un Oscuro Disegno Nazionale
(quel che cova sotto il Tricolore)
Se potessi, suonerei giorno e notte le campane a
martello:
per scuotere la gente dal sonno dell’indifferenza
e dallo stordimento della controinformazione.
L’attuale politica
sulla Difesa del suolo e sul governo idraulico dei
fiumi – politica fondata su incuria ed abbandono;
contraria ad ogni forma di manutenzione preventiva;
ispirata e sostenuta da un “ambientalismo” strumentale;
politica perseguita nella logica dell’emergenza
dalla lobby Tangenti & Appalti – sta oscurando
l’Italia e ne sta sfasciando il territorio.
Le
pianure fluviali sono ad altissimo rischio idraulico;
la vittima più importante è la Pianura Padana.
Sommario:
1. Rischio
idraulico in Pianura Padana;
2.
Tra le cause di un'esondazione fluviale;
3.
Crollo di ponti e difese spondali;
4. Fiumi
in secca e falda acquifera;
5.
Casse despansione lungo lArno;
6.
Il
caso emblematico di Lodi;
7.
La logica
dellEmergenza;
8. Le
manfrine degli Ambientalisti;
9.
La
fantomatica "erosione della costa"
10.
Le inadempienze degli
Organi preposti;
11.
La responsabilità dei Politici;
12. Le
colpe del Palazzo di Giustizia;
13. La
beffa della Protezione Civile;
14.
La “complicità” della stampa;
15.
Urge una svolta;
Nota bene:
il presente Appello
nasce, tra l’altro, dalla certezza di un grave
pericolo per la vita e l’economia di intere popolazioni.
Ha lo scopo di stimolare il dibattito –
nelle famiglie, nelle
scuole, tra i Giovani
–
su un problema reale, che viene
per lo più ignorato, sottovalutato, ed anche travisato.
Vuol essere inoltre
un solidale contributo, di conoscenza e d’informazione,
alle popolazioni di ex e potenziali Alluvionati
d’Italia. Spero che induca a riflettere, e che aiuti
a capire… a correggere… a prevenire…
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campane
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Rischio in Pianura
Padana.
(per
analogia, in tutte le pianure fluviali)
L’Acqua disfa
li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra
in perfetta sfericità, s’ella potesse…
Così
descrive, Leonardo da Vinci, il processo d’erosione del
suolo: processo naturale, tra quelli che incidono
sull’evoluzione morfologica della crosta terrestre. Ogni
volta che piove, l’azione meccanica dell’acqua asporta
dai rilievi uno strato di terra, per gravità lo trascina
a valle, e quivi lo deposita laddove si quieta. In
questo modo, e col tempo, spiana le montagne e forma le
pianure. La pianura padana, ad esempio, si è formata,
nella sua larghezza e lunghezza, grazie all’apporto
solido proveniente dai rilievi, e quindi trasportato e
depositato, per migliaia di anni, dal fiume Po. Tanto da
formare l’attuale terra ferma, laddove prima c’era il
mare.
Tutto questo
è potuto accadere fino a quando il fiume era libero di
divagare per l’intera larghezza della pianura stessa.
Cioè quando questa era sgombera dalla presenza dell’Uomo
(e delle sue cose), che allora viveva di caccia e
pastorizia ed abitava nelle grotte in montagna. Ma poi,
sin dagli albori della civiltà, con l’insediarsi in
pianura, l’Homo sapiens ha dovuto far fronte al
disordine naturale ed al libero divagare del fiume. Si è
dato una serie di regole per disciplinarne le acque. Ha
inventato il concetto di alveo, entro cui farle
scorrere: per salvaguardare il territorio, l’agricoltura
ed i propri insediamenti. Per millenni, perfezionando
quelle regole, ha vigilato affinché il fiume assolvesse
alla sua primaria funzione, che è quella di drenare le
acque del proprio bacino idrografico. Da qui i concetti
di “Portata idrica”, “Sezione di deflusso”, “Governo
idraulico”, “Polizia idraulica”, “Reticolo idrografico”,
“Assetto del Territorio”…Il tutto regolato dal R. D.
n. 523 del 1904 (testo unico sulla disciplina delle
acque) e dalle successive leggi.
Nell’ultimo
trentennio questi concetti e regole sono andati in
disuso. La parola disciplina è una bestemmia. “I
fiumi devono evolvere secondo natura”, si sente
dire. E’ vietata la regimazione degli alvei. Non si
parla più di pulizia… bonifica… manutenzione… ma si
usa la “rinaturazione” (?), la “riqualificazione” (?).
L’articolo 96
del citato R. D. 523/1904 recita: “sono lavori
ed atti vietati in modo assoluto sulle acque
pubbliche: …le piantagioni che si inoltrino dentro gli
alvei dei fiumi, torrenti rivi e canali, a costringerne
la sezione normale e necessaria al libero deflusso delle
acque…”. Questa ed altre erano le regole che,
nell’era della ragione, imponevano la pulizia degli
alvei. Ora invece, nell’era del dio “Ambiente” – in cui
si guarda all’albero come a un feticcio, e guai a chi lo
tocca anche se nasce e si sviluppa laddove può provocare
disastri e lutti – negli alvei fluviali si è sviluppata
una tale vegetazione, di alberi di alto fusto, da
trasformare i fiumi in veri e propri boschi, che
fanno da sbarramento e costringono le acque ad aprirsi
altre vie.
Si ignora
inoltre il problema dell’erosione del suolo: dei milioni
di mc di detriti alluvionali… che ad ogni pioggia
arrivano a valle… che si accumulano, si stratificano…
e riempiono gli alvei fluviali. Ed è ciò che sta
accadendo in tutte le pianure fluviali, ed anche in
Pianura Padana. Dove l’enorme accumulo di ghiaia e
sabbia – formatosi in questi anni d’incuria e di
abbandono – ha trasformato i “lussureggianti” fiumi
in tante fiumare calabre, che straripano d’inverno e
vanno in secca d’estate. Il Sesia… il Trebbia… l’Enza…
il Ticino… il Seveso… l’Adda… il Piave… il Tagliamento…
e lo stesso Po, non hanno più la sezione di deflusso
adeguata alle corrispondenti portate di massima piena.
Sono ostruiti, pensili ed a rischio d’esondazione:
anche con modeste portate idriche.
La situazione
evolve verso il peggio: aumenta l’erosione del suolo e,
con esso, aumenta l’apporto di sedimento alluvionale. Ma
gli Organi preposti: l’AIPO, l’Autorità di bacino ed
Altri, non ne tengono alcun conto. Nei vari rapporti
delle ultime alluvioni non si fa alcun cenno alla
portata solida delle piene, ed al suo deleterio
effetto sulle sezioni di deflusso. Eppure i detriti, che
durante le passate alluvioni hanno invaso campi, case e
strade, li abbiamo visti tutti; come i tanti accumuli
formatisi lungo gli alvei, sono ancora visibili
dappertutto. Ignorandone l’esistenza, si ignorano anche
gli effetti che ne derivano. La loro presenza restringe
la sezione di deflusso e devia la corrente, provocando
l’erosione delle sponde, lo scalzamento delle difese
spondali e di ogni opera presente, compreso le pile e
spalle dei ponti.
Vi sono
diffuse situazioni critiche; situazioni pregresse di
alvei ostruiti, che però vengono ignorate e
sottaciute, per poter sostenere – ogni volta che ne
deriva un disastro alluvionale – che “si tratta di
una imprevedibile calamità naturale” e che quel
materiale vi “è giunto con le ultime piogge”. Si
inventano cause risibili dell’evento, come “l’aumento
della velocità di corrivazione”, e si batte sul
solito ritornello della “eccessiva escavazione in
alveo”. S’imbrogliano le carte, insomma. A quanto
pare, oltre al problema alluvione, in Pianura Padana
esiste un secondo Problema, grave forse più del primo,
rappresentato proprio dai Tecnici ufficiali.
Il rischio
più grosso,
in caso di esondazione, è che il fiume cambi il suo
corso; che abbandoni l’alveo esistente e se ne crei
un’altro sulla pianura adiacente, seguendo una maggiore
pendenza. E’ già accaduto più volte in Pianura
Padana. E’ noto il caso di qualche secolo fa del fiume
Tanaro, il cui vecchio corso proseguiva da Cherasco
verso sinistra e confluiva nel Po a Carmagnola, ma in
occasione di una piena, deviò a destra e si aprì
l’attuale varco che passa per Asti ed Alessandria, e
sfocia nel Po a Bassignana. Potrebbe tuttora accadere.
Il Trebbia, ad esempio, potrebbe divagare sul territorio
e la città di Piacenza, e poi confluire nel Po più a
valle, insieme al Nure. Lo stesso Po potrebbe
cambiare il suo corso, da Piacenza alla foce, dove
l’alveo procede con una pendenza vicina allo zero
(12 cm per km).
Oltre l’innalzamento
dell’alveo, quella parte di materiale che va a
depositarsi verso la foce, facendola protendere verso il
mare, allunga lo sviluppo del corso d’acqua e ne riduce
ulteriormente la pendenza; si riduce quindi la velocità
e s’innalza il livello idrico;
aumenta il rischio di
tracimazione, e di deviazione.
Tutto questo fa presagire
una Grande Catastrofe. Incombe il pericolo di vita su
intere popolazioni. Il territorio rischia di essere
sommerso non solo dall’acqua ma anche da uno strato di
terra e ghiaia. Il rischio, ripeto, è reale e
altissimo. E potrebbe essere facilmente rimosso:
tornando a dragare gli alvei; rimuovendo l’enorme
accumulo di materiale formatosi negli ultimi trenta
anni; ripristinando in tal modo le sezioni di
deflusso. La soluzione è alquanto semplice e,
sotto l’aspetto economico, non richiederebbe alcuna
spesa. Anzi, produrrebbe delle notevoli entrate
erariali. Risolverebbe inoltre, per diversi anni, il
fabbisogno di inerti, occorrenti per i Grandi Lavori
avviati e da avviare in tutta Italia. Ma si continua
ad ignorare, sia il problema che la soluzione, e,
sulla spinta pressante del fabbisogno eccezionale di
inerti, le Regioni stanno programmando l’apertura di
altre Cave fuori alveo, in un territorio già ridotto
peggio di una gruviera…
Siamo al massimo della
follia istituzionale.
(Home)
(Sommario)
2.
Tra le cause di un'esondazione
fluviale.
La funzione primaria, ripeto, cui assolve un corso
d’acqua – ai fini della sicurezza del territorio –
è quella di drenare le acque piovane del proprio bacino
idrografico. Tale funzione di drenaggio dipende dall’efficienza
del reticolo secondario: affluenti, canali e fossi di
scolo, che riescano a confluire le proprie acque nel
corso principale; e dalla capacità di questo
ultimo di contenere quelle stesse acque e di farle
defluire verso il punto terminale di sbocco: il mare, un
lago o un bacino artificiale.
La capacità di deflusso di un fiume (portata) è
determinata dalla capienza e dalla pendenza del proprio
alveo; - viene espressa in metri cubi al secondo; - e
risponde alla regola dell’Idraulica: Q = A
x V. Dove Q è la portata, A la
superficie della sezione trasversale dell’alveo,
V la velocità della corrente. Quest’ultima è
strettamente legata alla pendenza longitudinale ed alla
scabrezza dell’alveo, cioè all’insieme degli ostacoli
giacenti in alveo e delle irregolarità superficiali, che
presentano il fondo e le pareti dello stesso, e che
determinano la resistenza al moto della corrente.
Influisce inoltre sulla velocità, l’andamento
planimetrico del corso d’acqua: un corso sinuoso, fatto
di anse, è molto più “lento” di un corso rettilineo. Se
alle anse si aggiunge la presenza di vegetazione in
alveo quel fiume diventa uno stagno.
Con il variare, nel tempo, delle suddescritte
condizioni, possono variare uno o entrambi i fattori
“A” e “V”, ed ovviamente variare la capacità
di deflusso “Q”. In un corretto piano di
prevenzione, andrebbe pertanto controllata,
periodicamente, la portata dei tronchi fluviali e
confrontata con la portata delle rispettive e ricorrenti
piene: statisticamente note. E’ una verifica che
andrebbe effettuata, specie dopo un evento di piena con
esondazione, per capire anche se lo straripamento
è stato causato dalla eccezionale portata di piena,
o piuttosto da una riduzione della originaria
capacità di deflusso dell’alveo stesso. Riduzione
che può verificarsi (e spesso si verifica) con il
formarsi di un accumulo alluvionale, che ostruisce la
sezione e quindi riduce il fattore “A”;
oppure con l’inserimento di una briglia (che abbassa la
pendenza longitudinale) o con lo svilupparsi di
vegetazione in alveo: entrambi causa di riduzione del
fattore “V”.
Andrebbero inoltre controllati i numerosi sbarramenti o
briglie di ritenuta esistenti lungo i tronchi fluviali
di pianura: briglie realizzate per derivazione d’acqua o
per altro, ma senza badare al loro effetto sul regime
idraulico. Nei tratti in cui la pendenza è già
minima (intorno all’uno per mille), l’inserimento di una
briglia azzera la pendenza e quindi la velocità per un
lungo tratto; provoca ristagno e, in caso di piena,
rigurgito idraulico ed innalzamento del livello idrico.
La briglia,
inoltre, provoca nel lungo periodo anche l’innalzamento
del fondo alveo del tratto di monte. La quota di soglia di una briglia rappresenta il nuovo livello
di base della parte di bacino che si estende a
monte. Per livello di base, si intende la quota
del punto terminale, verso il basso, del profilo
longitudinale di un corso d’acqua o di un suo tronco. Al
proprio livello di base, com’è ovvio, deve raccordarsi
il profilo dell’acqua, nel senso che deve in ogni caso
esservi una pendenza, sia pure limitata, che
permetta comunque lo scorrimento dell’acqua stessa fino
a tale livello. E’ evidente che il nuovo livello di base
(la briglia appunto) innesca una fase di
rimodellamento morfologico del bacino sotteso.
Questo è quanto ad esempio sta accadendo lungo il Po, a
monte della traversa “isola Serafini”, nei pressi
di Piacenza. La quale traversa – che innalza
in quel punto di 7 metri la quota di deflusso –
rappresenta il nuovo livello di base del bacino sotteso.
A questa nuova quota va raccordandosi, innalzandosi,
il tratto di monte del fiume Po, e quindi dei punti di
confluenza dei suoi affluenti. Ne consegue
l’innalzamento degli alvei dei: Trebbia, Olona,
Lambro, Ticino, Scrivia, Tanaro… e dei relativi
reticoli idrografici. L’esondazione del Ticino e
l’allagamento di Pavia nel 2000 sono senz’altro
la conseguenza di questo processo di innalzamento.
Ad ogni evento di piena, ad ogni straripamento, quindi, andrebbero
verificati, e possibilmente ripristinati, i
valori di A e V, e con essi l’originaria
portata Q dell’alveo fluviale. Da parte degli
Organi ufficiali, invece, si ignora ogni verifica del
genere e sbrigativamente si pensa ad innalzare
argini. Si asseconda in tal modo il processo di
innalzamento degli alvei; ed il rischio d’esondazione
viene solo traslato verso monte ma non eliminato. Si
altera il naturale rapporto altimetrico tra fiume e
pianura, ed in caso di piena, con il livello dell’acqua
più alto rispetto alla pianura adiacente, s’innesca il
fenomeno di sifonamento: l’acqua fuoriesce dal fiume
attraverso il subalveo, passando sotto gli argini. Tutti
ricorderanno il fenomeno dei “fontanazzi”, durante le
ultime piene del Po. Inoltre, in caso di esondazione,
sono proprio gli argini ad impedire il rientro
dell’acqua in alveo. Ed è proprio questo particolare –
cioè la difficoltà del rientro – che rende ancora più
disastrose le esondazioni nei fiumi pensili ed arginati.
Oppure si ricorre alle casse d’espansione, dette
anche aree di esondazione. Per la loro realizzazione si
sottrae del prezioso territorio all’agricoltura, ma, per
quanto grandi possano essere, non potranno mai contenere
l’enorme quantità d’acqua (centinaia di milioni di mc)
che in poche ore può fuoriuscire da un fiume come il Po,
con portate da 10.000 mc/sec. Ma poi, con un alveo
ostruito per centinaia di chilometri, che in caso di
piena può esondare – ed esonda in mille punti lungo il
suo corso – che cosa si fa? Si fanno mille casse
d’espansione, oppure, molto più sensatamente, si amplia
e ripristina la sezione di deflusso?.
L’altro rimedio a cui si ricorre è la
ricostruzione dei ponti. La si propone anche laddove
l’opera esistente è in buono stato; ed anche se la sua
ricostruzione è inutile ai fini della messa in
sicurezza del territorio. Come ad esempio sta
accadendo in questi giorni ad Alessandria, a Casale
Monferrato ed a Lodi, dove, oltre l’ostruzione e
restrizione delle sezioni di deflusso (causa
principale), l’altra causa delle passate esondazioni non
sono certo stati i rispettivi ponti urbani, ma le
briglie poste a valle degli stessi. L’effetto sul
fattore “V”, di quelle briglie, è facilmente
verificabile: visibile in ogni momento anche ad
occhio profano. Si può difatti notare un ristagno
lacuale che si propaga su un lungo tratto fluviale, a
monte di quelle briglie. E’ intuitivo, oltre che
matematicamente dimostrabile, che, in caso di piena,
quel ristagno, che rivela bassissima velocità, provoca
l’innalzamento del livello idrico e quindi l’esondazione.
Ai disastri di Alessandria-1994, di Casale
Monferrato-2000 e di Lodi-2002,
ha di certo contribuito
la presenza delle briglie nei tratti urbani. Basterebbe
demolire quelle briglie e la situazione migliorerebbe
già di molto. La ricostruzione di un ponte, però, costa
molto di più della demolizione di una briglia. Da qui
evidentemente la preferenza della lobby degli appalti.
Quanto all’altra causa sopra accennata e sempre più
ricorrente – cioè la folta e “robusta” vegetazione
presente in alveo – cito due grossi casi di
alluvione, recentemente verificatisi, che ne sono stati
la diretta e disastrosa conseguenza:
1) – Allagamento della piana del Metapontino, in
Basilicata, per esondazione dei fiumi Basento, Bradano e
Cavone, nella prima settimana di novembre/2004;
2) – Allagamento della piana della Baronia, in
Sardegna, per esondazione del fiume Cedrino, nella
seconda settimana di dicembre 2004.
Accomunate dalla stessa sorte, il Metapontino e la
Baronia hanno subito la recente calamità, che non è del
tutto naturale come si vuol far credere, ma è per buona
parte conseguenza della inettitudine degli Organi
ufficiali, preposti e “competenti”. I quali – in
totale spregio delle tante leggi (leggi non solo antiche
ma anche moderne: legge 183/89; D.P.R. 14.4.1993; art. 5
legge 37/94; art. 2 legge 365/2000), e godendo
dell’automatica copertura della descritta follia
“ambientalista” (cap.1) – disattendono alla più
elementare e inderogabile delle operazioni, per la
sicurezza del territorio e per la pubblica incolumità:
la Pulizia degli Alvei fluviali.
Questa scellerata politica ha ridotto tutte le pianure
fluviali ad altissimo rischio idraulico. Chi vi
abita convive con il perenne incubo dell’alluvione:
nella certezza ch’è solo questione di tempo… e di nubi
che passano sul proprio territorio.
(Home)
(Sommario)
Crollo di ponti e
difese spondali.
Gli accumuli di materiale in
alveo rappresentano un pericolo anche per le opere ivi
presenti: sia in caso di massima piena che in periodi di
magra. Nel primo caso, la riduzione di luce sotto i
ponti non consente il deflusso dell’onda di piena: il
ponte fa da sbarramento e, anche se costruito a regola
d’arte, può essere spazzato via.
Nel lungo periodo di
medio-magra, invece, la presenza degli accumuli devia la
corrente verso le sponde e restringe la sezione di
deflusso. Ne consegue un incremento (locale) della
velocità dell’acqua che provoca l’erosione e l’incisione
del fondo alveo. Il quale assume, a ridosso di difese
spondali e di ogni opera presente, la caratteristica
sezione a V: l’acqua erode il fondo alveo, scava
in profondità, fin sotto le fondazioni, scalzando e
insidiando la stabilità delle opere stesse.
E’ un fenomeno, questo, che
evolve al peggio e in modo irreversibile. Com’è noto, la
corrente assume differenti velocità – nei diversi punti
della sezione trasversale – a seconda della profondità
dell’alveo e cioè dell’altezza (carico) della corrente.
Proprio a causa degli accumuli formatisi in precedenza,
si ha maggiore profondità verso le sponde e minore verso
il centro. Per cui, sia il carico che la velocità della
corrente sono più alti presso le sponde che verso il
centro dell’alveo. Ne consegue il perpetrarsi di
entrambi gli opposti fenomeni: Erosione in prossimità
delle sponde; Sedimentazione nella fascia centrale
dell’alveo. Il persistere di situazioni simili
rappresenta spesso la vera causa dell’improvviso crollo
di ponti e difese spondali.
Sono situazioni “ambigue”,
molto diffuse nei fiumi sovralluvionati, e
caratterizzate dalla presenza dei due noti fenomeni
fluviali: 1) Sedimentazione e conseguente
innalzamento dell’alveo per gran parte della sua
larghezza; 2) Erosione e conseguente abbassamento
nella restante parte del fondo alveo (come sopra
descritto). La presenza simultanea dei due opposti
fenomeni, di cui per giunta il primo è la vera causa
del secondo, si presta a facili equivoci: in buona o
malafede. Per cui quei tronchi fluviali vengono spesso
definiti “in erosione” e “in abbassamento”.
Mentre in realtà sono in forte sedimentazione ed
innalzamento.
La mancata pulizia, per
decenni, degli alvei fluviali, crea un ulteriore
pericolo per i ponti. In tutto quel tempo l’accumularsi
del sedimento forma degli isolotti; che si coprono di
vegetazione e vi crescono alberi d’alto fusto. Con
l’arrivo della piena, gli alberi vengono sradicati e
trascinati a valle. Vanno a incastrarsi sotto le arcate
dei ponti, formandovi un vero e proprio sbarramento, che
può essere spazzato via, dalla stessa piena, insieme al
ponte medesimo.
(Home)
(Sommario)
Fiumi in secca e
falda acquifera.
Con l’accumularsi del
materiale e l’innalzarsi degli alvei, salta anche il
delicato equilibrio tra fluenza superficiale e falda
acquifera sommersa, cioè fra quei due vasi
comunicanti il cui interscambio garantisce la perenne
vitalità del fiume, anche in periodi di siccità. La
falda acquifera della pianura padana, è una
freatica libera, che si alimenta, da un lato,
delle acque che percolano dai rilievi, dall’altro
attinge dalle correnti superficiali degli affluenti del
Po (oppure cede loro parte della sua acqua: a seconda
della diversa prevalenza fra i due livelli); scorre e
funziona come un fiume: defluisce seguendo la maggiore
pendenza in direzione dello sbocco, che per lo più
avviene nello stesso fiume Po.
Una volta esisteva un perfetto
equilibrio tra le acque circolanti in superficie (in
alveo) e quelle sotterranee (del subalveo). Avveniva un
continuo interscambio tra loro e capitava che il fiume
alimentasse la falda o/e che venisse da essa alimentato.
Da questo equilibrio scaturiva la perenne vitalità dei
fiumi padani, dove in pratica vi era una consistente
portata d’acqua, anche in tempo di siccità prolungata. E
ne scaturiva, nel contempo, una certa stabilità del
livello della falda acquifera.
Adesso non è più così: in
periodi di magra, la residua portata idrica dei fiumi
non scorre più in superficie ma si infiltra nel deposito
alluvionale presente in alveo – che nel caso del Po e
dei suoi affluenti raggiunge anche 2-3 metri di spessore
– e da qui si disperde nella falda del subalveo. Di
conseguenza i fiumi vanno in secca e la falda acquifera
tende a risalire.
Durante l’estate 2003 il Po è andato in secca
come una fiumara. La stessa secca si è notata
lungo l’Adda, il Seveso ed il Ticino,
ma la falda acquifera dell’Interland milanese – che
viene alimentata (anche) dagli stessi fiumi – non ha
risentito affatto della siccità. Anzi, il suo livello
continua a risalire. Il che vuol dire che gran parte
della portata di magra sparisce dalla superficie e
s’immerge nella falda acquifera: innalzandone il
livello, e mandando in crisi le infrastrutture
sotterranee. Creando, per esempio, grossi
problemi alla Metropolitana milanese. I fiumi
hanno perso la tradizionale navigabilità: il sistema
idroviario padano-veneto è in stato comatoso. Ed il
grande Po, da importante via d’acqua d’Europa, in
estate si riduce in una misera pozzanghera.
Non è escluso che, fra qualche estate, si debba
assistere allo scenario paradossale, dei fiumi in secca,
con a fianco i terreni allagati.
(Home)
(Sommario)
Casse
despansione lungo lArno.
L’Autorità di Bacino del
fiume Arno è la più
convinta assertrice dell’utilità delle “Casse
d’espansione”. Il suo recente Piano ne prevede una
diecina, per una capacità complessiva di 100 milioni
di mc, la cui realizzazione comporta l’occupazione
di 1.100 ettari di terreno, ed una spesa di
210 milioni di euro. “Casse”, che vengono proposte,
e propagandate dalla stampa, ”per raccogliere le
acque dell’Arno e salvare Firenze dall’alluvione”.
A far bene i conti, è da
notare intanto che – ammettendo una profondità utile di
4 metri di tali “casse”: compresa tra la quota del piano
campagna (livello massimo) e 4 metri sotto (livello
minimo), considerato che sotto tale livello c’è già
l’acqua del subalveo – occorrono 2.500 ettari di
terreno (e non i 1.100 previsti) per contenere
100 milioni di mc di acqua. Inoltre, la loro
realizzazione comporterebbe lo scavo e l’asportazione di
100 milioni di mc di materiale. Sembra quasi un
“piano di apertura di nuove cave fuori alveo”.
Difatti, coincidenza vuole che la più grande di quelle
previste: la “cassa di espansione dei Renai, da 16
milioni di metri cubi” – che comporta l’occupazione di
180 ettari di territorio nei comuni di Firenze, Signa,
Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio – nasce proprio in una
zona caratterizzata dalla presenza di numerose cave
fuori alveo.
Ma dico io, visto che bisogna
comunque togliere tutto quel materiale, invece di
realizzare tanti “contenitori” esterni, perché non
aumentare la capacità dell’alveo. Asportando gli stessi
100 milioni di mc (forse anche meno), dal suo
interno; allargandolo e/o abbassandolo, a seconda
del caso, per uno sviluppo di 200 km circa, si avrebbe
non solo quella maggiore capienza voluta, ma anche una
maggiore capacità di deflusso: più adeguata alle massime
portate dell’Arno. Tra l’altro, un’operazione simile si
autofinanzierebbe con il ricavato stesso del materiale
utilizzabile; e si eliminerebbe il rischio idraulico:
senza occupare 1.100 ettari di prezioso terreno, e senza
sprecare 210 milioni di euro.
Piuttosto, andrebbero
controllate le condizioni di deflusso del tratto a valle
di Firenze. Qui la pendenza si riduce notevolmente.
Riducendosi quindi la velocità, occorrerebbe una più
ampia sezione d’alveo per mantenere gli stessi livelli
idrici. Se, al contrario, esistono restringimenti
della sezione (per ponti stradali o depositi
alluvionali), o briglie di ritenuta (che riducono
ulteriormente la pendenza e quindi la velocità del
flusso), questi sono concausa di rigurgito
idraulico, e di innalzamento del livello
idrico per un lungo tratto a monte. Il
rigurgito, in un corso d’acqua, equivale all’ingorgo su
una strada: una strettoia di cento metri può provocare
chilometri e chilometri di autocolonna.
Probabilmente è stato proprio
un rigurgito, verificatosi a valle di Firenze, a
provocare il disastro del 1966. Osservando,
infatti, il tratto urbano dell’Arno, in alcune foto di
quel evento, si nota: 1) – che lo specchio d’acqua in
alveo, con massima piena, presenta un aspetto di
relativa quiete, caratteristica di una “corrente lenta”;
2) – che il livello della piena prosegue con un
andamento uniforme, cioè non presenta salti in
corrispondenza dei vari ponti, neanche a Ponte Vecchio,
la cui struttura rappresenta una forte ostruzione
d’alveo.
Tutto questo induce a credere
che l’innalzamento del livello idrico (e conseguente
straripamento lungo il tratto urbano) fu allora causato,
non tanto (o non solo) dall’aumento della portata idrica
proveniente da monte, quanto dalla carente capacità di
deflusso esistente a valle di Firenze. Pertanto, prima
di pensare a delle inutili “casse d’espansione”,
andrebbero migliorate le condizioni nel tratto di valle,
…se lo scopo è quello di salvare Firenze, e non di
aprire altre cave fuori alveo.
(Home)
(Sommario)
Il Caso
emblematico di Lodi.
Colpita duramente sull’intero
territorio dall’alluvione 2002 (foto 2), dopo due anni
la città di Lodi aspetta ancora che gli Organi
competenti provvedano a mettere in sicurezza il
territorio. Ma l’AIPO, l’AdB, la Regione e la
Provincia sono latitanti. Anzi all’AIPO di Parma non
risulta nemmeno che nel 2002 Lodi sia finita sott’acqua.
Dietro una spocchia che diventa sempre più spessa, negli
Uffici pubblici si nasconde una carenza strutturale
spaventosa: di contatto con il territorio, di
conoscenza dei problemi e di capacità progettuale delle
soluzioni.
In questo vuoto istituzionale
diventa gioco facile l’inserimento di Studi Tecnici
privati. Studi con etichetta universitaria, autorevole e
rassicurante, che però affrontano il problema guardando
con un occhio alla soluzione e con l’altro alla parcella
che ne potrà scaturire. Afflitti da questa forma di
“strabismo”, detti Studi a volte partoriscono delle
grandi cavolate. Ed è ciò che sta accadendo a Lodi, dove
un rinomato Studio tecnico privato ha proposto, pare di
sua iniziativa, un progetto “per la messa in
sicurezza del territorio”. L’AIPO non ne sa niente
ma il Comune lo sponsorizza ad occhi chiusi; lo difende
da ogni critica e non permette nemmeno di visionarlo.
Pensando a Lodi, “città d’arte e di cultura”,
viene da chiedersi da dove nasce questo oscurantismo. E
sorprende il comportamento “defilato” dei tanti Tecnici
del posto, nonostante gli accorati appelli di
Domenico Ossino, del Comitato Alluvionati cittadino.
Quanto al progetto, non è
certo una grande idea, o da persone responsabili,
proporre d’innalzare gli argini in un tratto limitato di
un corso d’acqua (nel tratto urbano di Lodi) – con
conseguente innalzamento dei livelli idrici – senza
curarsi del peggio che ne deriverebbe per i tratti di
valle e di monte, dove peraltro vi è già stata l’esondazione
nel 2002. Come dire: salviamo il centro di Lodi …e
del resto chi se ne frega…; e senza peraltro tener
conto che l’acqua che potrà fuoriuscire dal tratto di
monte, finirà comunque sull’abitato di Lodi… e
che, con l’innalzamento dei livelli idrici
aumenterà l’allagamento, per risalita della falda,
per rigurgito di fogne e canali, all’interno dello
stesso abitato.
L’altra assurdità è il
previsto allargamento dell’alveo, in corrispondenza del
ponte urbano, con l’aggiunta di una campata al ponte
stesso. Si vuole in pratica allargare l’alveo dove è
già largo 150 metri, e non nei tratti critici (a monte
ed a valle di Lodi), dove l’alveo, ostruito da enormi
accumuli di sedimento alluvionale, si restringe
sotto i 60 metri; cioè dove in effetti si è verificata
l’esondazione del 2002. L’insieme degli interventi
prevede comunque una spesa di 15 milioni di euro:
forse il vero obiettivo progettuale.
Il rapporto ufficiale della
piena “2002” parla di una portata di 1.600 mc/sec.
Da una verifica effettuata nei suddetti tratti critici,
larghi 60 metri, risulta che vi può
transitare una portata massima di 800 mc/sec. Da
ciò si deducono due certezze: 1) che nel 2002, metà di
quei 1.600 mc/sec sono fuoriusciti dall’Adda; 2) che,
per contenere una portata simile, nelle suddette
“strettoie”, bisogna raddoppiare la sezione d’alveo.
In prossimità del ponte
urbano, invece, il problema non sta nella capienza
dell’alveo, ma nella sua pendenza longitudinale.
Qui, il recente inserimento di una briglia ha ridotto la
pendenza dal 3 per mille allo 0,1 per mille, con
conseguente riduzione della velocità, ad 1/3 di
quella originaria.
Secondo la citata regola
dell’Idraulica: Q = A x V (v. cap.
2), riducendosi ad 1/3 il fattore V,
occorre il triplo di A per
mantenere la medesima portata Q, entro gli
stessi livelli idrici. Pertanto, delle due l’una: o
si allarga l’alveo di 300 metri (e non solo di 16
metri, come prevede il progetto in questione), oppure
si demolisce la briglia… Del resto, tra i vari
interventi previsti c’è anche l’abbassamento parziale
della briglia. Abbassamento che, stranamente, è previsto
per ultimo, cioè dopo aver innalzato gli argini ed
allargato il ponte… Se invece si abbassasse per prima
la briglia, risulterebbe evidente che tutto il
resto è superfluo…
Quanto al recente “crollo
della sponda a Caccialanza”, è stato senza dubbio
causato dalla presenza dell’enorme accumulo di materiale
che ingombra in quel tratto i 2/3 dell’alveo; che ne
riduce la larghezza ad appena 40 metri; e che costringe
la corrente sotto la sponda sinistra, provocando
l’incisione del fondo alveo fino a 5-6 metri di
profondità, e quindi lo scalzamento e il crollo della
difesa spondale. Si tratta di situazioni frequenti nei
fiumi sovralluvionati (v. cap. 3) …e di crolli
annunciati. Vi sono diverse situazioni simili nel
tratto d’Adda da Cassano a Lodi e tutte facilmente
individuabili: di fronte ad ogni accumulo di
materiale in alveo – ed al conseguente
restringimento dell’alveo attivo – vi è certamente
una sponda in procinto di crollare. Se si interviene
in tempo – riportando il filone della corrente verso il
centro alveo e riempiendo le depressioni al piede delle
sponde – si può evitare di dover ricostruire le
difese spondali.
In conclusione, spero che i
Lodigiani si accorgano e fermino il dissennato spreco
previsto dall’intervento in questione; che non
permettano di erigere argini, il cui effetto non
salverebbe la città dalle esondazioni, ma ne
peggiorerebbe le conseguenze; che non permettano di
devastare l’antico ponte urbano; e che decidano di
ripristinare la sezione di deflusso, dove veramente
occorre. Quanto alla briglia, va assolutamente
demolita. Da una foto storica si rileva chiaramente che,
senza quella opera, il profilo del fondo alveo si
abbasserebbe, in corrispondenza del ponte, di circa due
metri. L’eventuale intervento che si rendesse
necessario per la stabilità del ponte, andrebbe
circoscritto intorno ai piloni, lasciando libere le
luci, e senza influire sul regime idraulico.
Vorrei inoltre far notare che
il rigurgito idraulico provocato da quella briglia si
propaga verso monte per un lungo tratto fluviale. Per
cui, qualunque approccio o iniziativa verso il
problema “Adda” va affrontato non da Comuni singoli
ma in accordo con gli altri Comuni rivieraschi: in
una visione generale del problema stesso.
Consiglierei infine di
guardare al punto di confluenza con il Po. A mio avviso
nel tratto terminale dell’Adda vi sono gli stessi
problemi di pendenza e velocità: causati
dall’innalzamento dell’alveo del Po. Se anche lì
dovesse ad esempio risultare che la capacità di deflusso
rimane sotto gli 800 mc/sec, si deve dedurre che, con il
ripetersi di una piena da 1.600 mc/sec si avrebbe in
poche ore un’esondazione di oltre 50 milioni di mc
d’acqua, sul territorio adiacente al tratto terminale
dell’Adda. A meno che non si intervenga anche sul
fiume Po.
(Home)
(Sommario)
La logica
dellemergenza.
Lo scopo, non dichiarato,
dell’attuale politica sul governo dei fiumi è quello di
sopprimere ogni forma di manutenzione preventiva, per
poter intervenire a posteriori ed operare nell’ottica
dell’emergenza: finalizzata all’allegra gestione
delle pubbliche risorse. Si vuole abolire la
bonifica dei corsi d’acqua – cui si è provveduto per
secoli mediante l’istituto delle concessioni estrattive
in alveo – per subentrarvi con il sistema degli
appalti pubblici e con interventi di somma urgenza.
Si ricorre ad espedienti di vario genere, dal demenziale
al delinquenziale, per soffocare una secolare attività
produttiva, e per criminalizzare una categoria di
imprenditori.
Gli espedienti usati per lo
scopo: - 1) manipolazione dell’opinione pubblica con una
campagna mistificatoria su falsi danni ambientali; - 2)
travisamento della realtà con “Studi” fasulli, che
ignorano gli enormi quantitativi di materiale esistente
negli alvei; - 3) si scoraggiano le richieste di
concessione, triplicando il prezzo del canone, in totale
disarmonia con il mercato degli inerti (salvo a farsi un
socio tra i funzionari pubblici, nel qual caso si
ottiene lo sconto dell’80%); - 4) nel rispondere alle
istanze, si applica la prassi dilatoria del rinvio
all’infinito. Si persegue soprattutto l’occultamento del
materiale, negando l’evidenza della realtà. A chi
presenta richieste, con quantitativi reali da centinaia
di migliaia di mc, si nega l’esame dei progetti, in
totale spregio delle leggi, nazionali e regionali,
ricorrendo ad Abusi, Omissioni e Falsi in atto
d’ufficio.
Con questo sistema si
costringono gli operatori del settore ad accettare
autorizzazioni per quantitativi irrisori: concessioni
del tipo fraudolento, con il sistema: “ti autorizzo
un mc. ma ne puoi prelevare dieci”, in una specie di
gioco del “Gatto con il topo”, verso un
processo di criminalizzazione coatta della
categoria.
E’
un disegno immorale e folle
– giunto già a compimento in
gran parte d’Italia, con la chiusura di centinaia di
Aziende che scavavano in alveo, ad esclusivo
vantaggio delle Cave fuori alveo – che ora vive la
sua fase conclusiva anche in Basilicata. Il Danno
economico che ne deriva è enorme, se si pensa ai
miliardi di mc. di materiale esistente nei fiumi
italiani. Materiale che potrebbe rappresentare una
grande risorsa ed una grossa Entrata erariale, e che
invece svanisce nel nulla, grazie al gioco delle
“Tre carte” con cui si dilettano gli
uffici preposti. Se poi si pensa al fatto che, una volta
soppressa l’attività estrattiva, sarà necessario
ricorrere al sistema degli appalti, con miliardi
di Spesa (per rimuovere quello stesso materiale), allora
il danno erariale si triplica. Il danno civile, non meno
grave, è commisurato alla perdita delle risorse
imprenditoriali sane, divorate dall’incalzante
malcostume.
Il tipo di appalti cui mi
riferisco – cioè
quelli preferiti dalla lobby Tangenti & Appalti – sono
gli interventi che seguono un disastro alluvionale. Solo
allora infatti, sull’onda dell’emozione collettiva,
generata da lutti e disastri, scatta l’emergenza.
Si aprono le paratoie dei “finanziamenti
straordinari”. Si dà il via ad “interventi
urgenti e indifferibili”. Che si appaltano senza
progetti e con le procedure della “somma urgenza”.
Che si affidano “a trattativa privata”, si
collaudano in “corso d'opera” e si pagano
“a forfait”. Quegli appalti, insomma,
molto simili ai “Lavori del dopo alluvione-2000”,
in Piemonte (con diversi tangentisti finiti in galera).
Per questi signori, la difesa
del suolo non è un obiettivo ma solo il pretesto per
attivare finanziamenti. Il fiume non è più fiume, ma
campo per scorrerie. Il disastro ambientale è una
“provvidenza”. Abolendo la manutenzione, si vuol dare
solo una mano a questa provvidenza. Gli interventi
prediletti sono le “Sistemazioni fluviali” perché il
fiume “si presta” per sua natura allo scopo, perchè
cancella alla prima piena ogni traccia delle
opere malriuscite… o di quelle non eseguite ma
contabilizzate e retribuite. Ed è subito pronto per
nuove “operazioni”.
Partendo da quel ch’è accaduto
e tuttora accade in Basilicata, descrivo i connotati e
gli strumenti di questo disegno, nonché le varie sedi
dove si decidono strategie e tattiche, Piani e
Programmi, e si stanziano i Fondi. Il tutto, nella
“collaudata” logica dell’emergenza, che, quando non
arriva naturalmente, la si crea con artifizi e
stratagemmi, tali da innescare comunque le procedure
della somma urgenza e da vanificare ogni controllo
previsto dalla gestione ordinaria.
La cabina di regia
di questa folle politica è facilmente individuabile nel
C.I.P.E. (Comitato Interministeriale della
Programmazione Economica), una specie di Governo
Parallelo inventato dalla prima repubblica: versione
legalizzata del vituperato Sottogoverno (occulto) di una
volta, attraverso il quale – si ricorderà – avveniva
allora la spartizione della torta.
Un esempio di allegra gestione
delle pubbliche risorse è senz’altro la Delibera CIPE
del 12.5.1988 (8.000 miliardi di vecchie lire -
gazzetta ufficiale n. 144 del 21.6.1988),
scorrendo la quale si ha la chiara dimostrazione di
come si inventa l’emergenza: - approvare interventi
multimiliardari senza uno straccio di progetto; -
stabilire l’avvio dei lavori entro 120 giorni, pena la
revoca del finanziamento; - imporre la procedura
dell’appalto concorso. Ed il gioco è fatto. Diventa una
via obbligata affidare i lavori a chi ha già pronto il
progetto. A completare l’opera ci pensa l’art. 24 -
primo comma - lettera b), della legge 584/77, che
consente di gonfiare il costo dell’opera e di eludere la
contabilità dei lavori. A restringere poi il numero
degli “invitati” ci pensa la legge 80/87.
Con questo sistema furono
realizzate dalla Regione Basilicata diverse
“sistemazioni fluviali”, per l’ammontare complessivo di
528 miliardi di vecchie lire, di cui 264 prestati dalla
B.E.I. (Banca Europea per gli Investimenti). Ho potuto
esaminare le varie fasi (appalto, esecuzione e collaudo)
di quegli interventi. Non esistevano progetti; il valore
delle “opere” era meno di un quarto della spesa
sostenuta; ed alcune di esse, pur collaudate e
retribuite, non furono mai eseguite. Ora, a
distanza di 15 anni, quel debito non è ancora estinto,
ma di quelle opere c’è ben poca traccia.
Non credo che nelle altre
regioni sia andata diversamente. Comunque, volendo,
ognuno può verificarlo, consultando le Delibere CIPE.
Click
Chiunque può quantificare
la misura dello spreco, prodotto allora nella
propria regione. Può valutare il grado di attendibilità
dei vari Organi “partecipanti”. E può godersi la
barzelletta di quel Forfait da 57 miliardi,
assegnato al Presidente del Consiglio dei Ministri: per
“sistemare l’alveo di San Rocco” (?) (delibera
del 12.5.88).
Lo strumento che permise
simili “Operazioni”, ripeto, è la citata procedura di
gara prevista dall’art. 24 - primo comma - lettera b)
della legge 584/77. Procedura imposta dalle stesse
direttive del CIPE in quanto “norma di adeguamento
alle direttive della Comunità economica europea”. E’
una norma che prevede l’aggiudicazione della gara, non
in base al minor prezzo, ma in base ad una ”serie
di elementi di valutazione”. E’ una specie di
imbroglio legislativo, chiamato “il metodo
dell’offerta economicamente più vantaggiosa”,
che, grazie a quegli elementi – discrezionali, nebulosi
e fantasiosi – fa lievitare a dismisura l’importo
dell’appalto. Funziona in modo analogo, per le
forniture, grazie all’articolo 15 - primo comma -
lettera b) della legge 113/81.
Si tratta, insomma, di un
diabolico marchingegno normativo, inventato da
Tangentopoli, che trasforma la gara d’appalto in una
partita al “mercante in fiera”, in cui l’opera (o
fornitura) è solo una “base” per costruirci l’Operazione
spartitoria. L’importo dell’appalto è commisurato non
più al costo dell’opera (o fornitura) ma al numero e
all’appetito dei Commensali. Non so se veramente ci
stiamo “adeguando” all’Europa, ma una cosa è certa,
queste leggi disonorano il nostro Parlamento e
sconcertano chi ancora crede nello Stato di
diritto.
Così funzionava durante la
prima repubblica: …si alimentava la Corruttela, …si
finanziavano i Partiti …e si realizzava quel Macigno
da due milioni e passa di miliardi, di Debito
Pubblico, che grava sulla testa degli Italiani. Con
l’avvento della seconda repubblica non è cambiato
niente: il governo “parallelo” (centrale) è sempre
operante, e sorgono numerose altre sovrastrutture
(centrali e regionali).
Quanto alla famigerata
procedura d’appalto (art. 24 - primo comma - lettera b),
ha cambiato “vestito” (Decreti Legislativi n. 406/91,
358/92, 157/95, 158/95 ecc…), ma è ancora vigente e
foriera di Operazioni spartitorie. Non cambia
assolutamente niente. Negli ultimi quindici anni, è
cambiato il Governo centrale e molti di quelli
regionali, ma la politica sulla difesa del suolo è
rimasta la stessa, …e con gli stessi risultati:
alluvioni, detriti e tangenti. (v. Rassegna stampa –
4° articolo)
Non cambia niente, e nel
cittadino si fa sempre più vivo il sospetto che Destra e
Sinistra siano soltanto le diverse sembianze di un
Partito Unico Trasversale: - che manovra le
leve del potere; - che, attraverso Comitati e
Commissioni vari, realizza il consociativismo e
spartisce le risorse; - che stravolge le
competenze sul territorio; - che privilegia i
canali più disinvolti, penalizzando il rigore; - che
prostituisce la Tecnica e mortifica la Cultura.
Non cambia, ed è sempre più
difficile che possa cambiare. La “cultura” (e
coltura) delle mazzette è ormai radicata nelle leggi,
ancor prima che nelle intenzioni. Per coerenza andrebbe
cambiato solo l’articolo 1 della Costituzione:
l’Italia è una repubblica fondata sulla Tangente, e
non più sul Lavoro.
(Home)
(Sommario)
Le Manfrine degli
Ambientalisti.
Da perfetti fiancheggiatori
del Partito degli Appalti sono degli agguerriti
sostenitori della politica dell’incuria e
dell’abbandono. A partire dagli anni settanta, hanno
condotto una campagna di stampa contro l’escavazione
in alveo: una vera e propria guerra fatta di
proclami fasulli e pieni di menzogne, amplificati dalla
stampa e di grande effetto sull’opinione pubblica, come
”l’abbassamento degli alvei” e “l’erosione
della costa”. Vanno sostenendo che “il fiume
deve evolvere secondo natura", senza rendersi
conto che, perché ciò avvenga, bisognerebbe tornare alle
origini: sgomberare la pianura dalle “cose umane”,
restituirla al Fiume, suo padre naturale appunto, e
ritornare in montagna.
Con una tecnica fuorviante,
riescono a distogliere l’attenzione della gente da un
problema di pubblico interesse (il governo idraulico dei
fiumi appunto), ed a pilotarla contro l’interesse
privato: screditando e demonizzando una categoria di
imprenditori.
Secondo François de la
Rochefoucauld, “ci sono menzogne così ben camuffate,
che giocano con tanta naturalezza il ruolo della verità,
che il non lasciarsi ingannare equivarrebbe a mancanza
di giudizio”. Ormai, la convinzione che
l’escavazione in alveo danneggi l’ambiente è talmente
radicata nell’immaginario collettivo, che è difficile
persino parlarne. Chi osa mettere in discussione
questa Madornalità rischia di passare per pazzo.
L'oggetto di tanto accanimento
è il materiale litoide giacente nei corsi d'acqua.
Materiale che si trova lì – non dal giorno della
Creazione come in tanti credono – ma perché portatovi
dalle più recenti piene alluvionali. La pioggia dilava i
versanti, scioglie la terra, la trascina a valle e la
deposita nel fiume. Sono i cosiddetti detriti, che,
odiati e scongiurati durante le alluvioni, diventano
subito dopo “sacri e intoccabili”.
Oltretutto, gli inerti
fluviali sono una grande risorsa mineraria e potrebbero
costituire una notevole Entrata erariale. Ma
“non si devono toccare”. Comunque, al di là delle
mille mistificazioni “ambientali”, la foto “fiume
Adda a Rivolta” riassume alcuni dei veri termini di
questa diatriba nazionale sulla “escavazione in alveo”.
Vi si nota la simultanea presenza di un enorme accumulo
di materiale in alveo, di proprietà dello Stato,
ed a pochi metri, di fianco, una Cava fuori alveo,
di proprietà privata. Per il primo vige il “divieto
di prelievo”, la seconda può invece prelevare
quello che vuole, ed ha campo libero sul mercato,
grazie agli Impostori che riescono a “bloccare le
vendite” del concorrente Stato. Nel frattempo,
proprio quel cumulo in alveo rappresenta la causa,
potenziale ma certa, delle prossime esondazioni
dell’Adda.
Con l’accumularsi e lo
stratificarsi dell’apporto alluvionale, gli alvei si
ostruiscono, si innalzano, diventano pensili e i fiumi
straripano. Le alluvioni, sempre più ricorrenti,
sommergono qualsiasi forma di vita animale, vegetale e
industriale. A volte l’alveo è talmente ostruito, che il
fiume cambia corso (è accaduto diverse volte in Pianura
Padana, e di recente anche in Sardegna); distrugge
agricoltura ed insediamenti; riduce le pianure
fluviali in un mare di detriti.
Tutto questo accade sotto gli
occhi di tutti – e provoca ogni volta disastro e
morte – ma gli ambientalisti continuano, con folle
ed incredibile cinismo, a negare l’evidenza, a
raccontare menzogne, a travisare la realtà, a gettare
fango su una categoria di imprenditori, a manipolare le
coscienze… ad opporsi alla bonifica e regimazione
degli alvei.
Si è bello e capito. Il vero
obiettivo di costoro non è la tutela dell’Ambiente, ma
la gestione del Territorio: aree protette e parchi
fluviali. Per realizzarne ancora, “bisogna” liberare
altro territorio. Quale miglior sistema, se non la
politica dell’abbandono dei fiumi: prima o poi avviene
il disastro, il fiume cambia corso, e la fascia di
territorio abbandonato è libero, demanializzato e messo
a loro disposizione. Tutto secondo legge. Gli articoli
1, 2, 3 e 4 della legge 37/94 assecondano questo
obiettivo: stravolgono gli articoli 941, 942, 943, 945,
946 e 947 del codice civile, sulle accessioni fluviali,
e mirano alla statalizzazione della proprietà privata.
Nemmeno la mente di Stalin avrebbe partorito norme
simili.
Il nuovo “filone” si chiama
”Aree d’esondazione” (o Casse d’espansione). Ne sono
previste lungo tutti fiumi (nei piani delle Autorità di
Bacino). Costeranno miliardi di euro.
Sottrarranno milioni di ettari di prezioso suolo
all’agricoltura e ad altre attività, che producono
reddito, occupazione e tasse. Ma consentiranno di
organizzare parchi, oasi, aree protette. Dove
tutti potremo andarci in ricreazione. A spese di
Pantalone, naturalmente.
Fatte salve le tante persone
in buona fede, che militano nel Movimento ambientalista,
coloro che assecondano e sostengono questa folle
politica sono dei Marpioni in tuta mimetica: anche un
po’ matti. Dio ce ne scampi e liberi.
(Home)
(Sommario)
La fantomatica
erosione della costa.
L’argomento più usato, per
contrastare l’escavazione in alveo, è la cosiddetta
“erosione della costa”. Fenomeno che, secondo gli
“ambientalisti”, sarebbe in atto lungo tutte le coste
della penisola. L’estrazione in alveo va
assolutamente vietata, si sente dire, perché
sottrae il materiale necessario al ripascimento delle
spiagge (come togliere la biada ai cavalli ?). E’
l’argomento usato anche in Basilicata dai vari “tutori”
nostrani dell’ambiente, in “difesa” della costa
jonica. Salvo poi ad incontrare alcune delle stesse
persone, che – sotto l’egida dell’orsacchiotto e della
paperella – avallano l’asportazione di 7 milioni di
mc. dall’alveo del fiume Basento (in un appalto da
113 miliardi di v. l., nel periodo della grande
abbuffata di Fondi FIO degli anni ’86-‘90).
Al di là degli allarmismi
“ambientali” (e strumentali), che parlano di erosione, i
dati ufficiali dell'Annuario Statistico Italiano (ISTAT)
dimostrano esattamente il contrario. Risulta infatti che
la superficie del territorio nazionale è andata
aumentando, dal 1951 in poi, secondo i seguenti valori
di incremento progressivo: 163 Kmq nel 1960; 196 nel
'70; 208 nell'80; 246 nel '90; 278 kmq nel 1994,
passando dai 301.055 del 1951 agli attuali 301.333 Kmq..
Quindi, a meno che non abbiamo occupato un po’ di
Francia o di Svizzera, questo “dilatarsi” dello Stivale
si può spiegare solo con un generale avanzamento
della linea di costa, e non certo con il suo
arretramento.
Per capire meglio il fenomeno
(quello vero), descrivo nel dettaglio ciò che accade
lungo il tratto lucano della costa jonica. Essa
in realtà è in continua ed accertata progressione: è
avanzata di 2.000 metri in 2.500 anni (v. Studio di
Schmiedt e Chevallier, 1959), con un forte incremento
del fenomeno negli ultimi 60 anni (v. mappe dell’Ufficio
Tecnico Erariale). Dall’impianto (1920) del Catasto in
poi, la linea di costa lucana – esclusi i tratti
relativi ai delta fluviali – è avanzata in media di 150
metri; e più esattamente: di 40 m. a Metaponto, 180 a
Scanzano, 350 a Policoro, 300 metri a Nova Siri. Dati
confermati da rilievi topografici, confrontati con le
mappe IGM del 1949.
La fascia jonica,
si sa, è una pianura di origine alluvionale, che si è
formata e cresciuta grazie al millenario apporto solido
dei 4 fiumi lucani del versante jonico: Agri, Basento,
Bradano e Sinni. Una corretta valutazione del processo
evolutivo di un litorale richiede l’esame contestuale di
lunghi tratti di costa (osservandone l’evoluzione per
lunghi periodi) ed occorre inoltre tenere ben presente i
due distinti momenti del processo stesso: accumulo del
materiale trasportato dalle piene nella zona del delta
fluviale, in una prima fase; distribuzione di quello
stesso materiale su lunghi tratti di costa, per
l’effetto di onde e correnti marine, verso un
modellamento uniforme e lineare del litorale, in una
seconda fase.
A causa delle numerose dighe,
sorte in questi ultimi 40 anni (almeno due per ognuno
dei suddetti 4 fiumi), l’apporto solido si è ridotto
notevolmente, e quindi si è praticamente arrestata la
fase di accumulo presso le foci. Ma la fase di
distribuzione, che evidentemente richiede tempi lunghi,
è ancora in atto. Per cui sono tuttora riscontrabili
entrambi i due contrapposti fenomeni: erosione,
presso i delta fluviali, e progressione, lungo i
tratti intermedi tra una foce e l’altra. E’ chiaro che
questa seconda fase continuerà – verso una relativa (ed
auspicabile) stabilizzazione della linea di costa
– fino a quando non saranno eliminate le residue
prominenze, ancora esistenti in prossimità delle foci.
Il descritto smussamento dei
delta fluviali – che, ripeto, è una fase del processo di
modellamento della linea del litorale jonico – viene
invece strumentalmente scambiato per
erosione. Come ad esempio sta facendo l’ENEA della
Trisaia, che proprio alla foce del Sinni ha installato
una condotta di scarico che si inoltra nel mare jonio.
A tal proposito, trascrivo
testualmente quanto è riportato in uno “Studio” del
1998, condotto dalla Facoltà d’ingegneria
dell’Università della Basilicata (G. Spilotro ed altri).
A pag. 17 c’è scritto: “Uno studio più recente,
sempre relativo alla foce del fiume Sinni è stato
condotto da alcuni ricercatori dell’ENEA (B.Anselmi ed
altri, 1986). I profili batimetrici ricavati nell’ambito
del predetto studio, tracciati lungo la condotta
di scarico dei rifiuti radioattivi, hanno
mostrato come la tendenza all’arretramento sia iniziata
già nel 1970,…” Di fronte ad una tale
sconcertante Enormità, mi chiedo di cosa dovremmo,
noi lucani, preoccuparci di più: del fatto che la
cosiddetta “erosione” possa far franare quella maledetta
condotta, oppure che l’ENEA della Trisaia continui a
scaricare a mare i suoi veleni radioattivi ?. Ed
infine mi chiedo: come mai si protesta tanto per
le scorie che stanno per arrivare, e non si dice
niente per quelle che, tramite quella condotta, ci
avvelenano da anni?.
E così si ingigantisce il
falso problema della costa, ma si ignora quello che è il
vero e reale problema in Basilicata: l’accelerato
processo di erosione del suolo – diffusissimo su
rilievi e versanti, ed in forte incremento negli ultimi
anni – che rende sempre più “pendulo” lo “sfasciume”
lucano.
Tornando al fiume Po, c’è da
dire inoltre che quella parte di apporto solido che va a
depositarsi in riva al mare: da una parte allunga lo
sviluppo planimetrico del corso d’acqua, con
ripercussione sull’andamento altimetrico (riduzione
delle pendenze ed incremento del processo di
sedimentazione); dall’altra provoca l’interramento dei
fondali, sia del tratto terminale del fiume che di
quello marino, con ripercussione sulla navigazione.
Nell’agosto ’93 l’ing. Mario
Zaniboni scriveva: “Il Po, per esempio, dai tempi
dell’impero romano si è addentrato nell’Adriatico per
parecchi chilometri (oltre 50); considerato che questo
mare, alla latitudine del Po, è largo poco più di 200
chilometri e che la sua profondità massima è di 40
metri, si può anche temere, a distanza di tempo, per il
suo futuro e per quello dei porti di Venezia e di
Trieste”.
A causa dell’accentuato interramento dei fondali è ormai
impossibile ripristinare l’originario tirante d’acqua di
3-4 metri (il minimo indispensabile per assicurare il
transito di navi fluviali marittime). Le Regioni Emilia
Romagna e Veneto spendono ogni anno decine di milioni di
euro per il dragaggio dei fondali (col sistema degli
appalti, naturalmente), per mantenere la residua
e precaria efficienza del Sistema Idroviario Padano
Veneto. Altro che erosione della costa,
ripascimento delle spiagge e tutte le Balle
inventate, su commissione, dalla Subcultura italiana.
(Home)
(Sommario)
10.
Le inadempienze degli Organi preposti.
Tra le finalità perseguite dal
piano di bacino (ex art. 17 della legge 183/89 sulla
Difesa del suolo, legge istitutiva delle Autorità di
Bacino) è prevista “la normativa e gli
interventi rivolti a regolare l’estrazione dei materiali
litoidi … in funzione del buon regime delle acque”.
Il D.P.R. del 14.4.93 impone
il ripristino della sezione di deflusso e
l’eliminazione dei materiali pregiudizievoli al regolare
deflusso delle acque. L’art. 5 della
legge 37/94 ribadisce lo stesso concetto e contempla
l’intervento estrattivo, nel rispetto preminente
del buon regime idraulico.
L’articolo 2 della legge n.
365/2000 stabilisce che l’Autorità di bacino provveda
ad effettuare un’attività straordinaria di
sorveglianza e ricognizione lungo i corsi d’acqua, a
rilevare le situazioni di pericolo ed a identificare gli
interventi di manutenzione più urgenti.
Manutenzione, quindi, più che pianificazione. Ma
tutto questo viene disatteso, in totale spregio delle
leggi, e con grave danno per il Paese.
Con l’avvento della 183/89 era
nata la speranza di una svolta nella Difesa del Suolo.
Ma così non è stato. L’attività conoscitiva
delle mille problematiche inerenti la conservazione,
difesa e destinazione del suolo – prevista dalla legge -
è rimasta sulla carta. Le Autorità di bacino sono
delle ingombranti sovrastrutture, che, tra l’altro,
funzionano in modo antidemocratico. Con i loro
“Piani” arbitrari e campati in aria, possono
stravolgere, senza dar conto a nessuno, i Piani
regolatori comunali, costati anni di studi e
confronto democratico. Condizionano le decisioni degli
altri uffici, ma senza assumerne la
responsabilità. Non si poteva fare di meglio, per
alimentare il conflitto di competenze ed il conseguente
immobilismo. Avrebbero invece ottemperato al dettato
della 183/89, e conseguito il buon regime
idraulico indicato dalla 37/94, se
avessero semplicemente definito la sezione di
deflusso dei corsi d’acqua.
Si è persa la cultura, sia del
“buon governo idraulico” che della “buona economia”. Si
è perso il contatto con il territorio, la capacità di
capirne le problematiche e di progettarne le soluzioni.
Si è perso il concetto di “manutenzione preventiva”; si
aspetta il disastro per intervenire. E quando questo
arriva, si scopre tutta l’inettitudine degli Uffici
pubblici, ridotti ormai al ruolo di retrobottega di
Studi ed Imprese private.
Per contro, assistiamo al
moltiplicarsi di pani… poltrone… e sovrastrutture
burocratiche: adb, aato, arpa, aipo; al loro
vaniloquio, per convegni, seminari… e per consulti
infiniti intorno al capezzale del fiume Po; al
proliferare di nuovi Uffici (anzi Pianifici),
dove si pianifica e ripianifica, riciclando carta e
contenuto. Tutti a pianificare, studiare, monitorare,
per miliardi di euro, ma nessuno che provveda alla messa
in sicurezza del territorio,
neanche se attuabile a
costo zero; e nessuno
che ne abbia la responsabilità.
Per spartirsi il potere
s’inventano mille competenze artificiose, ma sfuggono ad
ogni responsabilità. Sono in apparente conflitto tra
loro, ma concordi e consociativi verso un unico
obiettivo: l’allegra gestione del Denaro Pubblico che,
dopo un disastro alluvionale, arriva copioso e da
spendere: con somma urgenza e… senza
controllo.
Siamo nelle mani di una
massa di Irresponsabili,
che, ripeto, trattano la Difesa del suolo non come un
obbiettivo da perseguire, ma solo come un pretesto
per attivare finanziamenti da gestire. Ed al momento
delle decisioni si prediligono gli interventi che
“pagano di più”: ad esempio la ricostruzione di un ponte
(costosissima ma superflua), anziché la pulizia di un
alveo fluviale o la demolizione di una briglia
(interventi economici ma indispensabili).
Per colmo, costoro non
rispondono mai delle loro azioni. Quando succede un
disastro alluvionale assistiamo ad un fuggi-fuggi delle
cosiddette “Autorità idrauliche competenti”: uniche
responsabili del disastro stesso; ed ogni volta vediamo
che il fatidico “cerino” si spegne in mano a sindaci e
prefetti (per mancato allarme); oppure in mano alla
protezione civile (per mancato soccorso).
Non si fa niente per ridurre
il rischio idraulico, ma ad ogni alluvione le Autorità
di Bacino aggiornano i cosiddetti PAI - piani
d’assetto idrogeologico, che altro non sono che
piani di evacuazione progressiva del territorio.
Nel senso che, invece di (ri)mettere in sicurezza le
zone alluvionate, si pensa di allontanarvi la gente,
allargando le fasce di rispetto intorno ai fiumi, ed
imponendo divieti di edificabilità.
Sono attualmente allo studio
delle Autorità di Bacino i Piani di delocalizzazione
di vaste aree della Pianura Padana. Con evidente
crollo del valore di terreni ed insediamenti. Ma con
somma gioia di certi Lestofanti, camuffati da
Ambientalisti, che mirano ad appropriarsi di quei
terreni, sottraendoli, di fatto, alla sovranità dei
Comuni e ponendoli sotto l’autorità degli Enti Parco
(altre sovrastrutture): “per crearvi l’habitat ideale
per fauna e flora, e per la ricreazione dell’uomo”.
Ma soprattutto per avere il controllo sull’economia di
quel territorio. Ed anche per aprirvi tante Cave
fuori alveo, con giro d’affari da milioni di euro:
cave, spesso presenti, guarda caso, nei parchi
fluviali della Pianura Padana.
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(Sommario)
11. La responsabilità dei Politici.
Devo evidenziare la loro
totale indifferenza alle mie denunce. Ed anche qualche
iniziativa aderente allo stesso scellerato Disegno. Col
pretesto di disciplinare l’attività estrattiva, sbuca
ogni tanto qualche proposta di legge pensata ad hoc
per sopprimere l’estrazione in alveo. Cito due
tentativi del genere: - 1) Disegno di legge del Senato
n. 2451/90; - 2) Proposta di legge regionale di
Basilicata del 2001. Entrambe del seguente tenore:
1) sono vietati i prelievi
dei materiali negli alvei dei fiumi; 2) l'autorità
preposta progetta l'eventuale prelievo dei materiali in
eccesso e ne dispone l'esecuzione con pubblico appalto;
3) è vietata l'alienazione dei materiali estratti.
Dunque: si vieta il prelievo
se eseguito con l’attività estrattiva (e con Entrate),
lo si consente, invece, se eseguito con il sistema degli
appalti (e con Spese); e così, tra il primo e il secondo
punto, lo Stato piglia una fregatura di alcuni
miliardi di euro all’anno. Rimane da spiegarsi il
punto 3). Perché vietare la vendita del materiale in
eccesso?. Si tratta in fondo di un bene
demaniale, che ha un suo valore di mercato e che
potrebbe tradursi in un’economia per la P.A.. Allora,
perché vietarne la vendita?. Ed ecco la spiegazione:
vietata la vendita, quel materiale non può comparire in
contabilità, se non come materiale di risulta da
trasportare a rifiuto. Ed infatti finisce a
rifiuto (di solito presso gli stessi Impianti di
produzione inerti), ma dopo trattative
sottobanco, fatture false e quanto altro occorre… per
costituire fondi neri ed erogare tangenti.
A parte i due suddetti
tentativi, finiti per ora nel nulla, le leggi degli
ultimi venti anni non aiutano certo nel senso della
chiarezza e trasparenza. Anzi, sono piene di deroghe che
ne stravolgono il significato e le rendono
controproducenti. Impongono vincoli generici sul
territorio, senza mai stabilire criteri oggettivi di
valutazione. Sono strumenti di potere in mano ai padroni
della cosa pubblica, dei nulla-osta e delle concessioni,
che così possono, a loro discrezione, autorizzare (o
negare) il tutto (o il suo contrario) a seconda del
caso… e del soggetto proponente (legge n.431/85).
Negli appalti pubblici,
ripeto, vi sono leggi che trasformano la gara in farsa e
permettono l'aggiudicazione a chi pare e piace. Si
persegue un progetto di oligarchia delle imprese; alle
quali viene imposta l'appartenenza al “gruppo” (ATI -
associazione temporanea d’imprese). Chi non vi aderisce
viene escluso dal giro, “per insufficiente volume
d’affari”. Leggi che consentono enormi e facili
guadagni, e fanno da richiamo ad Avventurieri e
Tangentisti: nuovi protagonisti del mondo delle Imprese.
Nascono nuovi uffici e
sovrastrutture, ognuno dei quali assume qualche
competenza – e tanto potere – nella gestione della cosa
pubblica, ma con nessuna responsabilità sul proprio
operato. Lo stesso art. 2 della recente legge 365/2000 –
che, con evidente preoccupazione del legislatore, verso
le diffuse situazioni di pericolo, detta una
serie di adempimenti urgenti alle Autorità di Bacino – è
rimasto del tutto ignorato, per il semplice fatto che
non vi è prevista alcuna sanzione. Ma non solo. Con
le parole “nell’ambito degli ordinari stanziamenti di
bilancio”, riportate nello stesso articolo 2, si
offre addirittura una scappatoia: a Lassismo e
Menefreghismo.
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(Sommario)
12. Le
colpe del Palazzo di Giustizia.
Mi scuso intanto per i
riferimenti che qui faccio alla mia vicenda giudiziaria,
che potrebbero tediare il lettore ma che servono, a
titolo d’esempio, per capire meglio come (non) funziona
la nostra giustizia, e quali le conseguenze.
Il Disegno criminoso
(descritto nel cap. 7) che
mira all’abolizione dell’estrazione in alveo ed alla
criminalizzazione degli operatori del settore: -
è stato concepito, ripeto, nella logica
dell’emergenza, dalla follia “ambientalista” e per gli
interessi della lobby Tangenti & Appalti; - è
cresciuto, in campo nazionale, grazie agli abusi
degli Uffici preposti; - ma deve la sua “buona
riuscita” all’aiuto delle varie Autorità
Giudiziarie. Le quali, con noncuranza e pregiudizio, e
con lungaggine di processi, negano di fatto giustizia e
tutela a chi vuole operare nella legalità, e
di fatto garantiscono l’impunità ai
Mascalzoni che – dall’interno delle istituzioni –
perseguono questo ignobile disegno, e che, grazie a
questa specie di immunità, riescono ad organizzarsi
in “Sistema”.
Contro questo sistema,
operante (anche) in Basilicata, sto lottando da dieci
anni con la mia azienda: cercando da una parte di
ottenere le concessioni estrattive reali (e non
virtuali) per poter operare nella legalità; dall’altra
denunciando gli abusi, omissioni e falsi in atti
d’ufficio, nonché la collusione tra i funzionari
preposti all’attività estrattiva e la lobby degli
appalti di “sistemazioni fluviali”; denunciando il danno
erariale derivante da tale connubio, nonché gli appalti
truffaldini consumati nei fiumi lucani durante la
“campagna” dei Fondi FIO degli anni ’85-’90: un
immane spreco di pubblico denaro. Gli archivi delle
Procure di Matera e Potenza sono pieni di queste
denunce: tutte finite sotto la sabbia.
Nel febbraio ‘95 denunciai
il “sistema” delle concessioni virtuali (“ti
autorizzo un metro cubo ma ne puoi prelevare 10”),
imposto dagli uffici e diffusamente praticato in
Basilicata; evidenziai l’impossibilità di operare
nella legalità, in un contesto simile, e chiesi
l’intervento dell’autorità giudiziaria. Ma l’unica
azienda su cui la Guardia di Finanza ha indagato, nel
1996, per estrazione abusiva, è stata la mia (???).
Intanto, la prassi fraudolenta delle concessioni
virtuali, è tuttora in uso: diffusa e indisturbata.
Nel marzo ‘99, a seguito di un
diniego della Regione ad una mia richiesta di
concessione – diniego motivato con falso ideologico,
cioè con citazione manipolata di un articolo di legge
– presentai ricorso al Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche in Roma. Il quale a tutto oggi
non ha ancora deciso ma nel frattempo: - ha nominato
un Consulente Tecnico d’Ufficio (C.T.U.), che si scopre
essere cointeressato con la controparte Regione
Basilicata, avendo partecipato alla citata “campagna” di
Fondi FIO, in qualità di progettista di due sistemazioni
fluviali nel fiume Agri, per l’importo complessivo di 67
miliardi di vecchie lire; - ha sposato ciecamente
il parere del suddetto; - se ne frega altamente
della relazione tecnica di parte, nonostante questa
metta in evidenza le oggettive incongruenze del CTU; -
salta di palo in frasca, deviando il processo dai
quesiti tecnici iniziali alle stravaganti conclusioni di
costui; - si rifiuta ostinatamente di effettuare
un’ispezione diretta dei luoghi (più volte richiesta)
che avrebbe potuto chiarire ogni cosa sia sulla
necessità, urgenza e pubblica utilità dell’intervento
da me proposto, sia sulle madornali corbellerie
avanzate dal CTU; - e rinvia, di semestre in
semestre, per la decisione.
Il tutto si spiega con
l’ignoranza, su questioni tecnico-ingegneristiche,
dello stesso giudice; il quale – guidato forse da
pregiudizi – trasforma in anticipata sentenza la
relazione del CTU, senza neanche leggere la relazione di
parte.
Avrà di certo influito la
diversa “dignità” delle firme, visto che il CTU è un
Docente Universitario, mentre il perito di parte è un
giovane ingegnere idraulico: una forma di handicap
del resto inevitabile. Difatti pur volendo non avrei
potuto disporre di un consulente di pari grado, perché
la legge non permette ai docenti universitari di
espletare incarichi simili, per conto di soggetti
privati. L’altro handicap che ho dovuto subire è
stato il divieto di parlare durante le udienze:
divieto imposto dalla “procedura”. Nel rispetto della
quale, il primo risultato che si ottiene, ricorrendo
alla nostra Giustizia, è la perdita del
diritto alla parola: alla faccia dello Stato di
diritto.
Il Consiglio Superiore della
Magistratura, al quale ho segnalato questo modo a mio
avviso singolare di amministrare la giustizia, prende
fischi per fiaschi – confondendo il Tribunale
delle Acque di Roma con il Tribunale fallimentare di
Matera – mi fa sapere che non trova niente di irregolare
e delibera per l’archiviazione.
Il Ministro della Giustizia
ignora del tutto la mia segnalazione.
E così mi ritrovo ad essere di
fatto giudicato, non da un giudice ma da un CTU, che,
guarda caso (?), trae la sua linfa dal giro di appalti
miliardari delle “sistemazioni fluviali”, cioè da quello
stesso sistema contro il quale sto lottando da dieci
anni. Questa insomma è la giustizia: ritardata,
sommaria, pregiudiziaria, e handicappata, che mi
tocca subire dal Tribunale Superiore delle Acque
Pubbliche, in Roma.
Nel frattempo, durante questi
sei anni, quella difesa spondale del fiume
Basento – alla cui conservazione era finalizzato
l’intervento di manutenzione da me proposto, con
l’istanza in questione – è per buona parte crollata,
con danno erariale per centinaia di migliaia di euro.
Viene a questo punto da chiedersi: a chi si deve
addebitare di più, questo danno, ai Mascalzoni della
struttura regionale che, calpestando la legge, si
rifiutano di adempiere al loro dovere, o ad un Giudice
che – guardando con diffidenza e pregiudizio solo
all’interesse privato del ricorrente – si trastulla di
rinvio in rinvio, senza curarsi delle inadempienze di
quei mascalzoni, e senza accorgersi del grave danno,
che, anche a causa dei suoi rinvii, viene arrecato
all’Interesse Generale?.
Dal canto suo, la lobby
degli appalti assiste a tutto questo con somma
gioia. Ma non solo. Ricordando la ben riuscita
“Operazione” – compiuta proprio nel costruire quella
difesa spondale: realizzandone solo una metà,
collaudando due volte la stessa metà, e facendosi
pagare l’intera opera, da 15 miliardi del
vecchio conio – aspetta con ansia che se ne decida
la ricostruzione… e già si prepara per un’altra
“operazione”, riveduta e corretta, da 15 milioni
del nuovo conio.
Dopo dieci anni di denunce, di
vane aspettative o di esiti sconcertanti, mi sono
reso conto che in questo Paese si può operare
indisturbati nell’illegalità, ma chi persegue la
legalità non trova tutela da nessuna parte,
ed alla fine è costretto a chiudere. Ho capito inoltre
che da questa giustizia è preferibile starne alla larga,
quanto meno per evitarne i costi.
Nota bene:
questo capitolo va
doverosamente aggiornato per un fatto importante
accaduto nel gennaio 2005: il Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche ha emesso la sua sentenza con la quale
accoglie il mio ricorso e condanna la Regione
Basilicata; sentenza che comunque sino ad ora non ha
sortito alcun effetto pratico.
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(Sommario)
13. La beffa della Protezione Civile.
La Protezione Civile,
per parte sua, aggiunge la beffa al danno. Su “la
Stampa” del 23.7.2003 (v. rassegna stampa), in piena
emergenza siccità, il Dr Guido Bertolaso,
Capo della Protezione civile lancia l’allarme su
un’altra emergenza, ancora più grave ed imminente, cioè
le alluvioni che si preannunciano per l’autunno-inverno
successivo; e dichiara: “Il rischio è che arrivi una
stagione di alluvioni. Adesso che i fiumi sono in secca
abbiamo chiesto alle Regioni di approfittare
della situazione per pulire gli alvei. Non si tratta
di fare allarmismi, ma il rischio è reale”.
Date le diffuse aspettative su
questo fronte, sembrava fosse giunta finalmente una
parola chiara da parte delle Autorità; che si volesse
affrontare con decisione il problema; e che, dopo questa
autorevole “intimazione”, sarebbe tempestivamente
partita, su larga scala, la pulizia e regimazione degli
alvei fluviali. Ma niente di tutto questo: dopo
l’esultanza arriva la delusione… e si capisce ch’è
tutta una presa per i fondelli. Leggendo infatti la
Circolare n. dpc/dip/0034681 del 07.08.2003 (v. rassegna
stampa), inviata a ministeri, prefetture, regioni e
province, dallo stesso Capo della Protezione Civile, si
scopre che con quel “pulire gli alvei”,
egli non si riferiva ai tanti milioni di mc di ghiaia
e sabbia – che ostruiscono gli alvei e rappresentano
la vera causa di alluvioni e disastri – ma solo alla
mondezza che li sporca: stracci, lattine vuote,
buste di plastica, rami secchi ecc…
E così, da una parte si illude
(e si inganna) la gente preoccupata del pericolo
incombente, dall’altra si dà la possibilità, a chi ci
specula sopra, di organizzare sceneggiate
televisive, con squadre di volontari, di ignari adulti e
bambini innocenti; e di farsi un po’ di pubblicità sulla
equivocata “pulizia degli alvei”, raccogliendo
quattro sacchi di mondezza. Quanto al vero
rischio idraulico, al “rischio reale”, non
si è fatto molto per ridurlo, niente di veramente valido
per (ri)mettere in sicurezza il territorio, ma si è
pensato soltanto a come allertare e far scappare la
gente da quel territorio. Assistiamo infatti al
proliferare di costosi piani comunali d’emergenza,
concepiti nell’ottica del “si salvi chi può”.
Piani che alla prima prova si rivelano a volte
inadeguati e persino grotteschi; e che servono solo ad
alimentare la psicosi del pericolo, la paura nella
gente: a rendere più precario il rapporto con il
territorio d’appartenenza.
A distanza di un anno (dalla
sopra citata intervista) il Capo della Protezione civile
è passato da quel grido d’allarme a delle rassicuranti
dichiarazioni. In diretta dallo storico ponte Cittadella
di Alessandria – durante la trasmissione di
“Tgr-ambiente Italia” del 6 novembre 2004 – egli ci
fa sapere che il pericolo non c’è più, o che
comunque si è ridotto di molto; tanto è vero che il
numero dei morti è andato riducendosi, di alluvione
in alluvione, fino ad azzerarsi nel 2002.
Paragonando la Pianura Padana
ad una nave – che al primo naufragio è affondata con
tutti i passeggeri – Bertolaso tiene ad evidenziare che,
grazie appunto al tempestivo allarme ed al potenziamento
della “sua” flotta di salvataggio, al terzo o quarto
naufragio, pure i topi si sono salvati. Trascura però un
piccolo dettaglio: quella nave comunque è affondata di
nuovo (e più volte), e con miliardi di danni ogni volta;
e le condizioni di “galleggiamento” sono sempre più
precarie. Alludo al rischio esondazione, ch’è sempre più
alto essendo gli alvei fluviali sempre più ostruiti.
Alludo a quel “rischio reale”, insomma,
che tanto lo preoccupava un anno fa, e che ora,
improvvisamente, gli è passato di mente.
Sarebbe tutta da ridere questa “Opera buffa”
istituzionale, se non fosse per il prevedibile finale in
tragedia, per tante vite umane.
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(Sommario)
14. La complicità della stampa.
Giornali e televisioni hanno
la grande colpa di aver consentito a tanti lestofanti,
camuffati da ambientalisti, di perpetrare, attraverso le
loro pagine e ribalte televisive, la manipolazione
dell’opinione pubblica, con stupidaggini varie,
del tipo: i fiumi devono evolvere secondo natura;
oppure: il materiale serve al ripascimento della
costa”.
Decenni di siffatta campagna
di stampa, contro l’escavazione in alveo, hanno
prodotto e radicato nell’immaginario collettivo non
pochi pregiudizi, contro questa attività e contro chi la
pratica. Pregiudizi che producono effetti
fuorvianti, non solo durante le “chiacchiere al bar”
ma anche nelle Sedi ufficiali, giurisdizionali ed
istituzionali, dove si decide e si giudica
sull’argomento. Pregiudizi, che influenzano tutti e che
evidentemente bloccano ogni seria indagine
giornalistica.
Sono dieci anni che tento di
richiamare l’attenzione della stampa su questo
scellerato disegno. Ma niente da fare. Tutti zitti su
questi problemi. Salvo poi a ritrovarli tutti mobilitati
in occasione degli eventi calamitosi: dai più bravi
fondisti e conduttori, agli opinionisti, “guardiani del
potere” e velinari della follia “ambientalista”. Solo
allora fioriscono i “forum” e le “tavole rotonde”; si
riempiono prime, seconde pagine e giornali interi, di
cronaca sugli avvenimenti. Tutti a rappresentare la
scenografia del disastro; a riferire le versioni “ad
hoc” dei responsabili; ad elencare le spiegazioni
“ambientaliste”; a scavare nel dolore e nella
disperazione della gente… ed a fare la conta dei
morti.
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(Sommario)
15. Urge una svolta.
Per il bene del Paese, per
la vita e l’economia di intere popolazioni:
urge una svolta a questa
scellerata politica.
Se non si provvede
alla pulizia, bonifica e regimazione degli alvei, al
ripristino della loro sezione di deflusso –
nell’ottica e con i criteri del buon governo idraulico –
fra non molti lustri, la pianura padana dovrà essere
evacuata: da persone e cose. E non ci sono argini che
possano salvarla.
Di fronte al vuoto ed al
marasma istituzionale,
ed all’inerzia degli “Organi
competenti”, peraltro inaffidabili e inattendibili,
l’auspicata svolta può nascere solo dalla mobilitazione
organizzata dei cittadini. Urge pertanto una loro
presa di coscienza; una diretta conoscenza dei problemi;
un ruolo attivo e propositivo nella ricerca delle
soluzioni. Urge una
decisa azione di protesta popolare,
verso ritardi e inadempienze degli Uffici.
Ma servono anche delle
iniziative di approccio tecnico:
sia verso il problema, del rischio idraulico, che verso
le varie soluzioni. Il tutto, previa liberazione da
pregiudizi e feticismi “ambientali”, e dalle varie
sudditanze ideologiche. Certo, serve pur sempre una
svolta Politica. Ma la si può sperare solo se il
problema reale diventa anche elettorale: se insomma
diventa una questione di voti. Da qui
l’esigenza di una consapevole ed organizzata
mobilitazione popolare.
Il Comune
– magari coadiuvato dai comitati cittadini, e previa
riconquista della sovranità sul territorio – potrebbe
effettuare le suddette verifiche, e individuare le
situazioni a rischio esistenti lungo i fiumi.
D'altronde, lo stesso articolo 2 della legge 365/2000
(Attività straordinaria di polizia idraulica e di
controllo sul territorio) – emanata subito dopo
l’alluvione “Piemonte 2000” – stabilisce una serie di
accertamenti al fine di: “individuare le situazioni
di pericolo, per persone e cose… sia a carattere
incombente che potenziale… ponendo particolare
attenzione… sui restringimenti delle sezioni di
deflusso… sull’efficienza e la funzionalità delle opere
idrauliche esistenti (tra cui le briglie)…
sulle situazioni d’impedimento al regolare deflusso
delle acque”. Accertamenti da
farsi a cura dei vari Enti competenti sul territorio,
tra cui i Comuni.
Il Sindaco
– cui compete per legge la sicurezza dei cittadini –
dovrebbe denunciare l’immobilismo degli organi preposti,
informare i cittadini e coordinarne la protesta,
affinché la loro azione possa svolgersi in termini
civili, e ne possano sortire effetti benefici e
immediati. Consentire che la gente abiti nelle aree
a rischio, senza fare qualcosa per eliminarlo, è come
permettere l’uso di una casa pericolante, danneggiata
dal terremoto, che crollerà con la scossa successiva.
Tenere poi la
gente all’oscuro del pericolo, è ancora più grave e
immorale.
Quanto a tutto il resto,
speriamo che
Buonsenso prevalga e… che metta fine
all’immane Sperpero di denaro pubblico… che induca
il Parlamento ad abrogare le leggi di Tangentopoli…
che smantelli tutte le sovrastrutture… che faccia
pulizia di Ambiguità, Cialtroneria, Indolenza ed
Arroganza, di cui sono pieni i Palazzi del potere…
che risollevi questo Stato dallo stato confusionale
in cui sta sprofondando… e che ne arresti lo
sbriciolamento, attualmente in corso.
(Home)
(Sommario)
Saranno gradite osservazioni,
critiche e richieste di chiarimenti.
Via F.lli Cervi, 5 - 75019
Tricarico (MT)
tel: 348.2601976;
e-mail:
nicolabonelli@fontamara.org;
Foto 1 - le cause:
ostruzione dellalveo (LAdda a Rivolta)
Foto 2 - gli effetti: Lodi sottacqua
(Alluvione 2002)
Fiumare Padane
Alcune immagini del fiume Ticino
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