la Repubblica

VENERDÌ, 20 SETTEMBRE 2002

 

 

Pagina 14 - Commenti

 

Scacco matto alla Rai in tre semplici mosse

 

 

 

 

ROBERTO ZACCARIA


Caro direttore, è finalmente disponibile il testo integrale del disegno di legge deliberato dal Governo in materia radiotelevisiva. Per capire l´esatta portata di una legge è meglio consultarla dalla fine, cominciando con il valutare le abrogazioni, l´insieme delle norme che vengono eliminate per lasciare spazio alle nuove disposizioni. Si capiscono meglio tante cose e, soprattutto, le intenzioni meno dichiarate del legislatore.
In questo caso l´obiettivo generale è preciso: eliminare le parti caratterizzanti delle due leggi – politicamente non gradite - che avevano definito, da un lato, la fisionomia del servizio pubblico a metà degli anni 70 (la legge di riforma n.103 del 1975) e dall´altro le regole fondamentali nel nuovo sistema delle telecomunicazioni, nell´ultima legislatura (la legge n. 249 del 97, cosiddetta Maccanico). Della legge Mammì, già considerata "compiacente" verso Berlusconi, viene eliminata la parte relativa alle disposizioni antitrust, permissive nel 1990, oggi addirittura giudicate insoddisfacenti.
Tutto questo impianto viene sostituito con una normativa di puro principio, ricopiata dalle norme europee, ma priva di qualsiasi concretezza cogente perché rinviata per l´attuazione, in parte ad una delega governativa, in parte a regolamenti dell´Autorità o del Ministero e, per il resto, alle Regioni, in relazione della loro nuova potestà legislativa. Il Parlamento viene quindi sostanzialmente esautorato, messo fuori gioco, riguardo ad una serie di importanti decisioni relative al settore delle comunicazioni e quindi delle libertà dei cittadini.
Il resto del disegno di legge si limita a tre scelte principali e tutte potenzialmente lesive dei diritti dei cittadini in materia di informazione. La prima scelta e´ quella diretta ad allargare i limiti antitrust, già larghissimi nel nostro paese, eliminando il limite settoriale per la televisione (30% del mercato) ed introducendo un mercato di riferimento più ampio (sistema integrato delle comunicazioni) cui applicare il limite del 20%. Possibilità dunque per i soggetti dominanti di crescere ancora. Per affermare un principio giusto e cioè la possibilità degli editori di giornali di entrare nel settore della televisione, si rinuncia a qualsiasi criterio di bilanciamento tra grandi e piccoli imprenditori radiotelevisivi.
La scelta va in direzione opposta rispetto all´allargamento del pluralismo (maggior numero di televisioni in concorrenza tra di loro) e sancisce l´egemonia assoluta di Mediaset, dato che la Rai viene tenuta sotto controllo attraverso i limiti del canone e i più ridotti indici di affollamento pubblicitari. I cittadini hanno dunque una minore possibilità di scelta. Le indicazioni contenute nelle sentenze della Corte costituzionale e in particolare nella decisione n.420 del 1994, sulla necessità di limiti settoriali e intersettoriali, sono totalmente dimenticate.
La seconda scelta è quella di aumentare enormemente gli obblighi e i doveri a carico della Rai, a confronto di quelli inesistenti delle emittenti private (definite peraltro soggetti di servizio pubblico) e di sancire la dipendenza formale del suo Consiglio di amministrazione dall´Assemblea degli azionisti e quindi dal Governo.
L´"ingessatura" della Rai contenuta nei minuziosi obblighi indicati negli articoli 15,16,17,18 e 19 (ora vincolata anche ad un contratto di servizio regionale), realizza quella televisione di servizio pubblico residuale e a "sovranità limitata", spesso sognata dagli amministratori di Mediaset, e ne compromette decisamente le capacità imprenditoriali nei confronti del concorrente privato, sprovvisto invece di qualsiasi obbligo, nonostante gli indubitabili vantaggi derivanti dalla concessione e libero di muoversi con pochi limiti sul mercato pubblicitario.
Per la prima volta, dopo il 1975, la nomina del Consiglio di amministrazione della Rai viene ricondotta all´Assemblea degli azionisti e quindi al Governo che possiede direttamente le azioni della Rai (una volta realizzata l´incorporazione della Rai in Rai Holding). La Corte costituzionale nella sentenza n.225 del 1974 aveva esplicitamente vietato la dipendenza "diretta" degli organi di governo della Rai dall´Esecutivo. Il nuovo d.d.l. ignora clamorosamente quest´indirizzo e quindi risulterebbe incostituzionale almeno fino alla privatizzazione della maggioranza del capitale sociale (non basta differirne l´entrata in vigore alla data di chiusura della prima offerta di vendita). I cittadini hanno una televisione pubblica meno indipendente e una televisione privata senza alcun tipo di obblighi.
La terza scelta è quella di procedere, a partire dal gennaio del 2004, ad una privatizzazione del capitale della Rai che per il modo in cui è disciplinata è una privatizzazione "al buio". Il Governo è autorizzato a vendere quote della partecipazione della Rai con l´unico limite di non vendere a ciascun soggetto più dell´uno per cento. Il patto di sindacato non può superare il due per cento. Una quota è data in opzione a chi dimostri di aver pagato il canone (soluzione più comica o più demagogica?). Il modello proposto è quello della public company. Quali sono i precedenti in Italia? Quali sono le garanzie che non vi siano tra gli acquirenti altre forme di alleanza diverse dal patto di sindacato. Quali sono le certezze giuridiche che la vendita non sia al buio e che gli acquirenti, in posizione di dominio, non siano sempre i soliti noti? Gli unici esempi che conosciamo hanno realizzato ben presto un nucleo di controllo.
Non è contraddittorio aumentare le "ingessature" pubblicistiche, da un lato, e puntare alla privatizzazione dall´altro. Non si tratta di una svendita? Quale credibilità in questa operazione di privatizzazione può avere, del resto, un Ministro che, come unico precedente in questo campo, vanta il blocco dell´accordo economico più vantaggioso della storia della Rai con il quale si privatizzava meno del 50 per cento di una società di servizi (Raiway). I cittadini perdono le garanzie che può dare (in astratto almeno) una televisione pubblica indipendente e rischiano di avere un nuovo editore di riferimento amico degli amici.
Il Presidente della Repubblica, nel suo primo messaggio solenne alle Camere, in materia di informazione (il primo su questo tema e il decimo nella storia repubblicana) aveva sottolineato a gran voce la necessità del maggior pluralismo possibile per garantire la democraticità dell´ordinamento. Aveva anche chiesto che una nuova legge desse attuazione ai principi più volte richiamati dalla Corte costituzionale. L´opinione pubblica aveva salutato coralmente e con entusiasmo l´intervento del Capo dello Stato. Il Parlamento aveva accolto quel messaggio con una breve discussione in un´aula, peraltro, quasi deserta. Il governo, da parte sua, ha ascoltato il Presidente nella forma ma lo ha tradito, clamorosamente, nella sostanza riducendo in maniera pesante i margini di quel pluralismo che il Presidente e la Corte costituzionale avevano, invece, più volte invocato.