INDICE: la
perdita principale - I tipi
super-urbani - la Metropoli
esplosa - diradare la jungla
- il ruolo del Governo - la Gran Bretagna in
movimento, ma lento
Sono
nato in una città di
parecchi milioni di abitanti, e solo giunto quasi alla mezza età
ho iniziato a
capire cosa era successo, a me e ai miei milioni di compagni. I miei
occhi, le
mie orecchie e gli altri sensi si sviluppavano solo in parte; imparavo
i
trucchi della parola dai genitori e da altri; c’era spazio a
sufficienza per
imparare a camminare, anche se non per movimenti elaborati e atletici;
e cibo
abbastanza perché il mio corpo crescesse, anche se non avevo
nessun indizio su
come fosse prodotto o entrasse dentro il negozio o la scatoletta. Fino
a quando
non ho superato la trentina, non sono riuscito a riconoscere una foglia
di
patata, e non afferravo il fatto che il latte fosse stato inventato
dalla
natura per i vitellini, e non specificamente per me.
Mi insegnavano a leggere, scrivere, far di conto; e queste
qualità davvero
meravigliose potenzialmente mi aprivano porte sull’intero universo. Ma
in
qualche modo la scelta che facevo tra quelle porte non mi dava niente
di
paragonabile a una presa equilibrata sulle realtà del mondo, o
sul posto
dell’uomo in esso. La mia condizione, di bambino di città mi
metteva i
paraocchi, al punto che ero inconsapevole anche di averli.
E non prendetela come semplice autobiografia! Questa è scienza
sociale sulla
base di un campione. Io sono il prodotto della nazione più
urbanizzata, dove
meno del 5 per cento della popolazione ora vive di agricoltura, e il 90
per
cento risiede nelle città, o nelle loro frange non-rurali. Visto
che anche gli
USA e il mondo intero sembrano andare in quella direzione, propongo i
miei
limiti non come una particolarità personale, ma come un
presagio. Posso essere
scampato per metà ai paraocchi della città, ma in
centinaia di milioni non ce
l’hanno fatta, e nuovi milioni vengono bardati così anno dopo
anno. Quelli fra
noi che mirano ad applicare riflessione e progetto all’habitat
dell’uomo devono
riconoscere che noi pensiamo e facciamo piani sotto un serio handicap.
I nostri
milioni di clienti sono privi di una chiara visione prospettica della
loro
situazione; e anche se noi “pianificatori”, con la nostra particolare
formazione, le mappe, le analisi, le statistiche, abbiamo uno sguardo
più
ampio, noi stessi, come loro servitori e come uomini pratici che non
riescono a
vivere dentro a torri d’avorio, inevitabilmente tendiamo ad accettare
le loro
visioni da paraocchi (qualcuno di noi, temo, con allegro compiacimento).
Ora, è vero che accettando come gesto degli dei o legge
evolutiva la tendenza
corrente al metropolitanismo possiamo sopravvivere professionalmente, e
che,
togliendo dal conto la bomba H, possono sopravvivere anche i nostri
milioni di
clienti urbani. L’uomo è, fra tutte le specie, la più
adattabile agli habitat
più vari, anche a quelli sfavorevoli. È, con l’aiuto
della sua superba scienza,
quasi onnivoro: può mangiare quasi ogni animale, incluso
sé stesso, trasformare
in cibo da colazione qualunque cosa, dal plankton al legno, e con i
vestiti e
l’aria condizionata tollerare qualunque clima, da quello equatoriale a
quello
artico – compresa Miami – e vivere in qualsiasi alloggio, da un buco
sottoterra
a un appartamento un miglio in alto nel cielo.
Ma l’uomo non è necessariamente al suo meglio o più
felice in ogni specie di
habitat dove riesce a sopravvivere. Ho accennato brevemente alla
disabilità
filosofica che lo coglie quando è chiuso lontano dalla natura
viva, dentro una
vasta città. Ma ci sono altri danni più facilmente
comprensibili: quartieri
malsani, stanze sovraffollate, mancanza di spazi da gioco, isolamento
dalla
comunità, perdita di tempo libero e guadagni nel pendolarismo
quotidiano, e
così via.
La
perdita principale (torna all'indice)
Tutti questi danni al benessere, sono ovviamente accentuati, nonostante
i
nostri sforzi correttivi, dalla crescita della popolazione urbana oltre
un
punto da tempo superato nelle grandi aree metropolitane. A parole
qualunque
urbanista li deplora, tutti. Pure, nelle discussione correnti sui
problemi
urbani, non credo si ponga sufficiente attenzione alla più
fondamentale delle
perdite umane. Noi, e i nostri milioni di clienti, stiamo diventando
così
ossessionati dal quadro delle difficoltà immediate causate dalla
moltiplicazione delle automobili che trascuriamo o ridimensioniamo la
secolare
riduzione della piacevolezza di vita umana associata alla semplice
dimensione
delle città. Sicuramente il più disastroso di questi
aspetti non è la mancanza
di spazio sufficiente dentro le città per buoni alloggi
familiari, con cortili
privati o giardini, per il tempo libero, per l’efficienza industriale,
per un
ambiente circostante ricco di vegetazione e la quieta e semplice
bellezza di
cui l’uomo ha bisogno, e desidera, per la pienezza della sua vita?
La relativa inconsapevolezza di questo aspetto del problema urbano in
tutti le
nazioni, compresa la mia, mi sorprende, perché la più
vistosa causa della
“esplosione metropolitana” è la richiesta spontanea, da parte di
un numero
crescente di famiglie urbane, man mano il reddito aumenta, di una casa
con
proprio giardino. Il movimento verso l’esterno dei ceti agiati non
è niente di nuovo;
quello che è nuovo è la diffusione del benessere a molte
più numerose classi di
persone, che possono permettersi quello che il marito di Susanna le
dava ai
tempi di Babilonia, e i grandi senatori si prendevano per sé
nella Roma antica:
una casa suburbana in mezzo a un giardino. Ho appena visto magnifici
esempi
della stessa abitudine dei ceti agiati nei paesi del Centro America,
dove la
grande maggioranza della popolazione è ancora disperatamente
povera. Mi sono
seduto fra alberi e fiori, attorno a piscine private nei sobborghi di
Kingston
(Giamaica), Tegucigalpa (Honduras), Managua (Nicaragua), Guatemala
City, Città
del Messico, Atlanta, Los Angeles, Philadelphia, Chicago, e molte
città
europee; e so delle dace suburbane di Mosca e Leningrado. Questi
ambienti
riflettono un desiderio universale e naturale, a cui l’uomo indulge
ovunque e
comunque, quando diviene prospero e libero.
I tipi
super-urbani (torna
all'indice)
Va detto, che ci
sono alcuni veri drogati della cultura altamente urbana, che
subiscono poco il fascino dello spazio e dei dintorni verdi- tipi a cui
piace
vivere nei centri città con il ricco assemblaggio di teatri,
sale da concerto,
gallerie d’arte, ristoranti, locali notturni, snack bar, chioschi di
hamburghers – e si sentono rassicurati dal trambusto delle folle, dai
rumori
del traffico, dal lampeggiare delle insegne, dall’insistente impatto
sui loro
sensi della vitalità commerciale. Non deploro certo l’esistenza
di questi tipi,
anche se sospetto che il loro contributo alla nostra cultura sia
sopravvalutato.
Ma essi sono una minoranza – specialmente se togliete i molto agiati
possessori
di due case che hanno un appartamento in centro per parte dell’anno e
un ritiro
campestre per l’altra parte. Sono stato interessato dalla speranza del
Dottor
Richard Meier, che si possa risolvere il problema della popolazione
alloggiando
più persone in appartamenti e allargando così la
percentuale di “neutri urbani”
(R. Meier, “Adjustment of Planning to the Sixties”, Planning 1960,
ASPO). Ma non penso che funzionerebbe. Se anche scartiamo il tipo
non-familiare, ci rimane una crescente percentuale di “filogenerativi”.
Sono
piuttosto sicuro che il controllo delle nascite nelle scorse
generazioni abbia
già avuto il suo effetto.
Sono convinto che sia un terribile sbaglio, nelle nostre politiche di
rinnovo
urbano, il tentar di copiare su scala minore per un grande numero di
lavoratori
urbani l’ambiente compatto e sviluppato in altezza che aggrada ai tipi
super-urbani. In Inghilterra, stiamo progressivamente facendo proprio
questo, insieme
a cose più intelligenti, usando enormi sussidi governativi per
le abitazioni.
Siamo fuorviati dalla provvisoria disponibilità dei non
privilegiati ad
accettare alloggi sviluppati in altezza ad affitti agevolati, come via
di fuga
da squallidi slums o situazioni di convivenza bi-familiari. Con
l’allargarsi della distribuzione e l’aumento del reddito netto, queste
persone
vorranno raggiungere il gregge cercando le loro case, dentro o oltre le
nostre
preziose cinture verdi. Alla lunga, potranno essere tenuti dentro
questi posti
compressi solo con una generale frustrazione di tutti i comuni desideri
umani,
il che non si può praticare a lungo in una società
fondamentalmente
democratica.
La
Metropoli esplosa (torna
all'indice)
A questo punto,
devo sembrare ovvio in modo infantile, a questo circolo di
esperti, se dico che il fenomeno della metropoli esplosa si deve alla
coincidenza di due cose: 1) l’incremento e ampia distribuzione del
reddito
netto a cui ho fatto riferimento, che permette a più famiglie di
permettersi le
buone case che desiderano, e le automobili per andarci; e 2) la
crescente
concentrazione delle attività economiche, che occupano sempre
più persone,
dentro le città. Che me debba risultare una costrizione di
spazio, e uno
strangolamento del traffico, è evidente. Che i benefici degli
avanzamenti
industriali e commerciali, e dell’integrazione economica, ne siano
quindi
largamente cancellati, mi sembra ugualmente evidente. La pianificazione
altamente raffinata che si pratica all’interno delle fabbriche e degli
uffici,
e incrementa la produttività, è ostacolata dal caos oltre
i cancelli della
fabbrica e la porta dell’ufficio. Guadagniamo stipendi e salari
più alti, e
buttiamo via i soldi extra in costi extra di trasporto. Accorciamo le
ore di
lavoro, con qualche perdita marginale di produzione, e dissipiamo le
ore
risparmiate in più lunghi spostamenti per lavoro. Quello che mi
stupisce è che
tanti osservatori, inclusi brillanti organizzatori di industrie e
affari, non
riescano a vedere, o decisamente eludano, il semplice e ovvio
correttivo: una
quota di deconcentrazione delle attività economiche urbane e una
decisa
limitazione della crescita delle città, troppo grandi o
già abbastanza grandi.
Questa limitazione o deconcentrazione, per non portare solo ad un
genere diverso
di caos, richiedono governo sociale o pubblico su scala geograficamente
vasta,
e sono difficili. Ma sono sicuro che gli stati moderno ne sono capaci e
le
attuerebbero, sia quelli democratici che autoritari, se non fosse per
una
strana cieca fede nel fatto che la crescita delle città sia
dettata da leggi
economiche a cui sarebbe peccaminoso o pericoloso mettersi contro. Le
città non
avrebbero mai potuto crescere sino a questo punto senza una gran
quantità di
aiuto governativo e risorse, che sono stati dati a causa di una moda di
lungo
periodo nell’opinione più autorevole, alla radice della quale
c’è ovunque
l’osservazione che la crescita urbana sta avvenendo dappertutto, e che
dunque,
anche se non è vantaggioso (e quale idiota potrebbe pensarlo,
ora?), deve
essere in qualche modo inevitabile. (possiamo forse considerare, qui,
in via di
estinzione la vanteria competitiva delle città, di essere la
più grande, o
quella che cresce più in fretta, che nel 1947 paragonai a
signore che si
vantano di avere il più grosso giro-vita del circolo).
Diradare
la Giungla (torna
all'indice)
Si: il controllo
della crescita urbana sarà difficile. Ma non più
difficile di
molti altri progetti sociali che sono stati intrapresi. In Centro
America
questa primavera ho visto Americani aiutare persone meno fortunate a
diradare
giungle primordiali e piantare granturco: facendo partire quasi dal
nulla le
radici della civilizzazione, non scoraggiati dall’essere piccoli gruppi
in
vaste aree di povertà e analfabetismo. (Nonostante si tratti di
un argomento secondario
al mio soggetto, non posso trattenere una parola di entusiasmo per
questo
lavoro: Il mondo in generale non comprende cosa questi dedicati tecnici
Americani stanno facendo. Dubito che l’America lo comprenda. Hanno
bisogno di
un nuovo genio letterario per scrivere di loro, come Rudyard Kippling
scrisse
dei costruttori di ponti o degli altri civilizzatori del periodo
coloniale
britannico – ora oscurati da una nube come egoisti e imperialisti. Ho
chiesto
loro se avevano preso in considerazione la probabilità che una
volta ben
terminato il loro lavoro, avrebbero ricevuto un bel calcio nel sedere e
gli
sarebbe stato detto di andarsene. Fieramente mi hanno risposto: “Puoi
scommetterci, che ci abbiamo pensato”. Potete leggere nei rapporti
ufficiali
dei pochi milioni di dollari destinati a “fondi di rotazione” per le
abitazioni
autocostruite, sviluppo agricolo, costruzione di strade, in cui questi
uomini
sono impegnati; ma dovete andare in giro con loro personalmente per
cogliere in
pieno l’ispirazione del loro magnifico lavoro.)
C’è stato un tempo in cui ho avuto la sensazione che per gli
urbanisti il sogno
di fermare la crescita delle città era senza speranza, come per
un ragazzo
sperare di fermare un treno con un lazo. Ma l’interesse sociale ed
economico che
guadagnerebbe da questa limitazione, è più grande di
quelli che le resistono,
se solo potesse essere informato e mobilitato. E questo, secondo la mia
opinione, è un lavoro urgente e necessario per gli urbanisti.
Il
ruolo del Governo (torna
all'indice)
La chiave per il
controllo delle dimensioni urbane e della concentrazione è
naturalmente una intelligente (pianificata) guida alla localizzazione
degli
impianti industriali e di altri stabilimenti in cui le persone
lavorano. Se
nuovi stabilimenti potessero essere localizzati in città di
dimensione modesta,
e se l’espansione o l’insediamento di luoghi di lavoro in città
sovraconcentrate potesse essere reso condizionale, in base ad accertata
assoluta necessità, la sovracrescita sarebbe sotto controllo.
Sarebbe allora
aperta la strada per l’allentamento della pressione interna nei
processi di
rinnovo urbano.
La discussione sulla pianificazione del suolo si indebolisce se la
affrontiamo
con fiducia dogmatica nel solo intervento delle agenzie pubbliche o
private. Ci
deve essere qualche tipo di studio organizzato a scala territoriale
vasta, e ci
deve essere qualche tipo di restrizione locale sui tipi di edificazione
– e
adeguatamente, in effetti necessariamente, queste devono essere di tipo
pubblico. La promozione di nuova, buona edificazione può essere
si privata che
pubblica; probabilmente, nella maggior parte dei paesi si richiede una
miscela
tra le due. Il signor Humphrey Carver ha citato che in Canada, una
nazione a
libero mercato, non si ha paura di usare lo strumento pubblico, ovunque
sia
conveniente. Lo stesso si fa in Gran Bretagna, Gli Americani hanno
più paura?
Noi usiamo sia la mano destra che la sinistra per nutrirci, laddove gli
Americani sembrano così timorosi di suscitare qualche sospetto
di
“Sinistrismo”, da trasferire la forchetta alla mano destra per ogni
boccone:
uno splendido esempio di buone maniere, ma è necessario portare
questa idea
fino alla filosofia politica?
In Gran Bretagna la pubblica opinione, il governo, la libera impresa,
hanno in
considerevole parte accettato una politica di limitazione della grande
città e
qualche allentamento della pressione esistente disperdendo persone e
posti di
lavoro verso città più piccole e distanti. La
conservazione attorno alle città
di cinture verdi (larghe strisce di terra agricola) è pure
accettata, ed p
molto popolare sia tra i cittadini che tra la gente di campagna. Le
quindici
nuove città realizzate secondo la Legge del 1946 sono ora
organismi funzionanti
dove quasi 500.000 persone vivono e lavorano. Sono costate alla nazione
molto
meno dell’alternativa di rialloggiare in strutture sviluppate in
altezza, e
socialmente sono molto più soddisfacenti.
È vero, non sono riccamente fornite delle piacevolezze culturali
accumulate
durante i secoli nelle città più vecchie. Non tutte
queste cose sono necessarie
per la vita quotidiana; una visita occasionale per uno scopo speciale
è meglio
del pendolarismo quotidiano. E di fatto la maggior parte delle cose una
volta
esclusiva delle città ora le troviamo quasi ovunque attraverso
la radio, la TV,
i libri e i giornali, il telefono, le merci confezionate, la
distribuzione dei
grandi magazzini. Sembra quasi che in futuro, qualunque varietà
e originalità
della cultura locale sia destinata a venire in larga parte da
attività
amatoriali e fai-da-te. Il contrasto fra l’abitante metropolitano dalla
mente
vivace e il tardo paesano è sparito. L’equilibrio potrebbe
assestarsi
dall’altra parte. Molte persone nelle nuove città stanno
sperimentando le gioie
e responsabilità del vivere sociale per la prima volta. Non
voglio rivendicare
una superiorità dell’abitante di New Town. Supponete che rimanga
uguale al
cittadino “centrale”. Almeno ha una buona casa familiare, un giardino
(se lo
vuole), negozi, scuole, chiese, e servizi urbani di base, e il lavoro
nel
raggio di pochi minuti a piedi o in macchina. E l’aperta campagna a una
distanza non troppo grande.
La Gran Bretagna in
movimento. Ma lento (torna
all'indice)
Sono Londinese di
nascita, anche se me ne sono andato. Quando ero ragazzo, ci
insegnavano ad essere fieri di vivere nella più grande
città del mondo. Se
fossi ancora un Londinese, potrei ora vantarmi di qualcosa di
più notevole e
onorevole. Londra è la prima città al mondo a decidere di
ridurre
deliberatamente la sua popolazione e a adottare una politica di
dispersione
pianificata verso nuove città e cittadine rurali esistenti oltre
la sua cintura
verde.
La Gran Bretagna non ha ancora costruito abbastanza nuove città,
né idee di
espansione per piccoli centri, a sufficienza per pareggiare i suoi
problemi
metropolitani. La pubblica opinione si evolve lentamente, a causa dei
paraocchi
urbani che ho descritto, e i governi sono timorosi di compiere i passi
verso la
realizzazione di nuove città. È interessante che, dove la
consapevolezza
pubblica è bene informata e forte – come nel caso di regioni con
percentuali di
disoccupazione sopra la media – il governo promuova una localizzazione
correttiva delle industrie; e sempre nello stesso campo, applichi
restrizioni
alla loro localizzazione dentro Londra e altre città
sovraconcentrate.
Ma non posso dire che in Gran Bretagna il problema metropolitano sia
stato
risolto. Abbiamo ancora influenti ingegneri che amano costruire, a
spese dello
stato, autostrade veloci, sovrappassi e tunnels dentro la grande
città per
convogliare più attività e persone dentro ad essa. Con o
senza
l’incoraggiamento del signor Donald Stone (Donald C. Stone, “Adjustment
of
Planning to the Sixties” cit.), le grandi città sono abbastanza
potenti
politicamente da prendersi enormi fette del bilancio statale o federale
per il
rinnovo urbano, le abitazioni, le strade e altri costosi lavori resi
necessari
dal loro ridicolo schema di espansione. Abbiamo ancora architetti
fantasiosi
che amano razionalizzare e rendere sofisticata la congestione, con lame
e torri
più alte. E abbiamo ancora consiglieri municipali che sono
più interessati al
gettito fiscale al benessere umano. Gli urbanisti della mia scuola di
pensiero
lottano contro l’uso perverso di espedienti validi. Non sono contro i
comprensivi sussidi alle grandi città, se questi sussidi sono
usati per
renderle migliori anziché peggiori. Strade migliori attraverso
le città sono
necessarie anche per servire una popolazione ridotta. Gli effetti
architettonici delle altezze sarebbero grandiosi se fossero spaziate in
modo da
non perpetuare o incrementare densità eccessive. Le concessioni
statali o
federali alle città dovrebbero essere condizionate alla
correzione dei loro
metodi e ad una pianificazione intelligente.
Ma nonostante il piccolo incoraggiamento dai recenti sforzi britannici,
e il
tentativo di credere che saranno perseguiti in modo più logico,
devo ammettere
che nei miei vagabondaggi per il mondo vedo pochi segni indicanti che
qualcuno
ha davvero afferrato gli elementi fondamentali del problema urbano, o
metropolitano.
Sono incapace di pessimismo, perché rispetto l’intelligenza
delle persone,
quando non hanno il paraocchi, e credo nel contagio, per lento che sia,
delle
idee di buon senso.
Nondimeno, se dovessi accettare per quelli che sono ora i fatti
metropolitani e
l’atteggiamento della maggior parte degli esperti e dei governi verso
questi
fatti, dovrei parafrasare Edgar Allan Poe con il grido:
The play is the tragedy, “Man”,
And its hero the Conqueror City.