la Repubblica

MERCOLEDÌ, 31 DICEMBRE 2003
 
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La riforma Gasparri e le richieste del Colle
 
ROBERTO MASTROIANNI

Tra le varie richieste contenute nel messaggio del Capo dello Stato, il decreto-legge adottato il 23 dicembre dal Governo ne riprende solo una, ma in maniera che appare sostanzialmente elusiva.
Nel suo messaggio, il Capo dello Stato aveva fatto riferimento alla possibilità di non tener conto del limite temporale del 31 dicembre 2003, scadenza imposta dalla Corte costituzionale per la liberazione delle frequenze occupate da Retequattro e Telepiù Nero con conseguente loro trasferimento sul satellite, ma solo in presenza di un effettivo arricchimento del pluralismo televisivo derivante dall´espansione della tecnica del digitale terrestre. Il decreto-legge, invece, aggira la richiesta del Quirinale: in primo luogo, al fine di consentire il mantenimento dello status quo (essenzialmente, la prosecuzione delle trasmissioni di Retequattro e di Rai Tre nelle modalità attuali, con la conseguente raccolta pubblicitaria) chiede all´Autorità di Cheli di svolgere un esame della complessiva offerta dei programmi digitali terrestri, ma non specifica che tra questi programmi non debbono certo essere conteggiati quelli trasmessi da Rai e Mediaset. In altri termini, sarebbe paradossale ritenere che l´aumento del pluralismo in televisione possa essere assicurato dall´ampliamento dell´offerta proveniente dai medesimi operatori attualmente in posizione dominante! Ed invece, a quanto pare, il preteso "aumento" dei canali deriverà principalmente proprio dalle iniziative di questi due operatori, con il marginale apporto, forse, di editori indipendenti.
In secondo luogo, il decreto affida all´analisi dell´Autorità i medesimi tre parametri-fantasma inseriti nel disegno di legge Gasparri (quota di popolazione raggiunta dai programmi digitali terrestri, presenza sul mercato di decoder, offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche), del tutto sganciati dalla reale fruizione dei nuovi canali da parte dei cittadini. Nessun effettivo arricchimento del pluralismo, dunque, accontentandosi il decreto di un´offerta del tutto virtuale: la verifica dell´Autorità, così impostata, non potrà non avere un esito positivo. D´altronde, se la mera offerta di programmi, peraltro ad una quota di popolazione non precisata e dunque lasciata alla valutazione discrezionale dell´Autorità, potesse essere ritenuta sufficiente per ritenere "ampliato" il pluralismo televisivo, sarebbe bastato far riferimento ai canali satellitari, che sono tanti, potenzialmente visibili dovunque e, in parte, senza abbonamento. Ma ovviamente nessuno, in Italia o altrove, ha mai pensato di coinvolgere canali di nicchia nella valutazione globale del grado di pluralismo esistente nel settore radiotelevisivo.
Ciò dimostra ancora di più la pretestuosità del riferimento ad elementi assolutamente non comparabili: come precisato dal Presidente dell´Autorità garante della concorrenza in audizione alla Camera dei Deputati, un programma irradiato su una rete digitale con copertura del 50% non può in alcun modo essere considerato equivalente ad un programma esistente diffuso attraverso una rete analogica, soprattutto in quanto i primi (come quelli satellitari) richiedono specifiche apparecchiature di ricezione che, nel caso del digitale terrestre, non saranno diffusi significativamente tra la popolazione prima di sette-otto anni!
Peraltro, che la mera "offerta" di canali, magari non visti da nessuno, non possa assurgere a parametro per misurare il grado di pluralismo del sistema televisivo, risulta chiaro se si tiene mente alla diversa disciplina in vigore, in Italia, per la stampa quotidiana. Premesso che in tutti i settori delle comunicazioni di massa obiettivo della disciplina regolamentare è quello di prevenire la formazione di posizioni dominanti, di per sé incompatibili con il diritto dei cittadini ad una libera informazione, per i quotidiani non si è indicato, come criterio per valutare il "peso" del singolo operatore, il numero delle testate controllate (equivalente a quello dei canali per la televisione), in quanto basterebbe averne tre su cento per assumere una posizione dominante, se queste si chiamano Repubblica, Corriere della Sera e Stampa.
Si è invece prescelto il criterio del numero delle copie di quotidiani tirate, realmente capace di offrire una valutazione della posizione assunta dal singolo operatore, e si è di conseguenza vietato di superare una certa percentuale (venti per cento), prescindendo dal numero di testate controllate.
Anche per la televisione, in presenza di un effettivo aumento dell´offerta, una valutazione realistica finalizzata a prevenire le posizioni dominanti richiederebbe di far riferimento non già al numero dei canali controllati, dato di per sé poco significativo, ma piuttosto a criteri diversi che, come nel caso della stampa quotidiana, siano in grado di valutare l´effettivo impatto del singolo operatore sul mercato: ad esempio, la percentuale delle risorse controllate o quella di audience raggiunta, come avviene altrove in Europa. Ed invece la legge Gasparri, abrogati tutti gli altri limiti esistenti relativi alla televisione, alle concessionarie pubblicitarie che operano in quel settore ed all´incrocio tra televisione e giornali, ricorre al criterio del numero dei canali controllati, vietando di superare la percentuale del venti per cento di quelli "irradiabili" su frequenze digitali. Anche per questo, nonostante i proclami di modernità, si tratta nei fatti di una legge obsoleta.
L´evidente disparità di trattamento, nel mercato di origine, tra chi controlla i giornali e chi controlla la televisione, nonché tra le concessionarie di pubblicità a seconda che operino nel settore televisivo o dell´editoria, rende illusoria la pur pubblicizzata apertura del mercato televisivo per le imprese editoriali, in quanto queste risultano, a differenza di quelle televisive, efficacemente frenate nel mercato di origine: è molto più facile dunque che, trascorso il periodo di cinque anni previsti dalla legge Gasparri, siano piuttosto gli operatori televisivi ad entrare in forze nella stampa quotidiana, acquisendo imprese esistenti o realizzando nuove iniziative. Il tutto comporta evidenti vizi di incostituzionalità della legge che il Capo dello Stato ha ben individuato quando, nel recente messaggio alle Camere, ha chiesto una più equa distribuzione delle risorse tra stampa e televisione.
L´autore è docente all´Università Federico II di Napoli