La Storia

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Dagli albòri al 1783

L'origine di questo piccolo centro alle pendici dell'Aspromonte è tutt'ora sconosciuto, ma sin da tempi remoti è stato condiderato molto importante tanto da essere considerato città al pari del capoluogo e di Terranova, prima che il tremendo terremoto del 1783 la radesse totalmente al suolo, aveva la sua sede sull'alto di una collinetta sovrastante i torrenti la Musa , Serra vecchia e lagò ed era, come segnalava a Roma nel 1666 il vescovo Diano Parisio, montibus rupibusque praecinta.

Racchiuso nelle immancabili mura urbiche e dotato di un discreto castello, contrariamente a quanto si verifica per i restanti paesi della circoscrizione, che fanno la loro comparsa solo nel secolo XI°, si affaccia alla storia documentata almeno sin da quello precedente.

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Nonostante Santa Cristina vanti una così antica attestazione, dovranno trascorrere però un paio di secoli prima che il suo nome ricompaia in un pubblico documento. Difatti, e la cosa appare alquanto strana, nessun accenno si riscontra nelle carte greche relative alle numerose donazioni fatte da cittadini diocesani alla chiesa di Oppido all'atto forse della sua costituzione. Nel periodo 1050-1065, al contrario, è dato rinvenirne a iosa riguardo a molti di quei centri, ch'erano o saranno suoi cassali: Scido, Pedàvoli, Santa Giorgia, Lubrichi, Sitizano.

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Tra 1255 e 1256, al tempo in cui Manfredi cercava di assicurarsi con ogni mezzo il possesso della Calabria in opposizione al papa, il castello di Santa Cristina assieme a quello di Bovalino giocò un grosso ruolo.

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Per avere di ulteriori informazioni bisogna pervenire al periodo angioino. Esse riguardano sia particolari riferibili all'ambiente laico che a quello ecclesiastico e danno modo di comprendere la reiterata importanza strategica della cittadina. Santa Cristina si qualificava ancora un saldo baluardo in potere di quei Ruffo di Sinopoli, che si trovavano già ad essere padroni di gran parte del territorio della Piana.

Tra il 1266 ed il 1272 si evidenziava nuovamente il castello, nel quale risultano ricettati un castellano, uno scudiero e dieci serventi, esattamente come in quello di Mesiano.

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Secondo i dati esperiti dal Pardi, nel 1276 Santa Cristina poteva vantare la presenza di ben 928 abitanti, quindi una cifra maggiore di quella riscontrata per il capoluogo diocesano, che ne contava solo 752. Tra il 1277 ed il 1279 risultavano possessori di alcuni vassalli cristinesi certi Ruggero Cacci di Mesa e Giovanni Guarna di San Martino.

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Nel 1324-25 un prete, Guglielmo di Santa Cristina, figurava tra i chierici di Calanna ossia Mesa pagatori delle decime al fisco papale. L'inclusione di un tale sacerdote nella cerchia dei religiosi di un paese così distante, anche con riferimento a quel tale possessore di cavalli, è spiegabile unicamente con l'avere allora in comune, i due poli di Calanna e di Santa Cristina, il feudatario, un esponente di quei Ruffo, che da tempo n'erano stati insignoriti e che soli, quindi, avevano interesse a favorire stretti rapporti tra le due comunità. Nello stesso 1325 si fa vivo un protopapa a nome Stefano, a cui s'imponeva il versamento di 3 tarì.

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Si rilevano, senza dubbio, assai interessanti tutte le precedenti notizie, sia quelle che, facendo presente il paese con l'avvenuta edificazione di un castello già prima del Mille, ci permettono di retrodatare la sua sistemazione nel sito, come le altre che ci tramandano i rapporti intercorsi con Calanna, il nome di un primo Protopapa e la composizione della comunità religiosa. Ma risulta ancora più importante un'altra, che porta a nostra conoscenza come nel 1373 nell'arroccato luogo vi dovesse agire uno "scriptorium", cioè come si trovasse un gruppo di monaci amanuensi, che nella pace del chiostro erano intenti a riprodurre giorno dopo giorno quei preziosi codici, unici trasmettitori all'epoca della cultura ai posteri. Si sa, infatti, che uno dei "rari testimoni greci datati e localizzati" conservati a Roma e che "presenta nella sua rozza decorazione, una mescolanza di motivi italo-greci soprattutto zoomorfi e di forme derivanti da Reggi", il Vat. gr.1973, venne copiato proprio a Santa Cristina. Nel 1306, stando allo Zerbi ed al Frascà, si era svolta in Santa Cristina una fastosa cerimonia con la partecipazione dei notabili più accreditati del momento. Era stata consacrata una nuova chiesa, Santa Maria della Porta, i cui "patroni appartenevano alla famiglia detentrice del feudo, ancora i Ruffo. A benedire il manufatto, manco a dirlo, si trovò il vescovo pro-tempore, Nicolò, accompagnato da altri ordinari provennienti dalle diocesi vicine, mentre l'esponente laico più in vista si qualificava, naturalmente, il conte Pirro. Questi, nel frangente, dovette pavoneggiarsi non poco per quella specie di avallo sacro, che interveniva a dare atto alla classe dominante del suo protettorato sulle cose religiose.

Non sempre pero i "cristinoti" ebbero agio di assistere ad eventi, nei quali si poneva in evidenza il lato migliore della società feudale. Ma, ne siamo sicuri, per la gran parte essi saranno stati silenziosi testimoni delle bravate e soperchierie, cui tirannici governanti erano abbastanza sensibili. Nel 1452 Carlo Ruffo fece trascinare in catene nel castello un piccolo nobile di Borrello, Saladino De Marco, reo di negargli certe somme, che, a suo dire, gli doveva per obbligo di vassallaggio.

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Tra il 1444 ed il 1449 risultano delle collette effettuate nelle terre del Ruffo e, quindi, anche in Santa Cristina, a motivo di sussidio al re per la guerra contro i Fiorentini e per altre cause, collette varianti da un minimo di 2 oncie ad un massimo di 4 e la cui consegna figura avvenuta in mano di Antonio Cignamasca e del sindaco Salvo Scullino.

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Anche se buona parte della popolazione risultava dedita all'agricoltura ed all'allevamento del bestiame, non mancava chi attendeva all'apicultura, alla macinazione dei cereali ed alla lavorazione del legname, smistato quest'ultimo verso Catona e Gioia, luoghi di tramite forse l'uno per la Sicilia l'altro per i paesi del nord. La distruzione delle vigne sarà stata sicuramente imputabile alla lunga guerra aspramente combattuta tra aragonesi ed angioini dal 1459 al 1464 e che desolò grandamente paesi e terre della Piana di Gioia recando selvagge uccisioni e devastanti rovine. Il Marafioti scrive che proprio a Santa Cristina, precisamente in zona sottostante al convento dei francescani, venne sepolta una folta schiera di francesi calati a difendere i diritti degli Angiò appunto al tempo in cui la città ch'essi volevano saccheggiare, si trovava sotto il dominio di Re Ferrante. Nessun accenno compare in merito ad uliveti. E' questo un segno inequivocabile che ancora tali piantagioni non avevano fatto la loro comparsa nel territorio.

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Con un memoriale dell'11 febbraio 1569 l'università cristinese comunicava, allarmata, che nel territorio non vi era "industria alcuna", essendo esso particolarmente sterile. L'unica possibilità di lavoro era offerta da "quella poca seda (seta) che con gran fatica e spesa ricoglieno al mese de agosto", per cui faceva d'uopo rifornirsi di quanto necessario "alla giornata". La popolazione se ne scappava di frequente in Sicilia, da cui distava soltanto una giornata di viaggio e la città sarebbe rimasta del tutto spopolata se non fosse stato per l'impegno profuso dal defunto duca di Seminara, di cui si vantava "il buon governo".

Relazionando nel 1596, il vescovo Canuto scriveva che nel paese aspromontano, cui si era connaturato il titolo di contea, esistevano delle nobili chiese con relative confraternite e un convento di minori osservanti. Pochi anni dopo, nel 1603, lo stesso riferiva che detto aveva sotto la sua giurisdizione alcuni casali e che nell'unica parrocchia si riscontravano molti sacerdoti e chierici, mentre nel 1607 il successore Mons. Ruffo reiterava che Santa Cristina era definita città dagli indigeni.

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Nel 1699 ... le chiese erano soltanto tre (le altre, non censite, probabilmente più che chiese, erano cappelle). Di sostanzialmente nuovo appariva un "ospitale". ...

(Tratto da: "Quaderni Mamertini, 7" del prof. Rocco Liberti)

Il Grande Flagello

  Antica incisione del terremoto
Il 5 febbraio 1783, dopo oltre un millennio di storia, la città veniva distrutta da un terribile terremoto che gravi lutti ha portato in tutta la nostra regione.
Il capitano Giuseppe Coccia, recatosi sul posto un mese dopo il terribile evento, così scrive nella sua relazione al Maresciallo Francesco Pignatelli, Vicario Generale di Calabria del re Ferdinando IV: "... Giunto nella medesima la trovai distrutta all’intutto senza rimasta pietra sopra pietra e in stato cotanto compassionevole che non potei trattenere le lacrime. La detta città, insieme colli distrutti casali di Pedavoli, Paracorio, Scido, S.Giorgia e Lubrichi, formavano un solo stato quale feudo del Signor Principe di Cariati. Steva situata la città medesima su di un promontorio girato d’intorno d’alte rupi, di colli e colline, non molto distante dal sito della stessa". Circa il numero delle vittime di quel terribile cataclisma, il protopapa Molluso annota nei libri parrocchiali di quell’anno che "...Nella detta rovina della nostra città perirono circa 800 persone, tralle quali dieci reverendissimi Canonici e Sacerdoti, e dieci chierici; e gli avanzi della popolazione, in quasi 600, si ridussero lo stesso giorno ad abitare miserrimamente in SCOFFETTA, ove sono oggi; ..."
I seicento sopravvissuti, perdute le loro case e le loro cose, furono costretti a lasciare il paese vecchio, ridotto ormai ad un cumulo di macerie, e a rifugiarsi sull’altro versante di Scuffitta, al di là del fiume Lago, a mezza costa di una collina soleggiata a poco più di 500 metri sul livello del mare. Ai loro occhi apparve una macchia rigogliosa e fitta di castagni, elci, querce, ontani, brughiere, spini e sterpi, regno indisturbato di uccl terreno elli di varie specie, di conigli selvatici, di serpi, di ramarri e di altri animali. Agli uomini abili toccò il compito di spianare iper impiantare le prime baracche, dissodare le dure zolle e ripulire i campi dalle onnipresenti radici di robinia per prepararli ad accogliere gli orti ed in seguito i vitigni e le piantine di olivo.
Alla ricostruzione del paese parteciparono muratori, carpentieri e falegnami fatti venire, oltre che dai paesi vicini, anche da località lontane. Da Cosenza vennero gli Stancati, originari di Bologna, dove probabilmente esercitavano il mestiere di stangari, ossia di fabbricanti di stanghe per carri e carrozze».

Scorcio del vecchio Borgo

(tratto da: "Ombre di memoria" - Foligno 1986, del prof. Gino Stancati)

 

Il nuovo sito

La scelta della contrada San Lorenzo della Scoffetta (qualcuno la indica San Lorenzo della Sconfitta) quale sede per ricostruire dalle fondamenta l'infelice città, nonostante fosse stata compiuta dal parlamento a motivo che si offrisse l'unica "ove non appariscono gli effetti delle violenti scosse del tremuoto" com'ebbero a pronunciarsi gli ingegneri militari Winspeare e Lavega nella lettera al Pignatelli del 13 Giugno 1783, fu parecchio contestata. Non potevano risultare favorevoli, naturalmente, i possessori dei fondi che si andavano ad espropriare e lo stesso feudatario, il principe di Cariati, Spinelli, i quali, indicando come terreno più adatto la località Bucefalo, almanaccarono tanti di quei pretesti, onde evitare quanto non andava loro a genio. Ma a tutto i due tecnici trovarono una risposta e ben motivata.

Gli oppositori accusarono il sito, che s'intendeva dare alla nuova edificazione, di aridità di clima, mancanza d'acqua, "comunicazione del veleno per parte degli animali velenosi", maggiore distanza dal molino e dai casali, esistenza di crepe. A queste "puerili" difficoltà si contestò energicamente che il terreno, su cui sarebbe dovuto sorgere il nuovo abitato, che peraltro veniva a rivelarsi ad appena un miglio dall'antico, si presentava ampio e compatto, il clima era meno rigido perché esposto più a ponente, l'acqua vicina ed in quantità sufficiente, gli animali non avrebbero mai potuto comunicare il loro micidiale umore in quanto non si dissetavano alle fonti, il mulino appariva accessibile e la pietra necessaria a costruire in grande abbondanza. Non solo, ma se Santa Cristina veniva a trovarsi più lontana da alcuni casali, viceversa si avvicinava ancor di più ad altri.

Con tutto ciò che tanti sconsigliassero per i motivi più vari la rifondazione dell'abitato alla Scoffetta, prevalse il partito favorevole e, in effetti, i cristinesi vennero a trovare in quella contrada un'ennesima ragione di vita. Tra i proprietari, che furono allora privati delle loro terre al proposito, si annoverano la chiesa collegiale di Santa Giorgia e Don Paolo Zerbi.

Ecco come si offriva nel 1793, quindi a dieci anni di distanza dal crudele sisma, la nuova realtà urbana nella descrizione che ne fece il vescovo Tommasini:

"Era situata prima del terremoto sul pendio di un monte, al di cui piede scorreva un fiume. Ma dopo il terremoto per le scrollature, e spaccature di quel monte, cambiò sito nella Contrada detta... in un piano inclinato attaccato alle montagne, su di un terreno arenoso, e fra i due laghi formati dal territorio i stesso.

... La insalubrità dell'aria ridusse la popolazione attuale al numero di 515 anime. le sue produzioni sono l'ogli, le seti, e le castagne. Ma il difetto della popolazione costringe già i proprietari ad abbandonare i loro poderi".

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Nel 1796, nonostante fossero trascorsi ormai ben tredici anni dal rovinoso evento, le cose non dovevano andare ancora gran che meglio se il marchese di Fuscaldo era costretto ad intervenire perché si provvedesse al ricovero stabile dei meno abbienti, che certo dovevano trovarsi sistemati in baracche poco confortevoli.

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La fatale china, alla quale andò incontro sul finire del '700 Santa Cristina non si arrestò affatto con l'arrivo del nuovo secolo, anzi andò facendosi sempre più scivolosa, per cui il paesino stabilitosi alla Scoffetta, col passare del tempo, si rese quanto mai sparuto.

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Nel 1875 Santa Cristina raggiunse quota 1.200, ma quasi esattamente un secolo dopo, nel 1971, i suoi abitanti si attestavano sui 1.880.

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Facevano capo a Santa Cristina in qualità di casali da tempo immemorabile quasi tutti i centri abitati della cosiddetta "costa magra": Sitizano, Cuzzapòdine, Pedavoli, Paracorio, Scido, Santa Giorgia e Lubrichi, che, accomunati alla stessa nel bene e nel male, dopo parecchi secoli pretesero a buona ragione d'intraprendere ognuno una propria strada.

Il primo a staccarsi dalla vasta circoscrizione, non considerando Cuzzapòdine esauritosi per mancanza di abitatori tra il 1715 e il 1738, fu Sitizano nel periodo 1666 - 1670, anche se gli Spinelli pervennero a venderlo ai tropeani Taccone soltanto nel 1684.

Secondo un documento curiale, nel 1711 i restanti casali, mal sopportando la soggezione, fecero una levata di scudi e rigettarono "di fatto, e senza la pubblica autorità" la tutela "di Santa a Cristina Città Madre", ma in appresso dovettero recedere dal loro tentativo.

Paracorio e Pedàvoli si separarono dal capoluogo nel 1807, quando, come comuni autonomi, entrarono a far parte del governo di Oppido. Indi, ebbero destini diversi.

Anche Scido ottenne nel medesimo anno il diritto ad essere considerato università, ma nel 1816 era restituito all'antico ruolo. Si sgancerà definitivamente soltanto nel 1837, quando verrà ad unirsi a Santa Giorgia, che a sua volta sarà lasciato del pari libero.

(Tratto da: "Quaderni Mamertini, 7" del prof. Rocco Liberti)

Per ulteriori notizie si rimanda al sito http://www.lubrichi.it curato dall'amico Antonio Napoli.