il Riformista

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4 Dicembre 2003

FRATTURE. PERCHÉ LA LEGGE È NETTAMENTE INCOSTITUZIONALE
La Gasparri va al di là di ogni limite né mandato elettorale né ragion di Stato

Non siamo più dentro una politica di destra ma nel cuore del pluralismo

Sulla legge Gasparri non ci sono scuse. Siamo oltre ogni limite, anche se non nasce un regime. In particolare non valgono le due obiezioni classiche, più o meno fondate in altri casi, il mandato popolare o la «ragion di Stato». Parto dal primo argomento, anche perché altre volte ha funzionato. Sono stato perplesso di fronte a critiche di incostituzionalità per molte leggi (non condivisibili) varate da questo governo. Infatti qualche settore più radicale dell'opposizione tende talora ad usare la Costituzione come una clava, quasi che fosse illegittimo rispettarla e al tempo stesso perseguire politiche di centrodestra. La Costituzione non impone di governare secondo un'impostazione di centrosinistra. E' però accaduto che larga parte dell'establishment del passato si sia trovato nel centrosinistra e che in tale schieramento si sia perciò diffuso un raccordo particolarmente forte con le culture politiche presenti all'Assemblea costituente. Sia in termini positivi, abbeverandosi a valori vitali, sia in termini negativi, scambiando talora la fedeltà ai valori col conservatorismo della fedeltà a singole modalità di incarnare quei valori, storicamente condizionate e oggi desuete. Detto più semplicemente: sarebbe ben strano un Paese in cui, a differenza degli altri dell'Unione europea, i cittadini con le elezioni non potessero scegliere politiche simili a quelle della Thatcher o di Aznar perché la Costituzione glielo vieterebbe. Se così fosse, la clava lanciata sugli avversari tornerebbe indietro sulla Costituzione: bisognerebbe modificarla per rimuovere gli ostacoli alle scelte dei cittadini. Così è avvenuto in Portogallo, dove i capitani di estrema sinistra avevano imposto nel testo degli anni '70 alcuni vincoli ideologici che sono stati prima aggirati e poi rimossi dal testo. Una delle poche tracce residue è il nome paradossale del partito di centrodestra che, pur essendo liberale, si chiamò socialdemocratico perché doveva far finta di rispettare i vincoli di una Costituzione che esordisce con l'impegno di «intraprendere la strada verso una società socialista». Ma con la Gasparri non siamo dentro una politica di destra, siamo dentro al cuore del pluralismo informativo e del suo rapporto col potere politico. Siamo dentro i vincoli che il costituzionalismo liberale ha posto sin dall'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti francese del 1789: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione». Ora, quando la Gasparri crea un gigantesco calderone determinando un denominatore enorme su cui il tetto anti-concentrazione del 20% viene di conseguenza ad essere amplissimo, siamo fuori dalla normalità. Se alla fine dei conti l'azienda del Presidente del Consiglio non solo non è costretta a dismettere nulla, ma può ancora crescere, non c'è separazione dei poteri né garanzia dei diritti. Ciò non significa che arriviamo al Grande Fratello orwelliano, come sostengono i critici più apocalittici, perché il sistema informativo è comunque ormai strutturalmente incontrollabile da un qualsiasi centro. Il fatto che non ci sia un regime, non significa però che siamo in una normalità accettabile.
Il secondo argomento, quello della ragion di Stato, poteva valere per il lodo Schifani. L'idea che il presidente del consiglio potesse essere condannato durante la presidenza del semestre europeo, per un reato grave come la corruzione dei giudici, ha portato a quella forzatura, che tale è, sia perché varata con legge ordinaria (si può affrontare così di soppiatto il conflitto tra sovranità popolare e principio di uguaglianza?) sia perché concepita in modo automatico (senza nessuna assunzione di responsabilità come nella vecchia autorizzazione a procedere). Tuttavia c'è anche il problema oggettivo, in un Paese in cui è prevista l'obbligatorietà dell'azione penale e l'indipendenza della magistratura, di un possibile squilibrio di poteri. Non è stato quindi un caso se tra i giuristi qualcuno si sia sentito in dovere di invitare a «sorvolare» la forzatura in nome di altre esigenze, almeno durante il semestre europeo, consentendo al Quirinale di firmare. Ma nulla di questo c'è sulla Gasparri. Evitare che Retequattro finisca sul satellite non è una ragione di Stato né esprime un problema oggettivo tra i poteri. Prolungare per alcuni anni una fase transitoria in nome di innovazioni tecnologiche futuribili significa contrapporsi frontalmente alla giurisprudenza della Corte che ne ha negato la fondatezza («deve escludersi la realizzabilità in tempi congrui» ) e che per questo aveva imposto il limite del 31 dicembre 2003. Ma ciò va anche a collidere col messaggio al parlamento del presidente Ciampi del 23 luglio 2002, che è concepito non come l'esposizione di indirizzi politici, più o meno opinabili, ma dichiaratamente come una sorta di prosecuzione delle sentenze della Corte e dei vincoli comunitari che contiene frasi come «il pluralismo e l'imparzialità dell'informazione non potranno essere conseguenza automatica del progresso tecnologico». In un caso del genere, proprio per le caratteristiche di quel messaggio, è come se il Presidente si fosse auto-vincolato a non firmare una legge con contenuti opposti. Né mi pare che altri autonomi ma concomitanti motivi di ragion di Stato, come l'emergenza in Iraq, siano oggi tali da sovvertire tali valutazioni. Ma quand'anche il Presidente, per ulteriori ragioni che sarebbero senz'altro da rispettare, dovesse decidere di firmare, nulla salverebbe la Gasparri dal giudizio della Corte. Un presidente di una Repubblica parlamentare può anche esitare sul compiere atti di garanzia con indubbio impatto politico, ma l'organo specializzato sul controllo di costituzionalità non potrebbe seguire analoga cautela.

 

 

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