avvenendo dappertutto, e che dunque, anche se non è vantaggioso (e quale idiota potrebbe pensarlo, ora?), deve essere in qualche modo inevitabile. (possiamo forse considerare, qui, in via di estinzione la vanteria competitiva delle città, di essere la più grande, o quella che cresce più in fretta, che nel 1947 paragonai a signore che si vantano di avere il più grosso giro-vita del circolo).

Diradare la Giungla (torna all'indice)
Si: il controllo della crescita urbana sarà difficile. Ma non più difficile di molti altri progetti sociali che sono stati intrapresi. In Centro America questa primavera ho visto Americani aiutare persone meno fortunate a diradare giungle primordiali e piantare granturco: facendo partire quasi dal nulla le radici della civilizzazione, non scoraggiati dall’essere piccoli gruppi in vaste aree di povertà e analfabetismo. (Nonostante si tratti di un argomento secondario al mio soggetto, non posso trattenere una parola di entusiasmo per questo lavoro: Il mondo in generale non comprende cosa questi dedicati tecnici Americani stanno facendo. Dubito che l’America lo comprenda. Hanno bisogno di un nuovo genio letterario per scrivere di loro, come Rudyard Kippling scrisse dei costruttori di ponti o degli altri civilizzatori del periodo coloniale britannico – ora oscurati da una nube come egoisti e imperialisti. Ho chiesto loro se avevano preso in considerazione la probabilità che una volta ben terminato il loro lavoro, avrebbero ricevuto un bel calcio nel sedere e gli sarebbe stato detto di andarsene. Fieramente mi hanno risposto: “Puoi scommetterci, che ci abbiamo pensato”. Potete leggere nei rapporti ufficiali dei pochi milioni di dollari destinati a “fondi di rotazione” per le abitazioni autocostruite, sviluppo agricolo, costruzione di strade, in cui questi uomini sono impegnati; ma dovete andare in giro con loro personalmente per cogliere in pieno l’ispirazione del loro magnifico lavoro.)
C’è stato un tempo in cui ho avuto la sensazione che per gli urbanisti il sogno di fermare la crescita delle città era senza speranza, come per un ragazzo sperare di fermare un treno con un lazo. Ma l’interesse sociale ed economico che guadagnerebbe da questa limitazione, è più grande di quelli che le resistono, se solo potesse essere informato e mobilitato. E questo, secondo la mia opinione, è un lavoro urgente e necessario per gli urbanisti.

Il ruolo del Governo (torna all'indice)
La chiave per il controllo delle dimensioni urbane e della concentrazione è naturalmente una intelligente (pianificata) guida alla localizzazione degli impianti industriali e di altri stabilimenti in cui le persone lavorano. Se nuovi stabilimenti potessero essere localizzati in città di dimensione modesta, e se l’espansione o l’insediamento di luoghi di lavoro in città sovraconcentrate potesse essere reso condizionale, in base ad accertata assoluta necessità, la sovracrescita sarebbe sotto controllo. Sarebbe allora aperta la strada per l’allentamento della pressione interna nei processi di rinnovo urbano.
La discussione sulla pianificazione del suolo si indebolisce se la affrontiamo con fiducia dogmatica nel solo intervento delle agenzie pubbliche o private. Ci deve essere qualche tipo di studio organizzato a scala territoriale vasta, e ci deve essere qualche tipo di restrizione locale sui tipi di edificazione – e adeguatamente, in effetti necessariamente, queste devono essere di tipo pubblico. La promozione di nuova, buona edificazione può essere si privata che pubblica; probabilmente, nella maggior parte dei paesi si richiede una miscela tra le due. Il signor Humphrey Carver ha citato che in Canada, una nazione a libero mercato, non si ha paura di usare lo strumento pubblico, ovunque sia conveniente. Lo stesso si fa in Gran Bretagna, Gli Americani hanno più paura? Noi usiamo sia la mano destra che la sinistra per nutrirci, laddove gli Americani sembrano così timorosi di suscitare qualche sospetto di “Sinistrismo”, da trasferire la forchetta alla mano destra per ogni boccone: uno splendido esempio di buone maniere, ma è necessario portare questa idea fino alla filosofia politica?
In Gran Bretagna la pubblica opinione, il governo, la libera impresa, hanno in considerevole parte accettato una politica di limitazione della grande città e qualche allentamento della pressione esistente disperdendo persone e posti di lavoro verso città più piccole e distanti. La conservazione attorno alle città di cinture verdi (larghe strisce di terra agricola) è pure accettata, ed p molto popolare sia tra i cittadini che tra la gente di campagna. Le quindici nuove città realizzate secondo la Legge del 1946 sono ora organismi funzionanti dove quasi 500.000 persone vivono e lavorano. Sono costate alla nazione molto meno dell’alternativa di rialloggiare in strutture sviluppate in altezza, e socialmente sono molto più soddisfacenti.
È vero, non sono riccamente fornite delle piacevolezze culturali accumulate durante i secoli nelle città più vecchie. Non tutte queste cose sono necessarie per la vita quotidiana; una visita occasionale per uno scopo speciale è meglio del pendolarismo quotidiano. E di fatto la maggior parte delle cose una volta esclusiva delle città ora le troviamo quasi ovunque attraverso la radio, la TV, i libri e i giornali, il telefono, le merci confezionate, la distribuzione dei grandi magazzini. Sembra quasi che in futuro, qualunque varietà e originalità della cultura locale sia destinata a venire in larga parte da attività amatoriali e fai-da-te. Il contrasto fra l’abitante metropolitano dalla mente vivace e il tardo paesano è sparito. L’equilibrio potrebbe assestarsi dall’altra parte. Molte persone nelle nuove città stanno sperimentando le gioie e responsabilità del vivere sociale per la prima volta. Non voglio rivendicare una superiorità dell’abitante di New Town. Supponete che rimanga uguale al cittadino “centrale”. Almeno ha una buona casa familiare, un giardino (se lo vuole), negozi, scuole, chiese, e servizi urbani di base, e il lavoro nel raggio di pochi minuti a piedi o in macchina. E l’aperta campagna a una distanza non troppo grande.

La Gran Bretagna in movimento. Ma lento
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Sono Londinese di nascita, anche se me ne sono andato. Quando ero ragazzo, ci insegnavano ad essere fieri di vivere nella più grande città del mondo. Se fossi ancora un Londinese, potrei ora vantarmi di qualcosa di più notevole e onorevole. Londra è la prima città al mondo a decidere di ridurre deliberatamente la sua popolazione e a adottare una politica di dispersione pianificata verso nuove città e cittadine rurali esistenti oltre la sua cintura verde.
La Gran Bretagna non ha ancora costruito abbastanza nuove città, né idee di espansione per piccoli centri, a sufficienza per pareggiare i suoi problemi metropolitani. La pubblica opinione si evolve lentamente, a causa dei paraocchi urbani che ho descritto, e i governi sono timorosi di compiere i passi verso la realizzazione di nuove città. È interessante che, dove la consapevolezza pubblica è bene informata e forte – come nel caso di regioni con percentuali di disoccupazione sopra la media – il governo promuova una localizzazione correttiva delle industrie; e sempre nello stesso campo, applichi restrizioni alla loro localizzazione dentro Londra e altre città sovraconcentrate.
Ma non posso dire che in Gran Bretagna il problema metropolitano sia stato risolto. Abbiamo ancora influenti ingegneri che amano costruire, a spese dello stato, autostrade veloci, sovrappassi e tunnels dentro la grande città per convogliare più attività e persone dentro ad essa. Con o senza l’incoraggiamento del signor Donald Stone (Donald C. Stone, “Adjustment of Planning to the Sixties” cit.), le grandi città sono abbastanza potenti politicamente da prendersi enormi fette del bilancio statale o federale per il rinnovo urbano, le abitazioni, le strade e altri costosi lavori resi necessari dal loro ridicolo schema di espansione. Abbiamo ancora architetti fantasiosi che amano razionalizzare e rendere sofisticata la congestione, con lame e torri più alte. E abbiamo ancora consiglieri municipali che sono più interessati al gettito fiscale al benessere umano. Gli urbanisti della mia scuola di pensiero lottano contro l’uso perverso di espedienti validi. Non sono contro i comprensivi sussidi alle grandi città, se questi sussidi sono usati per renderle migliori anziché peggiori. Strade migliori attraverso le città sono necessarie anche per servire una popolazione ridotta. Gli effetti architettonici delle altezze sarebbero grandiosi se fossero spaziate in modo da non perpetuare o incrementare densità eccessive. Le concessioni statali o federali alle città dovrebbero essere condizionate alla correzione dei loro metodi e ad una pianificazione intelligente.
Ma nonostante il piccolo incoraggiamento dai recenti sforzi britannici, e il tentativo di credere che saranno perseguiti in modo più logico, devo ammettere che nei miei vagabondaggi per il mondo vedo pochi segni indicanti che qualcuno ha davvero afferrato gli elementi fondamentali del problema urbano, o metropolitano. Sono incapace di pessimismo, perché rispetto l’intelligenza delle persone, quando non hanno il paraocchi, e credo nel contagio, per lento che sia, delle idee di buon senso.
Nondimeno, se dovessi accettare per quelli che sono ora i fatti metropolitani e l’atteggiamento della maggior parte degli esperti e dei governi verso questi fatti, dovrei parafrasare Edgar Allan Poe con il grido:
The play is the tragedy, “Man”,
And its hero the Conqueror City.

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[traduzione di Fabrizio Bottini]


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