Il Messaggero

Lunedì 16 Settembre 2002

GLI SCOGLI DELLA “NUOVA” TV
di ANTONIO GAMBINO

A DISTANZA di alcuni giorni dalla notizia dell'invio alle Camere del disegno di legge di riassetto del settore radio-televisivo, spentisi per ora i riflettori, la riflessione può farsi più pacata e, se mai possibile, indipendente dagli schieramenti politici. Il progetto governativo abbraccia sostanzialmente tre temi. Il primo riguarda il fatto se Rete 4 debba migrare sul satellite alla prevista data del 31 dicembre 2003 a seguito dell'approvazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze da parte dell'Autorità garante delle comunicazioni. Ovvero se Rete 4 possa continuare ancora per altri due anni a irradiare i segnali terrestri, in attesa, anche per le reti generaliste, dei canali digitali che risolveranno radicalmente il problema con la presenza da 60 a 100 canali e forse più. In altri termini, si tratta di una proroga del termine di passaggio al satellite per il tempo necessario a renderlo inutile, sulla scia dei provvedimenti emanati nella passata legislatura. Così posto, il tema è obiettivamente di minore rilevanza e la sua soluzione sarà di competenza delle Camere in sede di approvazione del disegno di legge. Di minore rilevanza anche perché certamente, dati i lunghi tempi previsti per la discussione in Parlamento, il disegno di legge non è in grado di incidere sulla decisione della Corte Costituzionale, investita da un controinteressato e prossima a sentenza sulla legittimità costituzionale sul punto della legge Maccanico, che ha consentito la proroga.
Il secondo tema è di grande rilievo. Viene proposta una rinnovata legge di sistema del settore radio-televisivo, coerente con le nuove tecnologie che sono in grado di offrire una piena multimedialità della comunicazione via etere e via satellite, con la rivoluzione del digitale che si sovrapporrà sino a sostituire la televisione analogica nel dicembre 2006 secondo la previsione comunitaria. Coerente con questo grande spazio che si apre alla comunicazione di massa è l'istanza anche, e non solo, delle imprese editrici di quotidiani e periodici di godere di una piena possibilità di integrazione con il settore multimediale radio-televisivo facendo cadere la rigida barriera oggi posta tra operatori nei due settori a garanzia del pluralismo ed in presenza dell'attuale sostanziale duopolio nella comunicazione televisiva (Rai e Mediaset). Il disegno di legge fa cadere lo sbarramento e consente l'integrazione tra i due settori editoriale e multimediale radio-televisivo, con permanenza solo di limiti antitrust nel settore delle telecomunicazioni, che passano peraltro dal 5 al 10% delle risorse nel sistema delle comunicazioni. L'integrazione è richiesta da sinistra e da destra e corrisponde, per ambedue i settori, ad un'indiscutibile esigenza di integrazione per vincere le sfide del prossimo futuro.
Il problema politico e tecnico consiste quindi non nella possibilità di integrazione prevista nel disegno di legge, ma nella individuazione dei limiti di questa e particolarmente nella determinazione dei criteri con i quali i limiti vengono fissati, al fine di garantire il valore del pluralismo nell'uso dei mezzi di comunicazione di massa: strumento essenziale della libertà di manifestazione del pensiero, come solennemente ricordato dal Presidente Ciampi nel suo recente messaggio alle Camere. E con la piena liberalizzazione europea e con la prevista privatizzazione progressiva della Rai ambedue i settori saranno coinvolti nel processo di formazione di un mercato europeo con l'esigenza quindi di tener presenti anche le dimensioni e le caratteristiche di un mercato più ampio di quello italiano al fine di evitare che le imprese italiane, per dimensioni e potenzialità economiche, siano condizionate o assorbite dai grandi network stranieri.
Il tema dei criteri di determinazione dei limiti di presenza sul mercato è quindi il tema veramente centrale della riforma. Il disegno di legge li prevede nel 20% del fatturato complessivo (pubblicità, sponzorizzazioni, canone Rai). Il criterio del fatturato potrebbe essere opportunamente integrato con altri criteri più specifici che tengano conto delle diverse caratteristiche dei due settori e conseguentemente lo stesso limite del 20% può essere rivisto. Mediaset lo considera troppo restrittivo. Per altri è solo fotografia del presente e troppo elevato. Ma il ministro Gasparri ha già messo le mani avanti: il problema è aperto alla riflessione e all'approfondimento del Parlamento. Certamente il dibattito dovrà essere ampio nelle Camere e nell'opinione pubblica e dovrà essere fondato sui dati tecnico-economici prevedibili per quando la riforma andrà a regime: ciò che è previsto in sostanziale collegamento con la piena applicazione delle tecnologie digitali e della moltiplicazione dei canali di diffusione televisivi.
Il terzo tema riguarda la privatizzazione della Rai. A dire le cose come sono, con buona pace dei risultati del referendum votato da gran tempo dalla maggioranza degli italiani, la privatizzazione della Rai rappresenta ancora una previsione lontana nel tempo. E proprio per questo forse non varrebbe la pena di considerare questa parte del progetto, se non per il fatto che esso non sembra rispondere né alle istanze di privatizzazione né a quelle di garantire il pluralismo delle idee nella diffusione dei tre canali televisivi e delle reti radiofoniche attualmente assegnati alla Rai. Né alle istanze di privatizzazione, in quanto non è coerente con queste un modello di public company che vieti il possesso di oltre l'1% delle azioni e sindacati di voto per oltre il 2% a qualunque soggetto diverso dallo Stato che detiene attualmente il 100% della partecipazione, mentre la possibilità di cessione di rami di azienda, con la quale si potrebbero effettivamente rendere privati uno o più canali e reti, è rinviata al 1° gennaio 2006. Né tanto meno il pluralismo, che sarebbe garantito solo da strumenti che, in una public company, attribuissero il potere di gestione a soci diversi dallo Stato (il che non è nel progetto proprio in quanto nessun socio può coalizzarsi con altri per oltre il 2% della partecipazione). Nel caso, invece, l'attribuzione del potere di scelta degli amministratori viene ripartito tra i presidenti delle Camere, che formano una rosa, e l'assemblea dei soci — cioè il ministro per quanto appena rilevato quanto alla composizione azionaria — che nomina nell'ambito della lista. Solo per il presidente, che peraltro cessa di essere l'ago della bilancia ai fini delle maggioranze nel consiglio essendo la scelta finale di tutti gli amministratori riservata all'assemblea ed a cui non sembrano dati poteri autonomi, è prevista una designazione parlamentare a maggioranza qualificata. Tutto ciò con la conferma per 12 anni del servizio pubblico alla Rai. Ma tutto il tema, per essere destinato a realizzarsi solo nel 2006, appare appunto più un manifesto di intenzioni che un programma politico-giuridico di immediata attuazione, salvo che per i criteri di nomina Rai che dovrebbero trovare applicazione sin dalla prossima scadenza dell'attuale consiglio di amministrazione.
* Professore ordinario di Diritto commerciale all’Università
La Sapienza di Roma, ministro delle telecomunicazioni
nel Governo Dini