Il Sogno di Pico

Giovanni Pasetti

Indizi e prove: Giovanni Pico della Mirandola e Alberto Pio da Carpi

nella genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili

seconda parte

Filosofia e letteratura

Che l’Hypnerotomachia fosse un viaggio attorno alle fonti medesime della filosofia apparve subito lampante ai lettori più attenti. Polifilo, una volta caduto nel suo doppio sogno, ripercorre in effetti l’avventura della nascita dell’uomo e del suo progressivo affrontare gli elementi che l’intelletto gli offre, aiutato in questo dalla Volontà/Desiderio (Telemia) e dalla Razionalità (Logistica). Le cinque ninfe che lo accompagnano nella prima parte del viaggio sono in realtà i cinque sensi che la creatura umana si trova a disposizione nel travagliato cammino della vita, dominato dal tempo e minacciato da potenze distruttive. Così, le scritte che il nostro giovane via via scopre suonano come cartelli che recitano massime veritiere, avvertimenti morali a cui l’individuo può o no dare ascolto, nel suo frastagliato ascendere verso il reame di Venere. È ovviamente risibile la sottovalutazione compiuta da Pozzi riguardo all’ascendenza neo-platonica del tema venusiano, così come è assurdo negare (Marco Ariani e Mino Gabriele) che Eleutirillide sia esattamente il libero arbitrio; ne è testimonianza indiscutibile lo scritto anonimo premesso al romanzo (el palatio della regina che è el libero arbitrio). Tali prese di posizione, poco comprensibili in studiosi tanto avvertiti, sono il sintomo del rifiuto di ciò che al contrario risulta evidente. Proprio la lista di aggettivi con i quali lo pseudo-Colonna adorna la regina - magnanima, benevolentissima, summamente munifica, indica quanto l’autore fosse legato al suo personaggio. Si tratta in realtà di un marchio di fabbrica, poiché il libero arbitrio consente al protagonista di scegliere una tra le famose tre porte, dimenticando i consigli della Razionalità. Infatti, dopo aver superato giardini e labirinti, le tre porte si ergono ai confini del dominio dell’amica regina: la scelta fra il Mondo, Dio e l’Amore è l’ultimo supremo atto della libertà umana. Una volta imboccata la strada dell’Amore, non certo relativa ai piaceri terreni, ma ad un più complesso modo di cogliere la verità, Polifilo ritroverà Polia e con lei sarà condotto a incontrare la Grande Dea. Sublime pensiero, dunque, quello di riconoscere nel libero arbitrio il massimo dono, la vera regina, coniugando la somma libertà all’alto comando, come avviene nell’istante in cui la nostra mente esamina in modo misterioso alcune possibilità, quasi identiche nell’aspetto e tuttavia divergenti nello sviluppo. Senza dubbio, è di Pico e solo di Pico tale sottolineatura, di forti radici cristiane ma di inedita ampiezza esploratrice.

In uno dei suoi interessanti saggi sul Polifilo, significativamente intitolato Influenze e concordanze ficiniane nell’Hypnerotomachia, Olimpia Pelosi ha dimostrato con efficacia quanto il romanzo sia vicino al sincretismo di Marsilio, e al tempo stesso se ne distacchi, per una più approfondita indagine dell’universo intellettuale: ‘‘L’unità di Venere, centro intorno al quale gravita l’universo delle astrazioni, si esplica nella ‘trinità’ delle Grazie in uno schema dialettico e in una regressio circolare avvicinantesi più al Pico del Commento alla Canzone d’amore che ai postulati ficiniani.’’ E, in altro luogo:‘‘... la parola di Polifilo è continuamente trasversale... La parola risulta allora più ambigua, in quanto, per comprenderla, dobbiamo allontanarla come un ostacolo e nel contempo usarla come chiave... Lo stesso Gnoli è costretto ad ammettere che l’opera è un nuovo poema filosofico e che il suo autore era un forte, audace, rigido ingegno, spinto dalla tirannia della logica, fino all’assurdo... La lingua del Colonna è manieristica...’’ Affermazioni finalmente convincenti, a cui si deve aggiungere un altro, fondamentale contributo, frutto dell’ingegno più autorevole in materia rinascimentale: Edgar Wind.

Costui, in Misteri Pagani del Rinascimento, svolge un acutissimo esame dell’arte e della letteratura del Quattrocento, considerate nel loro aspetto esoterico. Come un filo tessuto fra la trama delle speculazioni misteriche e l’ordito della grande pittura, il ragionamento di Wind costeggia continuamente sia l’Hypnerotomachia che l’opera di Pico della Mirandola. Lo studioso non mette mai esplicitamente in rapporto l’uno e l’altro versante; ma la frequenza delle allusioni, il metodo comparativo e l’oggettiva insistenza nel confronto ci porta a sospettare che egli avesse colto un legame preciso. Basta leggere alcune sue frasi: ‘‘Il rinascimento platonizzante fu inondato da questa ricchezza asiatica che Pico tanto apprezzava in Proclo... Evocare i misteri in una lingua limpida sarebbe apparso a Pico un procedimento sia frivolo che illogico. Egli sapeva bene che i misteri richiedono un’iniziazione... Così, per parlare di misteri Pico immaginò uno stile di volgarizazzione ellittica che gli permettesse di lasciar scorgere i segreti che egli stesso dichiarava di voler nascondere... Per un mistagogo ufficiale, lasciava capire, il modo giusto consisteva nel parlare per enigmi, usando vocaboli che sono pubblicati senza esserlo... Tale formula ricorda il gioco di parole di Apuleio, quando descrive la sua esperienza di neofita nei riti di Iside: ‘‘Ecco, ti ho riferito le cose che tu devi ignorare, pur avendole ascoltate.’’

Certo, Wind sembra alludere anche allo stile secco e talvolta oscuro delle Conclusiones nongentae, in cui Giovanni offre sentenze lapidarie quali Non conseguirà risultato saldo nell’opera magica chi non avrà attratto Vesta, oppure Come Apollo è intelletto solare, così Esculapio è intelletto lunare, o anche Amore è filosofo in rapporto alla via e Pallade lo è in rapporto alla meta. Ma l’estrema sintesi esibita in questo stupefacente catalogo di verità problematiche è del tutto speculare alle frasi prolisse e quasi estenuanti del Polifilo. In entrambi i casi le parole fanno velo, tingendosi di luce: qui rivestono di pieghe il nudo corpo della realtà, come una stoffa sovrabbondante; là, assomigliano a fori che trafiggono, senza abbatterlo, il muro opaco dell’ignoranza. In entrambi i casi, siamo di fronte ad una sfida intellettuale che vuole radunare intorno a sé impossibili adepti, e che purtroppo susciterà ripulse e condanne. Ancora Wind: ‘‘Volendo sottolineare la disparità fra strumento verbale e oggetto mistico, Pico donò al suo stesso linguaggio una risonanza contemporaneamente provocatoria ed evasiva, come se velare significasse implicitamente rivelare il fuoco sacro, dentro una nuvola di fumo spessa e acre.’’ Velare / rivelare, dunque.

Quando poi si scende nei dettagli, è sorprendente osservare quanto le numerose immagini trinitarie presenti nell’Hypnerotomachia (basti considerare il simulacro a tre volti animali di Serapide, che ritroveremo anche in Tiziano come immagine del Tempo) siano collegabili alle speculazioni di Ficino e di Pico, così come l’evocazione di Venere, una, doppia e forse trina, pervade magicamente sia un campo che l’altro. ‘‘L’Hypnerotomachia ce ne presenta un esempio estremo, là dove Venere appare nell’aspetto di una mater dolorosa che nutre il figlio con le sue lacrime...’’ In questa fusione di miti pagani e di sensibilità cristiana spicca il gruppo delle Tre Grazie che, come è noto, formava il verso di una medaglia del mirandolano, caratterizzata dalla scritta Pulchritudo - Am(m)or - Voluptas.

È inutile ripercorrere qui la raffinatissima analisi di Wind in relazione al tema delle Tre Grazie, e la sua sottile disamina dei tre elementi che si combinano e si modificano nel corso dell’esperienza neo-platonica, a partire dal luogo medesimo di Careggi, il Campo delle Grazie. Come scrisse Ficino, ‘‘Amore parte dalla Bellezza per finire nel Piacere.’’ E ancora: ‘‘È dell’amante trovare piacere e gioia in quel che ama; questo è infatti il fine dell’amore. La visione tocca a colui che cerca: ma nell’uomo felice il gaudio trionfa sulla visione.’’ Dunque, la parola Voluptas non va tradotta semplicemente con Piacere, ma a che fare direttamente con la Gioia. L’Amore si volge dalla Bellezza (la visione) verso la Gioia.

Questo percorso corrisponde esattamente all’essenza del tragitto di Polifilo nella prima parte del romanzo. Benché complicato all’estremo dalla rassegna verbale su cui abbiamo a lungo indagato, il destino del nostro giovane si compie davanti al sepolcro di Adone, là dove ogni anno la stessa Venere riapre la sua amorosa ferita, tingendo di rosso le candide rose. Riportiamo un brano particolarmente significativo della traduzione adelphiana, affinché il lettore riesca a comprenderne immediatamente la portata: ‘‘Dopo che le vergini ninfe ebbero descritto con affabile eloquenza un rito misterico tanto memorabile quanto singolare, ripresero di nuovo a suonare e a cantare con grandissima dolcezza e voluttà... Affrancato ormai, libero da ogni timidezza e riguardo... tutto pervaso da un subitaneo effluvio profumato delle sue splendide, leggiadre vesti irrorate di balsami, mi misi arditamente nel suo grembo amoroso, baciando con passione le sue lattee mani e quel petto di neve rilucente come l’avorio più lucido...’’ Questo è il Gaudio; e si può ben cogliere quanto spirito letterario si ritrovi nelle pagine private del velame che le ricopre, e che peraltro rappresenta il loro ornamento imprescindibile. Tale gaudio viene raddoppiato alla fine della seconda parte, nei brevi attimi che preludono alla separazione definitiva degli amanti. Qui, la duplice dichiarazione dell’uomo e della donna suggella il mistero dell’amore, mentre il corpo di Polia si trasmuta e si scioglie. ‘‘Sospirava quella celeste immagine divina, come un ramoscello esalante un profumo fragrantissimo di muschio e ambra che si innalzi al firmamento, con non lieve godimento degli spiriti celesti.’’

Una canzone d’amore

Riassumiamo ora brevemente il saggio che Giovanni Pico dedicò nel 1486 alla Canzone d’Amore dell’amico Girolamo Benivieni. Costui, un fiorentino nato nel 1453 e morto quasi novantenne, è una figura caratteristica dell’epoca; appartenne alla cerchia di Landino, Ficino e Poliziano, distinguendosi per alcuni componimenti ispirati al più classico neo-platonismo. Divenne in seguito un ardente savonaroliano, dimostrando come la predicazione iniziale del frate si collegasse ad alcuni spunti mistici ampiamente presenti nell’opera letteraria di Lorenzo il Magnifico e dei suoi compagni.

Come abbiamo già ricordato, il 1486 è un anno cruciale per Giovanni, poiché fu dominato dalle speranze, presto deluse, relative alla stampa delle 900 Tesi, destinate purtroppo alla più completa ripulsa da parte della Curia e del Papa. Il Commento dello illustrissimo Signor Conte Ioanni Pico Mirandolano sopra una Canzona de Amore, composta da Girolamo Benivieni Cittadino Fiorentino, secondo la mente e oppenione de’ Platonici (così recita il titolo originario) è l’unico scritto in prosa volgare che il Conte ci ha lasciato. Invece d’essere rapidamente diffuso, venne presto accantonato perché, dichiara Benivieni: ‘‘... nacque nelli animi nostri qualche ombra di dubitazione, se era conveniente a uno professore della legge di Cristo, volendo lui trattare di Amore, massimo celeste e divino, trattarne come platonico e non come cristiano; pensammo che fussi bene sospendere la pubblicazione di tale opera...’’ Sono frasi che illustrano perfettamente il mutamento intervenuto negli spiriti e nella stessa vita di questi intellettuali dell’ultimo Quattrocento. Così, il Commento non fu nemmeno compreso nell’edizione della cosiddetta Opera Omnia, curata da Gian Francesco Pico nel 1496 per i tipi di Benedetto da Bologna.

Giovanni inizia con una disamina della dottrina platonica, esplorando le opinioni di Dionigi Aeropagita, Plotino e Avicenna in merito alla gerarchia delle emanazioni divine e all’esistenza o meno di una Prima Mente, che fungerebbe da ricettacolo delle forme ideate dal Supremo Architetto; quanto al mondo sensibile, esso è un simulacro di quello intelligibile. Il mirandolano introduce poi le figure di Celio, Saturno e Giove a rappresentare Dio, la Prima Mente e l’Anima del Mondo. Si apre allora una complessa comparazione fra la verità universale e il divenire mitologico, che costituisce il tema fondamentale di tutto il libro: le nove muse corrispondono ad esempio alle otto sfere celesti - i sette pianeti e il cielo stellato - più l’universale anima del mondo. Citando Eraclito e i Caldei, Pico giunge quindi ad uno dei punti cardine del platonismo, la liberazione dalla schiavitù terrestre attraverso la via amatoria, la quale mediante la bellezza delle cose corporee e sensibili eccita nell’anima memoria delle parti intellettuali. È esattamente il cammino del Polifilo, e in tal senso la stessa sparizione finale di Polia assume un diverso e meno acerbo significato. Segue una lunga trattazione della parola Amore e del concetto di Desiderio, fino alla celebre sentenza: Dopo Dio comincia la bellezza, perché comincia la contrarietà sanza la quale non può essere alcuna cosa creata. Venere e Marte, gli amanti per eccellenza, simboleggiano il conflitto perenne fra armonia e disarmonia attraverso cui il mondo si evolve. Pallade è invece la sapienza intellettuale, mentre le due Veneri, la volgare e la celeste, hanno simmetricamente in sorte due Amori: Però disse Platone nel Convivio, che quante Venere sono, tanti sono necessariamente li Amori. Segue un accenno ai genitori di Amore, Poro (l’abbondanza delle idee) e Penia (la povertà della natura informe); le Tre Grazie, chiamate Viridità, Letitia e Splendore, divengono dal canto loro tre proprietà della bellezza ideale.

Così, Pico continua per pagine e pagine, illustrando e reinventando gli antichi miti greci, presi per quel che sono, ovvero discorsi sapienziali, documenti che ricostruiscono l’eterna ricerca umana. Infine, viene il momento di una spiegazione puntuale della Canzone del Benivieni, particolarmente notevole quando si afferma che sono le cose intelligibili e spirituali essistimate essere sole vere cose, e le cose sensibili essere immagine e ombra di quelle, e quasi da loro differenti come uno oro di archimia, che è fatto dall’arte, ad imitatione del vero oro e naturale... Ascoltando questo passo si comprende il motivo per cui molti ingegni hanno inteso l’Hypnerotomachia come un romanzo alchemico: la mimesi del sensibile attraverso il gioco estremo dei vocaboli ridona infatti al lettore quell’oro di alchimia che è a sua volta il semplice preludio della pienezza spirituale. Infatti, a colui, el quale al sesto grado perviene, non è licito caminare più inanzi, perché quello è il termine dell’amorosa via, quantunque per via d’un altro amore più oltre si vada, et è quello amore col quale si ama Dio in sé. Ancora più esattamente, in relazione al Polifilo: Può adunque per la prima morte, che è separatione solo dell’anima dal corpo e non per l’opposito, vedere lo amante l’amata Venere celeste ad faccia ad faccia con lei ragionando della sua divina imagine (la celeste immagine divina, la coelica imagine deificata) e’ suoi purificati occhi felicemente pascere, ma chi più intrinsecamente anchora possedere la vuole, e non contento del vederla e udirla essere degnato de’ suoi intimi amplessi (amorosi amplexuli) ed hanelanti basci (cum la coraliata buccula basiantime strinse), bisogna che per la seconda morte del corpo per totale separatione si separi...

Dunque, il giovane amante separa una prima volta la propria anima dal corpo cadendo nel sonno e attraversando i reami dello spirito. Qui incontra Polia, convincente personificazione non tanto dell’anima stessa (rappresentata da Polifilo), quanto dell’intelligenza delle cose celesti. Insieme a lei giunge presso Venere e la vede, nell’attimo in cui stesso abbraccia ardentemente l’amata, ragionando della sua divina immagine: Può adunque per la prima morte... Ma se vuole veramente arrivare ai cieli, volgendosi alla Divinità nel suo aspetto purissimo, deve subire una seconda morte, perdendo in apparenza l’anima in quanto individuazione del soggetto, per confonderla nella più vasta anima sovraterrena: Habbiamo sopra dichiarato come el core nello amoroso foco ardendo more, e come per tal morte cresce a più sublime vita. Ultimo dettaglio interessante: Giovanni afferma che è il bacio e non la copula la più perfetta e intima unione; infatti, il Polifilo è ricco di baci, anche molto sensuali, ma non descrive mai un atto sessuale compiuto.

A questo arriva Pico nel Commento, dopo aver citato Orfeo, Salomone, i Caldei, i Cabalisti e l’arte astrologica. A questo arriva lo pseudo-Colonna, dopo aver vagato a lungo nel labirinto inestricabile dei nomi, da lui medesimo costruito. Come non scorgere la coincidenza degli intenti?

Intorno a Firenze

La tecnica del collage e le selve tanto care a Poliziano, il neo-platonismo di Ficino, la venerazione per Leon Battista Alberti esibita da Cristoforo Landino nelle sue Disputationes Camaldulenses... L’Hypnerotomachia è ricca di motivi che ci ricordano la Firenze medicea, quegli anni di equilibrio miracoloso in cui la poesia si univa alle riflessioni filosofiche, la pittura alla meditazione, i ritrovi accademici ai canti carnascialeschi. Esistono inoltre dettagli ben precisi che ci impediscono di pensare ad un romanzo concepito esclusivamente in ambito settentrionale.

Quando Polifilo contempla la misteriosa statua del cavallo alato, sul cui dorso molti putti tentano invano di reggersi, osserva che sul lato destro del basamento è incisa una strana danza di figure: uomini e donne hanno due facce, l’una anteriore che ride, l’altra posteriore che piange. Se il significato di questa composizione appare chiaro leggendo la parola TEMPO scolpita accanto, meno noto eppure evidente è il riferimento ad una canzone carnascialesca di Lorenzo il Magnifico, la Canzone de’ visi addrieto: Le cose al contrario vanno / tutte, e pensa ciò che vuoi; / come il gambero andiam noi, / per far come l’altre fanno. / E’ bisogna oggi portare / gli occhi drieto e non davanti; / né così puossi un guardare: / traditor’ siam tutti quanti! Persino le allusioni omosessuali contenute nella canzone trovano corrispondenza nelle frasi dello pseudo-Colonna: Cum li braci tenentise homo cum homo, et donna cum donna...

Di rilievo è poi anche la famosa xilografia della ninfa dormiente sorpresa dai satiri (e1 r) che, oltre ad essere riproposta dal Mocetto in ambiente mantovano, può essere accostata al Driadeo d’amore di Luigi Pulci. Nel poemetto dello scrittore fiorentino, terminato nel 1465, il pastore Severe ... giunto presso all’ombra, ov’io ho detto / ch’eran le ninfe in sonno e grande errore, fermossi alquanto il nobil giovinetto... / Allor, vedendo quegli spirti lieti / addormentati, come sopra scrissi... / tutto ammirato tenne gli occhi fissi / a’ loro atti gentili e mansueti... L’imitazione del Ninfale Fiesolano, l’importanza del Pulci presso la famiglia Medici, la sua estroversa produzione letteraria sono elementi di una certa importanza in relazione alla genesi dell’Hypnerotomachia.

Non vanno taciuti poi i motivi di raccordo fra il romanzo e gli Inni Naturali di Michele Marullo Tarcaniota, l’intellettuale e uomo d’armi greco, buon amico del mirandolano, che intese perfezionare una preziosa silloge dedicata alle grandi divinità dell’Olimpo, nuovamente intese come potenze naturali che presiedono il destino dei mortali. Interessante sarebbe anche tracciare un paragone fra la scena del sacrificio dell’asino a Priapo (m6 r), in cui il sangue gioca un ruolo determinante e misterico, e le Prove di Cristo, il dipinto di Botticelli compiuto verso il 1482 nella Cappella Sistina. Mentre la scena relativa al titolo si svolge in secondo piano, la parte principale è dominata da uno dei riti sacrificali ebraici descritti in vari passi del Levitico: ‘‘Egli immolerà l’agnello nel luogo sacro... Il sacerdote prenderà del sangue della vittima di riparazione... Farà bruciare sull’altare l’olocausto e l’oblazione... Egli prenderà anche... due tortorelle o due colombi... Aronne offrirà il capro, che la sorte ha determinato per Jahve, immolandolo in sacrificio d’espiazione... Aronne presenterà il giovenco in sacrificio d’espiazione per il proprio peccato...’’ Occorre osservare che, oltre a Jahve, vengono parallelamente offerti animali ad Azazel, nome corrispondente sia ad un luogo desertico, sia all’angelo che secondo la leggenda rifiutò di inchinarsi di fronte al primo uomo e venne per questo scacciato, divenendo un demone. Lo stesso Levitico afferma: ‘‘Essi non offriranno più i loro sacrifici ai satiri (ovvero gli idoli pagani), ai quali erano soliti prostituirsi.’’ È opportuno rammentare ancora le tortorelle portate al sacrificio durante la lunga cerimonia polifiliana che prepara i due amanti all’incontro con Venere. Per la complessiva atmosfera di festa pagana che pervade il romanzo si confronti anche il fregio coevo della villa medicea di Poggio a Caiano, e gli affreschi posteriori in cui fanno bella mostra di sé Vertumno e Pomona, facilmente collegabili al trionfo delle divinità agresti narrato nel libro.

Infine, resta fondamentale il rapporto tra l’affresco botticelliano di villa Lemmi e la xilografia i2 r, là dove Polifilo, dopo aver rifiutato il consiglio di Logistica ed essere entrato insieme a Telemia nella porta della Mater Amoris, incontra Filtronia insieme alle sue sei compagne. Tale corrispondenza, sottolineata a più riprese da Calvesi, è indubitabile: nel dipinto vediamo infatti un giovane, vestito più o meno come Polifilo, che viene accompagnato da una dama verso un consesso formato da sette donne. Qui si apre un capitolo affascinante e misterioso. Poco o nulla sappiamo di questi affreschi fiorentini, ritrovati nel 1873 e presto staccati. I proprietari del tempo, i Lemmi appunto, decisero di vendere le uniche due scene non completamente deteriorate ad un antiquario; in seguito, esse vennero acquisite dal Museo del Louvre, dove sono attualmente esposte. Se gli esperti sono giunti rapidamente ad un’attribuzione univoca per quanto concerne l’autore, molto più controversi sono il periodo di esecuzione e il tema trattato. Sicuramente i due episodi appaiono simmetrici, poiché da una parte è una giovinetta ad essere accolta da Venere (o da Apollo) e dalle tre Grazie, mentre dall’altra vediamo un giovane scortato presso un gruppo di figure femminili, forse le Arti Liberali. Ma chi sono questi protagonisti quasi adolescenti? Pare che negli ultimi decenni del Quattrocento la villa appartenesse alla potente famiglia dei Tornabuoni. Dal canto suo, la fanciulla è quasi sicuramente una Albizzi, dal momento che porta al collo il caratteristico pendaglio a tre perle che tutte le ragazze della famiglia Albizzi (ad esempio Giovanna, a sinistra, e una sua sorella) mostrano nella cappella Tornabuoni, realizzata dal Ghirlandaio in Santa Maria Novella. Effettivamente, Giovanna Albizzi sposò in seconde nozze Lorenzo Tornabuoni; nello stesso anno, il 1486, la sorella Albiera divenne moglie di Piero di Filippo Tornabuoni. Entrambe morirono di parto, così come era toccato alla prima moglie del loro padre Maso, un’altra Albiera. Ma il profilo del giovane effigiato da Botticelli non sembra corrispondere completamente a Lorenzo, ardente partigiano dei Medici, cugino del Magnifico, amico di Pico, giustiziato dai savonaroliani nel 1497. Quanto a Giovanna, di cui possediamo un magnifico ritratto compiuto dal Ghirlandaio stesso dopo la sua morte (Madrid, collezione Thyssen-Bornemisza), recante la struggente scritta Se l’arte fosse capace di rappresentare i costumi e l’anima, non esisterebbe sulla terra quadro più bello, nemmeno lei risulta simile alla giovinetta di villa Lemmi. Crediamo invece di identificare quest’ultima nell’Albizzi dipinta nella Nascita di San Giovanni Battista, in Santa Maria Novella, a fianco di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico e sorella di Giovanni, il committente della decorazione. Se questa bellissima e maestosa giovane dai capelli biondi e crespi è Albiera junior (esiste anche un’Albiera senior, sua sorella, la cui morte prematura nel 1473 venne cantata da Poliziano), o Maria, un’altra delle dieci sorelle Albizzi, sorprendente è anche la sua affinità visiva con la Polia delle xilografie aldine.

Non ci azzardiamo qui a istituire uno schema di relazioni fra il giovane di villa Lemmi, Polifilo e Pico da un lato, la fanciulla di villa Lemmi, Polia e l’Albizzi dall’altro; va tuttavia notato che un altro segno distintivo delle Albizzi (discendenti di una stirpe di origine tedesca) è il fazzoletto bianco che stringono sempre fra le mani, fazzoletto che caratterizza entrambi i protagonisti degli affreschi botticelliani, fazzoletto che spicca in una tela cinquecentesca, oggi in Palazzo Ducale a Mantova, raffigurante il Conte di Concordia. Rileviamo comunque due elementi notevoli. Gli affreschi del Louvre celebrano forse un fidanzamento, ma sono ancor più la sublime immagine di un rituale di iniziazione, in cui i protagonisti abbandonano l’adolescenza per giungere all’età della sapienza e dell’amore. In secondo luogo, il gioco delle medaglie che presentano il gruppo delle tre Grazie si complica, poiché una medaglia collegabile ad Angelo Poliziano reca il busto della sua pretesa sorella Maria Poliziana e, nel verso, le tre Grazie con l’iscrizione CONCORDIA. Ma la medesima Maria ha al collo inequivocabilmente il pendaglio delle Albizzi, e d’altronde anche una medaglia di Giovanna Albizzi mostra il fatidico terzetto, a somiglianza di Pico ma con la diversa scritta Castitas - Pulchritudo - Amor. Non sembra quindi assurdo affermare che Polia sia una contrazione di Poliziana; nel misterioso nome esiste certamente una radice che rimanda alla bianchezza, e albus significa bianco, chiaro. Politus vale raffinato, elegante, colto, adorno; il verbo polire è traducibile con pulire, levigare, rendere bianco, perfezionare; polia è in Plinio una pietra simile all’amianto, bianco e indistruttibile dal fuoco. In greco, poliòs equivale a biancastro, canuto, ma anche splendido e lucente. È curioso infine che nel proemio del De ente et uno (1491), Giovanni si diverta a compiere un gioco di parole tra il nome di Poliziano e lo stile pulito della lingua: ‘‘Liceat autem mihi per te, linguae politioris vindicem...’’

Il sogno e le lingue

Per ritornare al bizzarro plurilinguismo polifiliano, la nostra ipotesi viene confortata dai contributi indipendenti di alcuni studiosi. In particolare, Francesco Bausi nel suo Nec rhetor neque philosophus analizza in modo approfondito il latino usato da Pico nei suoi scritti, a partire dalle lettere già ricordate, con destinatari Ermolao Barbaro e Lorenzo il Magnifico. Come è noto, la seconda metà del quindicesimo secolo è teatro di accese polemiche fra i fautori di un latino ‘classicamente’ ciceroniano (prima Paolo Cortesi, quindi il Bembo) e gli assertori di una più libera attitudine inventiva, basata sulle espressioni ‘asiatiche’ o ‘africane’ di Apuleio, pronta al neologismo e ad ogni sperimentazione, anche azzardata. Non è sbagliato affermare che la scuola umanistica bolognese, in cui eccelle la figura di Beroaldo, poi sorpassato in spregiudicatezza da Giovan Battista Pio, rappresenta almeno in parte il contraltare latino del volgare ‘alla Polifilo’. Nel suo bel saggio, Bausi dimostra come Pico fosse affascinato dalle possibilità combinatorie del linguaggio, d’altronde fondamentali negli studi cabalistici a lui tanto cari. La lettera ad Ermolao Barbaro, ad esempio, è tutta costruita mediante un intreccio di parole e di frasi derivate da un folto e variegato gruppo di autori, tra cui gli stessi compilatori di storie altrui, come il Gellio delle Notti Attiche, che la superficie del discorso sembra condannare. Si tratta di un’ulteriore dimostrazione dell’assoluta ambiguità di Giovanni, capace di utilizzare una raffica di espedienti retorici proprio nel paragrafo in cui biasima aspramente la retorica medesima. Orazio, Marziale, Lucrezio, Cicerone, Sinesio, Apuleio, Seneca; tutto serve a predisporre il tessuto linguistico: ‘‘Lo studio della lingua e dello stile dell’epistola ne conferma la valenza costituzionalmente (e programmaticamente) ambigua e proteiforme.’’ Né mancano gli arcaismi o i neologismi, così come avviene nell’epistola al Magnifico. A ragion veduta l’amico Beroaldo si poteva complimentare con lui definendolo alter Apuleius: ‘‘Vi è senza dubbio una consonanza profonda, riguardo alla lingua e allo stile, tra il Beroaldo e il Pico di queste epistole (nonché dell’Oratio)... Il Pico delle prime opere... può essere in effetti ben collocato nell’ambito di quella linea apuleiana - una linea prettamente padana...’’

Si configurano dunque due periodi distinti dell’attività letteraria del mirandolano, marcati, come abbiamo già ricordato più volte, dal crinale decisivo del 1486-1487. L’Oratio, ovvero il suo capolavoro, apparterrebbe completamente alla prima fase. Sostiene Bausi: ‘‘Come l’uomo dipinto nelle pagine iniziali dell’opera, infatti, anche la lingua di Pico è camaleontica e proteiforme, capace di assumere i volti più diversi e di trascolorare senza posa...’’ Concetti simili risultano utili anche nella disamina dell’Hypnerotomachia. Tuttavia, occorre aggiungere un altro particolare. La produzione di Pico è completamente segnata dalla questione del linguaggio. Anche l’Heptaplus, pur terminato in anni ‘tardi’, ossia nel 1489, travalica i confini di un semplice commento alla Genesi. Per Giovanni, la struttura stessa dell’universo è linguistica: creare equivale a nominare, conoscere significa interpretare l’analogia dei vocaboli. Di nuovo Bausi: ‘‘L’opera del filosofo... ha la medesima natura dell’opera di Dio, e non per esterno vezzo letterario, ma in virtù, appunto, del nesso analitico che non può non stringere, quasi omerica catena, tutti i gradi dell’universo.’’

Un altro aspetto che occorre rimarcare è la presenza nel Polifilo di alcune scritte esotiche rispetto al consueto orizzonte umanista. Alludiamo innanzitutto ai titoli delle tre porte tra cui l’eroe del romanzo esita a lungo. Esse vengono chiamate Gloria Dei, Mater Amoris e Gloria Mundi; ma le iscrizioni latine sono completate dal greco, dall’ebraico e dall’arabo. Sopra qualunque delle quale, di charactere Ionico, Romano, Hebreo et Arabo, vidi el titulo che la Diva Regina Eleuteryllida haveami predicto et pronosticato... Particolarmente significativo è l’affacciarsi di un gruppo di termini arabi, poiché nel quattrocento l’incontro con la lingua del Profeta era abbastanza episodico. I testi dei filosofi orientali si apprezzavano solitamente attraverso le traduzioni greche e latine. Angelo Michele Piemontese, nel tracciare una rapida storia dell’orientalismo rinascimentale, ricorda l’interesse in merito di Cosimo il Vecchio, gli approfondimenti di Girolamo Ramusio e la curiosità di Marsilio Ficino, che in un’epistola richiese a Pico la restituzione di un Corano latino di sua proprietà. Ma il medesimo Giovanni è senz’altro il maggiore fra i pochi ingegni italiani che si occuparono per primi dell’idioma maomettano. Non soltanto egli si dedicò con tutte le sue forze all’apprendimento prima dell’ebraico, quindi dell’arabo e del caldaico (ovvero l’aramaico), come afferma in una lettera del 1486; Piemontese si spinge oltre: ‘‘La frase eloquente sta nell’incipit dell’orazione De Hominis Dignitate; con questa pubblicazione egli annunciava al mondo ecclesiale e accademico la scoperta della sentenza nihil spectare homine admirabilius (non si può vedere nulla di più ammirevole dell’uomo) in codici arabi.’’ Così, lo stesso Piemontese può efficacemente concludere che ‘‘l’anno 1486 segnava il deciso trapasso dalla interpretazione latina di tipo scolastico dei testi arabi, la loro considerazione medioevale indiretta, alla comprensione diretta.’’

Ora, non può sfuggire al lettore più avvertito un dettaglio importante: la seconda apparizione nell’Hypnerotomachia dei caratteri arabi riguarda (b7 r) il motto fatica e conoscenza, ovvero un altro concetto cardine che viene mostrato al giovane amante durante il suo complesso itinerario di crescita spirituale. Secondo Piemontese, ‘‘l’epigrafe bilingue... attesta la discreta resa scrittoria... in carattere arabo naskh asiatico....’’ Notevolissima diviene dunque l’osservazione seguente: ‘‘Frasi riconoscibili in scritture orientali sono presenti nell’unica redazione manoscritta conservata del De Hominis Dignitate... Un tratto scrittorio arabo è in mezzo alla quarta linea di f. 143. Qui si apre uno squarcio di spazio e, entro una sorta di parentesi e reticolo di puntini, segni di cifratura ermetica, è inscritto un termine in nitida calligrafia araba di tipo naskh asiatico...’’

Il senso dell’iscrizione quadrilingue è chiaro: il dilemma di Polifilo è il dilemma dell’umanità intera, e viene giustamente proclamato negli idiomi in cui la sapienza dell’uomo ha dato più alta prova di sé. Solo una mente aperta, avida di letture, desiderosa di dimostrare quanto il cammino dell’individuo fosse simile nei paesi più lontani e sotto i cieli più diversi, poteva ideare un così illuminante esempio dell’universale brama di sapere. Immaginiamo la gioia di Giovanni nello scoprire in un linguaggio straniero i suoi stessi grandi interrogativi e le stesse provvisorie risposte che egli tentava di offrire al mondo e alla Chiesa. La scelta della porta della Mater Amoris assume allora un significato ampio e veramente umanista: la via del cuore corrisponde all’esigenza comune che un affannato cultore dell’intelletto ritenne di trovare fra le pagine dei suoi mille e mille volumi. Fra questi, il mirandolano conservava certamente un Corano in arabo, uno in latino e uno in ebraico. Così si giustificano gli assidui studi presso l’ebreo cretese Elia del Medigo, i primi interessi cabalistici mutuati da Yohanan Alemanno, l’incontro con Flavio Mitridate, ovvero il siciliano Guglielmo Raimondo Moncada, capace di insegnargli nuovi modi di intendere le voci che cercavano Dio.

Il sogno e la vita: la seconda parte del romanzo

Per riassumere i risultati che abbiamo fin qui delineato, occorre innanzitutto ricordare l’idea cardine della nostra interpretazione. L’Hypnerotomachia non è né vuole essere un’opera compiuta, chiusa, terminata: si tratta invece di un romanzo potenzialmente infinito che scorre accanto ad una produzione letteraria più facilmente delimitabile, benché situata entro orizzonti vastissimi e universali. Per cogliere il senso di questa diversità di intenti è necessario che il lettore accetti di trovarsi di fronte al frutto giovanile di un grande ingegno. Tale constatazione si impone nel momento in cui si prende in esame seriamente la seconda sezione del Polifilo, che ha sempre provocato nei commentatori un notevole imbarazzo.

Saltano agli occhi le profonde differenze strutturali e tematiche fra le prime e le ultime pagine del libro, in cui predomina la voce della stessa Polia, pronta a raccontare i primi passi del grande amore che legò fatalmente i due giovani. La complessa avventura esistenziale della prima parte cede spazio ad una novella, abbastanza farraginosa, non priva di riferimenti cronologici e caratterizzata dal perenne conflitto tra la potenza di Diana e quella di Venere, fra la castità e la passione. Mancano completamente le digressioni architettoniche, mentre il paesaggio spirituale, così bizzarramente tratteggiato negli altri capitoli, si trasforma in un luogo assai terreno, situato nella grande pianura padana, probabilmente nei pressi di Treviso. Ma la narrazione non guadagna in realismo, poiché si mantiene schematica e quasi metafisica, descrivendo ambienti a metà fra il convento e il tempio, e disperdendo la propria compattezza in una serie di episodi e visioni che frammentano il progetto generale. Inoltre, si impone una elementare considerazione statistica. La seconda parte corrisponde quantitavamente al diciotto per cento del totale, e contiene il dieci per cento delle illustrazioni; ma il numero di vocaboli ‘stravaganti’ qui impiegati ammonta solamente al sette per cento del numero complessivo; l’ottantuno per cento di neologismi sta nei primi capitoli, e il dodici per cento equivale a termini riscontrabili in ambedue le sezioni.

Questa arida rassegna di cifre porta a una deduzione significativa. La rievocazione dell’incontro, dell’innamoramento e dell’unione fra Polifilo e Polia costituisce quasi certamente il primo nucleo dell’Hypnerotomachia, un abbozzo riadattato e reinserito quando il romanzo trovò il suo assetto definitivo. Infatti, l’autore del libro nel suo complesso è certamente unico, perché costante risulta il nodo della passione amorosa e il tipo di invenzione linguistica. Ma, invertendo le due parti, le anomalie e discrepanze diventano più facilmente spiegabili. Il soggiorno giovanile di Pico a Padova giustifica la cornice veneta e la descrizione della campagna trevigiana, luogo edenico e ricco di reminiscenze cortesi, forse vera patria di qualche gentile dama amata dal filosofo in erba. La precocità letteraria del Conte di Concordia e il suo desiderio di cimentarsi in modo inedito nell’universo narrativo - alla maniera di un Boccacio non correttamente assimilato - si traduce negli esperimenti stilistici di cui queste pagine finali sono ricche. Il mancato distacco dalla materia dà alla figura di Polia una sostanza vitale che altrove è meno netta. L’enciclopedismo del mirandolano non riesce tuttavia ad esprimersi ai livelli che gli saranno congeniali nel periodo fiorentino, così come l’ispirazione neo-platonica appare relativamente debole. In particolare, gli interessi architettonici non si sono ancora manifestati e non vi è alcuna traccia del motivo del viaggio dell’anima, che diverrà poi nucleo fondamentale del Polifilo. Infine, se si leggono ‘al contrario’ i dati che abbiamo sopra esposto, essi si rivelano pienamente compatibili rispetto allo svolgersi temporale dell’ispirazione; altrimenti, dovremmo parlare di un inaridimento della forza creativa, parallelo all’impoverirsi della ‘fabbrica’ linguistica, inaridimento che tuttavia non si riscontra nel tono della vicenda, animato anzi da una maggiore urgenza dei sensi e da una più acerba descrizione del loro manifestarsi.

Così finalmente si comprende la strana cornice del doppio sogno. Uno, quello più interno, corrisponde davvero al peregrinare di Polifilo nei regni della fantasia; l’altro serve semplicemente da contenitore comune delle due sezioni. D’altronde, avendo deciso di conservare il primo abbozzo, era necessario posporlo alla parte ‘adulta’ del romanzo: se avesse occupato le pagine iniziali, il raccontino si sarebbe rivelato di ispirazione troppo incerta, oltre ad eliminare la suspence in merito all’identità della fanciulla amata. In realtà, l’espediente funziona, poiché la discrepanza tanto avvertibile viene attenuata dal fatto che gli ultimi capitoli risultano in definitiva un ricordo evocato da Polia.

L’ipotesi di un diverso rapporto cronologico non è soltanto nostra. Lo stesso Giovanni Pozzi ha scritto: ‘‘La seconda parte non fu dunque concepita come susseguente alla prima: era un racconto preesistente che venne riutilizzato.’’ Quantunque il medesimo studioso abbia in seguito cambiato opinione, ci conforta il giudizio alquanto argomentato di Edoardo Fumagalli: ‘‘Credo, in conclusione, che lo studio dei prestiti apuleiani nel Polifilo rafforzi l’ipotesi di una composizione molto precoce del secondo libro...’’

Il quadro complessivo appare dunque precisabile con una certa chiarezza. Lo spunto iniziale dell’intera Hypnerotomachia si può situare nei due anni accademici che Pico trascorse a Padova, il 1480-81 e il 1481-82. Qui, a contatto con le tradizioni universitarie e con un mélange di numerose correnti culturali, fra cui predomina l’aristotelismo, il giovanissimo pensatore, signorotto di provincia eppure inesausto divoratore di libri, coltivò l’ambizione di fondere in un solo testo la sapienza dell’epoca, basandola tuttavia sulla forza di un amore, reale o immaginario che fosse. Gli esperimenti linguistici tipici del territorio padovano, e in particolare i primi esempi di letteratura maccheronica, congiunti alla conoscenza personale di una serie di personaggi secondari, tutti più o meno dediti alla poesia, irrobustirono poi la sua naturale tendenza ad un’innovazione intellettuale costruita mediante un tessuto di citazioni dotte. Vi è anche da rilevare che in tale periodo non è da escludere una tangenza fra la vita di Giovanni e il tortuoso percorso del frate Colonna, così come non va sottovalutato l’inevitabile impatto dell’umanesimo antiquario veneto sulla fervida fantasia di un ragazzo che tutto voleva conoscere e catturare.

Più tardi, l’esperienza fiorentina permise al mirandolano di incontrare personaggi di caratura ben superiore, e portò ad una radicale trasformazione dell’argomento originario, che rifiorì nella selva sterminata dei riferimenti neo-platonici, sapienziali, esoterici. Forse un’altra donna si sovrappose al pallido fantasma da cui era germinata Polia; sicuramente, la lezione del Poliziano, del Ficino e del Magnifico provocò un’estensione della sostanza narrativa polifiliana, che mantenne comunque il suo caratteristico impasto di parole, concetti, idee. Fra il 1483 e il 1488 il Sogno viene ultimato nelle sue linee essenziali, mentre le speranze del Conte di Concordia svaniscono, una dopo l’altra, per la fiera opposizione al suo generoso progetto di onorare la libertà dell’uomo comparando fra loro tutte le fonti mitologiche, nella grande concordia del sapere e dell’amore. Così, il bizzarro romanzo, nato come una scommessa adolescenziale, si estremizza, divenendo simbolo di una cultura ormai respinta e assediata. Impossibile pubblicarlo o renderlo oggetto di una discussione palese, poiché il terreno si inaridisce e gli anni novanta del secolo si annunciano gravidi di contrasti politici, religiosi, dottrinali. A nostro parere, tuttavia, Giovanni non dimentica completamente l’Hypnerotomachia, e continua a migliorarla, a rifinirla, a complicarla. Come in un gigantesco imbuto, qui finiscono le sue letture, che ormai non riescono più a divenire elementi di un dibattito pubblico. Così, la morte coglie Pico non del tutto impreparato; niente affatto incline agli estremismi di Savonarola, egli ha ormai deciso di dedicarsi ad opere di più intenso contenuto religioso, pronto a ritirarsi in un isolamento quasi ascetico.

Non gli appare necessario dare una struttura coerente al Polifilo, e il tempo d’altronde manca: il libro resta ad uno stadio incompleto, come un piccolo Golem di vocaboli, un esperimento che non è giunto al suo termine, un brogliaccio raffinato capace di accompagnare fedelmente l’esistenza travagliata di un uomo, mentre le biblioteche dei codici medioevali e quattrocenteschi iniziano a riversarsi nelle tipografie moderne.

Discontinuità di un’epoca e di una famiglia

I tentativi di precisare con esattezza la data limite di stesura dell’Hypnerotomachia hanno sempre incontrato gravi difficoltà. Secondo Pozzi, l’espressione molorchia clava, riferibile ad un episodio mitologico minore in cui Molorco presta la sua clava ad Ercole per uccidere il leone nemeo, dimostrerebbe che lo pseudo-Colonna ultimò il romanzo pochissimo tempo prima della sua stampa, poiché solo un codice di commenti all’Aratea di Germanico, scoperto da Manuzio e amici in Sicilia nel 1499, recherebbe questa rara notizia. Si tratta però di un’affermazione difficilmente sostenibile: il dettaglio può essere apparso anche altrove, e non è comunque escluso che i curatori del Polifilo intervenissero fino all’ultimo su alcuni passi dell’opera allo scopo di impreziosire ulteriormente il già sovrabbondante tessuto di citazioni. Questa problematica, tuttavia, ci introduce alla ben più importante questione che riguarda l’intervallo fra la morte di Giovanni e la celebre edizione del libro. Sono cinque lunghi anni in cui vengono prese due importanti decisioni: rendere pubblico il Sogno e conservare un assoluto anonimato in relazione al suo estensore.

Pico, Poliziano, Lorenzo sono scomparsi; Savonarola è stato suppliziato, Ficino muore proprio nel 1499. Senza bisogno di invocare complotti o di allestire macchinose ricostruzioni, si può affermare senza timore di smentite che un’epoca intera termina nell’ultimo decennio del secolo, lasciando campo aperto all’età della Riforma e della Controriforma. Scrive Ioan Couliano: ‘‘La cultura del Rinascimento era una cultura del fantastico. Concedeva un enorme peso ai fantasmi prodotti dalla sensibiltà interiore, e aveva sviluppato fino all’estremo la capacità umana di operare attivamente sopra e mediante questi fantasmi, creando un’intera dialettica dell’eros... In sostanza, la Riforma produsse una censura radicale dell’immaginario, trattando i fantasmi alla stregua di idoli prodotti dalla sensibilità interiore...’’ Così, quell’apoteosi della fantasia in cui l’Hypnerotomachia si risolve diviene altra cosa rispetto alla prima intenzione del suo ideatore. Costruito come una ricerca appassionata dell’anima celeste, il Polifilo si trasforma nel testamento di una confraternita misteriosa e inesistente, poiché le sue premesse letterarie e dottrinali non appartengono più all’orizzonte spirituale del periodo in cui il testo viene effettivamente alla luce. Lo scrittore scompare dunque in due diversi modi, benché risorga immediatamente sotto mentite spoglie. Dal canto suo, il racconto conoscerà un destino di continuo fraintendimento, come spesso accade quando un brutale richiamo all’ordine interrompe il libero vagare della mente, lasciando dietro di sé un rimpianto inconscio. Interpretato di volta in volta come l’allucinazione di un bizzarro frate o il resoconto a chiave di una ricerca alchemica, il volume edito da Aldo sarà glorificato a sproposito per le illustrazioni che lo accompagnano, frettolosamente attribuite a sommi artisti del Quattrocento, quali Mantegna, Leonardo e Bellini.

In realtà, se si vuole comprendere appieno il momento di cesura che separa la grande stagione del neo-platonismo fiorentino dalla travagliata crisi in cui lo spirito dell’umanesimo troverà la sua fine, occorrerà consultare l’illuminante saggio di Stanley Meltzoff intitolato Botticelli, Signorelli and Savonarola. Qui, attraverso l’analisi di un quadro - la Calunnia di Apelle di Sandro Botticelli - si esplorano le ragioni e le modalità di una catastrofe, che vide l’universo cristiano e pagano del Poliziano, del Ficino e del Magnifico soccombere di fronte all’incisiva e ossessiva predicazione di Savonarola. Secondo lo studioso, la Calunnia conterrebbe appunto un accorato monito rivolto da un gruppo di ingegni al giovane Piero de’ Medici, il figlio dello scomparso Lorenzo: non presti ascolto alle parole del domenicano, la cui voce tende ad annullare ogni altra e a provocare la rovina di Firenze. In tal senso, pur con tutte le precauzioni del caso, sarebbe possibile tracciare un parallelo fra la Calunnia medesima e l’Hypnerotomachia, ambedue opere-limite, ricche di citazioni, struggenti e perdenti. Certo, anche in questo caso il ruolo di Giovanni rimane ambiguo, poiché senza dubbio egli vide in Girolamo un possibile alleato, un utile avversario del malcostume ecclesiastico, un’intelligenza eccellente e determinata.

Probabilmente non sapremo mai quali fossero i loro veri rapporti nel cruciale 1494. Desta comunque profonda impressione rileggere il testo della Lamia, la prolusione di Poliziano ai propri corsi del 1492-93: la difesa appassionata della filosofia e l’attacco rivolto contro le streghe, le lamie appunto, in cui si ravvisano facilmente i detrattori dell’aureo tempo mediceo, costituiscono la disperata replica all’Apologeticus de ratione poeticae artis, redatto dal frate nel 1491. Fu questo un devastante tentativo di radere al suolo la Theologia Poetica quattrocentesca, scagliando l’anatema contro i suoi seguaci: ‘‘Hanno abbandonato la semplicità dei testi sacri e, alterando la parola di Dio, hanno coperto le pagine di oscurità pretenziose e di vani artifici... Volendo apparire come difensori della fede sono divenuti lupi che attaccano il popolo di Dio... I poeti sono mentitori e fabbricano menzogne... Raccontano favole sugli dei e sugli uomini, piene di passioni e di unioni assurde ed empie... Ma che fanno i nostri principi? Perché non promulgano una legge in cui si ordini che non solo questi poeti siano esiliati dalle città ma che i loro libri e quelli degli antichi, che parlano dell’arte d’amare, delle cortigiane, degli idoli e dell’infetta e abbietta superstizione dei demoni, siano bruciati con il fuoco fino ad essere soltanto cenere?’’ Ecco il livore rabbioso a cui allude la prefazione del Polifilo (ben replicato nel campo opposto dall’acrimonia dei teologi romani), ecco la ragione dei misteri e, forse, della paradossale attribuzione ad un frate domenicano di un incunabolo che sembra corrispondere perfettamente alle peggiori ansie di Girolamo.

Destino e arte vollero che fosse semplicemente impossibile dare un nome all’autore, anche dopo il rogo in cui furono le carni del ferrarese a bruciare, invece dei libri così aspramente maledetti. Mille ragioni lo impedivano: fra queste la più ovvia riguarda il ruolo di Gian Francesco Pico, curatore dell’Opera dello zio, ardente seguace di Savonarola e in ottime relazioni con Aldo, che stampò nel 1501 il suo De Imaginatione dopo avergli dedicato nel 1498 la Grammatica Greca di Urbano di Belluno, usando accortamente queste frasi: ‘‘Poiché pensavo da gran tempo, o Giovan Francesco Pico, di pubblicare sotto il tuo nome qualcuno tra i libri che si stampano per nostra cura, sia per manifestare l’affetto, la venerazione, il rispetto grande che nutro per te - fin da quando eri fanciullo ti avevo caro per l’eccellenza del tuo carattere, e ora divenuto adulto per la tua dottrina e purezza di costumi - sia perché tuo zio paterno era il mio caro Pico - proprio quel Pico, voglio dire, che tutti chiamavano la Fenice per la sua eccezionale erudizione - mi è parso bene incominciare a farlo con queste ottime istituzioni di lingua greca...’’

Ma le Fenici sono abituate a rinascere, anche se la distruzione che devono affrontare è immensa. Al contrario, la vita di Gian Francesco, uomo dotato di mente acuta e di intelletto saldo, è testimone di quanto le vicissitudini storiche influiscano sull’evoluzione filosofica e letteraria dei singoli individui. Quando egli nacque nel 1469 da Galeotto Pico e Bianca Maria d’Este, pochi avrebbero indovinato la sua triste fine. Venne infatti assassinato nel 1533 da un nipote, un altro Galeotto, che per questo crimine scontò un lungo esilio in Francia; a causa di uno dei conflitti dinastici così frequenti nell’Italia delle Signorie, costui lo uccise crudelmente insieme al figlio, mentre pregava dinanzi ad un altare.

Autorevole pensatore a sua volta, Gian Francesco si distinse per uno scetticismo che ad alcuni è sembrato stretto parente dello spirito critico su cui si innesta la scienza moderna. In verità, tale scetticismo ben si conciliava con una professione di fede savonaroliana, poiché implicava il rifiuto della saggezza pagana come guida dell’anima verso il sacro. Fervido ammiratore dello zio, di cui ultimò una biografia assai lacunosa, si allontanò in sostanza da tutti i suoi insegnamenti, scrivendo testi che confutavano con asprezza la filosofia antica. Non mancò tuttavia in lui una buona dose di stimolante ambiguità, che lo portò a interessarsi della fabbricazione dell’oro alchemico o a disquisire brillantemente in merito a quella facoltà umana, la fantasia, a cui frate Girolamo guardava con sprezzante sospetto e collera mal celata.

Ma l’episodio più oscuro della sua esistenza risale al 1523, quando venne perseguitata e distrutta una presunta congrega di streghe che avrebbe tramato nel territorio di Mirandola, officiando una festa rituale chiamata dal popolo Gioco della Donna. Non solo Gian Francesco permise, affiancando l’inquisitore Gerolamo Armellini, che queste povere donne venissero processate, condannate e in parte giustiziate insieme a numerosi ‘stregoni’, contro il parere dello stesso marchese di Mantova (dieci furono le vittime). Egli si assunse anche il compito di giustificare intellettualmente l’accaduto scrivendo un libello, la Strix, tradotto in italiano dal suo amico e collaboratore Leandro Alberti, il domenicano a cui, come sappiamo, si deve una delle primissime notizie riguardanti il legame tra Francesco Colonna e l’Hypnerotomachia. Desiderando trasferire di latino in volgare questa molto laudevole et eccellente Operetta, il frate la intitolò Libro detto Strega o delle Illusioni del Demonio. Il saggio, redatto in forma di dialogo, intende provare in modo incontrovertibile la realtà e la natura demoniaca delle streghe: ‘‘Ti ho infatti dimostrato che gli unguenti, le parole magiche, le dissolutezze, gli amplessi lascivi dei Demoni erano cose note nei tempi passati come oggi, e che essi fin dall’inizio del mondo calunniarono gli uomini, li schernirono, li ingannarono apparendo loro famigliari, usando immagini e simulacri...’’

Queste frasi rivelano il radicale cambiamento di costume che si era prodotto nel volgere di pochi decenni: l’immagine era ormai divenuta un simulacro, uno strumento diabolico, e il desiderio di indagare con occhio cristallino il mondo si era trasformato nell’idea che ogni apparenza fosse nefanda e menzognera. I nemici di Poliziano, da lui chiamati lamie ovvero vampiri, avevano conseguito una vittoria completa e rappresentavano ormai una parte importante dell’establishment culturale. Per curioso contrappasso, però, sembravano condannati a vedere dovunque l’azione del male, costretti ad accanirsi contro la natura, contro il corpo della donna, contro le passioni. D’altronde, già nel 1501 Gian Francesco aveva stigmatizzato la pubblicazione a Bologna della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato a cura di Filippo Beroaldo, poiché opponeva la figura di Cristo ai presunti prodigi di un neo-pitagorico, un volgare mago. Manuzio, che editò l’opera nello stesso periodo, fu costretto a premettere una bugiarda lettera di scuse. Oltre alle consuete difficoltà degli stampatori, l’episodio documenta il crollo di un precario equilibrio, costruito da un piccolo gruppo di persone sul finire del secolo precedente. Essi avevano sposato per un attimo l’immaginazione alla fede, la bellezza all’ardore religioso, la dottrina alla saggezza, sognando di diffondere i più importanti testi dell’antichità e gli studi che a questi si ispiravano. Purtroppo, non era più possibile propagandare esplicitamente il progetto. Così, l’Hypnerotomachia continuò a svettare anonima nel cuore del catalogo aldino, separata e presente.

Da Alberto Pio a Luisa di Savoia

Chi dunque, oltre lo stesso Manuzio, può aver favorito l’ultimo esito dell’avventura polifiliana, restando ovviamente nell’ombra? L’anello mancante è con tutta probabilità da identificare in Alberto Pio, il principe di Carpi che aveva protetto e aiutato Aldo, dopo essere stato suo alunno. Come abbiamo ricordato altrove, l’idea di fondare una moderna stamperia in cui confluissero il sapere degli umanisti e l’abilità di alcuni raffinati artigiani era nata ai tempi del soggiorno dello stesso Aldo nella cittadina emiliana, là dove l’impresa avrebbe dovuto sorgere, se le incessanti lotte fra Alberto e i suoi cugini non avessero reso precaria quella base padana; d’altronde, ne è una prova indiretta l’affermarsi in loco di una tradizione tipografica e di una magnifica produzione xilografica, in cui eccelle il genio di Ugo da Carpi. Alberto III Pio (1475-1531) è una figura di mecenate e di intellettuale assai complessa, in certo modo emblematica dell’Italia rinascimentale minore. Versatissimo in filosofia e in teologia, era imparentato con molte nobili stirpi settentrionali, fra cui citiamo almeno i Gonzaga e gli Este; sua cugina, la colta Emilia del Cortegiano, divenne sposa di Antonio di Montefeltro, fratellastro del Guidobaldo a cui l’Hypnerotomachia è dedicata. Fu nipote per parte di madre di Giovanni Pico della Mirandola, un legame che si sovrappose alla comune origine dei Pico e dei Pio. Uomo di intelligenza acuta ma tormentata, spese gran parte della propria vita in un’intricata battaglia diplomatica volta a garantirsi un dominio solido sulle terre natali. L’inimicizia dei parenti gli impedì di raggiungere completamente tale obbiettivo, e lo costrinse infine a morire all’estero, presso la corte di Francia. Egli riuscì comunque a trascorrere diversi anni come legittimo signore insediato nella sua Carpi, compiendo radicali riforme urbanistiche e arricchendo le decorazioni del magnifico castello ricevuto in dono dagli avi, grazie ai cicli di affreschi di Bernardino Loschi e Giovanni del Sega, oltre alle opere di molti altri importanti artisti. Chi percorra oggi le sale, recentemente restaurate, avrà la sensazione di trovarsi di fronte a una replica meno splendida degli ambienti mantovani di Francesco Gonzaga e di Isabella d’Este. Ma Alberto si mosse entro un orizzonte addirittura più vasto, come è documentato dalla sua copiosa corrispondenza. Facendo di necessità virtù, trascorse la sua esistenza intessendo relazioni di altissimo livello, tra la Francia, l’Impero, la Chiesa e le signorie italiane, diventando quasi un ministro degli esteri senza patria, abile nel doppio gioco, veloce nel cambiare indirizzo e punti di riferimento.

Non abbiamo qui il tempo per descrivere la fittissima ragnatela di alleanze che un principe a suo modo disperato si dedicò a comporre, deviando le proprie inclinazioni di straordinario umanista. Basterà rammentare la predilezione per i colori transalpini, motivata anche da una bizzarra circostanza: nel 1450, dopo uno spericolato mutamento di alleanze compiuto da Alberto II, nonno del nostro, la famiglia intera aveva ottenuto dai Savoia il privilegio di fregiarsi del prestigioso cognome. Occorrerà inoltre notare il suo atteggiamento filo-mediceo, dimostrato nel 1494 e oggettivamente rafforzato dall’essere il secondo marito della madre, Rodolfo Gonzaga, uno dei capitani anti-francesi nella battaglia di Fornovo, in cui troverà la morte (1495). Tuttavia, Alberto intratterrà ottimi rapporti con i Valois, grazie anche alla mediazione di Gilberto di Montpensier, marito di Chiara Gonzaga: suo capolavoro politico fu ad esempio la conciliazione del 1508 fra Massimiliano d’Asburgo e Luigi XII. Ma la predilezione per i Medici viene confermata dalla lunga amicizia con Giovanni, secondo figlio del Magnifico, salito nel 1513 al soglio papale con il nome di Leone X. Certo, fu praticamente impossibile per Alberto destreggiarsi senza danni fra Carlo V e Francesco I, nonostante quell’astuzia innata che portò un diplomatico spagnolo ad esclamare: ‘‘Il Carpi è un diavolo, sa tutto e si mescola a tutto, l’imperatore dovrebbe gudagnarselo o annientarlo’’ (Lope Hirtado Mendoza). La rovina finale dell’Italia coincise con la disfatta del principe letterato: all’epoca del Sacco di Roma (1527) Carpi venne definitivamente perduta, e iniziò per lui il lungo esilio di Parigi, dove ancor oggi si può ammirare il suo monumento funebre, conservato nel Museo del Louvre e attribuito a Rosso Fiorentino.

Tornando ora alla formazione intellettuale del nipote di Giovanni Pico, è opportuno sottolineare la sua amicizia con Ariosto, Bembo e Poliziano, le relazioni con uomini di vaglia quali Pomponazzi e Sepúlveda, la polemica anti-erasmiana degli ultimi anni, la costruzione di una grande biblioteca in cui erano accolti Aristotele, Platone, Plutarco, Orapollo, Tolomeo, Archimede, Ippocrate, Euclide, oltre a testi ebraici, medioevali, latini. I suoi interessi culturali e il pensiero che da questi deriva sono suscettibili di molti approfondimenti, poiché Alberto era una personalità problematica che univa alla passione per la tradizione classica una sensibilità religiosa estremamente viva, con una particolare accentuazione di certa dottrina eucaristica. Numerose sono le prefazioni che Manuzio gli dedicò, e fondamentale risultò il suo apporto per la creazione a Venezia dell’Accademia Aldina; tanto intenso fu il legame fra i due che Aldo ebbe in dono dal compagno fraterno il cognome Pio, e si firmo così Aldo Pio di Carpi, manifestando anche il desiderio d’essere sepolto nella città padana.

Si può affermare con sicurezza che il Signore emiliano seguì un percorso simile a quello dell’amato zio Giovanni, accanto al cui letto di morte sedeva, coniugando con originalità e in tempi ancora più difficili la fede in Dio e la fede nell’uomo. L’emblema scolpito sopra una sua medaglia ne sintetizza il carattere: qui appare un’ara antica recante la scritta UNI, all’unico, sormontata da un ariete sacrificale in fiamme. Nell’ultimo decennio del quattrocento è quindi da supporre una sua adesione al programma fiorentino della Theologia Poetica, che ben si concilierebbe con un impegno rivolto alla cura dell’Hypnerotomachia.

Abbiamo una traccia puntuale del suo interesse in merito. Nel grande cortile del Palazzo di Carpi, un elegante porticato (1509-1523) offre allo spettatore una rassegna di mensole e capitelli che ospitano le imprese del Principe. Fra loro, alcune sono davvero significative per il nostro studio. Una remora avvinghiata ad una freccia e un’ancora con le iniziali A. P. si ispirano evidentemente al celebre marchio di Manuzio, l’ancora con il delfino, usato a partire dal 1502, che a sua volta giunge direttamente dalle pagine del Polifilo, per l’esattezza dal recto del foglio d7. Si tratta dell’immagine commentata dal motto Semper festina tarde, affrettati sempre lentamente, un monito rivolto agli intellettuali affinché non compiano passi imprudenti ma camminino spediti e sicuri verso la loro meta, e contemporaneamente un ironico invito allo stampatore medesimo che, come sempre avviene, sembra in ritardo rispetto alle scadenze stabilite. Lunga è la storia di questa impresa, a partire dal motto, particolarmente gradito ad Augusto imperatore. L’ancora (la lentezza) e il delfino (la velocità) apparvero poi in alcune monete di Tito e Domiziano, ma vengono citati, insieme al loro significato, nella fondamentale lettera di Manuzio ad Alberto del 14 ottobre 1499. Qui appunto Aldo prende l’emblema a sua difesa: Nam et dedimus multa cunctando et damus assidue. Nel 1508 proprio Erasmo racconterà negli Adagia come Aldo gli avesse mostrato una moneta d’argento romana donatagli dal Bembo, con i simboli accompagnati dalla scritta in greco. Dettaglio essenziale, Erasmo interpreta l’ancora e il delfino alla stregua di caratteri geroglifici, esattamente nello spirito dell’Hypnerotomachia. Come osserva Pozzi, tale episodio smentisce recisamente chi ritiene che Aldo sia rimasto del tutto estraneo alla preparazione del Sogno di Polifilo. Tale episodio, aggiungiamo noi, unito alla lettera del 1499 e alle decorazioni carpigiane, dimostra anche un intervento da parte di Alberto Pio. La remora (lentezza) e la freccia (rapidità) rappresentano infatti la trasformazione invertita dell’immagine originaria, e l’ancora polifiliana reca addirittura la cifra del nostro. Ma c’è dell’altro: una diversa xilografia del Polifilo presenta una tartaruga in mano a una donna che tiene nella destra un paio di ali. L’enigma viene svelato dalla frase Velocitatem sedendo, tarditatem tempera surgendo (modera la velocità sedendo, modera la lentezza alzandoti), che di nuovo allude all’equilibrio fra opposti ritmi. Così, un’altra mensola del palazzo evidenza un paio d’ali che sorreggono una corda attorcigliata, chiaro richiamo all’esigenza di contemperare gli estremi, il desiderio di alzarsi in volo e la capacità di risolvere il difficile intreccio dell’intelletto e della vita.

Questo gruppo di simboli ci dà modo di compiere un ulteriore passo. Le ali e il nodo erano una peculiare divisa di Luisa di Savoia (1476-1531), madre di Francesco I re di Francia e di Margherita di Navarra, l’autrice dell’Heptameron. Luisa fu una donna intelligentissima e scaltra: figlia di Filippo di Bresse, detto Senza Terra, riuscì a farsi strada nella corte dei Valois grazie al matrimonio di Luigi XI con la zia Carlotta e alla protezione di Anna, sorella di Carlo VIII e reggente dello stato per qualche tempo. Accolta nel castello di Amboise, in cui lavorarono più tardi gli architetti Domenico di Cortona e Fra’ Giocondo, andò sposa giovanissima (1488) a Carlo d’Orleans,appartenente a un ramo cadetto della famiglia reale. Alla morte del marito, un simpatico libertino, tentò con ogni mezzo di promuovere le sorti del piccolo Francesco, nato nel 1494. Riuscì infine nell’intento, poiché egli salì al trono nel 1515, approfittando delle nozze con Claudia, figlia di Luigi XII, rimasta senza fratelli. Luisa fu sempre amica dell’Italia, scegliendo di vivere insieme alla prole nella dimora di Amboise, dove l’arte italiana era di casa; ma le sue relazioni non furono soltanto intellettuali, se è vero che la sorella Filiberta sposò Giuliano de’ Medici, figlio del Magnifico. Un episodio assai interessante, a lei indirettamente collegato, ci può essere d’aiuto per comprendere gli avvenimenti successivi.

Alla fine del 1487, Giovanni Pico della Mirandola era fuggito in Francia per evitare l’arresto dopo la condanna papale delle sue Conclusiones. Questo viaggio avventuroso è ricco di ombre e di eventi non spiegati: nel Delfinato, il giovane venne raggiunto proprio dagli uomini di Filippo di Bresse. Iniziò allora uno strano balletto di ordini e di contrordini, da cui si può desumere che i governanti transalpini cercarono con ogni mezzo di soccorrere Pico, intralciando i messi pontifici che lo accusavano di eresia. Ludovico Sforza e Gilbert de Montpensier perorarono appassionatamente la sua causa di fronte al re. Così, quando Filippo e Giovanni arrivarono a Parigi nel febbraio del 1487, il filosofo fu imprigionato a Vincennes, ma gli inviati del Papa non riuscirono a impadronirsi di lui. Essi accusarono addirittura il cancelliere del Senza Terra di aver provocato a bella posta una serie di malintesi. In realtà, Giovanni si sentiva molto più sicuro nella capitale francese, e temeva di ritornare in Italia e a Roma. Quando i messi furono costretti a partire, pressati dall’urgenza di altri affari, la questione si sbloccò velocemente: il Conte di Concordia fu condotto ai confini del regno nella prima settimana di marzo. Passando dalla Savoia, arrivò a Torino recuperando rapidamente la protezione del Magnifico. Innocenzo VIII era stato beffato, e in queste schermaglie Filippo di Bresse aveva giocato un ruolo importante.

Non sappiamo se la figlia del Savoia avesse in tale circostanza conosciuto la Fenice degli Ingegni. Certo, è impressionante il numero di riferimenti al Polifilo che, a partire dal primo decennio del Cinquecento, caratterizza la produzione letteraria rivolta alla cosiddetta Dame Prudence. Qui si manifesta il medesimo gusto enigmistico che pervade le pagine dell’edizione aldina. Il canonico François Demoulins, precettore del piccolo Francesco, compone nel 1505 ad Amboise un trattato sulla follia del gioco e lo dedica a Luisa; fra le illustrazioni troviamo una Calunnia d’Apelle modificata, che ammonisce il lettore a seguire le Virtù, riunite alla corte di Prudenza. Ancor più significativo è un altro manoscritto dello stesso autore, il Fr. 12247, databile intorno al 1509, in cui appare un acrostico con il nome LOISE; molte immagini, dipinte da Robinet Testard, sono chiaramente derivate dall’Hypnerotomachia. Evidentemente, un esemplare del libro era giunto assai presto ad Amboise; dal castello partì la diffusione dell’opera negli ambienti aristocratici francesi, che in breve trasformarono la prosa polifiliana in un vero e proprio mito. Da Ian Martin a Jacques Gohory, a Béroalde de Verville (... vi chiarirò parte dell’intendimento dell’Autore... Egli era Filosofo speculativo e un Intelletto trascendente e ricco di bellissime fantasie...), si compie nel corso del sedicesimo secolo un processo di assimilazione del romanzo, inteso come un saggio di sapienza universale dalle forti risonanze alchemiche. Né si può dimenticare l’incontro ideale fra lo pseudo-Colonna e François Rabelais, che utilizza al limite del plagio molte descrizioni contenute nel testo d’oltralpe per abbellire il suo Gargantua e Pantagruel.

Tornando a Demoulins, già la prima miniatura del manoscritto sulle Virtù Cardinali mostra una combinazione di simboli tratti dal Sogno: ammiriamo François mentre verga la sua opera, in equilibrio instabile sopra un globo adorno di ali (vedi il foglio e5 r del Polifilo), che a sua volta è l’albero di una navicella avvinta al terreno grazie ad un’ancora a cui si stringe un delfino. Proseguendo, scopriamo la Prudenza, raffigurata con i tratti somatici di Luisa di Savoia, che tiene da un lato un compasso e dall’altro un medaglione, esatta replica della xilografia del foglio p6 r del Polifilo, accompagnata dalla scritta Iustitia recta amicitia et odio evaginata et nuda, et ponderata liberalitas regnum firmiter servat. Molte altre sono le allusioni agli enigmi aldini: citiamo ad esempio il mausoleo costruito da Artemisia per Mausolo (r4 r), che diviene nelle carte francesi il baldacchino su cui siede la Temperanza. Interessante è anche l’immagine in cui la Cautela smaschera un monaco, sul cui petto svela le parole 100.000 trudaynes, centomila inganni.

Il precettore di Francesco aveva certamente un valido motivo per trasformare le peripezie amorose dell’Hypnerotomachia in una serie di quadretti morali destinati a istruire i giovanetti che gli erano stati affidati, presentando contemporaneamente Luisa come l’esperta nutrice che in effetti fu, donna solitaria attraverso cui passarono le sorti di una nazione intera. In realtà, la signora di Savoia volle adottare l’impresa dell’ancora e del delfino. In un manoscritto più tardo, Demoulins immagina che ella esclami, rivolta al figlio: ‘‘Mio signore, mio difensore, mio riposo, mio desiderio, mio maestro, mio figlio e mio amico, festina lente...’’ Non possiamo addentrarci nel complesso mondo della corte di Francia, dei suoi miti dinastici e dell’ossessione di Francesco I per alcuni motti-chiave. Ci basterà osservare come le ali polifiliane (ail in lingua francese risulta omofona alla lettera L) divengano per Luisa un emblema prediletto, completato dal classico nodo della tradizione sabauda, esattamente come vediamo nel palazzo di Carpi. Nel Libellus Enigmatum del solito Demoulins scopriamo inoltre tre cuori uniti alle scritte Unum immotum, Unum fixum, Unum continuum. Queste frasi, associate alla frequenza con la quale si presentano fiamme e are sacrificali nella storia dei Borbone e dei Valois, ci ricordano infallibilmente la medaglia di Alberto Pio.

Sembra dunque che, al di là della lunga permanenza a Parigi di Alberto e di Galeotto Pico junior, un misterioso filo colleghi personaggi fra loro assai lontani. Questo filo corrisponde al libro pubblicato nel 1499, di autore sconosciuto, e tuttavia rapidamente apprezzato in terra transalpina. Come un sasso che sprofonda nell’acqua creando cerchi concentrici, l’eco di un ingegno perduto produce effetti notevoli e singolari. Nella XIX novella dell’Heptameron di Margherita di Navarra, un gentiluomo e una damigella di nome Poline vivono una grande e infelice passione presso i Gonzaga, al tempo di Isabella d’Este. Entrambi, vista l’impossibilità di un matrimonio, decidono di entrare in convento, separandosi ma restando simmetrici nel desiderio sovrumano. Il racconto viene commentato da una bella canzone, i cui versi conclusivi suonano: ‘‘Vieni dunque, amica mia, / non tardare / a seguire il tuo più caro amico. / Non temere se vestirai / l’abito di cenere, fuggendo / da questo mondo nemico. / Perché, per l’amicizia forte e viva, / da questa cenere sorgerà di nuovo / una Fenice eterna. / Così come al mondo apparve / pura e monda la nostra perfetta intesa, / così chiusi nel chiostro / potrà sembrare ancor più vera. / Perché l’amore sincero e saldo, / che non conosce mai morte né fine, / diritto al cielo ci condurrà.’’

Si tratta di una curiosità, forse non attinente al nostro discorso. Eppure ci introduce all’ultimo argomento, il riassunto dei sogni di uno scrittore nascosto.

Nodi non sciolti e conclusioni aperte

La tesi che abbiamo fin qui tentato di dimostrare non pretende d’essere immune da difetti o debolezze. Tuttavia, poiché è evidente che il Polifilo è stato costruito come enigma, risulta assai difficile avvicinarsi ulteriormente alla verità. Confutare il mito di frate Francesco Colonna è relativamente agevole: basta affermare che il COLUMNA dell’acrostico non è un cognome ma la parola colonna, all’ablativo o al nominativo. Compiuto tale mutamento di prospettiva, il castello di congetture relative al domenicano crolla, sia che si voglia identificare Francesco in Francesco Griffo, sia che gli si attribuisca valore di pseudonimo.

Sull’altro versante, non esistono ostacoli insuperabili che portino a negare la paternità di Pico della Mirandola. Il suo soggiorno a Padova nel 1481 e nel 1482 può giustificare l’infatuazione per una trevigiana, il neo-platonismo dimostrato nell’opera è ampiamente compatibile con il pensiero ‘fiorentino’ di Giovanni, l’accentuazione del tema del libero arbitrio, la presenza dell’arabo e dell’ebraico, l’uso coerente di raffinate citazioni, l’esasperata attenzione nei confronti del linguaggio, l’inflessione settentrionale, l’ampiezza universale degli interessi e l’ardente passionalità sono tutti elementi che si adattano perfettamente alla sua figura. Perfino le misteriose date del 1462 e del 1467 (le uniche contenute nelle pagine aldine), pur non conciliandosi con una reale storia d’amore, rivestono un’importanza oggettiva nel quadro della sua vita: l’una corrisponde all’anno del concepimento, l’altra alla morte del padre, cioè al maggior dolore per la scomparsa di una persona cara che egli abbia mai provato. Decisivi sono poi i rapporti con Manuzio, il peso dell’anatema lanciato da Savonarola contro la tradizione antica, il ruolo di Alberto Pio in qualità di intermediario, la concordanza fra gli autori della biblioteca del mirandolano e le fonti utilizzate nell’Hypnerotomachia.

D’altronde, riteniamo che le prefazioni del volume abbiano senso, specialmente quando dichiarano che il libro è stato privato del suo genitore e che il nome di costui non deve essere divulgato, a causa di un minaccioso e rabbioso livore. Tralasciamo di ricordare molti altri particolari da noi già esposti. Ripetiamo soltanto un punto fondamentale: non è credibile che un romanzo di tale mole enciclopedica, di tale complessità e peculiarità sia il frutto di un personaggio secondario, ignoto all’ambiente umanista del tempo, privo di relazioni con Aldo.

Ovviamente, molte obiezioni si possono ancora muovere. Ad esempio, qualcuno affermerà che la qualità del Polifilo è scadente rispetto all’altezza intellettuale di Giovanni, e che le prolisse descrizioni in cui il protagonista si perde mal si adattano alla sublime concisione e all’enorme capacità di sintesi del filosofo. C’è indubbiamente qualcosa di fondato in questa osservazione. Ma dobbiamo eliminare un doppio pregiudizio. Innanzitutto, l’Hypnerotomachia non è un prodotto minore del Rinascimento. Se lo fosse, non si spiegherebbe la sua enorme fama, nonostante le gravi difficoltà di lettura. In verità, ci troviamo di fronte al tentativo fallito di rinnovare la storia letteraria italiana, allestendo un intreccio di nozioni in cui si intendeva raccogliere la sapienza di un’epoca. Un giorno, forse, anche Finnegans Wake di Joyce verrà considerata come un vicolo cieco, una pianta bizzarra, una strada impercorribile e sbarrata. Ma questo non toglie al testo irlandese il fascino tipico di un’impresa estrema, concepita da uno dei più grandi scrittori del Novecento.

In secondo luogo, la mente di Pico era labirintica e ambigua. La sintesi e la concordia a cui egli perviene non giungono per caso, ma rappresentano l’esito di un intricato cammino attraverso il sapere del mondo. Giovanni non scrisse mai un libro simile all’altro, né per la forma, né per il contenuto. Inoltre, egli era solito seguire percorsi divergenti, convinto che ogni contraddizione si risolvesse nella più vasta bellezza celeste. Amava Lorenzo e amava Girolamo. Amava le donne e amava la sapienza. Volle scuotere la Chiesa dalle fondamenta, pur dedicandosi a puntigliose analisi dottrinali. Compose sonetti petrarcheschi, elegie erotiche, meditazioni ascetiche sui libri della Bibbia. Redasse il proprio oroscopo in versi e confutò gli astrologi. Considerò gli arabi, gli ebrei, Zoroastro e Orfeo come portatori di profonde verità. Si aggirò nei meandri della mitologia pagana, come Botticelli e Poliziano. Biasimò la retorica, e ricamò ineguagliabili esercizi di stile. Si rifugiò nella solitudine, ma conosceva i regnanti d’Europa. Non ebbe mai un padrone, poiché stimava che la grandezza dell’uomo risiedesse nel libero arbitrio, la virtù camaleontica di riflettere l’universo, interpretandolo e soffrendolo. Ebbe il massimo rispetto per gli antichi, ma cercò con ardore il nuovo.

Rimane tuttavia molto lavoro da compiere. Occorre specialmente esaminare il periodo successivo all’edizione aldina, e la ricezione di questa in Francia, a Padova e nelle corti padane. Sembrano assai interessanti i legami con Mantova: qui viveva l’Equicola, qui Giambattista Pio aveva rapporti con Isabella d’Este. Contro di loro si scaglia un anonimo, che nel Dialogus in lingua mariopionea perfeziona una satira del latino concettoso. Nell’opuscolo Epistola eloquentissimi oratoris ac poetae clarissimi D. Marii Aequicolae in sex linguis si compie poi un secondo sberleffo indirizzato ai pensatori ‘alla Polifilo’, sottintendendo che tale moda era in voga presso gli intellettuali vicini ai Gonzaga. Più in generale, andrebbe esplorato tutto un sottobosco di letterati minori, dediti all’imitazione e all’amplificazione del modello maggiore.

Per concludere, riportiamo le parole con le quali Ficino descrisse in una lettera del 1488 il suo giovane amico: ‘‘... il nostro Pico ha un vigore di fuoco e una celeste origine... I teologi han detto di Saturno che è voracissimo, e Pico, nato da Saturno, divora quotidianamente interi grossi volumi, così come quel Saturno divora i figli; però Pico non fa questo per ridurli in cenere, come il fuoco comune, bensì per ridurli in luce, come fa il fuoco celeste.’’ Il medesimo Giovanni confidò nel 1492 al nipote Gian Francesco: ‘‘Vorrei dirti nel più assoluto segreto: terminati alcuni lavori, distribuirò ai poveri i beni e, munito del Crocefisso, andando pellegrino a piedi scalzi nel mondo, predicherò Cristo attraverso paesi e città.’’ Questa dichiarazione fece supporre la sua futura adesione all’ordine francescano: di Francesco d’Assisi egli citava spesso il motto L’uomo tanto sa quanto opera.

Così, ci si dimentica spesso che il Sogno di Polifilo è la rievocazione di una perdita senza fine. Solo una mente profonda è in grado di ritrarre il dolore e il fallimento con mano ancora ferma, confidando nel valore assoluto del ricordo, specchio in cui si rivede il cielo.

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