State per essere reindirizzati al nuovo sito "http://www.fontamara.org"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



                                                                      VISITA LA LUCANIA

 lettere da Fontamara

                                                                  di Nicola Bonelli

 

     L'acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre

     la terra in perfetta sfericità, s'ella potesse....     (Leonardo da Vinci)


Un Oscuro Disegno

 Nazionale

Opere e metodi di Tangentopoli (anni '80)

Malcapitati fiumi d'Italia

(giugno 1991)

 

Legalità perduta

in Basilicata

 

Decisioni demenziali della Pubblica Amministrazione

"Indagine conoscitiva"

VIII Commissione

Camera dei Deputati

Sventurati fiumi d'Italia

(maggio 2005)

Rassegna Stampa:

cronaca di alluvioni, detriti e tangenti

Aggiornato il: 15.05.2005

                                     

 

un Oscuro Disegno Nazionale

(quel che cova sotto il Tricolore)

 

Se potessi, suonerei giorno e notte le campane a martello:

per scuotere la gente dal sonno dell’indifferenza

e dallo stordimento della controinformazione.

    

L’attuale politica sulla Difesa del suolo e sul governo idraulico dei fiumi – politica fondata su incuria ed abbandono; contraria ad ogni forma di manutenzione preventiva; ispirata e sostenuta da un “ambientalismo” strumentale; politica perseguita nella logica dell’emergenza dalla lobby Tangenti & Appalti – sta oscurando l’Italia e ne sta sfasciando il territorio. Le pianure fluviali sono ad altissimo rischio idraulico; la vittima più importante è la Pianura Padana.

 

Sommario:

                        1.   Rischio idraulico in Pianura Padana;

 2.   Tra le cause di un'esondazione fluviale;

 3.   Crollo di ponti e difese spondali;

 4.   Fiumi in secca e falda acquifera;

 5.   Casse d’espansione lungo l’Arno;

 6.   Il caso emblematico di Lodi;

                  7.  La logica dell’Emergenza;

 8.   Le manfrine degli Ambientalisti;

 9.   La fantomatica "erosione della costa"

10.  Le inadempienze degli Organi preposti;

11.  La responsabilità dei Politici;

12.  Le colpe del Palazzo di Giustizia;

13.  La beffa della Protezione Civile;

14.  La “complicità” della stampa;

15.  Urge una svolta;

Nota bene: il presente Appello nasce, tra l’altro, dalla certezza di un grave pericolo per la vita e l’economia di intere popolazioni. Ha lo scopo di stimolare il dibattito nelle famiglie, nelle scuole, tra i Giovani su un problema reale, che viene per lo più ignorato, sottovalutato, ed anche travisato. Vuol essere inoltre un solidale contributo, di conoscenza e d’informazione, alle popolazioni di ex e potenziali Alluvionati d’Italia. Spero che induca a riflettere, e che aiuti a capire… a correggere… a prevenire…

 

Se condividi… passaparola… suona le campane…

 

(segnala ad un amico)

 

  1. Rischio in Pianura Padana.

(per analogia, in tutte le pianure fluviali)

 

L’Acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potesse… Così descrive, Leonardo da Vinci, il processo d’erosione del suolo: processo naturale, tra quelli che incidono sull’evoluzione morfologica della crosta terrestre. Ogni volta che piove, l’azione meccanica dell’acqua asporta dai rilievi uno strato di terra, per gravità lo trascina a valle, e quivi lo deposita laddove si quieta. In questo modo, e col tempo, spiana le montagne e forma le pianure. La pianura padana, ad esempio, si è formata, nella sua larghezza e lunghezza, grazie all’apporto solido proveniente dai rilievi, e quindi trasportato e depositato, per migliaia di anni, dal fiume Po. Tanto da formare l’attuale terra ferma, laddove prima c’era il mare.

Tutto questo è potuto accadere fino a quando il fiume era libero di divagare per l’intera larghezza della pianura stessa. Cioè quando questa era sgombera dalla presenza dell’Uomo (e delle sue cose), che allora viveva di caccia e pastorizia ed abitava nelle grotte in montagna. Ma poi, sin dagli albori della civiltà, con l’insediarsi in pianura, l’Homo sapiens ha dovuto far fronte al disordine naturale ed al libero divagare del fiume. Si è dato una serie di regole per disciplinarne le acque. Ha inventato il concetto di alveo, entro cui farle scorrere: per salvaguardare il territorio, l’agricoltura ed i propri insediamenti. Per millenni, perfezionando quelle regole, ha vigilato affinché il fiume assolvesse alla sua primaria funzione, che è quella di drenare le acque del proprio bacino idrografico. Da qui i concetti di “Portata idrica”, “Sezione di deflusso”, “Governo idraulico”, “Polizia idraulica”, “Reticolo idrografico”, “Assetto del Territorio”…Il tutto regolato dal R. D. n. 523 del 1904 (testo unico sulla disciplina delle acque) e dalle successive leggi.

Nell’ultimo trentennio questi concetti e regole sono andati in disuso. La parola disciplina è una bestemmia. “I fiumi devono evolvere secondo natura”, si sente dire. E’ vietata la regimazione degli alvei. Non si parla più di pulizia… bonifica… manutenzione… ma si usa la “rinaturazione” (?), la “riqualificazione” (?).

L’articolo 96 del citato R. D. 523/1904 recita: sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche: …le piantagioni che si inoltrino dentro gli alvei dei fiumi, torrenti rivi e canali, a costringerne la sezione normale e necessaria al libero deflusso delle acque…”. Questa ed altre erano le regole che, nell’era della ragione, imponevano la pulizia degli alvei. Ora invece, nell’era del dio “Ambiente” – in cui si guarda all’albero come a un feticcio, e guai a chi lo tocca anche se nasce e si sviluppa laddove può provocare disastri e lutti – negli alvei fluviali si è sviluppata una tale vegetazione, di alberi di alto fusto, da trasformare i fiumi in veri e propri boschi, che fanno da sbarramento e costringono le acque ad aprirsi altre vie.  

 Si ignora inoltre il problema dell’erosione del suolo: dei milioni di mc di detriti alluvionali… che ad ogni pioggia arrivano a valle… che si accumulano, si stratificano… e riempiono gli alvei fluviali. Ed è ciò che sta accadendo in tutte le pianure fluviali, ed anche in Pianura Padana. Dove l’enorme accumulo di ghiaia e sabbia – formatosi in questi anni d’incuria e di abbandono – ha trasformato i “lussureggianti” fiumi in tante fiumare calabre, che straripano d’inverno e vanno in secca d’estate. Il Sesia… il Trebbia… l’Enza… il Ticino… il Seveso… l’Adda… il Piave… il Tagliamento… e lo stesso Po, non hanno più la sezione di deflusso adeguata alle corrispondenti portate di massima piena. Sono ostruiti, pensili ed a rischio d’esondazione: anche con modeste portate idriche.

La situazione evolve verso il peggio: aumenta l’erosione del suolo e, con esso, aumenta l’apporto di sedimento alluvionale. Ma gli Organi preposti: l’AIPO, l’Autorità di bacino ed Altri, non ne tengono alcun conto. Nei vari rapporti delle ultime alluvioni non si fa alcun cenno alla portata solida delle piene, ed al suo deleterio effetto sulle sezioni di deflusso. Eppure i detriti, che durante le passate alluvioni hanno invaso campi, case e strade, li abbiamo visti tutti; come i tanti accumuli formatisi lungo gli alvei, sono ancora visibili dappertutto. Ignorandone l’esistenza, si ignorano anche gli effetti che ne derivano. La loro presenza restringe la sezione di deflusso e devia la corrente, provocando l’erosione delle sponde, lo scalzamento delle difese spondali e di ogni opera presente, compreso le pile e spalle dei ponti.

Vi sono diffuse situazioni critiche; situazioni pregresse di alvei ostruiti, che però vengono ignorate e sottaciute, per poter sostenere – ogni volta che ne deriva un disastro alluvionale – che “si tratta di una imprevedibile calamità naturale” e che quel materiale vi “è giunto con le ultime piogge”. Si inventano cause risibili dell’evento, come “l’aumento della velocità di corrivazione”, e si batte sul solito ritornello della “eccessiva escavazione in alveo”. S’imbrogliano le carte, insomma. A quanto pare, oltre al problema alluvione, in Pianura Padana esiste un secondo Problema, grave forse più del primo, rappresentato proprio dai Tecnici ufficiali.

Il rischio più grosso, in caso di esondazione, è che il fiume cambi il suo corso; che abbandoni l’alveo esistente e se ne crei un’altro sulla pianura adiacente, seguendo una maggiore pendenza. E’ già accaduto più volte in Pianura Padana. E’ noto il caso di qualche secolo fa del fiume Tanaro, il cui vecchio corso proseguiva da Cherasco verso sinistra e confluiva nel Po a Carmagnola, ma in occasione di una piena, deviò a destra e si aprì l’attuale varco che passa per Asti ed Alessandria, e sfocia nel Po a Bassignana. Potrebbe tuttora accadere. Il Trebbia, ad esempio, potrebbe divagare sul territorio e la città di Piacenza, e poi confluire nel Po più a valle, insieme al Nure. Lo stesso Po potrebbe cambiare il suo corso, da Piacenza alla foce, dove l’alveo procede con una pendenza vicina allo zero (12 cm per km).

Oltre l’innalzamento dell’alveo, quella parte di materiale che va a depositarsi verso la foce, facendola protendere verso il mare, allunga lo sviluppo del corso d’acqua e ne riduce ulteriormente la pendenza; si riduce quindi la velocità e s’innalza il livello idrico; aumenta il rischio di tracimazione, e di deviazione.

Tutto questo fa presagire una Grande Catastrofe. Incombe il pericolo di vita su intere popolazioni. Il territorio rischia di essere sommerso non solo dall’acqua ma anche da uno strato di terra e ghiaia. Il rischio, ripeto, è reale e altissimo. E potrebbe essere facilmente rimosso: tornando a dragare gli alvei; rimuovendo l’enorme accumulo di materiale formatosi negli ultimi trenta anni; ripristinando in tal modo le sezioni di deflusso. La soluzione è alquanto semplice e, sotto l’aspetto economico, non richiederebbe alcuna spesa. Anzi, produrrebbe delle notevoli entrate erariali. Risolverebbe inoltre, per diversi anni, il fabbisogno di inerti, occorrenti per i Grandi Lavori avviati e da avviare in tutta Italia. Ma si continua ad  ignorare, sia il problema che la soluzione, e, sulla spinta pressante del fabbisogno eccezionale di inerti, le Regioni stanno  programmando l’apertura di altre Cave fuori alveo, in un territorio già ridotto peggio di una gruviera… Siamo al massimo della follia istituzionale.

 

(Home)     (Sommario)

 

2.    Tra le cause di un'esondazione fluviale.

 

La funzione primaria, ripeto, cui assolve un corso d’acqua – ai fini della sicurezza del territorio – è quella di drenare le acque piovane del proprio bacino idrografico. Tale funzione di drenaggio dipende dall’efficienza del reticolo secondario: affluenti, canali e fossi di scolo, che riescano a confluire le proprie acque nel corso principale; e dalla capacità di questo ultimo di contenere quelle stesse acque e di farle defluire verso il punto terminale di sbocco: il mare, un lago o un bacino artificiale. 

La capacità di deflusso di un fiume (portata) è determinata dalla capienza e dalla pendenza del proprio alveo; - viene espressa in metri cubi al secondo; - e risponde alla regola dell’Idraulica: Q = A x V. Dove Q è la portata, A la superficie della sezione trasversale dell’alveo, V la velocità della corrente. Quest’ultima è strettamente legata alla pendenza longitudinale ed alla scabrezza dell’alveo, cioè all’insieme degli ostacoli giacenti in alveo e delle irregolarità superficiali, che presentano il fondo e le pareti dello stesso, e che determinano la resistenza al moto della corrente. Influisce inoltre sulla velocità, l’andamento planimetrico del corso d’acqua: un corso sinuoso, fatto di anse, è molto più “lento” di un corso rettilineo. Se alle anse si aggiunge la presenza di vegetazione in alveo quel fiume diventa uno stagno.

Con il variare, nel tempo, delle suddescritte condizioni, possono variare uno o entrambi i fattori “A” e “V”, ed ovviamente variare la  capacità di deflusso “Q”. In un corretto piano di prevenzione, andrebbe pertanto controllata, periodicamente, la portata dei tronchi fluviali e confrontata con la portata delle rispettive e ricorrenti piene: statisticamente note. E’ una verifica che andrebbe effettuata, specie dopo un evento di piena con esondazione, per capire anche se lo straripamento è stato causato dalla eccezionale portata di piena, o piuttosto da una riduzione della originaria capacità di deflusso dell’alveo stesso. Riduzione che può verificarsi (e spesso si verifica) con il formarsi di un accumulo alluvionale, che ostruisce la sezione e quindi riduce il fattore A”; oppure con l’inserimento di una briglia (che abbassa la pendenza longitudinale) o con lo svilupparsi di vegetazione in alveo: entrambi causa di riduzione del fattore V”.

Andrebbero inoltre controllati i numerosi sbarramenti o briglie di ritenuta esistenti lungo i tronchi fluviali di pianura: briglie realizzate per derivazione d’acqua o per altro, ma senza badare al loro effetto sul regime idraulico. Nei tratti in cui la pendenza è già minima (intorno all’uno per mille), l’inserimento di una briglia azzera la pendenza e quindi la velocità per un lungo tratto; provoca ristagno e, in caso di piena, rigurgito idraulico ed innalzamento del livello idrico.

La briglia, inoltre, provoca nel lungo periodo anche l’innalzamento del fondo alveo del tratto di monte. La quota di soglia di una briglia rappresenta il nuovo livello di base della parte di bacino che si estende a monte. Per livello di base, si intende la quota del punto terminale, verso il basso, del profilo longitudinale di un corso d’acqua o di un suo tronco. Al proprio livello di base, com’è ovvio, deve raccordarsi il profilo dell’acqua, nel senso che deve in ogni caso esservi una pendenza, sia pure limitata, che permetta comunque lo scorrimento dell’acqua stessa fino a tale livello. E’ evidente che il nuovo livello di base (la briglia appunto) innesca una fase di rimodellamento morfologico del bacino sotteso.

Questo è quanto ad esempio sta accadendo lungo il Po, a monte della traversa “isola Serafini”, nei pressi di Piacenza. La quale traversa – che innalza in quel punto di 7 metri la quota di deflusso – rappresenta il nuovo livello di base del bacino sotteso. A questa nuova quota va raccordandosi,  innalzandosi, il tratto di monte del fiume Po, e quindi dei punti di confluenza dei suoi affluenti. Ne consegue l’innalzamento degli alvei dei: Trebbia, Olona, Lambro, Ticino, Scrivia, Tanaro… e dei relativi reticoli idrografici. L’esondazione del Ticino e l’allagamento di Pavia nel 2000 sono senz’altro la conseguenza di questo processo di innalzamento.

Ad ogni evento di piena, ad ogni straripamento, quindi, andrebbero verificati, e possibilmente ripristinati, i valori di A e V, e con essi l’originaria portata Q dell’alveo fluviale. Da parte degli Organi ufficiali, invece, si ignora ogni verifica del genere e sbrigativamente si pensa ad innalzare argini. Si asseconda in tal modo il processo di innalzamento degli alvei; ed il rischio d’esondazione viene solo traslato verso monte ma non eliminato. Si altera il naturale rapporto altimetrico tra fiume e pianura, ed in caso di piena, con il livello dell’acqua più alto rispetto alla pianura adiacente, s’innesca il fenomeno di sifonamento: l’acqua fuoriesce dal fiume attraverso il subalveo, passando sotto gli argini. Tutti ricorderanno il fenomeno dei “fontanazzi”, durante le ultime piene del Po. Inoltre, in caso di esondazione, sono proprio gli argini ad impedire il rientro dell’acqua in alveo. Ed è proprio questo particolare – cioè la difficoltà del rientro – che rende ancora più disastrose le esondazioni nei fiumi pensili ed arginati.

Oppure si ricorre alle casse d’espansione, dette anche aree di esondazione. Per la loro realizzazione si sottrae del prezioso territorio all’agricoltura, ma, per quanto grandi possano essere, non potranno mai contenere l’enorme quantità d’acqua (centinaia di milioni di mc) che in poche ore può fuoriuscire da un fiume come il Po, con portate da 10.000 mc/sec. Ma poi, con un alveo ostruito per centinaia di chilometri, che in caso di piena può esondare – ed esonda in mille punti lungo il suo corso – che cosa si fa? Si fanno mille casse d’espansione, oppure, molto più sensatamente, si amplia e ripristina la sezione di deflusso?.

L’altro rimedio a cui si ricorre è la ricostruzione dei ponti. La si propone anche laddove l’opera esistente è in buono stato; ed anche se la sua ricostruzione è inutile ai fini della messa in sicurezza del territorio. Come ad esempio sta accadendo in questi giorni ad Alessandria, a Casale Monferrato ed a Lodi, dove, oltre l’ostruzione e restrizione delle sezioni di deflusso (causa principale), l’altra causa delle passate esondazioni non sono certo stati i rispettivi ponti urbani, ma le briglie poste a valle degli stessi. L’effetto sul fattore “V”, di quelle briglie, è facilmente verificabile: visibile in ogni momento anche ad occhio profano. Si può difatti notare un ristagno lacuale che  si propaga su un lungo tratto fluviale, a monte di quelle briglie. E’ intuitivo, oltre che matematicamente dimostrabile, che, in caso di piena, quel ristagno, che rivela bassissima velocità, provoca l’innalzamento del livello idrico e quindi l’esondazione. Ai disastri di Alessandria-1994, di Casale Monferrato-2000 e di Lodi-2002, ha di certo contribuito la presenza delle briglie nei tratti urbani. Basterebbe demolire quelle briglie e la situazione migliorerebbe già di molto. La ricostruzione di un ponte, però, costa molto di più della demolizione di una briglia. Da qui evidentemente la preferenza della lobby degli appalti.

Quanto all’altra causa sopra accennata e sempre più ricorrente – cioè la folta e “robusta” vegetazione presente in alveo – cito due grossi casi di alluvione, recentemente verificatisi, che ne sono stati la diretta e disastrosa conseguenza:

1) – Allagamento della piana del Metapontino, in Basilicata, per esondazione dei fiumi Basento, Bradano e Cavone, nella prima settimana di novembre/2004;

2) – Allagamento della piana della Baronia, in Sardegna, per esondazione del fiume Cedrino, nella seconda settimana di dicembre 2004.

Accomunate dalla stessa sorte, il Metapontino e la Baronia hanno subito la recente calamità, che non è del tutto naturale come si vuol far credere, ma è per buona parte conseguenza della inettitudine degli Organi ufficiali, preposti e “competenti”. I quali – in totale spregio delle tante leggi (leggi non solo antiche ma anche moderne: legge 183/89; D.P.R. 14.4.1993; art. 5 legge 37/94; art. 2 legge 365/2000), e godendo dell’automatica copertura della descritta follia “ambientalista” (cap.1) – disattendono alla più elementare e inderogabile delle operazioni, per la sicurezza del territorio e per la pubblica incolumità: la Pulizia degli Alvei fluviali.

Questa scellerata politica ha ridotto tutte le pianure fluviali ad altissimo rischio idraulico. Chi vi abita convive con il perenne incubo dell’alluvione: nella certezza ch’è solo questione di tempo… e di nubi che passano sul proprio territorio.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. Crollo di ponti e difese spondali.

 

Gli accumuli di materiale in alveo rappresentano un pericolo anche per le opere ivi presenti: sia in caso di massima piena che in periodi di magra. Nel primo caso, la riduzione di luce sotto i ponti non consente il deflusso dell’onda di piena: il ponte fa da sbarramento e, anche se costruito a regola d’arte, può essere spazzato via.

Nel lungo periodo di medio-magra, invece, la presenza degli accumuli devia la corrente verso le sponde e restringe la sezione di deflusso. Ne consegue un incremento (locale) della velocità dell’acqua che provoca l’erosione e l’incisione del fondo alveo. Il quale assume, a ridosso di difese spondali e di ogni opera presente, la caratteristica sezione a V: l’acqua erode il fondo alveo, scava in profondità, fin sotto le fondazioni, scalzando e insidiando la stabilità delle opere stesse.

E’ un fenomeno, questo, che evolve al peggio e in modo irreversibile. Com’è noto, la corrente assume differenti velocità – nei diversi punti della sezione trasversale – a seconda della profondità dell’alveo e cioè dell’altezza (carico) della corrente. Proprio a causa degli accumuli formatisi in precedenza, si ha maggiore profondità verso le sponde e minore verso il centro. Per cui, sia il carico che la velocità della corrente sono più alti presso le sponde che verso il centro dell’alveo. Ne consegue il perpetrarsi di entrambi gli opposti fenomeni: Erosione in prossimità delle sponde; Sedimentazione nella fascia centrale dell’alveo. Il persistere di situazioni simili rappresenta spesso la vera causa dell’improvviso crollo di ponti e difese spondali.

Sono situazioni “ambigue”, molto diffuse nei fiumi sovralluvionati, e caratterizzate dalla presenza dei due noti fenomeni fluviali: 1) Sedimentazione e conseguente innalzamento dell’alveo per gran parte della sua larghezza; 2) Erosione e conseguente abbassamento nella restante parte del fondo alveo (come sopra descritto). La presenza simultanea dei due opposti fenomeni, di cui per giunta il primo è la vera causa del secondo, si presta a facili equivoci: in buona o malafede. Per cui quei tronchi fluviali vengono spesso definiti “in erosione” e “in abbassamento”. Mentre in realtà sono in forte sedimentazione ed innalzamento.

La mancata pulizia, per decenni, degli alvei fluviali, crea un ulteriore pericolo per i ponti. In tutto quel tempo l’accumularsi del sedimento forma degli isolotti; che si coprono di vegetazione e vi crescono alberi d’alto fusto. Con l’arrivo della piena, gli alberi vengono sradicati e trascinati a valle. Vanno a incastrarsi sotto le arcate dei ponti, formandovi un vero e proprio sbarramento, che può essere spazzato via, dalla stessa piena, insieme al ponte medesimo.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. Fiumi in secca e falda acquifera.

 

Con l’accumularsi del materiale e l’innalzarsi degli alvei, salta anche il delicato equilibrio tra fluenza superficiale e falda acquifera sommersa, cioè fra quei due vasi comunicanti il cui interscambio garantisce la perenne vitalità del fiume, anche in periodi di siccità. La falda acquifera della pianura padana, è una freatica libera, che si alimenta, da un lato, delle acque che percolano dai rilievi, dall’altro attinge dalle correnti superficiali degli affluenti del Po (oppure cede loro parte della sua acqua: a seconda della diversa prevalenza fra i due livelli); scorre e funziona come un fiume: defluisce seguendo la maggiore pendenza in direzione dello sbocco, che per lo più avviene nello stesso fiume Po.

Una volta esisteva un perfetto equilibrio tra le acque circolanti in superficie (in alveo) e quelle sotterranee (del subalveo). Avveniva un continuo interscambio tra loro e capitava che il fiume alimentasse la falda o/e che venisse da essa alimentato. Da questo equilibrio scaturiva la perenne vitalità dei fiumi padani, dove in pratica vi era una consistente portata d’acqua, anche in tempo di siccità prolungata. E ne scaturiva, nel contempo, una certa stabilità del livello della falda acquifera.

Adesso non è più così: in periodi di magra, la residua portata idrica dei fiumi non scorre più in superficie ma si infiltra nel deposito alluvionale presente in alveo – che nel caso del Po e dei suoi affluenti raggiunge anche 2-3 metri di spessore – e da qui si disperde nella falda del subalveo. Di conseguenza i fiumi vanno in secca e la falda acquifera tende a risalire.

Durante l’estate 2003 il Po è andato in secca come una fiumara. La stessa secca si è notata lungo l’Adda, il Seveso ed il Ticino, ma la falda acquifera dell’Interland milanese – che viene alimentata (anche) dagli stessi fiumi – non ha risentito affatto della siccità. Anzi, il suo livello continua a risalire. Il che vuol dire che gran parte della portata di magra sparisce dalla superficie e s’immerge nella falda acquifera: innalzandone il livello, e mandando in crisi le infrastrutture sotterranee. Creando, per esempio, grossi problemi alla Metropolitana milanese. I fiumi hanno perso la tradizionale navigabilità: il sistema idroviario padano-veneto è in stato comatoso. Ed il grande Po, da importante via d’acqua d’Europa, in estate si riduce in una misera pozzanghera. Non è escluso che, fra qualche estate, si debba assistere allo scenario paradossale, dei fiumi in secca, con a fianco i terreni allagati.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. Casse d’espansione lungo l’Arno.

 

L’Autorità di Bacino del fiume Arno è la più convinta assertrice dell’utilità delle “Casse d’espansione”. Il suo recente Piano ne prevede una diecina, per una capacità complessiva di 100 milioni di mc, la cui realizzazione comporta l’occupazione di 1.100 ettari di terreno, ed una spesa di 210 milioni di euro. “Casse”, che vengono proposte, e propagandate dalla stampa, ”per raccogliere le acque dell’Arno e salvare Firenze dall’alluvione”.

A far bene i conti, è da notare intanto che – ammettendo una profondità utile di 4 metri di tali “casse”: compresa tra la quota del piano campagna (livello massimo) e 4 metri sotto (livello minimo), considerato che sotto tale livello c’è già l’acqua del subalveo – occorrono 2.500 ettari di terreno (e non i 1.100 previsti) per contenere 100 milioni di mc di acqua. Inoltre, la loro realizzazione comporterebbe lo scavo e l’asportazione di 100 milioni di mc di materiale. Sembra quasi un “piano di apertura di nuove cave fuori alveo”. Difatti, coincidenza vuole che la più grande di quelle previste: la “cassa di espansione dei Renai, da 16 milioni di metri cubi” – che comporta l’occupazione di 180 ettari di territorio nei comuni di Firenze, Signa, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio – nasce proprio in una zona caratterizzata dalla presenza di numerose cave fuori alveo.

Ma dico io, visto che bisogna comunque togliere tutto quel materiale, invece di realizzare tanti “contenitori” esterni, perché non aumentare la capacità dell’alveo. Asportando gli stessi 100 milioni di mc (forse anche meno), dal suo interno; allargandolo e/o abbassandolo, a seconda del caso, per uno sviluppo di 200 km circa, si avrebbe non solo quella maggiore capienza voluta, ma anche una maggiore capacità di deflusso: più adeguata alle massime portate dell’Arno. Tra l’altro, un’operazione simile si autofinanzierebbe con il ricavato stesso del materiale utilizzabile; e si eliminerebbe il rischio idraulico: senza occupare 1.100 ettari di prezioso terreno, e senza sprecare 210 milioni di euro.

Piuttosto, andrebbero controllate le condizioni di deflusso del tratto a valle di Firenze. Qui la pendenza si riduce notevolmente. Riducendosi quindi la velocità, occorrerebbe una più ampia sezione d’alveo per mantenere gli stessi livelli idrici. Se, al contrario, esistono restringimenti della sezione (per ponti stradali o depositi alluvionali), o briglie di ritenuta (che riducono ulteriormente la pendenza e quindi la velocità del flusso), questi sono concausa di rigurgito idraulico, e di innalzamento del livello idrico per un lungo tratto a monte. Il rigurgito, in un corso d’acqua, equivale all’ingorgo su una strada: una strettoia di cento metri può provocare chilometri e chilometri di autocolonna.

Probabilmente è stato proprio un rigurgito, verificatosi a valle di Firenze, a provocare il disastro del 1966. Osservando, infatti, il tratto urbano dell’Arno, in alcune foto di quel evento, si nota: 1) – che lo specchio d’acqua in alveo, con massima piena, presenta un aspetto di relativa quiete, caratteristica di una “corrente lenta”; 2) – che il livello della piena prosegue con un andamento uniforme, cioè non presenta salti in corrispondenza dei vari ponti, neanche a Ponte Vecchio, la cui struttura rappresenta una forte ostruzione d’alveo.

Tutto questo induce a credere che l’innalzamento del livello idrico (e conseguente straripamento lungo il tratto urbano) fu allora causato, non tanto (o non solo) dall’aumento della portata idrica proveniente da monte, quanto dalla carente capacità di deflusso esistente a valle di Firenze. Pertanto, prima di pensare a delle inutili “casse d’espansione”, andrebbero migliorate le condizioni nel tratto di valle, …se lo scopo è quello di salvare Firenze, e non di aprire altre cave fuori alveo.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. Il Caso emblematico di Lodi.

 

Colpita duramente sull’intero territorio dall’alluvione 2002 (foto 2), dopo due anni la città di Lodi aspetta ancora che gli Organi competenti provvedano a mettere in sicurezza il territorio. Ma l’AIPO, l’AdB, la Regione e la Provincia sono latitanti. Anzi all’AIPO di Parma non risulta nemmeno che nel 2002 Lodi sia finita sott’acqua. Dietro una spocchia che diventa sempre più spessa, negli Uffici pubblici si nasconde una carenza strutturale spaventosa: di contatto con il territorio, di conoscenza dei problemi e di capacità progettuale delle soluzioni.

In questo vuoto istituzionale diventa gioco facile l’inserimento di Studi Tecnici privati. Studi con etichetta universitaria, autorevole e rassicurante, che però affrontano il problema guardando con un occhio alla soluzione e con l’altro alla parcella che ne potrà scaturire. Afflitti da questa forma di “strabismo”, detti Studi a volte partoriscono delle grandi cavolate. Ed è ciò che sta accadendo a Lodi, dove un rinomato Studio tecnico privato ha proposto, pare di sua iniziativa, un progetto “per la messa in sicurezza del territorio”. L’AIPO non ne sa niente ma il Comune lo sponsorizza ad occhi chiusi; lo difende da ogni critica e non permette nemmeno di visionarlo. Pensando a Lodi, “città d’arte e di cultura”, viene da chiedersi da dove nasce questo oscurantismo. E sorprende il comportamento “defilato” dei tanti Tecnici del posto, nonostante gli accorati appelli di Domenico Ossino, del Comitato Alluvionati cittadino.

Quanto al progetto, non è certo una grande idea, o da persone responsabili, proporre d’innalzare gli argini in un tratto limitato di un corso d’acqua (nel tratto urbano di Lodi) – con conseguente innalzamento dei livelli idrici – senza curarsi del peggio che ne deriverebbe per i tratti di valle e di monte, dove peraltro vi è già stata l’esondazione nel 2002. Come dire: salviamo il centro di Lodi …e del resto chi se ne frega…; e senza peraltro tener conto che l’acqua che potrà fuoriuscire dal tratto di monte, finirà comunque sull’abitato di Lodi… e che, con l’innalzamento dei livelli idrici aumenterà l’allagamento, per risalita della falda, per rigurgito di fogne e canali, all’interno dello stesso abitato.

L’altra assurdità è il previsto allargamento dell’alveo, in corrispondenza del ponte urbano, con l’aggiunta di una campata al ponte stesso. Si vuole in pratica allargare l’alveo dove è già largo 150 metri, e non nei tratti critici (a monte ed a valle di Lodi), dove l’alveo, ostruito da enormi accumuli di sedimento alluvionale, si restringe sotto i 60 metri; cioè dove in effetti si è verificata l’esondazione del 2002. L’insieme degli interventi prevede comunque una spesa di 15 milioni di euro: forse il vero obiettivo progettuale.

Il rapporto ufficiale della piena “2002” parla di una portata di 1.600 mc/sec. Da una verifica effettuata nei suddetti tratti critici, larghi 60 metri, risulta che vi può transitare una portata massima di 800 mc/sec. Da ciò si deducono due certezze: 1) che nel 2002, metà di quei 1.600 mc/sec sono fuoriusciti dall’Adda; 2) che, per contenere una portata simile, nelle suddette “strettoie”, bisogna raddoppiare la sezione d’alveo.

In prossimità del ponte urbano, invece, il problema non sta nella capienza dell’alveo, ma nella sua pendenza longitudinale. Qui, il recente inserimento di una briglia ha ridotto la pendenza dal 3 per mille allo 0,1 per mille, con conseguente riduzione della velocità, ad 1/3 di quella originaria.

Secondo la citata regola dell’Idraulica: Q = A x V (v. cap. 2), riducendosi ad 1/3 il fattore V, occorre il triplo di A per mantenere la medesima portata Q, entro gli stessi livelli idrici. Pertanto, delle due l’una: o si allarga l’alveo di 300 metri (e non solo di 16 metri, come prevede il progetto in questione), oppure si demolisce la briglia… Del resto, tra i vari interventi previsti c’è anche l’abbassamento parziale della briglia. Abbassamento che, stranamente, è previsto per ultimo, cioè dopo aver innalzato gli argini ed allargato il ponte… Se invece si abbassasse per prima la briglia, risulterebbe evidente che tutto il resto è superfluo…

Quanto al recente “crollo della sponda a Caccialanza”, è stato senza dubbio causato dalla presenza dell’enorme accumulo di materiale che ingombra in quel tratto i 2/3 dell’alveo; che ne riduce la larghezza ad appena 40 metri; e che costringe la corrente sotto la sponda sinistra, provocando l’incisione del fondo alveo fino a 5-6 metri di profondità, e quindi lo scalzamento e il crollo della difesa spondale. Si tratta di situazioni frequenti nei fiumi sovralluvionati (v. cap. 3) …e di crolli annunciati. Vi sono diverse situazioni simili nel tratto d’Adda da Cassano a Lodi e tutte facilmente individuabili: di fronte ad ogni accumulo di materiale in alveo – ed al conseguente restringimento dell’alveo attivo – vi è certamente una sponda in procinto di crollare. Se si interviene in tempo – riportando il filone della corrente verso il centro alveo e riempiendo le depressioni al piede delle sponde – si può evitare di dover ricostruire le difese spondali.  

In conclusione, spero che i Lodigiani si accorgano e fermino il dissennato spreco previsto dall’intervento in questione; che non permettano di erigere argini, il cui effetto non salverebbe la città dalle esondazioni, ma ne peggiorerebbe le conseguenze; che non permettano di devastare l’antico ponte urbano; e che decidano di ripristinare la sezione di deflusso, dove veramente occorre. Quanto alla briglia, va assolutamente demolita. Da una foto storica si rileva chiaramente che, senza quella opera, il profilo del fondo alveo si abbasserebbe, in corrispondenza del ponte, di circa due metri. L’eventuale intervento che si rendesse necessario per la stabilità del ponte, andrebbe circoscritto intorno ai piloni, lasciando libere le luci, e senza influire sul regime idraulico.    

Vorrei inoltre far notare che il rigurgito idraulico provocato da quella briglia si propaga verso monte per un lungo tratto fluviale. Per cui, qualunque approccio o iniziativa verso il problema “Adda” va affrontato non da Comuni singoli ma in accordo con gli altri Comuni rivieraschi: in una visione generale del problema stesso.   

Consiglierei infine di guardare al punto di confluenza con il Po. A mio avviso nel tratto terminale dell’Adda vi sono gli stessi problemi di pendenza e velocità: causati dall’innalzamento dell’alveo del Po. Se anche lì dovesse ad esempio risultare che la capacità di deflusso rimane sotto gli 800 mc/sec, si deve dedurre che, con il ripetersi di una piena da 1.600 mc/sec si avrebbe in poche ore un’esondazione di oltre 50 milioni di mc d’acqua, sul territorio adiacente al tratto terminale dell’Adda. A meno che non si intervenga anche sul fiume Po.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. La logica dell’emergenza.

 

Lo scopo, non dichiarato, dell’attuale politica sul governo dei fiumi è quello di sopprimere ogni forma di manutenzione preventiva, per poter intervenire a posteriori ed operare nell’ottica dell’emergenza: finalizzata all’allegra gestione delle pubbliche risorse. Si vuole abolire la bonifica dei corsi d’acqua – cui si è provveduto per secoli mediante l’istituto delle concessioni estrattive in alveo – per subentrarvi con il sistema degli appalti pubblici e con interventi di somma urgenza. Si ricorre ad espedienti di vario genere, dal demenziale al delinquenziale, per soffocare una secolare attività produttiva, e per criminalizzare una categoria di imprenditori.

Gli espedienti usati per lo scopo: - 1) manipolazione dell’opinione pubblica con una campagna mistificatoria su falsi danni ambientali; - 2) travisamento della realtà con “Studi” fasulli, che ignorano gli enormi quantitativi di materiale esistente negli alvei; - 3) si scoraggiano le richieste di concessione, triplicando il prezzo del canone, in totale disarmonia con il mercato degli inerti (salvo a farsi un socio tra i funzionari pubblici, nel qual caso si ottiene lo sconto dell’80%); - 4) nel rispondere alle istanze, si applica la prassi dilatoria del rinvio all’infinito. Si persegue soprattutto l’occultamento del materiale, negando l’evidenza della realtà. A chi presenta richieste, con quantitativi reali da centinaia di migliaia di mc, si nega l’esame dei progetti, in totale spregio delle leggi, nazionali e regionali, ricorrendo ad Abusi, Omissioni e Falsi in atto d’ufficio.

Con questo sistema si costringono gli operatori del settore ad accettare autorizzazioni per quantitativi irrisori: concessioni del tipo fraudolento, con il sistema: “ti autorizzo un mc. ma ne puoi prelevare dieci”, in una specie di gioco del “Gatto con il topo”, verso un processo di criminalizzazione coatta della categoria.

     E’ un disegno immorale e folle – giunto già a compimento in gran parte d’Italia, con la chiusura di centinaia di Aziende che scavavano in alveo, ad esclusivo vantaggio delle Cave fuori alveo – che ora vive la sua fase conclusiva anche in Basilicata. Il Danno economico che ne deriva è enorme, se si pensa ai miliardi di mc. di materiale esistente nei fiumi italiani. Materiale che potrebbe rappresentare una grande risorsa ed una grossa Entrata erariale, e che invece svanisce nel nulla, grazie al gioco delle “Tre carte” con cui si dilettano gli uffici preposti. Se poi si pensa al fatto che, una volta soppressa l’attività estrattiva, sarà necessario ricorrere al sistema degli appalti, con miliardi di Spesa (per rimuovere quello stesso materiale), allora il danno erariale si triplica. Il danno civile, non meno grave, è commisurato alla perdita delle risorse imprenditoriali sane, divorate dall’incalzante malcostume.

Il tipo di appalti cui mi riferisco – cioè quelli preferiti dalla lobby Tangenti & Appalti – sono gli interventi che seguono un disastro alluvionale. Solo allora infatti, sull’onda dell’emozione collettiva, generata da lutti e disastri, scatta l’emergenza. Si aprono le paratoie dei “finanziamenti straordinari”. Si dà il via ad “interventi urgenti e indifferibili”. Che si appaltano senza progetti e con le procedure della “somma urgenza”. Che si affidano “a trattativa privata”, si collaudano in “corso d'opera” e si pagano “a forfait”. Quegli appalti, insomma, molto simili ai “Lavori del dopo alluvione-2000”, in Piemonte (con diversi tangentisti finiti in galera).

Per questi signori, la difesa del suolo non è un obiettivo ma solo il pretesto per attivare finanziamenti. Il fiume non è più fiume, ma campo per scorrerie. Il disastro ambientale è una “provvidenza”. Abolendo la manutenzione, si vuol dare solo una mano a questa provvidenza. Gli interventi prediletti sono le “Sistemazioni fluviali” perché il fiume “si presta” per sua natura allo scopo, perchè cancella alla prima piena ogni traccia delle opere malriuscite… o di quelle non eseguite ma contabilizzate e retribuite. Ed è subito pronto per nuove “operazioni”.

Partendo da quel ch’è accaduto e tuttora accade in Basilicata, descrivo i connotati e gli strumenti di questo disegno, nonché le varie sedi dove si decidono strategie e tattiche, Piani e Programmi, e si stanziano i Fondi. Il tutto, nella “collaudata” logica dell’emergenza, che, quando non arriva naturalmente, la si crea con artifizi e stratagemmi, tali da innescare comunque le procedure della somma urgenza e da vanificare ogni controllo previsto dalla gestione ordinaria.

La cabina di regia di questa folle politica è facilmente individuabile nel C.I.P.E. (Comitato Interministeriale della Programmazione Economica), una specie di Governo Parallelo inventato dalla prima repubblica: versione legalizzata del vituperato Sottogoverno (occulto) di una volta, attraverso il quale – si ricorderà – avveniva allora la spartizione della torta.

Un esempio di allegra gestione delle pubbliche risorse è senz’altro la Delibera CIPE del 12.5.1988 (8.000 miliardi di vecchie lire - gazzetta ufficiale n. 144 del 21.6.1988), scorrendo la quale si ha la chiara dimostrazione di come si inventa l’emergenza: - approvare interventi multimiliardari senza uno straccio di progetto; - stabilire l’avvio dei lavori entro 120 giorni, pena la revoca del finanziamento; - imporre la procedura dell’appalto concorso. Ed il gioco è fatto. Diventa una via obbligata affidare i lavori a chi ha già pronto il progetto. A completare l’opera ci pensa l’art. 24 - primo comma - lettera b), della legge 584/77, che consente di gonfiare il costo dell’opera e di eludere la contabilità dei lavori. A restringere poi il numero degli “invitati” ci pensa la legge 80/87. 

Con questo sistema furono realizzate dalla Regione Basilicata diverse “sistemazioni fluviali”, per l’ammontare complessivo di 528 miliardi di vecchie lire, di cui 264 prestati dalla B.E.I. (Banca Europea per gli Investimenti). Ho potuto esaminare le varie fasi (appalto, esecuzione e collaudo) di quegli interventi. Non esistevano progetti; il valore delle “opere” era meno di un quarto della spesa sostenuta; ed alcune di esse, pur collaudate e retribuite, non furono mai eseguite. Ora, a distanza di 15 anni, quel debito non è ancora estinto, ma di quelle opere c’è ben poca traccia.

Non credo che nelle altre regioni sia andata diversamente. Comunque, volendo, ognuno può verificarlo, consultando le Delibere CIPE. Click Chiunque può quantificare la misura dello spreco, prodotto allora nella propria regione. Può valutare il grado di attendibilità dei vari Organi “partecipanti”. E può godersi la barzelletta di quel Forfait da 57 miliardi, assegnato al Presidente del Consiglio dei Ministri: per “sistemare l’alveo di San Rocco” (?) (delibera del 12.5.88).

Lo strumento che permise simili “Operazioni”, ripeto, è la citata procedura di gara prevista dall’art. 24 - primo comma - lettera b) della legge 584/77. Procedura imposta dalle stesse direttive del CIPE in quanto “norma di adeguamento alle direttive della Comunità economica europea”. E’ una norma che prevede l’aggiudicazione della gara, non in base al minor prezzo, ma in base ad una ”serie di elementi di valutazione”. E’ una specie di imbroglio legislativo, chiamato “il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, che, grazie a quegli elementi – discrezionali, nebulosi e fantasiosi – fa lievitare a dismisura l’importo dell’appalto. Funziona in modo analogo, per le forniture, grazie all’articolo 15 - primo comma - lettera b) della legge 113/81.

Si tratta, insomma, di un diabolico marchingegno normativo, inventato da Tangentopoli, che trasforma la gara d’appalto in una partita al “mercante in fiera”, in cui l’opera (o fornitura) è solo una “base” per costruirci l’Operazione spartitoria. L’importo dell’appalto è commisurato non più al costo dell’opera (o fornitura) ma al numero e all’appetito dei Commensali. Non so se veramente ci stiamo “adeguando” all’Europa, ma una cosa è certa, queste leggi disonorano il nostro Parlamento e sconcertano chi ancora crede nello Stato di diritto.     

Così funzionava durante la prima repubblica: …si alimentava la Corruttela, …si finanziavano i Partiti …e si realizzava quel Macigno da due milioni e passa di miliardi, di Debito Pubblico, che grava sulla testa degli Italiani. Con l’avvento della seconda repubblica non è cambiato niente: il governo “parallelo” (centrale) è sempre operante,  e sorgono numerose altre sovrastrutture (centrali e regionali).

Quanto alla famigerata procedura d’appalto (art. 24 - primo comma - lettera b), ha cambiato “vestito” (Decreti Legislativi n. 406/91, 358/92, 157/95, 158/95 ecc…), ma è ancora vigente e foriera di Operazioni spartitorie. Non cambia assolutamente niente. Negli ultimi quindici anni, è cambiato il Governo centrale e molti di quelli regionali, ma la politica sulla difesa del suolo è rimasta la stessa, …e con gli stessi risultati: alluvioni, detriti e tangenti. (v. Rassegna stampa – 4° articolo)

Non cambia niente, e nel cittadino si fa sempre più vivo il sospetto che Destra e Sinistra siano soltanto le diverse sembianze di un Partito Unico Trasversale: - che manovra le leve del potere; - che, attraverso Comitati e Commissioni vari,  realizza il consociativismo e spartisce le risorse; - che stravolge le competenze sul territorio; - che privilegia i canali più disinvolti, penalizzando il rigore; - che prostituisce la Tecnica e mortifica la Cultura.

Non cambia, ed è sempre più difficile che possa cambiare. La “cultura” (e coltura) delle mazzette è ormai radicata nelle leggi, ancor prima che nelle intenzioni. Per coerenza andrebbe cambiato solo l’articolo 1 della Costituzione: l’Italia è una repubblica fondata sulla Tangente, e non più sul Lavoro.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. Le Manfrine degli “Ambientalisti”.

 

Da perfetti fiancheggiatori del Partito degli Appalti sono degli agguerriti sostenitori della politica dell’incuria e dell’abbandono. A partire dagli anni settanta, hanno condotto una campagna di stampa contro l’escavazione in alveo: una vera e propria guerra fatta di proclami fasulli e pieni di menzogne, amplificati dalla stampa e di grande effetto sull’opinione pubblica, come ”l’abbassamento degli alvei” e “l’erosione della costa”. Vanno sostenendo che “il fiume deve evolvere secondo natura", senza rendersi conto che, perché ciò avvenga, bisognerebbe tornare alle origini: sgomberare la pianura dalle “cose umane”, restituirla al Fiume, suo padre naturale appunto, e ritornare in montagna.

Con una tecnica fuorviante, riescono a distogliere l’attenzione della gente da un problema di pubblico interesse (il governo idraulico dei fiumi appunto), ed a pilotarla contro l’interesse privato: screditando e demonizzando una categoria di imprenditori.

Secondo François de la Rochefoucauld, “ci sono menzogne così ben camuffate, che giocano con tanta naturalezza il ruolo della verità, che il non lasciarsi ingannare equivarrebbe a mancanza di giudizio”. Ormai, la convinzione che l’escavazione in alveo danneggi l’ambiente è talmente radicata nell’immaginario collettivo, che è difficile persino parlarne. Chi osa mettere in discussione questa Madornalità rischia di passare per pazzo.

L'oggetto di tanto accanimento è il materiale litoide giacente nei corsi d'acqua. Materiale che si trova lì – non dal giorno della Creazione come in tanti credono – ma perché portatovi dalle più recenti piene alluvionali. La pioggia dilava i versanti, scioglie la terra, la trascina a valle e la deposita nel fiume. Sono i cosiddetti detriti, che, odiati e scongiurati durante le alluvioni, diventano subito dopo “sacri e intoccabili”.

Oltretutto, gli inerti fluviali sono una grande risorsa mineraria e potrebbero costituire una notevole Entrata erariale. Ma “non si devono toccare”. Comunque, al di là delle mille mistificazioni “ambientali”, la foto “fiume Adda a Rivolta” riassume alcuni dei veri termini di questa diatriba nazionale sulla “escavazione in alveo”. Vi si nota la simultanea presenza di un enorme accumulo di materiale in alveo, di proprietà dello Stato, ed a pochi metri, di fianco, una Cava fuori alveo, di proprietà privata. Per il primo vige il “divieto di prelievo”, la seconda può invece prelevare quello che vuole, ed ha campo libero sul mercato, grazie agli Impostori che riescono a “bloccare le vendite” del concorrente Stato. Nel frattempo, proprio quel cumulo in alveo rappresenta la causa, potenziale ma certa, delle prossime esondazioni dell’Adda.

Con l’accumularsi e lo stratificarsi dell’apporto alluvionale, gli alvei si ostruiscono, si innalzano, diventano pensili e i fiumi straripano. Le alluvioni, sempre più ricorrenti, sommergono qualsiasi forma di vita animale, vegetale e industriale. A volte l’alveo è talmente ostruito, che il fiume cambia corso (è accaduto diverse volte in Pianura Padana, e di recente anche in Sardegna); distrugge agricoltura ed insediamenti; riduce le pianure fluviali in un mare di detriti.

Tutto questo accade sotto gli occhi di tutti – e provoca ogni volta disastro e morte – ma gli ambientalisti continuano, con folle ed incredibile cinismo, a negare l’evidenza, a raccontare menzogne, a travisare la realtà, a gettare fango su una categoria di imprenditori, a manipolare le coscienze… ad opporsi alla bonifica e regimazione degli alvei.

Si è bello e capito. Il vero obiettivo di costoro non è la tutela dell’Ambiente, ma la gestione del Territorio: aree protette e parchi fluviali. Per realizzarne ancora, “bisogna” liberare altro territorio. Quale miglior sistema, se non la politica dell’abbandono dei fiumi: prima o poi avviene il disastro, il fiume cambia corso, e la fascia di territorio abbandonato è libero, demanializzato e messo a loro disposizione. Tutto secondo legge. Gli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 37/94 assecondano questo obiettivo: stravolgono gli articoli 941, 942, 943, 945, 946 e 947 del codice civile, sulle accessioni fluviali, e mirano alla statalizzazione della proprietà privata. Nemmeno la mente di Stalin avrebbe partorito norme simili.  

Il nuovo “filone” si chiama ”Aree d’esondazione” (o Casse d’espansione). Ne sono previste lungo tutti fiumi (nei piani delle Autorità di Bacino). Costeranno miliardi di euro. Sottrarranno milioni di ettari di prezioso suolo all’agricoltura e ad altre attività, che producono reddito, occupazione e tasse. Ma consentiranno di organizzare parchi, oasi, aree protette. Dove tutti potremo andarci in ricreazione. A spese di Pantalone, naturalmente.

Fatte salve le tante persone in buona fede, che militano nel Movimento ambientalista, coloro che assecondano e sostengono questa folle politica sono dei Marpioni in tuta mimetica: anche un po’ matti. Dio ce ne scampi e liberi.

 

(Home)     (Sommario)

 

  1. La fantomatica “erosione della costa”.

 

L’argomento più usato, per contrastare l’escavazione in alveo, è la cosiddetta “erosione della costa”. Fenomeno che, secondo gli “ambientalisti”, sarebbe in atto lungo tutte le coste della penisola. L’estrazione in alveo va assolutamente vietata, si sente dire, perché sottrae il materiale necessario al ripascimento delle spiagge (come togliere la biada ai cavalli ?). E’ l’argomento usato anche in Basilicata dai vari “tutori” nostrani dell’ambiente, in “difesa” della costa jonica. Salvo poi ad incontrare alcune delle stesse persone, che – sotto l’egida dell’orsacchiotto e della paperella – avallano l’asportazione di 7 milioni di mc. dall’alveo del fiume Basento (in un appalto da 113 miliardi di v. l., nel periodo della grande abbuffata di Fondi FIO degli anni ’86-‘90).

Al di là degli allarmismi “ambientali” (e strumentali), che parlano di erosione, i dati ufficiali dell'Annuario Statistico Italiano (ISTAT) dimostrano esattamente il contrario. Risulta infatti che la superficie del territorio nazionale è andata aumentando, dal 1951 in poi, secondo i seguenti valori di incremento progressivo: 163 Kmq nel 1960; 196 nel '70; 208 nell'80; 246 nel '90; 278 kmq nel 1994, passando dai 301.055 del 1951 agli attuali 301.333 Kmq.. Quindi, a meno che non abbiamo occupato un po’ di Francia o di Svizzera, questo “dilatarsi” dello Stivale si può spiegare solo con un generale avanzamento della linea di costa, e non certo con il suo arretramento.

Per capire meglio il fenomeno (quello vero), descrivo nel dettaglio ciò che accade lungo il tratto lucano della costa jonica. Essa in realtà è in continua ed accertata progressione: è avanzata di 2.000 metri in 2.500 anni (v. Studio di Schmiedt e Chevallier, 1959), con un forte incremento del fenomeno negli ultimi 60 anni (v. mappe dell’Ufficio Tecnico Erariale). Dall’impianto (1920) del Catasto in poi, la linea di costa lucana – esclusi i tratti relativi ai delta fluviali – è avanzata in media di 150 metri; e più esattamente: di 40 m. a Metaponto, 180 a Scanzano, 350 a Policoro, 300 metri a Nova Siri. Dati confermati da rilievi topografici, confrontati con le mappe IGM del 1949.

La fascia jonica, si sa, è una pianura di origine alluvionale, che si è formata e cresciuta grazie al millenario apporto solido dei 4 fiumi lucani del versante jonico: Agri, Basento, Bradano e Sinni. Una corretta valutazione del processo evolutivo di un litorale richiede l’esame contestuale di lunghi tratti di costa (osservandone l’evoluzione per lunghi periodi) ed occorre inoltre tenere ben presente i due distinti momenti del processo stesso: accumulo del materiale trasportato dalle piene nella zona del delta fluviale, in una prima fase; distribuzione di quello stesso materiale su lunghi tratti di costa, per l’effetto di onde e correnti marine, verso un modellamento uniforme e lineare del litorale, in una seconda fase. 

A causa delle numerose dighe, sorte in questi ultimi 40 anni (almeno due per ognuno dei suddetti 4 fiumi), l’apporto solido si è ridotto notevolmente, e quindi si è praticamente arrestata la fase di accumulo presso le foci. Ma la fase di distribuzione, che evidentemente richiede tempi lunghi, è ancora in atto. Per cui sono tuttora riscontrabili entrambi i due contrapposti fenomeni: erosione, presso i delta fluviali, e progressione, lungo i tratti intermedi tra una foce e l’altra. E’ chiaro che questa seconda fase continuerà – verso una relativa (ed auspicabile) stabilizzazione della linea di costa – fino a quando non saranno eliminate le residue prominenze, ancora esistenti in prossimità delle foci.

Il descritto smussamento dei delta fluviali – che, ripeto, è una fase del processo di modellamento della linea del litorale jonico – viene invece strumentalmente scambiato per erosione. Come ad esempio sta facendo l’ENEA della Trisaia, che proprio alla foce del Sinni ha installato una condotta di scarico che si inoltra nel mare jonio.

A tal proposito, trascrivo testualmente quanto è riportato in uno “Studio” del 1998, condotto dalla Facoltà d’ingegneria dell’Università della Basilicata (G. Spilotro ed altri). A pag. 17 c’è scritto: “Uno studio più recente, sempre relativo alla foce del fiume Sinni è stato condotto da alcuni ricercatori dell’ENEA (B.Anselmi ed altri, 1986). I profili batimetrici ricavati nell’ambito del predetto studio, tracciati lungo la condotta di scarico dei rifiuti radioattivi, hanno mostrato come la tendenza all’arretramento sia iniziata già nel 1970,…” Di fronte ad una tale sconcertante Enormità, mi chiedo di cosa dovremmo, noi lucani, preoccuparci di più: del fatto che la cosiddetta “erosione” possa far franare quella maledetta condotta, oppure che l’ENEA della Trisaia continui a scaricare a mare i suoi veleni radioattivi ?. Ed infine mi chiedo: come mai si protesta tanto per le scorie che stanno per arrivare, e non si dice niente per quelle che, tramite quella condotta, ci avvelenano da anni?.

E così si ingigantisce il falso problema della costa, ma si ignora quello che è il vero e reale problema in Basilicata: l’accelerato processo di erosione del suolo – diffusissimo su rilievi e versanti, ed in forte incremento negli ultimi anni – che rende sempre più “pendulo” lo “sfasciume” lucano.

Tornando al fiume Po, c’è da dire inoltre che quella parte di apporto solido che va a depositarsi in riva al mare: da una parte allunga lo sviluppo planimetrico del corso d’acqua, con ripercussione sull’andamento altimetrico (riduzione delle pendenze ed incremento del processo di sedimentazione); dall’altra provoca l’interramento dei fondali, sia del tratto terminale del fiume che di quello marino, con ripercussione sulla navigazione.

Nell’agosto ’93 l’ing. Mario Zaniboni scriveva: “Il Po, per esempio, dai tempi dell’impero romano si è addentrato nell’Adriatico per parecchi chilometri (oltre 50); considerato che questo mare, alla latitudine del Po, è largo poco più di 200 chilometri e che la sua profondità massima è di 40 metri, si può anche temere, a distanza di tempo, per il suo futuro e per quello dei porti di Venezia e di Trieste”.

     A causa dell’accentuato interramento dei fondali è ormai impossibile ripristinare l’originario tirante d’acqua di 3-4 metri (il minimo indispensabile per assicurare il transito di navi fluviali marittime). Le Regioni Emilia Romagna e Veneto spendono ogni anno decine di milioni di euro per il dragaggio dei fondali (col sistema degli appalti, naturalmente), per mantenere la residua e precaria efficienza del Sistema Idroviario Padano Veneto. Altro che erosione della costa, ripascimento delle spiagge e tutte le Balle inventate, su commissione, dalla Subcultura italiana.

 

(Home)     (Sommario)

 

 

10. Le inadempienze degli Organi preposti.

 

Tra le finalità perseguite dal piano di bacino (ex art. 17 della legge 183/89 sulla Difesa del suolo, legge istitutiva delle Autorità di Bacino) è prevista la normativa e gli interventi rivolti a regolare l’estrazione dei materiali litoidi … in funzione del buon regime delle acque”.

Il D.P.R. del 14.4.93 impone il ripristino della sezione di deflusso e l’eliminazione dei materiali pregiudizievoli al regolare deflusso delle acque. L’art. 5 della legge 37/94 ribadisce lo stesso concetto e contempla l’intervento estrattivo, nel rispetto preminente del buon regime idraulico.

L’articolo 2 della legge n. 365/2000 stabilisce che l’Autorità di bacino provveda ad effettuare un’attività straordinaria di sorveglianza e ricognizione lungo i corsi d’acqua, a rilevare le situazioni di pericolo ed a identificare gli interventi di manutenzione più urgenti. Manutenzione, quindi, più che pianificazione. Ma tutto questo viene disatteso, in totale spregio delle leggi, e con grave danno per il Paese.

Con l’avvento della 183/89 era nata la speranza di una svolta nella Difesa del Suolo. Ma così non è stato. L’attività conoscitiva delle mille problematiche inerenti la conservazione, difesa e destinazione del suolo – prevista dalla legge - è rimasta sulla carta. Le Autorità di bacino sono delle ingombranti sovrastrutture, che, tra l’altro, funzionano in modo antidemocratico. Con i loro “Piani” arbitrari e campati in aria, possono stravolgere, senza dar conto a nessuno, i Piani regolatori comunali, costati anni di studi e confronto democratico. Condizionano le decisioni degli altri uffici, ma senza assumerne la responsabilità. Non si poteva fare di meglio, per alimentare il conflitto di competenze ed il conseguente immobilismo. Avrebbero invece ottemperato al dettato della 183/89, e conseguito il buon regime idraulico indicato dalla 37/94, se avessero semplicemente definito la sezione di deflusso dei corsi d’acqua.

Si è persa la cultura, sia del “buon governo idraulico” che della “buona economia”. Si è perso il contatto con il territorio, la capacità di capirne le problematiche e di progettarne le soluzioni. Si è perso il concetto di “manutenzione preventiva”; si aspetta il disastro per intervenire. E quando questo arriva, si scopre tutta l’inettitudine degli Uffici pubblici, ridotti ormai al ruolo di retrobottega di Studi ed Imprese private.

Per contro, assistiamo al moltiplicarsi di pani… poltrone… e sovrastrutture burocratiche: adb, aato, arpa, aipo; al loro vaniloquio, per convegni, seminari… e per consulti infiniti intorno al capezzale del fiume Po; al proliferare di nuovi Uffici (anzi Pianifici), dove si pianifica e ripianifica, riciclando carta e contenuto. Tutti a pianificare, studiare, monitorare, per miliardi di euro, ma nessuno che provveda alla messa in sicurezza del territorio, neanche se attuabile a costo zero; e nessuno che ne abbia la responsabilità.

Per spartirsi il potere s’inventano mille competenze artificiose, ma sfuggono ad ogni responsabilità. Sono in apparente conflitto tra loro, ma concordi e consociativi verso un unico obiettivo: l’allegra gestione del Denaro Pubblico che, dopo un disastro alluvionale, arriva copioso e da spendere: con somma urgenza e… senza controllo.

Siamo nelle mani di una massa di Irresponsabili, che, ripeto, trattano la Difesa del suolo non come un obbiettivo da perseguire, ma solo come un pretesto per attivare finanziamenti da gestire. Ed al momento delle decisioni si prediligono gli interventi che “pagano di più”: ad esempio la ricostruzione di un ponte (costosissima ma superflua), anziché la pulizia di un alveo fluviale o la demolizione di una briglia (interventi economici ma indispensabili).

Per colmo, costoro non rispondono mai delle loro azioni. Quando succede un disastro alluvionale assistiamo ad un fuggi-fuggi delle cosiddette “Autorità idrauliche competenti”: uniche responsabili del disastro stesso; ed ogni volta vediamo che il fatidico “cerino” si spegne in mano a sindaci e prefetti (per mancato allarme); oppure in mano alla protezione civile (per mancato soccorso).

Non si fa niente per ridurre il rischio idraulico, ma ad ogni alluvione le Autorità di Bacino aggiornano i cosiddetti PAI - piani d’assetto idrogeologico, che altro non sono che piani di evacuazione progressiva del territorio. Nel senso che, invece di (ri)mettere in sicurezza le zone alluvionate, si pensa di allontanarvi la gente, allargando le fasce di rispetto intorno ai fiumi, ed imponendo divieti di edificabilità.

Sono attualmente allo studio delle Autorità di Bacino i Piani di delocalizzazione di vaste aree della Pianura Padana. Con evidente crollo del valore di terreni ed insediamenti. Ma con somma gioia di certi Lestofanti, camuffati da Ambientalisti, che mirano ad appropriarsi di quei terreni, sottraendoli, di fatto, alla sovranità dei Comuni e ponendoli sotto l’autorità degli Enti Parco (altre sovrastrutture): “per crearvi l’habitat ideale per fauna e flora, e per la ricreazione dell’uomo”. Ma soprattutto per avere il controllo sull’economia di quel territorio. Ed anche per aprirvi tante Cave fuori alveo, con giro d’affari da milioni di euro: cave, spesso presenti, guarda caso, nei parchi fluviali della Pianura Padana.

 

(Home)     (Sommario)

 

11. La responsabilità dei Politici.

 

Devo evidenziare la loro totale indifferenza alle mie denunce. Ed anche qualche iniziativa aderente allo stesso scellerato Disegno. Col pretesto di disciplinare l’attività estrattiva, sbuca ogni tanto qualche proposta di legge pensata ad hoc per sopprimere l’estrazione in alveo. Cito due tentativi del genere: - 1) Disegno di legge del Senato n. 2451/90; - 2) Proposta di legge regionale di Basilicata del 2001. Entrambe del seguente tenore:

1) sono vietati i prelievi dei materiali negli alvei dei fiumi; 2) l'autorità preposta progetta l'eventuale prelievo dei materiali in eccesso e ne dispone l'esecuzione con pubblico appalto; 3) è vietata l'alienazione dei materiali estratti.

Dunque: si vieta il prelievo se eseguito con l’attività estrattiva (e con Entrate), lo si consente, invece, se eseguito con il sistema degli appalti (e con Spese); e così, tra il primo e il secondo punto, lo Stato piglia una fregatura di alcuni miliardi di euro all’anno. Rimane da spiegarsi il punto 3). Perché vietare la vendita del materiale in eccesso?. Si tratta in fondo di un bene demaniale, che ha un suo valore di mercato e che potrebbe tradursi in un’economia per la P.A.. Allora, perché vietarne la vendita?. Ed ecco la spiegazione: vietata la vendita, quel materiale non può comparire in contabilità, se non come materiale di risulta da trasportare a rifiuto. Ed infatti finisce a rifiuto (di solito presso gli stessi Impianti di produzione inerti), ma dopo trattative sottobanco, fatture false e quanto altro occorre… per costituire fondi neri ed erogare tangenti.

 A parte i due suddetti tentativi, finiti per ora nel nulla, le leggi degli ultimi venti anni non aiutano certo nel senso della chiarezza e trasparenza. Anzi, sono piene di deroghe che ne stravolgono il significato e le rendono controproducenti. Impongono vincoli generici sul territorio, senza mai stabilire criteri oggettivi di valutazione. Sono strumenti di potere in mano ai padroni della cosa pubblica, dei nulla-osta e delle concessioni, che così possono, a loro discrezione, autorizzare (o negare) il tutto (o il suo contrario) a seconda del caso… e del soggetto proponente (legge n.431/85).

Negli appalti pubblici, ripeto, vi sono leggi che trasformano la gara in farsa e permettono l'aggiudicazione a chi pare e piace. Si persegue un progetto di oligarchia delle imprese; alle quali viene imposta l'appartenenza al “gruppo” (ATI - associazione temporanea d’imprese). Chi non vi aderisce viene escluso dal giro, “per insufficiente volume d’affari”. Leggi che consentono enormi e facili guadagni, e fanno da richiamo ad  Avventurieri e Tangentisti: nuovi protagonisti del mondo delle Imprese.

Nascono nuovi uffici e sovrastrutture, ognuno dei quali assume qualche competenza – e tanto potere – nella gestione della cosa pubblica, ma con nessuna responsabilità sul proprio operato. Lo stesso art. 2 della recente legge 365/2000 – che, con evidente preoccupazione del legislatore, verso le diffuse situazioni di pericolo, detta una serie di adempimenti urgenti alle Autorità di Bacino – è rimasto del tutto ignorato, per il semplice fatto che non vi è prevista alcuna sanzione. Ma non solo. Con le parole “nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio”, riportate nello stesso articolo 2, si offre addirittura una scappatoia: a Lassismo e Menefreghismo.

 

(Home)     (Sommario)

 

12. Le colpe del Palazzo di Giustizia.

 

Mi scuso intanto per i riferimenti che qui faccio alla mia vicenda giudiziaria, che potrebbero tediare il lettore ma che servono, a titolo d’esempio, per capire meglio come (non) funziona la nostra giustizia, e quali le conseguenze.  

Il Disegno criminoso (descritto nel cap. 7) che mira all’abolizione dell’estrazione in alveo  ed alla criminalizzazione degli operatori del settore: - è stato concepito, ripeto, nella logica dell’emergenza, dalla follia “ambientalista” e per gli interessi della lobby Tangenti & Appalti; - è cresciuto, in campo nazionale, grazie agli abusi degli Uffici preposti; - ma deve la sua “buona riuscita” all’aiuto delle varie Autorità Giudiziarie. Le quali, con noncuranza e pregiudizio, e con lungaggine di processi, negano di fatto giustizia e tutela a chi vuole operare nella legalità, e di fatto garantiscono l’impunità ai Mascalzoni che – dall’interno delle istituzioni – perseguono questo ignobile disegno, e che, grazie a questa specie di immunità, riescono ad organizzarsi in “Sistema”. 

Contro questo sistema, operante (anche) in Basilicata, sto lottando da dieci anni con la mia azienda: cercando da una parte di ottenere le concessioni estrattive reali (e non virtuali) per poter operare nella legalità; dall’altra denunciando gli abusi, omissioni e falsi in atti d’ufficio, nonché la collusione tra i funzionari preposti all’attività estrattiva e la lobby degli appalti di “sistemazioni fluviali”; denunciando il danno erariale derivante da tale connubio, nonché gli appalti truffaldini consumati nei fiumi lucani durante la “campagna” dei Fondi FIO degli anni ’85-’90: un immane spreco di pubblico denaro. Gli archivi delle Procure di Matera e Potenza sono pieni di queste denunce: tutte finite sotto la sabbia.

Nel febbraio ‘95 denunciai il “sistema” delle concessioni virtuali (“ti autorizzo un metro cubo ma ne puoi prelevare 10”), imposto dagli uffici e diffusamente praticato in Basilicata; evidenziai l’impossibilità di operare nella legalità, in un contesto simile, e chiesi l’intervento dell’autorità giudiziaria. Ma l’unica azienda su cui la Guardia di Finanza ha indagato, nel 1996, per estrazione abusiva, è stata la mia (???). Intanto, la prassi fraudolenta delle concessioni virtuali, è tuttora in uso: diffusa e indisturbata.

Nel marzo ‘99, a seguito di un diniego della Regione ad una mia richiesta di concessione – diniego motivato con falso ideologico, cioè con citazione manipolata di un articolo di legge – presentai ricorso al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in Roma. Il quale a tutto oggi non ha ancora deciso ma nel frattempo: - ha nominato un Consulente Tecnico d’Ufficio (C.T.U.), che si scopre essere cointeressato con la controparte Regione Basilicata, avendo partecipato alla citata “campagna” di Fondi FIO, in qualità di progettista di due sistemazioni fluviali nel fiume Agri, per l’importo complessivo di 67 miliardi di vecchie lire; - ha sposato ciecamente il parere del suddetto; - se ne frega altamente della relazione tecnica di parte, nonostante questa metta in evidenza le oggettive incongruenze del CTU; - salta di palo in frasca, deviando il processo dai quesiti tecnici iniziali alle stravaganti conclusioni di costui; - si rifiuta ostinatamente di effettuare un’ispezione diretta dei luoghi (più volte richiesta) che avrebbe potuto chiarire ogni cosa sia sulla necessità, urgenza e pubblica utilità dell’intervento da me proposto, sia sulle madornali corbellerie avanzate dal CTU; - e rinvia, di semestre in semestre, per la decisione.

Il tutto si spiega con l’ignoranza, su questioni tecnico-ingegneristiche, dello stesso giudice; il quale – guidato forse da pregiudizi – trasforma in anticipata sentenza la relazione del CTU, senza neanche leggere la relazione di parte.

Avrà di certo influito la diversa “dignità” delle firme, visto che il CTU è un Docente Universitario, mentre il perito di parte è un giovane ingegnere idraulico: una forma di handicap del resto inevitabile. Difatti pur volendo non avrei potuto disporre di un consulente di pari grado, perché la legge non permette ai docenti universitari di espletare incarichi simili, per conto di soggetti privati. L’altro handicap che ho dovuto subire è stato il divieto di parlare durante le udienze: divieto imposto dalla “procedura”. Nel rispetto della quale, il primo risultato che si ottiene, ricorrendo alla nostra Giustizia, è la perdita del diritto alla parola: alla faccia dello Stato di diritto.

Il Consiglio Superiore della Magistratura,  al quale ho segnalato questo modo a mio avviso singolare di amministrare la giustizia, prende fischi per fiaschi confondendo il Tribunale delle Acque di Roma con il Tribunale fallimentare di Matera – mi fa sapere che non trova niente di irregolare e delibera per l’archiviazione.

Il Ministro della Giustizia ignora del tutto la mia segnalazione.

E così mi ritrovo ad essere di fatto giudicato, non da un giudice ma da un CTU, che, guarda caso (?), trae la sua linfa dal giro di appalti miliardari delle “sistemazioni fluviali”, cioè da quello stesso sistema contro il quale sto lottando da dieci anni. Questa insomma è la giustizia: ritardata, sommaria, pregiudiziaria, e handicappata, che mi tocca subire dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, in Roma.

Nel frattempo, durante questi sei anni, quella difesa spondale del fiume Basento – alla cui conservazione era finalizzato l’intervento di manutenzione da me proposto, con l’istanza in questione – è per buona parte crollata, con danno erariale per centinaia di migliaia di euro. Viene a questo punto da chiedersi: a chi si deve addebitare di più, questo danno, ai Mascalzoni della struttura regionale che, calpestando la legge, si rifiutano di adempiere al loro dovere, o ad un Giudice che – guardando con diffidenza e pregiudizio solo all’interesse privato del ricorrente – si trastulla di rinvio in rinvio, senza curarsi  delle inadempienze di quei mascalzoni, e senza accorgersi del grave danno, che, anche a causa dei suoi rinvii, viene arrecato all’Interesse Generale?.  

Dal canto suo, la lobby degli appalti assiste a tutto questo con somma gioia. Ma non solo. Ricordando la ben riuscita “Operazione” – compiuta proprio nel costruire quella difesa spondale: realizzandone solo una metà, collaudando due volte la stessa metà, e facendosi pagare l’intera opera, da 15 miliardi del vecchio conio –  aspetta con ansia che se ne decida la ricostruzione… e già si prepara per un’altra “operazione”, riveduta e corretta, da 15 milioni del nuovo conio.

Dopo dieci anni di denunce, di vane aspettative o di esiti sconcertanti, mi sono reso conto che in questo Paese si può operare indisturbati nell’illegalità, ma chi persegue la legalità non trova tutela da nessuna parte, ed alla fine è costretto a chiudere. Ho capito inoltre che da questa giustizia è preferibile starne alla larga, quanto meno per evitarne i costi.

Nota bene: questo capitolo va doverosamente aggiornato per un fatto importante accaduto nel gennaio 2005: il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha emesso la sua sentenza con la quale accoglie il mio ricorso e condanna la Regione Basilicata; sentenza che comunque sino ad ora non ha sortito alcun effetto pratico. Click

 

(Home)     (Sommario)

 

13. La beffa della Protezione Civile.

 

La Protezione Civile, per parte sua, aggiunge la beffa al danno. Su “la Stampa” del 23.7.2003 (v. rassegna stampa), in piena emergenza siccità, il Dr Guido Bertolaso, Capo della Protezione civile lancia l’allarme su un’altra emergenza, ancora più grave ed imminente, cioè le alluvioni che si preannunciano per l’autunno-inverno successivo; e dichiara: “Il rischio è che arrivi una stagione di alluvioni. Adesso che i fiumi sono in secca abbiamo chiesto alle Regioni di approfittare della situazione per pulire gli alvei. Non si tratta di fare allarmismi, ma il rischio è reale”.

Date le diffuse aspettative su questo fronte, sembrava fosse giunta finalmente una parola chiara da parte delle Autorità; che si volesse affrontare con decisione il problema; e che, dopo questa autorevole “intimazione”, sarebbe tempestivamente partita, su larga scala, la pulizia e regimazione degli alvei fluviali. Ma niente di tutto questo: dopo l’esultanza arriva la delusione… e si capisce ch’è tutta una presa per i fondelli. Leggendo infatti la Circolare n. dpc/dip/0034681 del 07.08.2003 (v. rassegna stampa), inviata a ministeri, prefetture, regioni e province, dallo stesso Capo della Protezione Civile, si scopre che con quel “pulire gli alvei”, egli non si riferiva ai tanti milioni di mc di ghiaia e sabbia – che ostruiscono gli alvei e rappresentano la vera causa di alluvioni e disastri – ma solo alla mondezza che li sporca: stracci, lattine vuote, buste di plastica, rami secchi ecc…

E così, da una parte si illude (e si inganna) la gente preoccupata del pericolo incombente, dall’altra si dà la possibilità, a chi ci specula sopra, di organizzare sceneggiate televisive, con squadre di volontari, di ignari adulti e bambini innocenti; e di farsi un po’ di pubblicità sulla equivocata “pulizia degli alvei”, raccogliendo quattro sacchi di mondezza. Quanto al vero rischio idraulico, al “rischio reale”, non si è fatto molto per ridurlo, niente di veramente valido per (ri)mettere in sicurezza il territorio, ma si è pensato soltanto a come allertare e far scappare la gente da quel territorio. Assistiamo infatti al proliferare di costosi piani comunali d’emergenza, concepiti nell’ottica del “si salvi chi può”. Piani che alla prima prova si rivelano a volte inadeguati e persino grotteschi; e che servono solo ad alimentare la psicosi del pericolo, la paura nella gente: a rendere più precario il rapporto con il territorio d’appartenenza.

A distanza di un anno (dalla sopra citata intervista) il Capo della Protezione civile è passato da quel grido d’allarme a delle rassicuranti dichiarazioni. In diretta dallo storico ponte Cittadella di Alessandria – durante la trasmissione di “Tgr-ambiente Italia” del 6 novembre 2004 – egli ci fa sapere che il pericolo non c’è più, o che comunque si è ridotto di molto; tanto è vero che il numero dei morti è andato riducendosi, di alluvione in alluvione, fino ad azzerarsi nel 2002.

Paragonando la Pianura Padana ad una nave – che al primo naufragio è affondata con tutti i passeggeri – Bertolaso tiene ad evidenziare che, grazie appunto al tempestivo allarme ed al potenziamento della “sua” flotta di salvataggio, al terzo o quarto naufragio, pure i topi si sono salvati. Trascura però un piccolo dettaglio: quella nave comunque è affondata di nuovo (e più volte), e con miliardi di danni ogni volta; e le condizioni di “galleggiamento” sono sempre più precarie. Alludo al rischio esondazione, ch’è sempre più alto essendo gli alvei fluviali sempre più ostruiti. Alludo a quel “rischio reale”, insomma, che tanto lo preoccupava un anno fa, e che ora, improvvisamente, gli è passato di mente.

     Sarebbe tutta da ridere questa “Opera buffa” istituzionale, se non fosse per il prevedibile finale in tragedia, per tante vite umane.

 

(Home)     (Sommario)

 

14. La “complicità” della stampa.

 

Giornali e televisioni hanno la grande colpa di aver consentito a tanti lestofanti, camuffati da ambientalisti, di perpetrare, attraverso le loro pagine e ribalte televisive, la manipolazione dell’opinione pubblica, con stupidaggini varie, del tipo: i fiumi devono evolvere secondo natura; oppure: il materiale serve al ripascimento della costa”.

Decenni di siffatta campagna di stampa, contro l’escavazione in alveo, hanno prodotto e radicato nell’immaginario collettivo non pochi pregiudizi, contro questa attività e contro chi la pratica. Pregiudizi che producono effetti fuorvianti, non solo durante le “chiacchiere al bar” ma anche nelle Sedi ufficiali, giurisdizionali ed istituzionali, dove si decide e si giudica sull’argomento. Pregiudizi, che influenzano tutti e che evidentemente bloccano ogni seria indagine giornalistica.

Sono dieci anni che tento di richiamare l’attenzione della stampa su questo scellerato disegno. Ma niente da fare. Tutti zitti su questi problemi. Salvo poi a ritrovarli tutti mobilitati in occasione degli eventi calamitosi: dai più bravi fondisti e conduttori, agli opinionisti, “guardiani del potere” e velinari della follia “ambientalista”. Solo allora fioriscono i “forum” e le “tavole rotonde”; si riempiono prime, seconde pagine e giornali interi, di cronaca sugli avvenimenti. Tutti a rappresentare la scenografia del disastro; a riferire le versioni “ad hoc” dei responsabili; ad elencare le spiegazioni “ambientaliste”; a scavare nel dolore e nella disperazione della gente… ed a fare la conta dei morti.

 

(Home)     (Sommario)

 

15. Urge una svolta.

 

Per il bene del Paese, per la vita e l’economia di intere popolazioni: urge una svolta a questa scellerata politica. Se non si provvede alla pulizia, bonifica e regimazione degli alvei, al ripristino della loro sezione di deflusso – nell’ottica e con i criteri del buon governo idraulico – fra non molti lustri, la pianura padana dovrà essere evacuata: da persone e cose. E non ci sono argini che possano salvarla.

Di fronte al vuoto ed al marasma istituzionale, ed all’inerzia degli “Organi competenti”, peraltro inaffidabili e inattendibili, l’auspicata svolta può nascere solo dalla mobilitazione organizzata dei cittadini. Urge pertanto una loro presa di coscienza; una diretta conoscenza dei problemi; un ruolo attivo e propositivo nella ricerca delle soluzioni. Urge una decisa azione di protesta popolare, verso ritardi e inadempienze degli Uffici. Ma servono anche delle iniziative di approccio tecnico: sia verso il problema, del rischio idraulico, che verso le varie soluzioni. Il tutto, previa liberazione da pregiudizi e feticismi “ambientali”, e dalle varie sudditanze ideologiche. Certo, serve pur sempre una svolta Politica. Ma la si può sperare solo se il problema reale diventa anche elettorale: se insomma diventa una questione di voti. Da qui l’esigenza di una consapevole ed organizzata mobilitazione popolare.

Il Comune – magari coadiuvato dai comitati cittadini, e previa riconquista della sovranità sul territorio – potrebbe effettuare le suddette verifiche, e individuare le situazioni a rischio esistenti lungo i fiumi. D'altronde, lo stesso articolo 2 della legge 365/2000 (Attività straordinaria di polizia idraulica e di controllo sul territorio)  – emanata subito dopo l’alluvione “Piemonte 2000” – stabilisce una serie di accertamenti al fine di: “individuare le situazioni di pericolo, per persone e cose… sia a carattere incombente che potenziale… ponendo particolare attenzione… sui restringimenti delle sezioni di deflusso… sull’efficienza e la funzionalità delle opere idrauliche esistenti (tra cui le briglie)… sulle situazioni d’impedimento al regolare deflusso delle acque”. Accertamenti da farsi a cura dei vari Enti competenti sul territorio, tra cui i Comuni.

Il Sindaco – cui compete per legge la sicurezza dei cittadini – dovrebbe denunciare l’immobilismo degli organi preposti, informare i cittadini e coordinarne la protesta, affinché la loro azione possa svolgersi in termini civili, e ne possano sortire effetti benefici e immediati. Consentire che la gente abiti nelle aree a rischio, senza fare qualcosa per eliminarlo, è come permettere l’uso di una casa pericolante, danneggiata dal terremoto, che crollerà con la scossa successiva. Tenere poi la gente all’oscuro del pericolo, è ancora più grave e immorale.

Quanto a tutto il resto, speriamo che Buonsenso prevalga e… che metta fine all’immane Sperpero di denaro pubblico… che induca il Parlamento ad abrogare le leggi di Tangentopoli… che smantelli tutte le sovrastrutture… che faccia pulizia di Ambiguità, Cialtroneria, Indolenza ed Arroganza, di cui sono pieni i Palazzi del potere… che risollevi questo Stato dallo stato confusionale in cui sta sprofondando… e che ne arresti lo sbriciolamento, attualmente in corso.

 

 (Home)     (Sommario)

 

 

Saranno gradite osservazioni, critiche e richieste di chiarimenti.

Via F.lli Cervi, 5 - 75019 – Tricarico (MT)

tel: 348.2601976;   e-mail: nicolabonelli@fontamara.org;

 

Foto 1 - le cause: ostruzione dell’alveo (L’Adda a Rivolta) 

 

Foto 2 - gli effetti: Lodi sott’acqua (Alluvione 2002)

 

 

 

Fiumare Padane

Alcune immagini del fiume Ticino

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                 [Home]    [SOMMARIO]