SENTENZA A SEGUITO DI DIBATTIMENTO

(Art. 567 C.P.P.)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice di Rovigo - sezione distaccata di ADRIA

dott. LORENZO MIAZZI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel porcedimento penale

NEI CONFRONTI DI:

S. M. nato il 1952 a Taglio di Po e residente a Porto Tolle.

Libero - contumace

IMPUTATO:

del reato p.e p. dagli artt. 21, 1° comma, lett. b), 30 lett. d),

L. 11 febbraio 1992, n. 157, perchè esercitava la caccia in

territorio adibito a parco naturale (parco regionale del delta

del Po).

In Porto Tolle il 17/01/1998

N. 157/98 R.G.N.G.

Sent. N. 417/2000

N. 10285/00 Reg. gen.

SENTENZA

in data 15 DIC. 2000

depositata in cancelleria

il 28 DIC. 2000

CANCELLIERE

Zampollo Giuliana

Con l'intervento del PUBBLICO MINISTERO: avv. Mauro Davin

e dell'avv. Luca Azzano Cantarutti difensore di fiducia dell'imputato

e dell'avv. Valerio Malaspina difensore di fiducia della costituita PARTE CIVILE WWF

e dell'avv. Lavinia Cantà difensore di fiducia della costituita PARTE CIVILE ITALIA NOSTRA

Le parti hanno concluso come segue:

PUBBLICO MINISTERO: £. 1.000.000.= di ammenda

IL DIFENSORE DELLA PARTE CIVILE ITALIA NOSTRA: affermarsi la penale responsabilità dell'imputato per il reato ascrittogli, condannarsi lo stesso al risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti dall'Associazione, da liquidarsi in una somma non inferiore a £. 10.000.000.=, oltre interessi o diversa maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia. Liquidazione delle spese come da nota dimessa.

IL DIFENSORE DELLA PARTE CIVILE WWF: affermarsi la penale responsabilità dell'imputato per il reato ascrittogli. Chiede altresì condannarsi lo stesso al risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti dall'Associazione, da liquidarsi in una somma non inferiore a £. 10.000.000.= oltre interessi o diversa maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, somma da destinarsi al finanziamento di progetti territoriali e regionali per la tutela del Parco Ragionale Delta del Po, dell'ambiente, della fauna ed altri fini perseguiti statutariamente dall'Associazione. Chiede la liquidazione delle spese come da nota dimessa.

LA DIFESA: in via principale assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Restituzione delle cose in sequestro. Condanna delle Associazioni WWF e Italia Nostra alle spese come da nota dimessa. In estremo subordine minimo della pena. Sospensione condizionale della pena.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L'imputato veniva ritualmente tratto a giudizio, a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, per rispondere del reato a lui ascritto, ossia di aver esercitato la caccia nel Parco regionale del Delta del Po, territorio adibito a parco naturale.

Il dibattimento veniva fissato per il 20.10.2000; in tale udienza, revocato il decreto penale opposto, chiedeva di costituirsi parte civile l'associazione W.W.F.; il difensore dell'imputato si opponeva. Il giudice, rilevata l'assenza di tutti i testimoni, rinviava il processo al 15.12.2000.

Ripreso il processo, all'udienza si costituiva anche come parte civile l'associazione Italia Nostra. La difesa eccepiva sia la tardività della costituzione di Italia Nostra sia la tardività della produzione documentale effettuata a quell'udienza da W.W.F.; si opponeva altresì ad entrambe le costituzioni di parte civile ritenendo la carenza di legittimazione e di interesse a stare in giudizio.

Il giudice rigettava le eccezioni come da ordinanza che veniva letta e allegata.

Veniva quindi aperto il dibattimento e, sulle richieste di prove delle parti, viste le reciproche eccezioni in ordine alla produzione documentale, il giudice decideva ammettendo le prove come da ordinanza a verbale.

Per primo veniva assunto il teste dell'accusa Fabio Roccato, agente di polizia giudiziaria in servizio presso il Commissariato di Porto Tolle, il quale riferiva sulle modalità dell'accertamento del reato; venivano quindi sentiti i due testimoni chiesti dalla difesa: Luigi Ferrari, che riferiva sulla propria attività come responsabile dell'Ufficio caccia e pesca della Provincia di Rovigo e Arnaldo Pisetti, presidente provinciale e regionale della Federazione Italiana della Caccia, che riferiva sulle attività di tale associazione di cacciatori.

Esaurita l'assunzione delle prove, all'esito della discussione e sulle conclusioni delle, parti riportate a verbale, il giudice dichiarava chiuso il dibattimento ed emetteva quindi la sentenza.

FATTO

Il fatto di cui è giudizio risulta ben chiaro, e non è sostanzialmente contestato dalle parti, nella sua materialità.

Il giorno 17.1.1998, alle ore 16,00 circa, due poliziotti appartenenti al Commissariato di Porto Tolle (Roccato e Guidi) in servizio in località Cà Venier lungo la strada arginale che costeggia il ramo del Po detto Po di Venezia, notavano parcheggiata ai margini della carreggiata un'autovettura Fiat Panda 30. Veniva effettuato un controllo, in quanto ci si trovava all'interno del parco, e attraverso i vetri veniva notato un fodero di fucile vuoto. Questo fatto, unitamente alla posizione dell'auto parcheggiata proprio in corrispondenza della golena di Cà Venier, induceva i poliziotti a ritenere che il mezzo appartenesse ad un cacciatore e decidevano quindi di attendere l'arrivo del proprietario.

Il luogo dei fatti. Il luogo è un punto dell'argine sinistro del Po di Venezia che, alla sua sinistra, ha zona agricola e campi coltivati e, alla sua destra, ha un'ampia golena. Tutto l'argine, compresa la strada, e la golena rientrano nel territorio del Parco del Delta del Po. Nel punto in cui era parcheggiata l'auto e nella golena alla destra quindi la caccia è vietata, alla sinistra ci sono i campi dove è consentita. Dalla testimonianza di Ferrari è risultato senza equivoco che dalla golena non è possibile raggiungere a piedi (a meno che non si attraversi il fiume!) alcun altro terreno dove la caccia sia permessa.

Nella golena, come è risultato dalla documentazione fotografica e dalle deposizioni dei testi, erano presenti all'epoca del fatto alcune tabelle riportanti la scritta "Ambito di caccia 4A3", anche se non vi è certezza sulla loro posizione e in particolare della loro presenza nel luogo o nelle vicinanze del luogo dove si trovava l'auto.

Il comportamento tenuto da S. M. Il proprietario dell'autovettura giungeva dopo circa una mezz'ora, salendo velocemente dalla golena ed entrando in macchina. Riferisce con precisione il testimone Roccato che questi aveva con sé il fucile a tracolla senza fodero, la cartucciera con 25 cartucce, era accompagnato da un setter, che è un cane da caccia. Il fucile era un normale fucile da caccia a canna liscia. A questo punto intervenivano i poliziotti che lo identificavano per l'imputato S. M. e gli chiedevano spiegazione del suo comportamento; al che M. rispondeva che era sceso nella golena "per pulirsi gli stivali".

L'imputato era munito di licenza di caccia, era iscritto all'Ambito Territoriale denominato 4A3 e si era regolarmente segnato sul tesserino regionale la giornata di caccia in quel giorno. E' risultato poi che egli era iscritto all'associazione di cacciatori denominata Federazione Italiana della Caccia.

I due poliziotti quindi denunciavano S. M. per il reato poi ascritto nell'imputazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La ricostruzione così dettagliata del fatto si è resa necessaria perché numerose sono le questioni giuridiche da risolvere strettamente collegate ai dati di fatto emersi dal dibattimento.

L'elemento oggettivo del reato

L'imputato è accusato di aver esercitato la caccia in terreno adibito a parco naturale, nel caso di specie il parco regionale del Delta del Po: occorre dunque accertare innanzi tutto se il luogo era fra quelli vietati e se il S. M., al momento della denuncia, esercitasse la caccia.

a)L'oggettiva appartenenza del luogo al Parco del Delta del Po e l'esistenza del divieto di caccia.

Il Parco naturale regionale del Delta del Po è stato istituito con la legge regionale 8 settembre 1997 n. 36, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione n. 74/1997 del 12 settembre 1997. L'art. 1 della legge stabilisce che il territorio del Parco è "individuato da apposita grafia nell'allegata planimetria in scala 1:50.000". La planimetria allegata alla legge è a sua volta munita di una legenda nella quale, tra l'altro, è scritto che "per tutti i rami deltizi il confine del Parco coincide sempre con il profilo dell'unghia arginale a campagna".

Ora, il luogo in cui si è verificato il fatto è agevolmente rinvenibile nella planimetria ed è stato indicato da diversi testi nel corso del dibattimento: certamente quindi esso rientra nel territorio del Parco del Delta del Po.

Nel momento in cui il fatto è avvenuto la legge regionale era già in vigore da circa quattro mesi: ai sensi dell'art. 44 dello Statuto della Regione Veneto "le leggi regionali sono pubblicate entro cinque giorni dalla promulgazione ed entrano in vigore nel quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione...".

Rileva però la difesa che non era stata effettuata la "perimetrazione definitiva dell'area del parco" prevista all'art. 5 comma 1 lett. A) della legge regionale 36/97 come contenuto del Piano del Parco. La difesa fa riferimento per tale attività alle previsioni dell'art. 33 della L.R. n. 50 del 9.12.1993, che disciplina il prelievo nella regione, che così recita: "Le tabelle da apporsi al fine di delimitare aree soggette a particolare regime devono essere collocate lungo il perimetro dell'area interessata su pali o alberi a un'altezza da tre a quattro metri e a una distanza di circa cento metri l'una dall'altra...".

Come confermato da tutti i testimoni, una simile "tabellazione" non era stata effettuata all'epoca (e in verità non risulta che ciò sia avvenuto neppure a tutt'oggi); sostiene perciò l'imputato che non poteva ritenersi operante il divieto di caccia sancito dalla legge, mancando un elemento essenziale come la precisazione del territorio in cui opera il divieto.

Questa tesi però non può essere accolta.

Va premesso un richiamo alla normativa operante. Il sistema di protezione della fauna selvatica presente nelle aree naturali protette è disciplinato chiaramente dalla legge quadro n. 394 del 6.12.1991. All'art. 2 della legge si comprendono fra le aree naturali protette i parchi nazionali (comma 1), i parchi naturali regionali (comma 2), le riserve naturali (comma 3); al comma 8 si prevede che spetta alle regioni la classificazione e l'istituzione dei parchi regionali.

Il successivo articolo 22, contenente le "Norme quadro" delle "Aree naturali protette regionali" (come è significativamente denominato il titolo III della legge), prevede al comma 6 che "Nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali l'attività venatoria è vietata, salvo eventuali prelievi faunistici ed abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici".

Tale divieto, come ha confermato la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3132/1996) è immediatamente operante trascorso il periodo transitorio di un anno previsto dall'art. 28 della legge e trova le conseguenti sanzioni nell'art. 30 della L. 394/91 e (con specifica espressa indicazione dei parchi naturali regionali) negli artt. 21 e 30 della L. 157/1992.

Tutto ciò premesso, ci si chiede se tale divieto sia paralizzato o sospeso dalla mancata tabellazione evidenziata dalla difesa. La risposta non può che essere negativa. Non si possono infatti confondere le normative relative alla istituzione del parco (previste dal comma 8 dell'art. 2 L. 394/1991) con le normative relative alla successiva ordinaria gestione del parco.

Le norme istitutive del parco, che nel caso di specie trovano la loro realizzazione con l'approvazione della L.R. 36/97, devono rispettare i principi previsti dalla legge quadro e con la loro emanazione rendono effettive tutte le disposizioni già contenute nella legge stessa: il parco quindi già nasce perfettamente dotato di tutti gli strumenti operativi e di tutto l'apparato (compreso quello sanzionatorio) previsto dalla legge quadro n. 394/91. Tanto è vero che l'art. 23 della legge quadro (la cui epigrafe è Parchi naturali regionali) così afferma:

"1. La legge regionale istitutiva del parco naturale regionale, tenuto conto del documento di indirizzo di cui all'articolo 22, comma 1, lettera a), definisce la perimetrazione provvisoria e le misure di salvaguardia...".

A tale obbligo adempie quindi l'art. 1 della legge regionale, quando stabilisce che il territorio del Parco è "individuato da apposita grafia nell'allegata planimetria in scala 1:50.000". Tale perimetrazione provvisoria è necessaria e sufficiente per consentire la nascita stessa del Parco; mentre la successiva "perimetrazione definitiva" di cui all'art. 5 della legge regionale altro non è che un perfezionamento dell'identificazione e degli strumenti di riconoscimento dell'area già individuata. In altri ambiti, lo stesso meccanismo è previsto dalla legge quadro per l'attività di vigilanza sui parchi regionali, per la gestione delle aree, per l'individuazione della attività compatibili, etc.: la possibilità per la Regione di integrare come ritiene più opportuno la disciplina di tali settori non ostacola l'immediata operatività delle relative disposizioni della legge quadro, che consentono l'immediato avvio dell'attività del Parco.

Deve in sostanza essere chiarito che, secondo quanto prescrive la legge quadro (e quindi a pena di vizio della legge regionale, che diversamente si porrebbe in contrasto con la stessa) la legge istitutiva non può non contenere la perimetrazione, sia pur provvisoria, del parco (così come non può non contenere le disposizioni minime in ordine alla vigilanza, alla gestione, etc.). Sostenere, come fa la difesa dell'imputato, che in mancanza della perimetrazione definitiva di fatto il parco non esiste in quanto non individuabile, significa non solo andare contro la lettera della legge, ma sostenere addirittura che la legge non opera: cosa questa evidentemente insostenibile alla luce del contenuto di tutte, ma proprio tutte, le norme richiamate che, finalizzate alla difesa dell'ambiente, sono anzi con tutta evidenza ispirate ad una il più possibile rapida tutela del bene protetto.

In conclusione: la legge regionale istitutiva dei parchi naturali deve avere un contenuto minimo (individuato dalla legge quadro) che ne consente l'immediata operatività; quando ciò avviene, la difesa dell'area protetta è già operativa anch'essa discendendo direttamente dalla legge quadro e dalla legge attuativa della stessa, senza necessità di ulteriori attività amministrative esecutive. Nel caso in esame, il divieto di caccia nell'area costituente il Parco del Delta del Po è previsto, all'interno dell'area individuata con perimetrazione provvisoria, dall'art. 22 comma 6 della L. 394/1991 e sanzionato dagli artt. 21 e 30 L. 157/1992, indipendentemente dalla espressa previsione del divieto contenuto nella legge regionale (che comunque nel caso di specie esiste) ed indipendentemente dalla "perimetrazione definitiva" che è facoltà della regione determinare.

Quanto detto è conforme ai principi della Suprema Corte, che per costante giurisprudenza ritiene che l'istituzione con legge regionale di un'area naturale protetta è sufficiente per far scattare il divieto di caccia nelle zone interessate.

Come ben si legge nella parte motiva della sentenza n. 3132 del 27.3.1996, si "ritiene immediatamente applicabile, in tutto il territorio nazionale (e quindi anche nella regione siciliana), il divieto di caccia sancito dagli artt. 11 e 22 della legge n. 394/1991, (e sanzionato, rispettivamente, dall'art. 30, stessa legge e dagli artt. 21 e 30, 1. n. 157/92 cit.). tale divieto riposa, in ordine alle "aree naturali protette regionali" (secondo l'estensione testuale del titolo III, L. n. 394) sulle "norme quadro" del menzionato art. 22 (come viene rubricato) che fissa "principi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali" (senza distinzione alcuna fra regioni ordinarie e speciali). Il divieto, esplicitato nel comma 6 ("nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali l'attività venatoria è vietata") è immediatamente applicabile..."

Principi conformi a quelli appena esposti si rinvengono costantemente nelle pronunce della Suprema Corte relative a questioni attinenti la caccia (si vedano fra le ultime Cass. n. 5457/1999 e n. 8454/12999) e sono stati fatti propri recentemente anche da una pronuncia della Corte Costituzionale, che ha ritenuto incostituzionale una legge della regione Liguria proprio argomentando sulla immediata operatività del divieto di caccia nelle aree protette (Corte Cost. n. 20 del 27.1.2000).

Ora, quanto detto è assorbente di ogni argomentazione difensiva in materia; si deve però aggiungere che in nessuna norma, né in quelle immediatamente operative della legge quadro e neppure in quelle programmatiche della legge regionale, è previsto che la che perimetrazione definitiva del parco avvenga con una tabellazione della zona protetta (cosa anzi che si può presumere che non sia neppure effettuabile, attesi i costi elevatissimi); ancora meno è previsto e prevedibile che la perimetrazione definitiva del parco avvenga con una tabellazione come quella prevista dall'art. 33 L.R. n. 50 del 9.12.1993, sopra ricordata. E' di tutta evidenza infatti che una simile tabellazione è pensata ed e attuabile solo per aree ristrette come quelle che la legge individua come "aree soggette a particolare regime" (come si evince anche dai modelli approvati con Decreto del Presidente della Giunta regionale 6.6.1996 n.1493).

La semplice lettura delle due leggi regionali rende chiara l'assoluta diversità delle due discipline e, conseguentemente, delle finalità perseguite dalle perimetrazioni. La L.R. nr. 50/1993 disciplina infatti l'attività di caccia nel territorio regionale ove questa sia esercitabile secondo le regole ordinarie, con esclusione quindi delle aree dove comunque la caccia è vietata (centri urbani, strade, etc.: quindi anche nei parchi naturali nazionali e regionali dove una legge pone il divieto): tanto è vero che laddove la caccia è astrattamente esercitabile ma la Regione stessa pone o riconosce un regime particolare si richiede che l'area sia tabellata per rendere manifesta la limitazione. La L.R. n. 36/97 invece istituisce un'area in cui ordinariamente la caccia è vietata, tanto è vero che si preoccupa di disciplinare i casi (che hanno quindi carattere straordinario) in cui l'attività venatoria è permessa, e cioè ai sensi dell'art. 29 "al solo scopo di ricomporre squilibri ecologici" e in conformità al regolamento del parco.

Tali principi sono stati fatti propri sia da pronunce di legittimità che di merito; si veda, sia pure in materia di parchi nazionali, Cass. n. 4756/1998, secondo la quale "i parchi nazionali, essendo stati istituiti e delimitati con appositi provvedimenti pubblicati sulla G.U. non necessitano della tabellazione al fine di individuarli come aree ove sia vietata l'attività venatoria"; e per la giurisprudenza di merito Pretura Patti, 8 gennaio 1996; Pretura Teramo, 24 giugno 1998...

b)L'esercizio della caccia da parte di S. M.

La difesa rileva che l'imputato è stato visto dalla polizia mentre "saliva velocemente" dalla golena e risaliva in macchina, mentre non è stato visto né udito sparare colpi di fucile; se questo è il comportamento provato, si osserva, esso non può in nessun modo ricomprendersi nel concetto di caccia.

Va ricordato in fatto che secondo quanto deposto dal testimone Roccato, S. M. aveva con sé il fucile a tracolla senza fodero, indossava una cartucciera con 25 cartucce, era accompagnato da un cane da caccia. Il fucile era un normale fucile da caccia a canna liscia e S. M. si era segnato la giornata di caccia nel tesserino regionale.

Ora, è vero che l'imputato non è stato visto direttamente sparare o cacciare; tuttavia il suo comportamento è inequivocabile: tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo, non vi è alcuna ragionevole ipotesi, oltre al fatto che fosse andato a caccia, che giustifichi il suo abbigliamento, la presenza del cane, del fucile, delle cartucce, il fatto che si fosse segnato la giornata di caccia nel tesserino. Va ricordato anche che  S. M. è stato atteso per circa mezzora, quindi è da escludersi che fosse sceso nella zona vietata per altri motivi (come quelli addotti dall'imputato, che ha dichiarato alla polizia di essere sceso in golena per pulirsi gli stivali) portando con sé cane, fucile e cartucce.

Irrilevante è poi che non vi sia la prova che S. M. abbia sparato a qualche animale; infatti secondo il terzo comma dell'art. 12 della legge 157/1992, è considerato esercizio venatorio anche "il vagare e il soffermarsi" con i mezzi destinati alla caccia. Sul punto sono costanti le pronunce della Suprema Corte, che, sul presupposto che "L'ampia nozione di esercizio di caccia comprende non solo l'effettiva cattura od uccisione della selvaggina, ma anche ogni attività prodromica o preliminare organizzazione dei mezzi, nonché ogni atto, desumibile dall'insieme delle circostanze di tempo e di luogo, che, comunque, appare diretto a tale fine"  hanno considerato punibili anche condotte assai meno marcate di quella tenuta dall'imputato; si veda ad esempio Cassazione civile sez. I, 10 settembre 1997, n. 8890, secondo la quale "costituisce esercizio venatorio anche il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla, senza che tale attitudine possa considerarsi esclusa dal fatto che il cacciatore abbia il fucile scarico ed aperto" (circostanza che non risulta nel caso di S. M.); o Cassazione penale sez. III, 5 giugno 1996, n. 6812, che ha punito "l'essere sorpreso nel recarsi a caccia, con l'annotazione sul relativo tesserino, in possesso di richiami vietati".

Nel caso in esame è pacifico che l'imputato si è soffermato e ha vagato per almeno mezzora nella golena più volte citata, munito di tutti i mezzi destinati alla caccia: va quindi ritenuta sussistente la condotta incriminata.

L'elemento soggettivo del reato

La difesa dell'imputato ha sostenuto altresì la carenza dell'elemento soggettivo del reato, senza specificare peraltro se degli elementi evidenziati si dovesse dedurre la buona fede o l'ignoranza incolpevole della norma penale da parte dell'imputato.

Sul punto va premesso che si tratta di contravvenzione, pertanto punibile sia a titolo di dolo che di colpa. Ora, è principio consolidato che per la punibilità delle contravvenzioni è richiesta almeno la colpa, per cui il soggetto che riesca a provare la sua buona fede deve essere assolto; e la Suprema Corte nel suo orientamento consolidato (si veda per tutte Cass. n. 319/1982) identifica la buona fede in materia contravvenzionale con il caso fortuito, la forza maggiore e l'errore scusabile, per cui la considera sussistente soltanto nel caso in cui l'imputato riesca a dimostrare di aver fatto tutto quanto poteva per osservare la norma violata.

Nel caso in esame, S. M. sostiene da un verso che l'esistenza del divieto nella zona golenale e più in generale nel territorio del parco non era conoscibile pur usando l'ordinaria diligenza; dall'altro lato che incolpevolmente riteneva che il divieto di caccia non fosse operante in assenza della tabellazione.

Entrambe le tesi sono sfornite di fondatezza.

a)l'oggettiva conoscibilità del divieto di caccia.

Come si è già detto, la legge regionale n. 36/1997 era già in vigore da circa quattro mesi; essa era stata pubblicata sul B.U.R. del 12.9.1997; pertanto, ai sensi dell'art. 3 della legge della Regione Veneto n. 14 del 1989, essa era disponibile, tra l'altro, presso tutte le sedi degli enti locali e regionali, presso tutti gli uffici regionali, presso almeno una libreria del capoluogo di provincia. Non vi sono dubbi pertanto sul fatto che attiene al profilo di colpa anche un'eventuale (ma come si vedrà non provata) non conoscenza del divieto di legge, essendo preciso dovere dell'imputato come di ogni cittadino porre in essere la diligenza ordinaria di acquisire i dati di conoscenza relativi alle attività che si intendono esercitare; tanto più come nel caso di specie in cui l'intervento di una normativa innovatrice era stata ampiamente segnalata e commentata (come risulta dalla deposizione di Pisetti e dai documenti allegati sia dall'imputato che dalla parte civile) sia sulla stampa che dalle varie associazioni ed enti interessati, fra cui quello al quale era iscritto anche S. M.

Deve essere ricordato che la legge regionale rimandava la individuazione del territorio alla planimetria ad essa allegata; ebbene, da tale planimetria è agevolmente identificabile la golena lungo il Po di Venezia in cui S. M. cacciava ed essa risulta chiaramente fare parte del parco; non solo, ma la planimetria è fornita di una legenda in cui, come ricordato, è precisato che "per tutti i rami deltizi il confine del Parco coincide sempre con il profilo dell'unghia arginale a campagna".

Non vi è dubbio alcuno quindi che con la più normale diligenza, costituita dalla semplice lettura della norma e del suo allegato, l'esistenza del divieto di caccia nella golena era di facilissimo accertamento.

Numerosi peraltro sono anche gli elementi che fanno pensare al contrario che S. M.  fosse al corrente del divieto; egli era cacciatore del luogo, era stato dotato come risulta dalla deposizione del teste Pisetti di una cartina planimetrica del parco che, anche se non troppo chiara, era agevolmente interpretabile da una persona a conoscenza dei luoghi e comunque dotata di una legenda inequivocabile; l'esistenza del nuovo divieto era stata ampiamente pubblicizzata sulla stampa locale ed oggetto di numerose riunioni fra gli stessi cacciatori.

b)l'errore sulla legge penale ex art. 5 c.p.

Sostiene l'imputato che comunque egli riteneva incolpevolmente l'inesistenza del divieto nel luogo in cui egli è stato sorpreso, essendo stato inevitabilmente tratto in errore da una serie di elementi di fatto che lo hanno indotto a pensare che in assenza della tabellazione il divieto non fosse operante. Egli dunque valorizza a tal fine alcuni fatti, quali l'esistenza nella golena di tabelle riportanti l'indicazione che la zona era ricompresa nell'ambito di caccia "4A3"; il fatto che la Provincia di Rovigo avesse emanato disposizioni che consentivano l'ingresso nel parco dei cacciatori; l'esistenza di una sentenza del Pretore di Adria che assolveva alcuni cacciatori (accusati di aver cacciato in zona protetta) per l'oggettiva incertezza dei limiti di tale zona; l'interpretazione data dalla Regione Veneto dell'esistenza del divieto di caccia; l'oggettiva incertezza confermata dalla necessità di una riunione ad alto livello fra i rappresentanti degli enti e associazioni interessate.

Ora, si vedrà che gli elementi di fatto adottati dall'imputato non avevano affatto il carattere di certezza tale da creare, quali "fattori esterni", quell'irriconoscibilità generalizzata cui deve farsi riferimento per accertare il carattere inescusabile dell'ignorantia legis, secondo i principi espressi nella sentenza della Corte Costituzionale.

Infatti:

-le tabelle riportanti l'indicazione che la zona era ricompresa nell'ambito di caccia "4A3" erano un residuato della precedente destinazione dell'area, rimaste sul posto per inerzia dell'Ambito di caccia (composto in gran parte da quelle stesse associazioni di cacciatori che ne evidenziavano la permanenza) ed erano state installate prima dell'entrata in vigore della legge sul parco, per cui non si poteva ritenere che la loro presenza fosse riconducibile all'inclusione o meno della zona nel parco stesso;

-le disposizioni emanate dalla Provincia di Rovigo prodotte e richiamate dalla difesa sono tutte successive al fatto e comunque riguardano una fattispecie (trasporto delle armi) del tutto diversa da quella in oggetto (esercizio della caccia; lo stesso si dica della riunione del 5.8.1999 convocata dal Prefetto;

-la sentenza del pretore di Adria riguardava fatti e regimi giuridici del tutto antecedenti all'istituzione del Parco e, in fatto, giungevano ad assolvere i cacciatori non perché l'esercizio della caccia nella zona protetta fosse consentito in assenza di tabellazione, ma perché vi era oggettiva incertezza sui confini della zona stessa (oggettiva incertezza che nel caso di cui è processo non c'è in quanto la zona protetta è inequivocabilmente individuabile, come prima esposto);

-la lettera 17.10.1997 della Regione Veneto è l'unico elemento attinente e valorizzabile, ma: ne è stata  prodotta una copia informe e quasi illeggibile, da cui non risulta né l'ufficio che l'ha emanata, né i soggetti cui era indirizzata, né il valore del parere espresso (che tra l'altro risulta emesso non da un legale o da un esperto in materie giuridiche, ma da un architetto), inoltre non è stata provata minimamente la conoscenza all'epoca del fatto da parte di persone diverse dagli autori e dei destinatari, e tantomeno da parte dell'imputato.

Per mera completezza va infine chiarito che la Corte Costituzionale, nella fondamentale sentenza n. 364/88, ha precisato fra l'altro che l'ignoranza della legge penale non può mai dirsi inevitabile quando l'agente versi in una situazione di dubbio riguardo al carattere antigiuridico o meno dell'azione che si appresta a compiere: in tal caso l'agente è tenuto ad attivarsi per risolvere il dubbio  e nel caso non vi riesca, deve astenersi dall'agire. Ora, gli elementi di fatto sopra ricordati non hanno certamente l'efficacia di creare una irriconoscibilità generalizzata, ma al massimo una situazione di dubbio che, comunque, come si è visto non scusa l'imputato.

Imputato che, come può dedursi dai dati di fatto sopra ricordati, era assai probabilmente perfettamente a conoscenza del carattere illecito delle sua azione, tanto è vero che, fermato dai due poliziotti, non afferma di essere andato a caccia come avrebbe fatto una persona in buona fede, ma inventa dapprima una giustificazione inverosimile (dice di essere sceso in golena per pulirsi gli stivali) e poi vedendo che gli viene contestata la caccia abusiva afferma che "in ogni caso non ci sono le tabelle": il che dimostra la conoscenza da parte sua del problema posto dall'esistenza del divieto di caccia.

L'imputato va riconosciuto responsabile del reato ascritto. Tale affermazione comporta anche la condanna al pagamento delle spese processuali.

La pena irrogabile all'imputato.

Si deve rilevare, con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., che il reato non appare grave, come si desume dalla modestia del danno cagionato (non risulta abbattuto alcun capo di selvaggina) e dell'intensità dell'elemento soggettivo (per quanto sopra esposto).

Va pertanto irrogata una pena base vicina al minimo previsto dalla legge: si ritiene congrua una pena di giorni 10 di arresto e £ 900.000 di ammenda.

L'imputato è incensurato, per cui possono essere concesse le attenuanti generiche che riducono la pena a giorni sette di arresto e £ 600.0000 di ammenda.

Risultano concedibili la sospensione condizionale e la non menzione.

Le questioni attinenti le parti civili.

Il giudicante si è già espresso con ordinanza nel processo in ordine alla sussistenza in astratto del diritto al risarcimento del danno da parte delle due associazioni costituitesi parte civile nel processo.

Deve prendersi atto che nel corso del processo penale le parti civili costituite non hanno fornito prova piena dei danni materiali di cui chiedono il risarcimento, né comunque elementi di prova sufficienti a fondare una liquidazione equitativa come viene richiesta.

Tale prova mancante non costituisce peraltro motivo per il rigetto della domanda, ma semplicemente per la rimessione delle, parti avanti al giudice civile; ciò discende dai principi stessi che regolano l'esercizio dell'azione civile nel processo penale:

"Ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni, non è necessario che il danneggiato dia la prova della loro effettiva sussistenza e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose. La predetta pronuncia costituisce, infatti, una mera declaratoria juris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione". (Cassazione penale sez. I, 28 febbraio 1992).

Tali principi sono stati recentemente ribaditi da un'altra pronuncia, che ha ben evidenziato come la facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno ed alla provvisionale, prevista dall'art. 539 c.p.p., non incontri restrizioni di sorta in  ipotesi di incompiutezza della prova sul quantum. "bensì trova implicita conferma nei limiti dell'efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile per la restituzione e il risarcimento del danno fissati dall'art. 651 c.p.p. quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità ed all'affermazione che l'imputato l'ha commesso, escludendosi perciò, l'estensione del giudicato penale alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall'imputato" (Cassazione penale sez. IV, 16 dicembre 1998, n. 1045).

Risulta invece possibile la liquidazione dei soli danni morali, derivanti dal reato; in effetti una volta considerato quelle che sono le finalità delle due associazioni costituitesi parte civile ed il legame che lega le loro articolazioni territoriali alle questioni attinenti il Parco, va sicuramente ritenuto che il venire a conoscenza che nonostante l'attività profusa taluni soggetti, violando il divieto di legge, esercitano egualmente la caccia nel Parco regionale crea una frustrazione nelle aspettative e nella sfera di esternazione degli interessati e degli ideali degli associati.

Riprendendo quanto prima esposto relativamente alla pena in ordine alla gravità del reato, va detto che conseguentemente anche la liquidazione del danno morale non può allontanarsi da valori modesti: si ritiene congrua  a tal fine la somma di £ 1.5000.000 all'attualità per ognuna delle associazioni costituite parte civile.

La liquidazione del danno morale può essere effettuata anche con la condanna al pagamento di una provvisionale: infatti il disposto di cui al comma 2 dell'art. 539 c.p.p., è applicabile anche al danno non patrimoniale (giurisprudenza costante: si veda fra le pronunce più recenti Cassazione penale sez. V, 17 dicembre 1997, n. 2414).

Né la concessione di una provvisionale anche senza apposita richiesta della parte civile può considerarsi una pronuncia oltre la domanda, in quanto "la decisione sulla provvisionale può essere adottata anche senza apposita istanza della parte civile" (Cassazione penale sez. II, 6 novembre 1991).

Conseguentemente, le parti vanno rimesse davanti al giudice civile per la liquidazione del maggior danno.

Ai sensi dell'art. 541 c.p.p., l'imputato va condannato al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili, spese che si liquidano in complessive lire 1.060.000 di cui lire 990.000 per onorari, lire 70.000 per spese per la parte civile ITALIA NOSTRA, e in complessive lire 1.508.000 di cui lire 1.438.000 per onorari, lire 70.000 per spese per la parte civile W.W.F.; oltre ad accessori di legge.

PER QUESTI MOTIVI

Visti gli artt. 533, 535, 538 c.p.p.

Dichiara S. M. colpevole del reato a lui stesso ascritto e, concesse le attenuanti generiche, lo condanna alla pena di giorni 7 di arresto e di lire 600.000 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali.

Pena sospesa e non menzione.

Dichiara altresì tenuto e condanna l'imputato al risarcimento dei danni patiti dalle costituita parte civile.

Visto l'art. 539 c.p.p.

Condanna l'imputato al pagamento di una provvisionale per £ 1.500.000 all'attualità per ognuna della parti civili costituite.

Rimette le parti davanti al giudice civile per la liquidazione del maggior danno.

Condanna l'imputato al pagamento delle spese di costituzione che si liquidano in complessive lire 1.060.000 di cui lire 990.000 per onorari, lire 70.000 per spese per la parte civile ITALIA NOSTRA, e in complessive lire 1.508.000 di cui lire 1.438.000 per onorari, lire 70.000 per spese per la parte civile W.W.F.; oltre ad accessori li legge.

Così deciso in Adria il 15.12.2000

CANCELLIERE

Zampollo Giuliana

                                                        IL GIUDICE

Lorenzo Miazzi

 

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