EUROPA

Legge Gasparri: ecco perché è incostituzionale e riduce il pluralismo/2

Contro la Corte

 

di FRANCESCO DAL CANTO*

 La legge Gasparri, sul riassetto del sistema radiotelevisivo, approvata in questi giorni in quarta e decisiva lettura dal senato e ora alla firma del presidente della repubblica, pone seri problemi di compatibilità con il giudicato prodotto da una recente pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale. Innanzitutto, due parole sul giudicato costituzionale, cioè su quella particolare qualità delle pronunce della Corte costituzionale in forza della quale gli effetti che esse producono divengono immediatamente incontestabili.       Ciò deriva dall’articolo 136 della Costituzione, ove si stabilisce che «quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», e dal successivo articolo 137, ultimo comma, nel quale può leggersi che «contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione».
Il combinato disposto delle predette disposizioni costituisce il fondamento del principio della “intangibilità della pronuncia”, nel senso, che gli effetti di essa non sono modificabili ad opera di nessuno: né dalla Corte stessa, né da altro giudice, né dal legislatore.
Tale principio, del resto, costituisce una conseguenza obbligata della stessa logica sottesa agli ordinamenti a costituzione “rigida”, cioè non modificabile attraverso una legge ordinaria, caratteristica di cui le attività della Corte sono diretta manifestazione.
Stessa ragione per la quale, d’altra parte, è invece consentito al legislatore costituzionale, attraverso il procedimento aggravato di cui all’articolo 138 della Costituzione, procedere al superamento di un precedente dispositivo della Corte costituzionale, come del resto è di recente avvenuto in occasione della vicenda che ha condotto alla modifica, a seguito della sentenza n. 361 del 1998, dell’articolo 111 della Costituzione, in tema di “giusto processo”. E tale ordine di idee risulta confermato, ad abundantiam, anche dalla lettura dei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, dalla quale si evince che la previsione contenuta nell’articolo 136 della Costituzione, in forza della quale le pronunce costituzionali sono comunicate alle camere affinché, «ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali», fu originariamente proposta proprio per consentire al parlamento di superare il decisum del giudice delle leggi soltanto attraverso lo strumento della revisione costituzionale.
In definitiva, come ebbe modo di precisare la Corte fin dal 1983, il giudicato costituzionale comporta che sia «precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione». Preclusione che, quindi, opera anche per l’avvenire, giacché è evidente che una pronuncia costituzionale è rivolta più al futuro che al passato, dal momento che il giudice costituzionale è portato soprattutto a valorizzare «il prospective overruling che deve poi valere per il futuro, mentre è disposto a vedere attenuata l’incidenza delle sue pronunce per quel che riguarda le condotte del passato».
Veniamo dunque alla questione relativa all’assetto della radiotelevisione. Con la sentenza n. 466 del 2002 la Consulta, ponendo fine ad una vicenda che si trascinava da anni, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 3, comma 7, della legge n. 249 del 1997, legge che aveva di fatto consentito l’ulteriore differimento dell’assetto radiotelevisivo già dichiarato illegittimo con la precedente pronuncia n. 420 del 1994. In particolare, nella decisione di pochi mesi fa il giudice costituzionale, dopo aver osservato che «l’esistente sistema televisivo italiano privato trae origine da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze, al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo» e che anzi, «rispetto a quella esaminata dalla sentenza n. 420 del 1994, la situazione di ristrettezza delle frequenze disponibili si è pertanto accentuata, con effetti ulteriormente negativi sul rispetto dei principi del pluralismo e della concorrenza », stabilisce che, «in questo quadro, la protrazione della situazione esige, ai fini della compatibilità con i principi costituzionali, che sia previsto un termine finale assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile».
Tale termine, non avendo il giudice delle leggi né gli strumenti né la possibilità di compiere un’autonoma valutazione tecnica, viene fatto coincidere, come si stabilisce nello stesso dispositivo della sentenza, con quello individuato in via amministrativa, con delibera adottata il 13 agosto 2001, quando già era pendente il giudizio di fronte alla Consulta, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Di conseguenza la questione di costituzionalità viene accolta con l’annullamento della disposizione censurata «nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine finale certo, e non prorogabile, che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003, entro il quale i programmi irradiati dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso articolo 3 devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo».
Si tratta, come sovente avviene al palazzo della Consulta in circostanze di questo tipo, di una decisione estremamente prudente: alla singolare severità della motivazione, nella quale, come si è accennato, non si risparmiano toni piuttosto duri e comunque inequivocabili nel giudicare un sistema da anni del tutto incompatibile con il principio pluralistico, corrisponde un dispositivo morbido, che, bilanciando i diversi interessi di rilievo costituzionale in campo, fi- nisce per concedere ancora tempo al legislatore, come già era accaduto in passato, con la differenza che, questa volta, viene individuato un “termine finale assolutamente certo”.
Ed è proprio sul punto della “certezza” che la legge Gasparri si pone in evidente contrasto con la sentenza della Corte costituzionale. Le previsioni “incriminate” sono, in particolare, gli articoli 15 e 25 del testo approvato. La prima disposizione prevede che uno stesso fornitore non possa essere titolare di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20 per cento del totale dei programmi televisivi; stesso parametro già previsto, e mai applicato, dalla legge del 1997, ma ora misurandosi tale percentuale su un paniere comprensivo, tra l'altro, delle frequenze in tecnica digitale. E’ evidente che la formazione di un mercato rilevante di così ampie proporzioni (e così eterogeneo) rispetta solo formalmente le regole sulla concorrenza adottate come parametro per il pluralismo dalla giurisprudenza costituzionale e, in sostanza, consente di mantenere ed anzi di estendere ancora la sfera di intervento dell'attuale monopolista privato.
D’altra parte, l’articolo 25 stabilisce altresì che l’offerta di programmi su reti televisive digitali terrestri abbia inizio «entro il 31 dicembre 2003», con l’obiettivo, attraverso un piano volto al progressivo incremento della tecnica digitale, di raggiungere solo dopo un anno, il 1 gennaio 2005, il 70 per cento della popolazione.
Ora, tale obiettivo, al di là di ogni valutazione di ordine tecnico, si presenta, per lo stesso legislatore, incerto. Nel medesimo articolo 25 si prevede infatti che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, «entro i dodici mesi successivi al 31 dicembre 2003, svolga un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri allo scopo di accertare la quota di popolazione raggiunta dalle nuove reti digitali terrestri». Non solo, «entro trenta giorni dal completamento di tale accertamento, l’Autorità invia una relazione al governo e alle competenti commissioni parlamentari nella quale verifica se sia intervenuto un effettivo ampliamento delle offerte disponibili e del pluralismo nel settore televisivo…».
Non è difficile constatare che l’esito del predetto accertamento potrà essere positivo oppure negativo, e che, in questo secondo caso, l’Autorità potrà, al massimo, «formulare proposte di interventi». Ne consegue che la disciplina della nuova legge non offre alcuna garanzia che consenta di escludere che ci si trovi di fronte all’ennesima proroga; in un sistema che, sostanzialmente da sempre, vive di proroghe.
La differenza rispetto al passato è che, in questa occasione, vi è una precedente sentenza della Consulta che ha individuato un termine finale inderogabile.
Un termine che espressamente non consente proroghe.
*Professore associato di diritto costituzionale nell’Università di Pisa e autore della monografia “Il giudicato costituzionale nel giudizio sulle leggi” Torino, Giappichelli editore, 2002