Il Bacio

un racconto di Giovanni Pasetti

Marco venne invitato a una festa. Accettò l’invito, ma si presentò senza Giovanna, certo di suscitare molti commenti che aveva già deciso di non considerare affatto. Le aveva detto "Non è importante che tu ci sia." Sapeva che avrebbe ceduto presto o tardi alla noia, e sperava di sfuggire alle inevitabili presentazioni, abbreviando il cerimoniale in modo da allontanarsi al momento giusto. Pensava fosse inutile sovrapporre alla folla che in queste occasioni di solito si incontra la figura di una donna dotata di un tale fascino da nascondere ai suoi occhi ogni altra persona.

Molti lo salutavano: lui rispondeva con garbo. Ma, senza quasi notare quel che faceva, dopo pochi minuti si ritirò in un angolo a osservare la gente, che sembrava non curarsi della sua presenza appartata.

Era già buio, e nella stanza vicina vennero accese le luci. Pochi si accorsero dell’oscurità; si continuava a ballare e a discorrere sorridendo, benché fosse sempre meno facile riconoscere sul volto del vicino un cenno d’assenso. Marco vide un signore vestito di verde chinarsi molte volte, esitando, verso un’amica immobile che sembrava aver dimenticato completamente il motivo del colloquio. Ogni tanto una coppia si alzava e, forse spaventata da un attimo di silenzio, raggiungeva in fretta la stanza illuminata; prima di entrare, salutava spesso il chiarore con una risata inattesa.

Infine tutti si allontanarono e Marco pensò che nessuno rimanesse ancora. La solitudine non gli dispiaceva: abitualmente gli interessavano solo gli avvenimenti che si svolgevano a qualche distanza da lui. Guardando senza essere riconosciuto, credeva che le cose perdessero la loro naturale opacità, disegnandosi libere, contente di apparire senza nessun’altra pretesa.

Due uomini si appoggiavano allo stipite della porta muovendo lentamente le braccia, cercando gesti che arricchissero la conversazione. Lontano, alcuni ospiti circondavano il buffet, scherzando con una ragazza che tentava ostinatamente di afferrare una torta in fuga. Tanto a lungo la presero in giro che lei si stancò, camminando via per unirsi ad un’amica. Erano entrambe aggraziate e abbastanza belle, ma non si capiva cosa dicevano, perché la testa dell’una copriva le labbra dell’altra con movimento alterno, seguendo un ritmo inquieto e simultaneo che evidentemente le rallegrava. Dalla borsetta della più alta uscì un fazzoletto che aggiustò con un tocco leggero la sbavatura del trucco; la stessa mano indicò la finestra e le amiche partirono insieme, scomparendo subito.

Il buffet ormai non attirava nessuno: la tavola era deserta, i bicchieri vuoti, le paste mangiate, e la tovaglia si stendeva sporca fino alla parete. Gli uomini accanto alla porta smisero di conversare e, dopo essersi voltati, quasi per verificare se la camera alle loro spalle fosse ancora in penombra, si salutarono cordialmente. Il battito della pendola appoggiata sulla cassapanca davanti a Marco accompagnò per qualche tempo il rumore dei passi.

Nel piccolo salotto, tre poltrone e un tappeto di seta chiudevano il cerchio ideale aperto dal divano ricurvo e dall’imponente paralume che lo schermava in gran parte. Rapidi, molti pensieri che avevano atteso invano d’essere lasciati soli si confusero e si mescolarono, oscurando lo sguardo di Marco, che non vedeva più la vetrata, i mobili, i quadri. Era fermo, era un oggetto posato da qualcuno sopra un cuscino e presto dimenticato. Ma non dormiva, perché le palpebre non si erano comunque chiuse e anzi continuavano ad aprirsi, quasi avessero bisogno di luce. Marco sentiva d’essere cosciente.

Ricordò di aver sofferto d’insonnia per molto tempo, e per un istante ebbe paura. Si chiese dov’era l’interruttore che accendeva le lampade. Ma lo trattenne dal cercarlo il desiderio di tornare indietro, forse per conoscere il sonno che nelle notti passate credeva di aver perduto. Quel desiderio trasformò la tensione in determinazione ad attendere. Sentì che intorno a lui girava una specie di onda, un’immagine sfocata, un corpo deformato dal moto. Volle prenderlo, per fermare quella corsa continua; distese la gamba, avanzando. Gli sembrò d’entrare in un filo di vento che gli gonfiava la camicia, mentre le maniche diventavano due sbuffi.

Era pieno d’aria, un piccolo pallone colorato che non poteva volare verso l’alto perché non riusciva a distinguere l’alto dal basso. Stava immaginando d’essere sospeso sulla strada del ritorno, quando venne rapito dalla voglia di giocare; cercò qualcosa che lo potesse aiutare, ma non trovava forme e inventarle era difficile. Gli sarebbe piaciuto creare giocattoli utilizzando la materia che ora calpestava, materia che non era nulla, somigliando alla sabbia. Decise di costruire una casa, e impastò il primo mattone ottenendo un successo tale che incominciò a prepararne molti, iniziando a erigere un muretto. Quando si riposò, comprese d’aver costruito una parete troppo alta, che nessuno avrebbe mai oltrepassato. Era molto forte, molto bravo: sorrise a lungo e respirò profondamente, quasi avesse riportato una vittoria decisiva.

In quell’istante il muro cambiò, trasformandosi in uno specchio. Marco era davanti alla sua stessa faccia, riflessa e ingrandita. Alzò gli occhi: l’immagine cresceva, arrivava fino alle nuvole, era ormai enorme, aumentava in larghezza, in lunghezza, aumentava di peso. I mattoni non potevano più sostenerla. Cedevano e cadevano mentre lei si avvolgeva, simile ad un grande manifesto che si chiudeva, mangiando l’intelaiatura che lo teneva incollato. Tutto crollò, si immerse e riemerse, completamente diverso. Non c’era stato tempo per fuggire, rimaneva solo la stanchezza. Marco scosse la testa.

Si rese subito conto di non essere andato in nessun posto. Eppure gli sarebbe piaciuto muoversi, vivere un’avventura in cui il protagonista potesse conservare il proprio passato. Così, invece, gli sembrava sempre d’essere morto nel sogno precedente, e in testa rimaneva solo confusione. Istintivamente, si toccò per scoprire se qualcosa nel suo aspetto corrispondeva alle impressioni che le fantasie svanite gli avevano rivelato. Non sentiva nulla di strano. Posò le dita sui capelli neri e lunghi, sulla fronte alta, sui baffi appena cresciuti; l’indice tracciò nell’aria la forma ovale del viso, sfiorando le labbra e i denti, accarezzando la grande bocca. Sicuramente gli occhi erano ancora azzurri. Ma gli mancarono le forze.

Si distese stanco contro lo schienale. Questa volta le palpebre chiuse riflettevano un nero compatto che ostruiva il cammino, sbarrando la strada al sonno. Decise allora di alzarsi per cercare la gente che affollava le altre stanze. Benché fosse infastidito da una nausea leggera, riuscì a ritrovarsi in piedi e a percorrere i pochi metri che lo separavano dalla porta, affacciandosi sull’ampio salone che confinava con il giardino.

Rinfrancato dalla luce, dal vento fresco e dal brusio, pensò di salutare la padrona di casa che stava parlando poco lontano con un’ospite. Si chiese però se non fosse troppo tardi e, per avere una risposta, si voltò di nuovo verso la camera buia, tentando di leggere il quadrante dell’orologio sulla cassapanca. Visti da quell’angolo i mobili apparivano disposti in modo diverso; le tre sedie erano molto distanti dal paralume, e così quest’ultimo dal divano, che ora occupava con tutta la sua mole lo spazio davanti alla finestra. Ma... C’era qualcosa d’altro, e Marco si stupì.

Una donna riposava sulla parte del divano che, prima, la grossa lampada aveva nascosto. Leggeva un libro piccolissimo, e lo teneva sollevato in modo che le pagine ricevessero tutto il chiarore proveniente dall’esterno. Incuriosito, Marco tornò sulla soglia e la sua ombra fatalmente si proiettò sullo scritto; le parole si persero. La ragazza si mise a sedere e si girò a guardarlo, forse a sua volta sorpresa. Marco, dopo un attimo di esitazione, pensò di riconoscere Giovanna in quell’immagine dai lineamenti confusi. Senza chiedersi perché lei si trovasse lì, le corse incontro e la baciò sulla guancia.

La ragazza, dopo essersi alzata, indietreggiò: "Io non ti conosco. Per chi mi hai preso?"

Era davvero spaventata, e infatti arretrò fino a incespicare contro un gradino. Quindi sparì. Lui non tentò di seguirla, perché non voleva scusarsi; si limitò a un gesto di disappunto, ripetendo a se stesso che non bisognava dare troppa importanza all’episodio. Si mescolò agli altri, e venne festeggiato come gli capitava sempre.

Erano già le tre di notte quando uscì. Invogliato dal bel tempo, decise di passeggiare seguendo la strada che portava verso casa, percorrendo i quartieri alti della città, tante palazzine a due o tre piani che sembravano tutte disabitate. Le persiane erano dipinte di verde, mentre il colore delle facciate variava dal bianco grigiastro al terracotta; spesso l’intonaco scrostato lasciava trasparire strati di tinta azzurrina, tracce della compatta uniforme che rivestiva il rione all’epoca delle costruzioni più antiche. Trascorsi gli anni, il gusto individuale aveva preso il sopravvento, e ormai non c’era più chi non volesse migliorare l’aspetto del suo balcone usando piante, fiori e piccole decorazioni. L’immagine degli edifici era divenuta così molto piacevole, specialmente là dove le vie erano tanto strette da costringere il passante a guardarsi continuamente intorno per cercare il cielo e l’orizzonte, dubitando dell’esistenza di entrambi. Come i rami di un albero si uniscono in basso, così i vicoli finivano in viali più grandi che scendevano a raggiungere la strada principale. Marco era stanco per la lunga camminata, ed era già molto tardi; volle comunque proseguire a piedi, mosso dal desiderio di superare l’ultima salita e l’ultima curva, dimenticando l’ansia che sentiva.

Incominciò a correre, come se temesse di non poter sopportare a lungo lo sforzo. Arrivò in breve tempo al lampione più alto e qui si fermò, ansimante. Sotto, ecco mostrarsi il fiume, che circondava in un solo ampio giro la collina che Marco aveva salito e disceso. La striscia scura della corrente fluiva veloce, dividendo la parte nord dai giardini e dal nuovo centro residenziale. Tre ponti l’attraversavano, e si riusciva già a udire il rumore dell’acqua sbattuta contro i piloni. Il passo di Marco divenne tranquillo; la fretta di procedere sembrava scomparsa, perché il luogo gli era familiare. Entrò nel viottolo del parco, che conduceva direttamente a casa.

Marco sapeva che appena dopo mezzanotte anche gli ultimi frequentatori notturni svanivano, lasciando deserte le panchine sotto le piante. Si sdraiò sopra una di queste, unendo le braccia dietro alla nuca, in attesa. In alto, vedeva il folto fogliame dei castani sovrapporsi, stringersi e sciogliersi. Attorno, la disposizione delle aiuole e degli arbusti nati da poco sfuggiva a ogni evidente intenzione geometrica; l’erba avvolgeva i vialetti rubando alla ghiaia ritagli di spazio. Cresceva robusta e brillante proprio là dove era meno curata, vicino a un ruscello che scorreva in silenzio. Oltre, all’interno del bosco, c’era un labirinto dalla struttura semplice; le sue basse siepi squadrate consentivano anche ai bambini di indovinare la direzione giusta.

Inconsapevole, Marco aspettava che il buio svanisse e tornasse il mattino, avendo risolto così d’un tratto, senza sapere perché: forse voleva riposare, contemplando immobile lo schermo di foglie, in pace. Tutto in lui era una superficie calma e piana, un grande panno assolutamente privo di spessore.

La quiete non durò a lungo; la posizione era scomoda, i listelli di legno fitti di chiodi gli graffiavano la schiena. Passò le mani tra i capelli grattandosi la testa, tossì e tossì ancora; poi si alzò, fischiettando e misurando mentalmente le distanze, chinando il capo verso il verde. Arrivato a uno slargo si chiese se in quell’istante c’era qualcosa sotto di lui, ma la domanda perse presto il suo significato perché, in fondo, non gli interessava ricevere risposta; si sentiva apatico, indifferente. Non voleva però restare lì per ore e ore; gli venne voglia di fantasticare, di immaginarsi in un luogo diverso. Pensò alle storie che gli sarebbe piaciuto vivere se fosse stato libero, se avesse viaggiato incontrando altri destini, se avesse conquistato e combattuto, se avesse conosciuto la donna del bacio.

Erano il passato e il presente a contendersi i suoi sogni: provò a stendere un elenco di tutti gli oggetti che aveva usato, che gli si erano fermati accanto. Era un’idea strana. Voleva intensamente fingere, creare una maschera da mostrare intorno, così che la gente fosse stupita, confusa. E, mentre cercava nuovi travestimenti per nuove interpretazioni, si accorse che le sue emozioni rifiutavano d’essere trattenute. Si spaventò, tentando di raffigurare i propri sentimenti, quasi per fermare il tempo.

Li vide. Erano persone raccolte in gruppi, che mormoravano parole non udibili. Si erano riunite in piazza e camminavano lentamente bisbigliando, senza che esistesse possibilità di riconoscerle, perché vestivano tutte nello stesso modo. Ciascuna portava sul dorso una cappa di tessuto pesante, logora e sdrucita, con le tasche gonfie di denaro. In mezzo, si innalzava una catasta enorme costruita utilizzando le cose più disparate. Lui entrava di corsa, e nessuno badava alla sua presenza; stupito, per un attimo esitava, ma presto capiva che tutto era stato radunato lì per essere bruciato, come in un rogo medioevale. Gli pareva sciocco e dannoso distruggere con il fuoco ricordi che forse erano ancora utili. Si avvicinò alla base del mucchio nella speranza di salvarne qualcuno, e iniziò a frugare.

Trovò subito un orologio d’oro con una lancetta spezzata e la molla di caricamento rotta; il bottone laterale, ornato da un piccolo smeraldo, girava a vuoto, perché la ghiera non faceva più presa. Lo buttò via, continuando a cercare. Riuscì ad afferrare una scatoletta di giada che aprì facilmente, scoprendo dieci minuscole statuine, ognuna delle quali rappresentava un santo. Posò con delicatezza sul palmo un San Sebastiano in miniatura: sul petto rosa spuntavano tante piccole frecce rosse, dipinte con cura dall’artista che, intingendo il costato nello scarlatto, aveva punteggiato una lunga fila di gocce di sangue. Stupito da tale maestria, Marco intendeva conservare la scatoletta; ma la dimenticò quando vide brillare in alto una gemma, sepolta sotto una pila di libri. Proseguì annaspando per qualche metro e scavò, graffiando con le unghie la tela. Quando apparve una cintura di pelle, capì d’essersi ingannato: il fermaglio di ottone della cintura, colpito da un raggio di sole, si era illuminato per un attimo dello splendore del diamante.

L’umore di Marco mutò all’improvviso: quelle cianfrusaglie non valevano nulla, gli erano costate solo tempo e fatica. Gettò via la cintura, prese a calci il resto; gli cresceva in corpo una rabbia tremenda. Scese, quasi rotolando, e non si fermò finché non fu davanti a uno dei capannelli più affollati.

Incominciò a gridare, a insultare chi gli era vicino, sperando forse che qualcuno gli prestasse ascolto e uscisse dal gruppo. Invece gli si fecero incontro tutti, e si radunarono intorno premendolo da ogni lato, come se lo volessero punire per la sua sfrontatezza. Marco cercò invano uno spazio che non c’era, mentre si sentiva soffocare. Guardò di fronte a sé: vide una tela bianca rompersi e dal buco uscire un fiotto d’acqua calda. Prima che il getto lo investisse si coprì il viso: fu solo un rombo.

Si svegliò e si accorse di piangere; fuori, un acquazzone estivo faceva gocciolare dovunque il parco, e la pioggia infradiciava la camicia. Non aveva più motivi per attendere. Scappò verso casa senza voltarsi indietro, ritrovandosi presto a letto, sotto il lenzuolo.

Venne l’alba, trascorse il mattino. Quando fu mezzogiorno qualcuno bussò, ma lui non rispose. Alle quattro del pomeriggio, Giovanna salì le scale, disinvoltamente allegra, infilando la chiave nella serratura, entrando. Notò che le tende erano accostate, la tavola sgombra, gli abiti gettati sul tappeto; senza stupirsi, si avvicinò alla porta della camera da letto e lentamente l’aprì. Marco era rannicchiato nel buio, la faccia nascosta, i capelli spettinati. Lei decise di svegliarlo, chiamando con dolcezza: "Tesoro, senti..."

Solo silenzio. Giovanna aprì del tutto la porta e avanzò un poco, per arrestarsi indecisa vicino al cuscino; morse a lungo il pollice, guardandosi attorno con il dorso leggermente inarcato, ciondolante. Trovato il coraggio, si chinò e gli toccò la spalla con la punta delle dita. Bastò questo perché lui si muovesse e, quasi fingendo d’essere sempre stato sveglio, si alzasse domandando "Giovanna, che ora è? Sei in ritardo?"

Lei gli si strinse contro senza rispondere e sorrise; gli baciò la testa e gli occhi cerchiati di sonno, spingendolo verso lo schienale e coricandosi accanto. Ma il ragazzo, innervosito dalle carezze, si allontanò subito. Prima che lei fosse riuscita a mormorare qualcosa, la stanza era già illuminata e Marco si era chiuso in bagno per vestirsi. Giovanna non perse il buon umore.

Poco dopo Marco riapparve, leggendo con attenzione qualcosa. Fu lei a rivolgergli la parola, domandando divertita "Che hai fatto ieri sera?"

Lui rispose con noncuranza. "Te l’ho detto, sono andato alla festa. E mi sono annoiato."

Giovanna rise. "Non ti credo, per certe cose non sei mai sincero. Voglio sapere tutto."

Stava lì, ansiosa e felice, muovendo irrequieta le gambe, quasi ballando. Per un attimo Marco si liberò della sua eterna malinconia. Elencò molti nomi di donna, spiegando di ciascuna il vestito, i modi, gli incontri, arricchendo con la fantasia gli scarsi ricordi di una serata da dimenticare. Continuò a lungo, per quanto l’ansia a tratti lo vincesse. Continuò perché si accorgeva di rubare l’attenzione di Giovanna, che annuiva ad ogni nuovo particolare. Vicina, era ormai molto vicina; posava il mento sulle ginocchia, giocando con un braccialetto che portava incise le iniziali di un uomo. Talvolta, mentre si toccava i capelli biondi, questi si attorcigliavano nella catena, e la costringevano a chinarsi ancora di più.

Ma non perdeva una parola del discorso, e se per caso temeva di non aver capito bene chiedeva spiegazioni, usando la sua voce leggera. Marco non aveva mai incontrato una persona tanto priva di gelosia, che desiderava conoscere quello che capitava solo per la gioia di vedere il mondo sfilarle accanto. Marco si rendeva conto che lei, inavvertitamente, riusciva a trasformarlo. La cosa straordinaria era questa, che gli sembrava di non finire mai di parlare. Anche quando taceva e toccava a Giovanna raccontare la sua giornata, le amiche, la vita, anche quando rimanevano in silenzio insieme, lui si accorgeva che in mezzo qualcuno proseguiva, come un nuotatore fra due rive. Talvolta però questa dedizione reciproca rivelava un aspetto scoraggiante. Nelle rare occasioni in cui altri impegni li costringevano a dividersi per breve tempo, appariva limpido nei loro sguardi il timore di aver perso qualcosa che non si poteva definire, e che tuttavia era reale.

Così, fu Marco a interrompersi, perché fra i due era il più debole. "Ora basta, sono stanco. Per favore, portami da bere."

Lei ubbidì, compiacente. Si era accorta del repentino cambiamento di tono e, pur non sapendo affatto come comportarsi, decise che non l’avrebbe lasciato solo con i suoi pensieri. Gli chiese, stringendo gli occhi, "Hai più visto quella ragazza, non mi ricordo come si chiama, quella che ti piaceva tanto?"

Scherzava, lo prendeva in giro, e Marco non le dava ascolto. Gli era tornato in mente il bacio nella stanza buia e l’immagine lo stava accecando, come un bagliore che sorprende uno sguardo indifeso. Rabbrividì.

Lei si allarmò. "Stai male? Che ti succede?"

"No. È passato, era il freddo."

"Quale freddo? Siamo in estate."

"Niente, niente. Non devi preoccuparti per ogni cosa che mi succede. Sei matta, con le tue manie."

Si massaggiò lo stomaco e camminò seguendo le pareti. Ogni tanto si fermava, sospirando. Giovanna pensò che prestargli attenzione era controproducente. Di solito, quando sentiva d’essere nervosa, tentava con ogni mezzo di evitare le situazioni chiuse. Forse per questo volle dare aria alla stanza e, uscendo sul balcone, si sdraiò nel sole che già tramontava. Nella giornata festiva la città sembrava non essersi mai risvegliata.

Giovanna si trovava molto in alto e, come da bambina, era contenta d’essere in cima a qualcosa. Contò sulle dita i campanili che da quella posizione riusciva a scorgere, quindi aggiunse le torri e le cupole. Quando arrivò ai cortili, agli spiazzi, ai davanzali, si accorse che la somma diventava infinita: con una sola lunga occhiata passò in rassegna tutte le finestre, le insegne e le antenne. Il sole, intanto, urtò contro la punta di un albero, ricordandole che il tempo trascorreva. Decise di tornare dal malato immaginario, sperando che ogni problema fosse scomparso. Scoprì invece Marco seduto in un angolo, inebetito. Cercò di interessarlo a qualche gioco, ma lui non ascoltava: si sentiva separato dal resto, incapace di agire, impotente. Premeva i polpastrelli sulle palpebre e non otteneva altro che strani effetti ottici: una fila di quadrati verdi, un vortice di colori, una stupida nuvola che percorreva tranquilla lo spazio orbitale. Ma il malessere non era invincibile, e Marco infine si lasciò distrarre. "Scusami, non pensavo d’essere scortese."

"Non è nulla."

"Sono così da ieri sera. Ieri sera mi è capitato... Te ne vorrei parlare, anche se mi sembra sciocco."

Non poteva proseguire. Rammentò la scena, la sezionò e la ricompose, cercò di spiegare le proprie motivazioni e la paura della donna, replicò quella figura, ne mimò i gesti. Inutile, qualcosa di irriducibile e di intenso lo attirava, obbligandolo a riflettere e a tacere insieme. Vide che Giovanna attendeva, paziente. La fissò a lungo, in silenzio, mentre la sua presenza gradualmente svaniva, come una macchia umida al calore del fuoco.

Nel luogo dove prima stava Giovanna apparve un personaggio diverso, invisibile, che aveva le parole come unica traccia di vita. Marco gli chiese chi era, da quale paese veniva: lo interrogava, ma nessuna risposta poteva bastare. Era un discorso sterminato, frutto di una loquacità inarrestabile, disorientante; quasi qualcuno lo stesse rincorrendo, quel personaggio tentava di esprimere intere frasi pronunciando poche sillabe, saltava le congiunzioni, evitava i segni della punteggiatura; quanto alla voce, utilizzava una sola inflessione tenue e tesa, leggendo un testo immenso in gara contro il tempo. Impossibile dare un giudizio netto; non era un uomo a parlare, ma una folla di messaggeri in disaccordo tra loro, forse perché custodivano molte lettere diverse.

Poi la voce si trasformò. Dal coro apparentemente omogeneo si staccò un tono più dolce, seguito da una nota acuta che impose il silenzio. Mancando ancora il senso alle parole, Marco si concentrò per coglierlo, ascoltando con attenzione e interpretando i suoni che già si sdoppiavano.

"Ricorda! Ricorda, non farlo. Mi abbandoni così, ma non può essere vero. Sì, lui mi ha detto di restare e io, figurati, nemmeno lo stavo a sentire. Mi ha chiesto a cosa serviva tutta quella roba, e io gli ho risposto di farsi gli affari suoi. Ma avevo paura di cambiare idea e mi vestivo, mi svestivo. Sai, non puoi capire quanto fosse umiliante, perché non lo vedevo. Gli stavo spiegando che se la sarebbe cavata lo stesso, che quella era l’unica soluzione possibile. Voglio provare a stare senza di te. Cerca di calmarti, no, non piangere, non urlare. Ma voleva che discutessimo ancora. Allora ho finto che qualcuno, giù, fosse venuto a prendermi, e via per le scale. Ci vedremo ancora. Scappando, sono entrata nel primo negozio, ho comperato un rossetto e un profumo. Ora che sono qui, spiegami cosa faresti tu. Io non voglio pensare, sono distrutta... E adesso, chi suona? Lui? No, assolutamente no, rispondi che non ci sono, inventa quel che ti pare. No. Forse, un giorno, un giorno gli spiegherò..."

Marco ascoltava senza capire, perché quello che sentiva non sembrava riguardarlo. Eppure, era curioso di sapere per quale motivo gli stavano raccontando fatti tanto lontani dalla sua vita. Di chi erano le parole? Di nessuno, di tutti, di qualcuno che non conosceva?

Tentò di scoprire chi era il suo interlocutore, e raggiunse la sorgente del suono. Si avvicinò tanto che la voce divenne fragorosa come una cascata, insopportabile. Finalmente, però, si scorgeva qualcosa: era una fotografia molto grande, un manifesto che raffigurava un uomo e una donna, abbracciati. Lui era di tre quarti, in piedi, il profilo in gran parte nascosto; lei invece si vedeva bene, il viso appena sollevato. Là dov’era la sua bocca, tra le labbra, un buco nero da cui uscivano parole, ora molto scandite, con pronuncia esatta.

"Che vuol dire, amore? Tutti siamo stati innamorati almeno una volta, ma non è il nostro caso. Non puoi continuare a comportarti così, io ti rifiuto perché non è il momento adatto. Tu non cerchi me, cerchi altro. Immagina per un attimo di scegliere. A te capita sempre di rimanere conquistato appena una donna ti guarda, vuoi andare in viaggio di nozze, comprarle il mondo. Ma non è solo amore. Vedi, non sarò mai d’accordo: telefonami quando ti piace, ma scordati questo tuo immenso amore."

Il manifesto si sollevò lentamente e la voce tacque; dietro, un cielo brillante e senza tinta. Marco conosceva il luogo. Il sipario, alzandosi, aveva aperto un varco nel vuoto: quell’assenza gli consentiva di intuire nuove relazioni, profonde e inutilizzabili. Perdersi non serviva a nulla, non gli interessava più quell’infinito chiarore, quell’ineffabile niente.

Rivide Giovanna, e riprese a parlare. "Ho dato un bacio a una donna che non avevo mai visto, solo perché ti somigliava. Lei è scappata senza dire il suo nome, e adesso continuo a ricordarla. Non saprò mai chi è. Come ho potuto sbagliarmi così? Non c’era motivo che tu fossi alla festa."

Giovanna si mostrò perplessa: l’episodio le sembrava confuso, o almeno lei non era capace di coglierne il senso. Eppure, era evidente che il ricordo turbava molto Marco, quasi fosse alle prese con un dilemma che riguardava la sua capacità di comprendere se stesso. Avrebbe voluto rispondergli che erano sciocchezze, e distrarlo, costringerlo a dimenticare; ma capiva che ogni sforzo in questa direzione sarebbe risultato inutile. Decise allora di usare una virtù che sapeva esserle estranea, il desiderio di indagare. Gli chiese "Cosa facevi quando l’hai vista per la prima volta? Stavi con gli amici? Eri solo? Mi stavi pensando?"

"No, nulla di particolare, avevo la testa vuota. Ero stanco, speravo di tornare presto a casa per dormire tutta la notte e tutta la mattina, e svegliarmi poco prima che arrivassi tu. Era una situazione imbarazzante ritrovarmi fra gente che non ti conosceva e che si domandava certamente come mai non eri venuta. Mi analizzavano per verificare se ero cambiato, per scoprire se era vero che il nostro amore riusciva a tenermi lontano dalle vecchie compagnie. Io mi sforzavo d’essere educato. Ma chi parlava con me voleva abbreviare il discorso, e creare tra noi un vuoto. Volevano che rivelassi la mia passione, se ero davvero tanto innamorato. Al contrario, io stavo zitto, e alla fine ho reagito ritirandomi in un’altra stanza. È lì che è successo. Forse speravo che tu fossi arrivata di nascosto e che ci potessimo rivedere subito... Ma non riesco ancora a capire perché mi sono buttato addosso a un’altra, cosa mi illudevo di fare."

Giovanna pensò che le sue illusioni lo circondavano sempre, e che talvolta le sembrava di abbandonarlo a uno spettacolo invisibile. Anzi, senza dubbio Marco sentiva il loro stesso legame come una visione, fatta per metà del suo passato e per metà di immagini della cui esistenza lui per primo dubitava, benché cercasse in ogni modo di renderle vive, di rappresentarle. Però, in quel caso, lei non sapeva decidere se l’angoscia era sincera. Forse, la delusione provata scoprendo l’errore lo turbava ancora; forse usava quell’apparizione per staccarsi dal resto; forse aveva finalmente trovato qualcosa di ignoto che lo attirava, che lo trascinava via.

Le venne un’idea. "Questa che hai baciato, era per caso una ragazza bionda dall’espressione dolce?"

"Sì, ti ho già spiegato, ti somigliava. Non mi ha permesso nemmeno di scusarmi."

"Ma allora è tutto chiaro, era mia sorella."

"Sorella? Non la conosco."

"Appunto. Per questo ci hai confuse, per questo lei è scappata. È tipico del suo carattere comportarsi così."

"Perché era alla festa? Non ho mai sentito gli amici parlare di lei."

"Non essere ridicolo. Mezza città va a quelle feste, non occorre avere un invito per entrare. Forse l’ha accompagnata il suo ragazzo e tu non l’hai notata subito. Così, non preoccuparti: io e mia sorella siamo quasi uguali."

Marco non sembrava affatto contento, era anzi molto seccato, quasi non volesse crederle. Giovanna rideva, e lui pensava che non avrebbe mai saputo se mentiva oppure no. Poteva pretendere che la sorella gli venisse presentata la sera stessa, ma questo confronto non avrebbe disperso la sensazione di incertezza; conoscere la sorella non serviva a fugare i dubbi, perché quella ragazza l’aveva appena intravista, per un attimo, al buio. Fissò Giovanna, che aveva smesso di sorridere pur ostentando indifferenza, mentre giocherellava con i suoi anelli; ma non scorgeva nulla, e il suo sguardo si perse fra i dettagli del viso di lei.

Quando si voltò verso un’altra, arbitraria direzione rimase pensieroso, preparandosi quasi a una stasi infinita. Quella presunta rivelazione aveva cambiato qualcosa; non gli importava più scoprire chi era in realtà la sconosciuta, le sue intenzioni erano diverse, seguiva un percorso nuovo.

C’era una grande calma, una bonaccia eterna, e infine un profondo stupore.

Come un viaggiatore si familiarizza a stento con il paese che sta visitando, così Marco respirava piano, si toccava la fronte, talvolta appoggiava il mento alle braccia. Era addormentato, non poteva annotare e riferire le sue scoperte. Riuscì a comprendere solo il risultato finale del periplo che in poco tempo aveva compiuto: voleva nascondere agli estranei il proprio aspetto per impedire a chi non lo conosceva di toccare con mani distratte il suo corpo. E chi poteva urtarlo, se non Giovanna? Lei era l’unica capace di tanto, l’unica abbastanza coraggiosa; per questo doveva andarsene, immediatamente. Si alzò, pallido; accorgendosi di tremare gridò, prima che altre idee lo infastidissero interrompendo la sua determinazione, "Vattene, non mi interessi più, non sei più necessaria."

Era terribile, ma Giovanna rimase. Marco, incapace sia di aggredirla che di mutare sentimento, reagì in modo strano; come un uomo ferito che si copre la testa, corse alle finestre e le sbarrò, chiuse le persiane, abbassò le tende, spense l’unica lampada già accesa. La stanza diventò una galleria scura. Non contento, continuò ad aggirarsi chiudendo cassetti, riordinando appunti, piegando vestiti.

Il buio era tanto fitto da costringerlo a procedere a tentoni, urtando contro tavoli e sedie; incurante del dolore, proseguiva alla ricerca di oggetti non ancora a posto, con la stessa rabbia di uno scolaro ansioso di cancellare dalla lavagna la traccia bianca dell’errore. Solo quando vide che ogni cosa era stata collocata nella giusta posizione, prese fiato e si calmò, pur controllando sempre se qualche particolare richiedeva il suo intervento. A destra, sul ripiano dello studio, erano posate penne e matite di varia lunghezza e punta; a fianco, una pila di libri lucidi e intatti, e diverse agende tutte aperte nel giorno esatto. A sinistra, la cucina in legno, lavata e ripulita come se nessuno mai l’avesse usata; il sacco della spazzatura, completamente vuoto, i tegami e i coltelli appesi, profumati e graziosi. I rumori della strada arrivavano molto attutiti, grazie ai doppi vetri che proteggevano il suo riposo.

Soddisfatto, Marco stava per rimettersi a sedere quando vide che, sotto un mobile, c’era un fazzoletto di raso rosso fiammante, simile a una candela ancora accesa. Si avvicinò, lo prese e lo aprì, perché non lo riconosceva come suo. In mezzo c’era un fiore.

"È mio" disse Giovanna, avanzando quasi alla cieca. "L’ho dimenticato ieri pomeriggio. Ridammelo."

"No, lo tengo io. Che te ne fai?"

Lei si ribellò. Avvertì Marco, scandendo bene le parole, "Senti, sono stufa. Ho cercato di aiutarti, ma non voglio essere trattata da scema. Ridammi il fazzoletto, subito."

Marco strinse il pugno che teneva quel pezzo di stoffa liscia e preziosa; rifiutava, come se davanti a lui ci fosse un nemico che gli stava imponendo la resa. No, non avrebbe mai consegnato il fazzoletto. Ma l’orologio del salotto suonò le nove, e Giovanna approfittò dell’attimo di distrazione seguente per saltargli addosso, fargli perdere l’equilibrio e spingerlo a terra. Marco battè la schiena contro il pavimento di marmo e rabbrividì per il dolore. Infuriato, si aggrappò alla camicia di Giovanna e, facendo leva con il braccio, costrinse l’avversaria prima a inginocchiarsi, poi a cadere. Ma lei era furba, sapeva attendere. Finse di cedere e, quando le posizioni si invertirono, quando era lui a stare sopra, gli scivolò veloce sotto la pancia, utilizzando un solo movimento per liberarsi e rapire il fazzoletto. Si alzò ridendo, mentre l’altro la guardava inebetito, toccando le piastrelle fredde.

Erano fermi. Marco stava cominciando a capire quanto era stato sciocco. E aveva paura, perché non sapeva più cosa dire: temeva che al minimo cenno lei sarebbe scappata. Così, il suo primo gesto somigliò troppo a un’espressione di minaccia, tanto contraddittorie erano le intenzioni che lo animavano. Puntò le gambe e tese il braccio, inarcandosi. Lei fraintese, si voltò e fuggì, portando con sé la stoffa rossa come preda.

Marco restò ad assistere, disperato, chiedendosi dove andava la ragazza. In fondo all’appartamento c’era il portone che dava sulle scale e, dopo le scale, c’erano l’atrio e la strada. Dove cercarla, se avesse scelto quella direzione? Non fu così. Giovanna andò in senso opposto, raggiungendo la camera da letto e chiudendosi dentro con tre giri di chiave.

Marco dimenticò con sollievo i suoi timori; quello che voleva era ormai avvenuto, lo avevano lasciato solo; nessuno, nessuno più poteva sfiorarlo. Si piegò e si rimpicciolì, come una stella filante accartocciata e compressa.

La notte era intanto scesa sulla città, una tranquilla notte estiva. Si chiese se non fosse meglio uscire, ma già sapeva che non si sarebbe mosso: era legato a quel luogo come un’ancora alla nave. Solo l’immaginazione gli consentiva di attraversare la barriera che lo recintava, che gli faceva dire che lì era lui, e che quella era la sua proprietà. Tutto il campo che non gli apparteneva era avverso, e una tale ostilità diffusa lo forzava a riflettere; valutava se gli era permesso compiere o no una qualsiasi azione. Si accorgeva, d’altronde, anche del suo smodato desiderio di possesso. Nascondeva spesso le cose che voleva tenere per sé, sperando forse, facendole scomparire, di rendere assoluto il suo dominio. L’annullamento era il fine che motivava le sue imprese, perché niente poteva essere veramente amato senza venire sminuito, decomposto, ucciso. A volte, però...

A volte riusciva a dimenticare e si voltava dall’altra parte, penetrando nel muro, simile a un fantasma immateriale; conosceva allora un mondo diverso, dove ogni realtà si era ridotta e ristretta dopo aver accolto dalla propria ombra l’inconsistenza, la freddezza e l’isolamento che rendono alcune delle nostre immagini doppioni innocui e lontani. Era una condizione nuova: sentiva d’essere libero, forse felice. Gli mancava però qualcosa di essenziale, quel tanto di sé che respirava, pesava, toccava; troppo solido per oltrepassare il recinto, rimaneva indietro, lasciato a se stesso, senza vita. Marco, di là, andava dove più gli piaceva, unendosi ai sogni; come un fascio di luce può tagliare altri raggi senza venire da questi deviato o diffuso, lui scivolava intatto, sempre simile alla sua natura prima, e nulla d’esterno lo modificava.

Talvolta, comunque, era assalito da un turbamento indefinibile, incomprensibile, una frattura nell’universo compatto della giornata; era una sensazione estranea, autosufficiente, velenosa. Suonava come il preludio a un futuro incerto, che non veniva mai, ed era impossibile combatterla, perché non mostrava il suo vero aspetto. Impossibile era anche ignorarla, cercare di dimenticare.

Quella notte, Marco l’ascoltò arrivare come sempre, e come sempre prendere possesso della sua persona. Ma si rallegrò quasi che la consuetudine venisse rispettata; intendeva sfruttare a suo vantaggio la cosa, cedendo alla paura per sfuggire all’apatia, per conoscere il nuovo. Intanto, fingendo che quella volontà non gli appartenesse, aprì la finestra e si affacciò, abbandonandosi ai pensieri. Seguendo i cavi della luce che gli scorrevano davanti, apparve una fila di entità recanti tutte un dono o un ricordo. Erano nomi. Deponevano l’oggetto in un punto imprecisato, a mezz’aria, salutavano e ripartivano contenti, come se avessero concluso un compito gradito.

Lui uscì, ringraziando. Volle verificare quello che gli avevano portato e riconobbe tante cose che un tempo si era divertito a toccare.

Ritrovava meccanismi che si erano rotti, scopriva piccoli utensili che aveva adoperato anni prima per arredare la casa dove adesso viveva, e vecchi mobili perduti. Infine, vide tra i regali anche le cose che erano ancora sue, anche quelle che stavano proprio là, nel suo appartamento. Ciascuna era riprodotta nel mucchio. Decise di portare tutto dentro, e subito il salotto si riempì come se i muri fossero coperti di specchi. Controllò ancora; non c’era niente che non fosse già stato suo, nel passato o nel presente. Stupito, incominciò a percorrere quella specie di magazzino e, riconoscendo un disegno simile, o forse identico, al quadro appeso in anticamera, volle confrontare l’originale con la copia nella speranza di trovare un errore. Paragonò il cartone dipinto all’opera nella cornice. Come soggetto aveva scelto una donna che si bagna nel fiume, nuda, mentre due uomini nascosti in un bosco la osservano; tutte le figure erano tratteggiate rapidamente, con una sola linea ininterrotta tracciata usando un pennello multicolore, così da raffigurare in varia tinta la vegetazione, l’acqua, il sole. Sembrava impossibile...

I due dipinti erano uguali, non si poteva riconoscere il vero dal falso; erano le stesse imprecisioni, la medesima firma. Marco tornò nella camera grande; affranto, notò che tutto continuava a essere disposto a coppie. In un tentativo estremo di dividere l’identico, si accostò al vaso di ceramica che, sulla tavola, faceva il paio con un vaso sul pavimento. Li prese, li appoggiò l’uno contro l’altro e spinse con tutte le forze per riunirli, per farli diventare una cosa sola. Ma avvenne l’inevitabile; si ruppero, insieme, e i loro cocci cadendo si confusero.

Anche Marco cadde, e non riuscì a svenire. Perduto e svilito, trovò il coraggio di ribellarsi, urlando così forte da smuovere, da incrinare la sua stessa visione. Tutto esplose e si disfece, mescolandosi al suo contrario, cercando la propria diversità nell’immagine altrui.

Era uno spettacolo di trasformazioni incessanti, quasi ogni frammento d’esistenza pretendesse di mostrarsi da solo. Ascoltò qualcuno parlargli di una donna, e vide un armadio che si rovesciava, spargendo intorno quello che conteneva. Modelli di costruzioni e carte grigie scesero ad occupare l’intero spazio, raccogliendosi poi a formare una coperta azzurra che veniva annodata e riposta molte volte. C’erano anche nuove parole, c’era chi gli diceva di non essere più d’accordo con la Bellezza.

Tre scomparti di vetro si disposero componendo uno scaffale, e sopra lo scaffale un uomo versava liquido, continuamente. Marco ricordava una vacanza, gli errori, gli inevitabili errori... Tutto poteva svolgersi secondo un ordine diverso, lui stesso poteva cambiare. Piovvero dal cielo tre cappotti e una pelliccia, che gli ricordarono le nevicate di un inverno triste, quando l’unico diversivo era scappare nei negozi per acquistare giochi. Vide un tappeto enorme, persiano. Ricordò anche di avere molti problemi, e infatti una voce lo ammonì: "Deciditi. Non rimanere con le mani in mano."

Sentì un tintinnio immenso. Gli sembrava di trovarsi in una fabbrica dove venivano prodotti tutti gli oggetti che potevano essere utili al nostro mondo. Vide la colata di metallo fuso riempire gli stampi, e questi diventare roventi, ed essere subito immersi in vasche di acqua fredda, e molti rompersi, alcuni riemergendo però lucenti e perfetti. Occorreva avere soldi, come una settimana prima, mentre accompagnava Giovanna dal medico... Giovanna!

Lei gli tornò in mente. Doveva rivederla a ogni costo, ma non sapeva trovare la direzione giusta. Pensò "Una qualunque," buttandosi nel vortice di apparenze che lo circondava. Ripeteva a se stesso, "Non conta nulla, nulla."

Avanzava a fatica; credeva d’essere simile al vento che attraversa un intrico di rami. E già disperava, quando comprese che la stanza stava riprendendo il suo aspetto consueto, perché la tempesta di immagini aveva distrutto la doppia natura delle cose. Solo l’impeto iniziale gli consentiva di procedere, benché fosse ancora confuso. E una donna sussurrava: "Sei certamente vanesio, sei certamente presuntuoso. Forse, un giorno capirai."

Aveva raggiunto la porta della camera da letto. Chiese, bussando, "Tesoro, fammi entrare. Per favore."

La porta si aprì, o forse era sempre stata aperta. Marco e Giovanna si abbracciarono e fecero l’amore per la prima volta, finché non venne l’alba.

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