EUROPA, 17 dicembre 2003

 

Che cosa può fare il governo. Rispondono i costituzionalisti

Adesso la maggioranza eviti un suicidio in diretta tv

 

di ENZO BALBONI

 

La decisione del presidente Ciampi per una nuova deliberazione va salutata come un passaggio di rilievo nella storia istituzionale del nostro paese, non tanto perché - come ho in più occasioni argomentato su queste colonne- vada considerato come un fatto straordinario ed eversivo, ma perché riconduce alla normalità e sanità repubblicana una serie di rapporti tra i detentori delle funzioni sovrane nello stato. La chiave del discorso sta tutta in quel passaggio, stretto, della disciplina che si vuol dare alla radiotelevisione raffrontata al rischio di posizioni dominanti nell’informazione e in quella “qualità della democrazia” immediatamente collegata al pluralismo che il presidente Ciampi aveva, spontaneamente e con larghezza di argomenti, indicato come parametri costituzionali fondamentali nel suo messaggio alle camere del luglio 2002. È dunque con soddisfazione e rinnovata stima e fiducia che, adesso, si può dare atto al Presidente Ciampi di essere stato coerente con se stesso e con i paradigmi di costituzionalità più volte enunciati nell’adempiere con alto senso dello stato, i compiti che gli sono stati affidati.
Ma ora, che succede? Mi pare che vada scartata, anzitutto, la sola ipotesi di “ far finta di niente”, forzando le camere a riapprovare il testo della legge Gasparri così com’è, poggiando sulla fredda lettera del secondo comma dell’art. 74 Cost.
laddove è previsto l’obbligo del Presidente della Repubblica di promulgare una legge quando questa venga a lui ripresentata in seguito al suo rinvio.
Dopo la lettura delle cinque asciutte, profonde e argomentate pagine che stanno alla base del rinvio e lo motivano convincentemente, prendere questa strada equivarrebbe per il governo e la maggioranza ad una vittoria di Pirro, della durata di pochi mesi, che aprirebbe la via di una sicura dichiarazione di illegittimità costituzionale, che la Consulta ben potrebbe adottare , partendo proprio dai rilievi formulati dal Capo dello stato rimasti inevasi e senza risposte. Spero, inoltre che le persone di buon senso nella maggioranza si opporrebbero fermamente a questo suicidio in diretta Tv.
La via maestra sarebbe,invece, quella di far tesoro dei rilievi accuratamente segnalati dal Quirinale - a cominciare dal micidiale sistema integrato della comunicazione che prende a riferimento l’intero panorama pubblicitario - per rimettere mano in profondità alla legge sulla televisione, intervenendo là dove appare utile - l’apertura alle nuove tecnologie e al sistema digitale, ad esempio; la tutela dei minori, ecc - ma depurando le norme dal quell’utilità particulare per il duopolio collusivo Mediaset-Rai che è la vera ragione e la pesante zavorra della normativa in esame.
Per far ciò non aiuta essere inseguiti dalla fretta e dalla furia e sarebbe opportuno affrontare su basi di serietà e verità l’argomento tabù del colossale conflitto di interessi di cui è parte oggi il capo del governo. Proprio qui tocca alla fine, giungere perché nei palazzi romani cominciano a circolare ipotesi e bozze di un decreto legge che sarebbe in preparazione e sarebbe volto a salvare Rete Quattro e la pubblicità su RaiTre.
La strada del decreto legge è però scivolosa ed infida per almeno quattro motivi.
Per decenza, ma anche per la stessa validità dell’atto, questo dovrebbe essere adottato da un Consiglio dei ministri non presieduto da Berlusconi, anzi con il Presidente del consiglio fuori dalla porta, essendo conclamato - altrimenti - che, egli statuirebbe in re propria et pro domo sua. Inoltre non è facile giustificare, quantomeno sul piano politico, la straordinarietà, necessità ed urgenza di provvedere.Questi caratteri sono richiesti per l’adozione del decreto legge e pur essendo alla fin fine insindacabili sul piano giuridico formale e lasciati ad un apprezzamento di maggioranza, segnalerebbero tuttavia il gemellaggio con il decreto Craxi che, sulla fine del 1984, venne a primo salvataggio delle reti di Berlusconi. L’accostamento ha un che di inquietante.
In terzo luogo, le discussioni parlamentari sul decreto - prima quelle sulla sua costituzionalità, urgenza ed eccezionalità, poi quelle innescate dalla legge di conversione da ottenere obbligatoriamente entro 60 giorni - potrebbero aprire pericolose crepe nella maggioranza proprio in un momento in cui si vorrebbe esaltare la ritrovata coesione.
Infine, l’escamotage di far firmare il decreto dal vice presidente Fini non varrebbe a sfuggire, una volta di più, alla sensazione di una maggioranza che si ricompatta, allineata ed ordinata, solo a copertura del suo capo. E questo, di per sé, non è un bel vedere.