G. Holmes Perkins,
L’insegnamento
dell’urbanistica alla Harvard University (TPR gennaio 1950)
Negli Stati Uniti si sono
sviluppati vari
filoni di pensiero urbanistico, a partire da molte e insospettabili
fonti,
negli ultimi cinquant’anni. Il presenta stato di disagio e tensione
all’interno
del mondo professionale è difficile da comprendere, osservato
senza
qualche familiarità con l’ampliato raggio degli interessi di chi
partecipa alla pianificazione urbana e regionale, e in particolare con
le origini dell’impeto civico ad affrontare i problemi crescenti delle
nostre città e regioni. Il primi corsi professionali in
urbanistica
a Harvard coincidono storicamente con la pubblicazione del famoso Piano
di Burnham di Chicago, del 1909. Questo tipo originario di formazione
rifletteva,
tra l’altro, l’allora dominante approccio architettonico a questi
problemi.
Uomini che, nonostante fossero derisi da molti come sostenitori della
“città
bella”, furono veri pionieri nello sviluppare una idea di città
come organismo totale, i cui mali chiedevano una attenzione non
egoistica,
da parte di cittadini che mettessero l’interesse comune davanti al
proprio.
La tendenza a condannare alcune conquiste di questi pionieri riflette
una
ritardata consapevolezza dei problemi di ambiente fisico, da parte
degli
studiosi sociali e politici che pure a modo loro attaccavano
vigorosamente
lo squallore e cattiva amministrazione delle nostre città.
Nel 1916 sia a New York che a
Chicago
il sovraffollamento degli spazi aveva raggiunto livelli tali che, quasi
spontaneamente, il grido dei proprietari immobiliari danneggiati e dei
leaders civici progressisti generò le ordinanze di zoning, che
stabilirono
nuove regole e limiti alla competizione selvaggia nell’edilizia. Ma
questo
e successivi sviluppi ed estensioni dell’urbanistica richiedevano nuove
tecniche, una più approfondita comprensione delle tendenze
economiche
della crescita urbana, una più penetrante lettura degli usi
competitivi
del suolo urbano. Dagli studi pionieristici di Ely crebbe la nuova
scienza
dell’economia urbana.
Quasi contemporaneamente la Ford
modello
T rese la nazione consapevole delle proprie fangose e solcate strade di
campagna, mentre si accennavano il tumulto e la congestione che in
breve
avrebbero sommerso le città. Nacque l’ingegnere del traffico, ad
aggiungere la sua specialità agli scopi ampliati
dell’urbanistica.
L’architetto era forzato a dividere il proscenio con questi nuovi
affascinanti
esperti in progetti autostradali, le cui meravigliose tortuosità
sfidavano l’immaginazione e la resistenza di ogni automobilista. Ma
questo
tecnocrate, a sua volta lasciò il posto agli analisti, di
orientamento
sociologico, delle case e fabbriche i cui sterili standards ci avevano
dato una generazione di spazi minimi. L’ovvia conclusione che tutti
questi
problemi erano fortemente e profondamente interrelati l’uno all’altro,
e isolatamente porzioni insolubili del grande problema della crescita
organica
delle città, sfuggiva al cittadino comune. L’urbanista non ebbe
grosso incoraggiamento. Pure, attraverso il processo urbanistico si
sviluppò
un intuitivo riconoscimento dei rapporti fra analisi sociale e
progettazione
fisica. Erano foglie al vento, prima che la guerra innescasse una
rapida
evoluzione verso un più efficace e significativo processo di
pianificazione
nelle città degli Stati Uniti nel dopoguerra. Il personale degli
uffici di piano di oggi, somiglia assai poco a quelli degli anni ’20,
quando
ingegneri e architetti erano quasi i soli componenti. Anche
l’intempestiva
morte durante il tempo di guerra del National Resources Planning Board
non ha impedito alla propria leadership più motivata di
imprimere
un nuovo indirizzo agli scopi delle pianificazione, né di
incoraggiare
la crescita di una più vasta base conoscitiva negli studi
intrapresi
dai gruppi urbanistici. Una squadra di scienziati sociali, architetti,
ingegneri e amministratori, nelle grandi città ha rimpiazzato il
professionista generico, a tutto beneficio del paziente.
A Harvard siamo convinti che si
sia trattato
di una evoluzione salutare. Né crediamo che essa abbia raggiunto
il suo zenit, o che debba essere combattuta perché l’architetto
possa dividere ora la gloria che un tempo fu soltanto sua. Invece,
dobbiamo
fervidamente esplorare nuove possibilità di imbrigliare i nostri
diversi talenti, verso il sempre più grande obiettivo di
ricostruire
le nostre città. Quello che possiamo ottenere, è di gran
lunga meglio di quello che abbiamo attorno. Ma trovare il modo non
è
facile. Nello sforzo di arruolare tutti i talenti per questa crociata
verso
un ambiente migliore, accogliamo studenti da tutte le discipline, per
il
lavoro di specializzazione che porta al titolo di Master in City
Planning.
Dopo il diploma universitario all’età di 21 o 22 anni, uno
studente
trascorre circa altri tre anni di lavoro per il titolo.
Non è cosa facile
descrivere un
programma-tipo, dato che non ne esiste uno. Quello che si richiede
è
piuttosto semplice. Ciascuno deve svolgere qualche lavoro di
specializzazione
superiore in economia, progettazione fisica, sociologia, pubblica
amministrazione
e legislazione urbanistica, geografia economica. L’enfasi posta su
ciascuno
di questi vari ambiti, dipende dalla sua formazione precedente, o dalla
sua attuale predilezione. Nei suoi corsi e seminari, acquisisce una
certa
familiarità con le abitudini dei futuri colleghi, così
come
una concreta competenza professionale in una branca del suo futuro
mestiere.
Ma tutti questi diversi approcci devono, nella logica del planning,
essere
simultaneamente applicate a concreti casi studio. Su questi, studenti e
corpo insegnante con formazioni diverse imparano a coordinare i propri
sforzi alla ricerca di nuove soluzioni. Metodi di ricerca, analisi e
sintesi
diventano familiari allo studente attraverso esperienze personali e
ripetute,
anziché tramite la routine priva di vitalità delle
letture
e dell’assorbimento di nozioni di seconda mano. I casi studio, di vario
carattere, formano il nucleo centrale delle sue sfide ed esperienze; le
25 o 30 ore settimanali che trascorre su di essi sono la metà
del
tempo di lavoro. Studi sul campo e analisi territoriali degli studenti
e del corpo docente formano la base pratica per la preparazione di
programmi
il cui realismo suscita entusiasmo spontaneo. Non si vuole intendere
che,
in questo modo, lo scienziato sociale diventi progettista o viceversa,
ma che ciascuno sia messo in grado di formarsi una più profonda
esperienza all’interno del proprio campo e, allo stesso tempo,
apprezzare
i contributi degli altri e i vantaggi di condividere il medesimo sforzo
creativo.
La crescente sfera delle
attività
di governo ha reso abbondantemente chiaro che i supposti limiti alla
pianificazione
urbanistica sono diventati ormai dei miti. È diventato difficile
nominare una professione che non abbia un contributo unico da fare
verso
la ricerca di un ambiente migliore. E se tutti devono portare il loro
peso
efficacemente, è necessaria una vigorosa pratica nella difficile
arte della collaborazione. In secondo luogo, dobbiamo poter contare su
ampie e varie risorse e talenti. Forse solo nelle Università
sarà
possibile trovare una squadra del genere. Ma le risorse umane possono
essere
affiancate da biblioteche di alto livello, e strutture per la ricerca,
che sono gli attrezzi di lavoro dello studente. A Harvard la direzione
del corso di urbanistica è nelle mani di un Consiglio i cui
membri
sono la chiara evidenza della volontà di abbattere le pareti
dipartimentali,
e condividere l’esperienza in una causa comune. Il Consiglio comprende,
oltre al Presidente, tre amministratori pubblici nei Professori Gaus,
Lambie
e Wheaton, l’ultimo uno specialista di case popolari, uno scienziato
della
politica nel Professor Friederich, due economisti, il Professor Seymour
Harris e il Professor Abbot della Business School, due geografi, i
Professori
Whittlesey e Ullman, un sociologo, il Professor Parsons, due
architetti,
il Decano Hudnut e il Professor Gropius, e un ingegnere, il Porfessor
Wagner.
Lo stesso spirito collaborativo
che guida
il lavoro in pianificazione urbana si ritroverà anche nel lavoro
per il titolo di Master in Regional Planning. Per pianificazione
regionale,
intendo quella di vaste aree, come la Tennessee Valley o il Pacific
Northwest,
anziché un regionalismo metropolitano come quello della New York
Regional Plan Association, che è a mio parere semplicemente
pianificazione
urbana allargata. Lo stesso Consiglio guida lo studente in
pianificazione
regionale. Questa professione emergente, nonostante gli sforzi di
Geddes,
MacKaye e Mumford, è forse storicamente e tecnicamente meno
avanzata
dell’arte e scienza della pianificazione urbana. È stato detto,
con un briciolo di verità, che “siamo solo in un periodo di
studi
regionali, anziché di pianificazione regionale”. Questo non
per negare i risultati della TVA, ma piuttosto per sottolineare con
umiltà
le vaste e inesplorate conoscenze in questo campo. Di conseguenza, ci
avviciniamo
all’istruzione dei futuri partecipanti ai corsi con spirito da
esploratori.
Fra le differenze, notiamo che la pianificazione regionale è
meno
focalizzata su questioni di progetto fisico, e connessa a problemi
amministrativi
e grandi piani per lo sviluppo economico e sociale. Le capacità
richieste non differiscono di molto nel tipo, ma nell’enfasi data a
ciascuna.
La costruzione ed esecuzione di piani regionali comprende la
partecipazione
di varie agenzie, federali, statali e locali, pubbliche e private. Per
questo motivo la funzione di pianificazione regionale e strettamente
correlata
alla pubblica amministrazione. Particolari competenze in questo campo
sono
diventate un prerequisito indispensabile per i pianificatori. Il
Consiglio
quindi si è associato alla Graduate School of Public
Adimistration
per l’inaugurazione, ancora in parte sperimentale, di un percorso di
studi
congiunto che porti alla fine di un triennio di specializzazione a un
Master
sia in amministrazione pubblica che in pianificazione regionale. Il
programma
comprende uno spostamento di accento, nei casi studio dalla
città
alla regione, e nei seminari dall’amministrazione locale, zoning,
sviluppo
urbano, ai più vasti problemi dello sviluppo regionale.
Più
in particolare, seminari sulla politica fiscale e la finanza pubblica,
la localizzazione regionale delle industrie, l’agricoltura e
rimboschimento,
la sociologia regionale e la conservazione delle risorse naturali,
rimpiazzano
in parte il lavoro in economia urbana, governo municipale, geografia
urbana
e case popolari.
Ma l’università è
qualcosa
più di un semplice e adeguato percorso verso la professione.
È
il suolo consacrato dove gli studiosi si sforzano per l’avanzamento
delle
conoscenze umane. Perché è la fratellanza degli studenti
a creare un’atmosfera favorevole alla costruzione di uno spirito
ricercatore.
A Harvard, uomini che hanno già raggiunto una statura
professionale,
e la cui inclinazione intellettuale li ha spinti verso una ricerca
indipendente,
sono aiutati nel loro cammino. Il Ph.D. è rilasciato a quegli
arditi
e creativi studenti che hanno mostrato capacità di far avanzare
le frontiere della conoscenza nel campo urbanistico.
Questo lavoro avanzato,
assiduamente coltivato
a Harvard dal 1929, ha portato significativi frutti in numerose
pubblicazioni,
che hanno avuto una vasta influenza sull’evoluzione delle politiche
pubbliche
e hanno ampiamente esteso il “know-how” tecnico e amministrativo della
professione. Studenti, professori e ricercatori speciali hanno
contribuito
agli studi urbanistici di Harvard. Fra questi lavori troviamo Urban
Blight and Slums, di Mabel Walker, The Design of Residential
Areas,
di Thomas Adams, Model Laws di Bettman, Basset e Williams, e Urban
Land Uses di Bartolomew. L’ultimo volume dell’editrice
universitaria,
l’acuto e penetrante saggio di Hudnut su Architecture and the
Spirit
of Man, aggiunge una nota filosofica agli studi più tecnici.
Attraverso questo tipo di pubblicazioni, l’Università tenta di
adempiere
una parte dei suoi obblighi verso la società, schiudendo sguardi
sempre più ampi sulle città del futuro.
(traduzione di Fabrizio Bottini)