Il Sogno di Pico

Pico, l’amante

a cura di Giovanni Pasetti

Me vatem, si sum, fecit me Pleona: plectrum

Illius est oculus, sum lyra, pulsat amor.

Se io son vate, lo devo a Pleona: il suo sguardo

è il plettro, io son la cetra, e amore suona.

Se di Giovanni Pico restano proverbiali l’ingegno acuto e l’eccezionale capacità mnemonica, meno note risultano la grazia e la bellezza del suo aspetto, la cui fresca impronta giovanile contrastava con la profondità intellettuale del personaggio. Così scrive Gian Francesco Pico della Mirandola nella Vita dedicata al grande zio: Forma autem insigni fuit et liberali; procera et celsa statura; molli carne; venusta facie in universum; albenti colore decentique rubore interspersa; caesiis et vigilibus oculis; flavo et inaffectato capillitio; dentibus quoque candidis et aequalibus... Traducendo al meglio: ‘‘Fu di figura nobile e distinta; ebbe statura slanciata e diritta, carnagione delicata, volto bello in generale, insieme pallido e soffuso di rossore, occhi chiari e vivaci, capigliatura sciolta e bionda, denti bianchissimi e regolari.’’ Un angelo, insomma; e ci piace sottolineare il colore degli occhi, non azzurri come altri hanno inteso, poiché al posto di caeruleus troviamo caesius, aggettivo di difficile resa che allude innanzitutto alla brillantezza di uno sguardo in cui l’iride si rischiara muovendo verso un verde acceso da riflessi grigiastri.

A tale fisionomia corrispondeva un carattere per nulla timido, votato al sapere, alla libertà, all’amore. I moti dell’anima di Giovanni furono sempre improntati verso una duplice direzione, verso un doppio scopo, verso un’esplorazione di territori opposti, da conciliare poi grazie a quello spirito di concordia universale che intendeva abbracciare in sé Aristotele e Platone, la cabala e la Chiesa, Venere celeste e Venere terrestre. Lontano dalle meschinità del mondo e dalle prepotenze dei governanti, ma pronto a correre, specie nella prima parte della giovinezza, rischi amorosi che più tardi la letteratura avrebbe definito romantici. Pico fu, è bene ricordarlo, uomo dalle molte passioni, anche carnali. Certamente prima dell’anno 1486, che a ragione può essere considerato momento di svolta traumatica della sua esistenza, per la pubblicazione decembrina delle Conclusiones a cui seguì, invece di un pubblico dibattito, l’inattesa e dolorosa condanna pontificia; ma anche molto più tardi, se corrisponde al vero la voce savonaroliana secondo cui l’anima del Conte di Concordia avrebbe dovuto trascorrere parecchio tempo in Purgatorio, a causa di una relazione illecita con una donna ferrarese non meglio precisata.

Analizzando la biografia del principe mirandolano, emblematico intellettuale del Rinascimento, non è lecito dimenticare che egli fu a pieno titolo uomo della sua epoca; non disdegnò dunque di attraversare sentimenti terreni, concreti e vivi, proprio in nome del desiderio d’esperienza e di indipendenza che rappresenta la costante dell’intera sua opera. Naturalmente, questo gli provocò più di un rovello; e lo spinse a distruggere quasi totalmente le elegie in latino, in cui venivano inseguiti fantasmi affascinanti di persone diverse, da cui il suo cuore mutevole era inevitabilmente sedotto.

Con una punta di cinismo, Angelo Poliziano e Marsilio Ficino sorrisero di alcuni comportamenti scapestrati dell’amico. Meglio di altri, Lorenzo il Magnifico comprese quanto fosse presente nel suo animo una forza che spingeva ogni azione alle estreme conseguenze; perché l’equilibrio non nasceva mai da un compromesso, ma era il frutto di un’invisibile armonia divina capace di riunire potenze assolutamente contrapposte.

Nato nell’ambiente più adatto agli amori cortesi, Giovanni conobbe le cortigiane, le nobildonne e le fattezze gentili di molte Laure e Beatrici. Cantandole nei modi dei poeti antichi, del cugino Boiardo, dell’ammirato Petrarca, egli tuttavia cercava qualcosa di più, oltre lo Stil Novo e il giovane Dante, oltre il medesimo Lorenzo, che pure era abituato agli amori focosi e al diletto. Fra i molteplici nomi creati dalla sua fantasia per celare la vera identità delle fanciulle - Pleona, Fillide, Taide, una Chiara pallida e bionda - egli inseguiva la verità di un sogno, l’altrove del desiderio. Il severo Gian Francesco condannò frettolosamente l’intero genere femminile, lascivo e calcolatore, ricordando che ‘‘molte donne si erano accese di lui, per la sua bellezza, la grazia dell’aspetto, il sapere, il ricco patrimonio, la nobile famiglia.’’

Una simile linea di gratuita difesa, grottesca e un poco meschina, venne seguita dagli zelanti biografi del Conte anche per ridimensionare l’episodio aretino del maggio 1486. Pico, viaggiando da Firenze verso Roma, incontrò ad Arezzo Margherita, moglie di Giuliano Mariotto dei Medici, lontano parente del Magnifico e gabelliere della città. È certo che la donna, probabilmente già innamorata di lui, si unì alla carovana di servi e compagni; nacque un putiferio, e uno scontro armato in cui parecchi uomini rimasero uccisi. Il colpevole del presunto rapimento venne immediatamente incarcerato, finché l’intercessione del signore di Firenze non riuscì a salvarlo dalla prigione e da un supplizio ancora peggiore. In una lettera ad Andrea Corneo Giovanni tentò di giustificare l’accaduto scrivendo che ‘‘nulla è più debole dell’uomo, nulla è più potente dell’amore’’. Ma la sanguinosa avventura gettò un’ombra cupa sulla sua fama immacolata; egli stesso dovette riflettere a lungo sulle conseguenze dei moti impulsivi del cuore quando redasse, nel medesimo periodo, il Commento alla Canzone d’Amore di Girolamo Benivieni: ‘‘Dopo Dio comincia la bellezza, perché comincia la contrarietà sanza la quale non può essere alcuna cosa creata... perciò è detto da’ Poeti che Venere ama Marte, perché quella bellezza la quale si chiama Venere... non sta sanza quella contrarietà...’’ L’esperto Ficino tentò abilmente di scusarlo redigendo un breve racconto che si basa proprio sull’opposizione costante fra Venere e Marte. Qui si definisce Pico eroe ingegnoso e bello, nato sotto Mercurio e Venere; egli volle strappare dalle mani degli uomini la ninfa Margherita, a sua volta figlia di Apollo e Venere. Nymphae enim ut scis divina lege heroum coniuges sunt non hominum... ‘‘Le ninfe, come sai, per decreto divino vanno spose agli eroi, non ai mortali.’’ Ma il dio della guerra e le sue furie intervennero all’improvviso e, approfittando dell’ignoranza del volgo, completamente ignaro della volontà celeste, spezzarono la gioia dell’abbraccio mistico.

Marsilio dimenticò che il rischioso incontro erotico non rappresentava affatto un caso isolato nella vita del Conte, che spontaneamente narra nell’elegia sesta, una delle poche giunte fino a noi, un momento boccaccesco e curioso. Tutto è pronto per un convegno d’amore, e il giovane poeta si affretta di notte verso la casa della diletta, una donna di illustri natali, onorata da due fratelli che militano valorosamente servendo la patria. Tuttavia, giunto nei pressi della dimora, lo sfortunato protagonista viene assalito da una schiera di armati, e rischia seriamente d’essere ucciso, poiché qualcuno ha intercettato le lettere consegnate ad un’ancella affinché facesse da mezzana. Gli uomini gli intimano di sposare la fanciulla, o di pagare con il sangue l’oltraggio inferto alla famiglia: rapidamente Pico si districa, come una nave tra Scilla e Cariddi. Fuggendo lontano, si compiace del pericolo scampato, ma ammonisce gli amici: piuttosto di volgere il proprio desiderio verso nobili bellezze è meglio comportarsi come i poeti antichi, che al lustro del casato preferirono la libertà delle cortigiane: Ite, ite illustres procul hinc, procul ite puellae / et tumidae vestra vivite luxuria. ‘‘Lontano, lontano di qui, o nobili fanciulle; vivete gonfie del vostro lusso.’’

I sonetti

Abbandoniamo ora i tumulti esistenziali e ritorniamo alla produzione letteraria. Abbiamo scelto fra i quarantacinque sonetti in volgare che formano il Canzoniere superstite di Giovanni i dieci componimenti a nostro giudizio più significativi ai fini del nostro studio. Probabilmente, questi sonetti furono ideati in un arco di tempo che va dal 1479 al 1486. Impossibile precisare ulteriormente la datazione, benché si possa affermare con certezza che essi rischiarono di venir dati alle fiamme insieme ai cinque libri di elegie latine, come ci narra Poliziano in un noto epigramma greco: ‘‘Pico, continuamente ferito e infiammato dalle frecce d’amore, si ribellò, strappò frecce, arco e faretra, ne fece un rogo e tutto bruciò. Afferrando gli Amori stessi, ne legò con la corda le tenere mani, e li gettò in mezzo al fuoco. E bruciò con il fuoco il fuoco. Perché, o stolti Amori, volaste da Pico, principe delle Muse?’’ L’episodio è di poco posteriore al marzo 1483, poiché in quel mese egli aveva inviato proprio ad Angelo il primo di questi cinque libri. Dobbiamo dunque concludere che tale esercizio avesse accompagnato fedelmente il Conte di Concordia nei lunghi anni di vagabondaggio e studio, a Bologna (1477 e 1478), Ferrara (1479), Firenze (1480), Padova (1481 e 1482), Pavia (1483), prima del nuovo soggiorno fiorentino del 1484 e del semestre trascorso a Parigi nel 1485. Ma il desiderio di esprimersi in versi italiani sfiorò Giovanni anche negli anni seguenti, se una lettera del 15 maggio del 1492, indirizzata al nipote, accenna a sciocchezze poetiche ormai abbandonate con un tono che tradisce una relativa prossimità temporale.

In ogni caso, il manoscritto su cui si basa la nostra conoscenza della raccolta proviene dalla corte di Ludovico Sforza detto il Moro, che fu parente e buon amico del principe mirandolano. Si tratta precisamente del Codice 1543 della Biblioteca Nazionale di Parigi, redatto fra il 1492 e il 1497. Esso è composto da più di duecento fogli, che presentano, oltre a molti verseggiatori di scarsa fama, le Stanze di Lorenzo il Magnifico, le Stanze del Poliziano, sonetti del Bembo e del Tebaldeo, strambotti del Pulci e dell’Aquilano, opere del Benivieni e del Sannazzaro. Si tratta di una notevole silloge di carmi amorosi ed encomiastici, ultimata quasi sicuramente dopo la morte di Pico, che documenta come presso la corte milanese gli spiriti dei grandi toscani convivessero con i più convenzionali modi padani, nel ricco fiorire dell’ispirazione petrarchesca.

Sonetto II

De doe trecce racolte in crespi nodi

Amor fe’ el laccio che me avolse al collo,

e poi lo strinse, sì che nulla pòllo

soglier, se Morte non sia che lo snodi.

Dal lume de quegli occhi, che in tal modi

gitta talor, che invidia move Apollo,

reacesse il pecto dentro, e sì avampollo,

che sol di suspirar par che lui godi.

Gli acti suavi, inizio del mio male,

ché i marmi fan di cera l’arte maghe,

furono quel cun qual me involò a me stesso.

Le belle acorte parolette vaghe

nel cor se l’anidaro, che poi spesso

per volar d’indi indarno spiega l’ale.

Presentiamo questo componimento in ragione della sua tipologia emblematica all’interno del Canzoniere. Ricco di riferimenti puntuali al Petrarca, che da Pico viene più volte smontato e ricomposto, è interessante per l’accenno alla crespa capigliatura dell’amata (altrove anche bionda), e per la bella descrizione di una forza seduttiva che si dispiega in modo garbato ma inesorabile.

Sonetto XV

Poi che l’alma mia luce al ciel è gita,

ove ogni altra parer fa vile e obscura,xyz misero me infelice, che più dura

esser cosa a me può che stare in vita?

Perché seco là sù non è salita

che in amarla qui pose ogni sua cura?

Aspra Morte, che sempre el meglior fura

su la più verde etate e più fiorita!

Gli occhi leggiadri e quel bel viso adorno,

le man di fresca rosa e bianca neve

or polve sun, che nulla cura o sente.

Così tutti alla terra fan ritorno:

però chi spera in cosa così breve

sempre, ma tardo spesso, se ne pente.

La poesia dichiara che la diletta di Giovanni è morta. Non sappiamo se la situazione corrisponda ad un evento reale, o non sia piuttosto una variazione puramente letteraria del ben noto tema dantesco e petrarchesco. Pare che Pleona, la misteriosa donna padovana cantata nelle elegie, fosse effettivamente scomparsa intorno al 1481. Ma nelle opere del Conte di Concordia è sempre riscontrabile una componente di artificio, utilizzata per penetrare in modo più acuto nel labirinto della realtà.

Sonetto XVI

Ecco doppo la nebia el cel sereno

che invita li uccelletti andare a schera;

ecco la luce che resplende ove era

di caligine opaca dianci pieno.

Afligice mo, Invidia, aspro veneno

a cui t’alberga! abassa la tua altera

testa, ché chiunque alfine in Dio non spera,

presto ne veni ogni sua forza al meno!

Carità cun Iustizia e intera Fede,

che sempre furno a me fide compagne,

secur mi fan de chi fra via m’assale;

e mentre el cor, ch’è in me, da lor se vede

accompagnato andar, poco gli cale

di che altrui rida, o di che alcun si lagne.

I sonetti non sembrano avere una precisa consequenzialità logica. Qui, un repentino mutamento d’umore rivela la battaglia che il poeta conduce contro i nemici invidiosi. Ai temi cortesi fa seguito l’orgogliosa rivendicazione delle virtù cristiane per eccellenza, che difendono lo spirito del protagonista da ogni meschino attacco.

Sonetto XXIII

Se Amor è alato com el è depincto,

perché in me fermo, lento, sede e giace?

Se gli è piciol fanciul, perché gli piace,

vincitor, stringer l’uom poi che l’ha vincto?

Se agli ochi porta un bianco velo avincto,

come sì certe manda le sue face,

per cui l’afflicto cor, che se disface,

consumar vegio a morte e quasi extincto?

Se volar può, che fa del suo cavallo?

S’egli è signor, perché va scalzo e nudo?

Perché par dolce et è nel fin sì amaro?

Dimel, ti prego, o singular e raro

Francesco, onor de l’acidalio ludo

e primo e sol ne l’apollineo ballo.

La sequenza incalzante di domande retoriche, che presenta un’immagine di Cupido quale appare nelle rappresentazioni più legate all’ambiente di corte, culmina nella menzione esplicita della persona di Francesco Petrarca. È una decisa dichiarazione di dipendenza dal maestro, che viene inserito in un garbato quadro pagano, per il riferimento alla fonte Acidalia dove amavano bagnarsi le Grazie e Venere.

Sonetto XXVII

Se benigno pianeta ha in noi vigore,

io credo ben che tutto quel fu infuso

nel spirto che nel corpo tuo fu chiuso,

Madonna, in questo mondo inferiore;

e credo ancor che ’l nostro almo factore

t’avria nel ciel tenuta per suo uso,

ma in terra ti mandò per far qua giuso

de sé fede, a me guerra, al mondo onore.

E credo ancora fermo, e ne son certo,

che ’l spirto non si doglia, anzi si gloria

dil tuo bel velo che lo tien coperto;

et io viva farò la lor memoria,

se ’l fonte dove aspiro mi fia aperto,

texendo del tuo nome eterna istoria.

È questo un sonetto notevole non tanto per l’accenno astrologico, quanto per l’orgogliosa e quasi prepotente rivendicazione di un destino. Incerto è il significato della fonte finale, che può alludere alla donna medesima ovvero alla gloria poetica. Rispetto al Petrarca, si consideri il tono più brusco, irrobustito da un’evidente consapevolezza di sé, che prelude alla proclamazione nel mondo intero della passione per la diletta, da compiersi grazie ad una narrazione imperitura.

Sonetto XXVIII

Amor ben mille volte e cum mille arte,

come uom sagio che amico se dimostra,

temptato ha pormi ne la schera vostra,

che empieti de triunfi soi le carte;

ma la ragion di Lui m’era in disparte,

che la strata dil cel vera mi mostra:

così l’uno pensier cun l’altro giostra

e ’l cor voria partire, né pur si parte.

Onde ancor né gioir nostra alma o trista

far può Fortuna, e furno in grande errore

gli ochi, se lo contrario a lor pareva.

Gelosia forse, che ’l nostro Signore

seguire suol sempre, offerse cotal vista

al cor, che di Madonna alor temeva.

Troviamo qui un componimento complesso, che racconta il conflitto fra Amor terreno e Amor celeste. Molto interessante è la paralisi psicologica che tormenta il protagonista, incapace di comprendere la vera natura della situazione. Egli assiste ad un gioco, ad un torneo amoroso i cui esiti sono del tutto incerti; mentre ammira le carte su cui spiccano i trionfi, con doppio riferimento al mazzo dei Tarocchi e alle virtù della donna che riempiono i fogli di poesie, i suoi pensieri combattono fra loro, e la strada del Paradiso non può sopraffare il sentimento.

Sonetto XXXVI

Era la donna mia pensosa e mesta,

vota di gioia, carca di dolore

e cun lei insieme ragionava Amore,

ch’a meza nocte a lacrimar me desta,

quando ignudo gli apparve senza vesta,

a guisa de un mesaggio, el nostro core

per farli scusa del commesso errore,

se ’l promesso errore ancor s’aresta.

Ella a pietà non ch’a perdon si volse,

ché per farla più certa del suo stato

el cor scopersi: le sue fiame e i strale

ne l’umido suo grembo alor racolse

e l’empio mio Segnor, che gli era a lato,

disse: ‘‘Volato è qui con le mie ale.’’

Due brevi osservazioni in merito. Il gli del quinto verso, riferito alla donna, è una concessione alla lingua settentrionale: benché Pico si muova con decisione verso il toscano, non vuole o non può sopprimere completamente alcune caratteristiche della parlata padana. In secondo luogo, l’inconfondibile ascendenza trecentesca del sonetto viene attestata dal motivo della visione notturna e dalla personalizzazione del cuore amante. È tuttavia interessante l’inversione del protagonista: non più il poeta ma la sua diletta, ferita da qualche errore commesso dal maldestro corteggiatore. Notiamo come il mirandolano tenda spesso a complicare e ad aggrovigliare la struttura delle rime, costruendo un significato interpretabile in diversi modi.

Sonetto XLI

Io me sento da quel che era en pria

mutato da una piaga alta e suave,

e vidi Amor del cor torme le chiave

e porle in man a la nemica mia.

E lei vid’io acceptarle altera e pia

e d’una servitù legera e grave

legarme, e da man manca in vie più prave

guidarme occultamente Gelosia.

Vidi andarne in exilio la Ragione,

e desideri informi e voglie nove

rate a venir ad alogiar con meco.

E vidi da l’antica sua pregione

l’alma partir per abitare altrove,

e vidi inanti a lei per guida un cieco.

Nella sua apparente semplicità, è forse questo l’esito più alto del Canzoniere. Colpiscono le parole ‘‘desideri informi e voglie nove’’, incisive nella loro attualità estrema. I gesti di Amore, motivati da una necessità assoluta, hanno come scenario il vuoto del pensiero, nel momento in cui ogni razionalità è svanita. Benché ogni verso contenga riferimenti petrarcheschi, la coscienza dell’autore è ormai moderna: il teatro delle passioni si svuota dei suoi protagonisti, rivelando un dramma essenziale che, nel suo esito, ricorda quasi il Re Lear shakespeariano.

Sonetto XLII

Pa: Tremando, ardendo, el cor preso si truova.

Po: Ov’è la neve, il laccio, il foco, il sole?

Pa: I tuoi sguardi, i dolci acti e le parole.

Po: Vòi taccia, chiuda gli ochi e non mi mova?

Pa: Questo el mio mal non spinge, anze ’l rinova.

Po: Perché? Pa: Perché indi nascon tre parole:

fuoco, giaccio, catena, anzi gli giova.

Quel che lo lega, par la lingua snodi,

quel che l’agiaccia, de virtù lo incende,

l’arde in legiadre et amorose tempre.

Po: Donque meglio me vedi, miri et odi?

Pa: Ben sai che sì, però che non me offende

agiacciando, stringendo, ardendo sempre.

Nell’estrema raffinatezza e nei brillanti giochi di parole di questo sonetto, spicca una particolarità: i nomi dei dialoganti sono sostituiti da due sillabe misteriose. Difficile svelare il segreto, poiché la parte femminile e la parte maschile del contrasto appaiono quasi intercambiabili. Si è proposto per Po il Poeta o il Potens, il soggetto che nella schermaglia d’amore risulta vincente; quanto a Pa, lo si è interpretato come Patiens, il soccombente. Oltre a ricordare ancora una volta Pleona, tuttavia, il doppio binomio consonante - vocale non può non evocare l’eterna coppia formata da Polia e da Polifilo. Molto prima dei mozartiani Papageno e Papagena, i due amanti dell’Hypnerotomachia intrecciano un canto che sembra nascere da un balbettio infantile protratto all’infinito, nell’alba di un linguaggio nuovo intonato dal semplice battito dei cuori.

Sonetto XLIV

Già quel che l’or’ distingue, i mesi e gli anni,

i soi corser ne l’onde refrescava,

quando m’apparve, e so ch’io non sognava,

una Cerva che avea d’argento i vanni.

Doi cacciator ch’avean squarzati i panni

seguivan quella, e l’un sì glie monstrava

el mele, e l’altro so che la chiamava

dicendo: ‘‘Guarda costui non t’inganni!’’

L’animaletto fermo in sé racolto,

dubio, incerto stava, e pur al mele

che più la se acostasse a me alor parve.

Et io de ciò me ne affannava molto

che me acorgea del ricoperto fele,

e mentre me ne doglio ella disparve.

Quasi al termine della raccolta, prima di un ultimo componimento che lamenta i mali dell’Italia, questo sonetto paragona la diletta a una cerva che viene ingannata e avvelenata da un astuto cacciatore, nonostante l’avvertimento del poeta. Se dobbiamo riportare tale contenuto ad una realtà precisa, dovremmo ipotizzare una rivalità d’amore in cui Pico ebbe la peggio, e la conseguente morte dell’amata (metaforica o concreta), dopo la sua cattura. Non di una sola donna tratta il Canzoniere. Il ricordo di questa fanciulla, tuttavia, è particolarmente amaro e si esprime in una visione resa con intenzione moderna. Qui l’immaginario si unisce ad un presagio che purtroppo non giova all’infelice coppia, divisa per sempre dall’altrui frode.

Le elegie latine

Quasi nel medesimo anno (1963 e 1964), ma in modo indipendente, Paul Oskar Kristeller e Wolfgang Speyer riportarono all’attenzione degli studiosi le poesie latine di Giovanni Pico. Il primo ne presentò quindici, ritrovate in diversi codici custoditi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, a Washington, Ferrara, Monaco e Parma; si tratta di otto elegie di argomento amoroso, di una preghiera a Dio affinché faccia cessare le guerre in Italia, di un’esortazione rivolta ai giovani per consigliarli alla virtù, e di alcuni altri componimenti minori. A sua volta Speyer editò un gruppo di dieci carmina, traendoli dal Codex Vaticanus latinus 5225, vergato personalmente da Paolo Manuzio (1512 - 1574), terzo figlio di Aldo; questi carmi sono tutti contenuti nel gruppo di Kristeller, compreso il distico a Pleona che ha dato inizio al presente capitolo.

Come abbiamo già ricordato, si tratta forse della raccolta che Pico stesso diede alle fiamme, dopo aver ottenuto elogi e apprezzamenti da parte del Poliziano. Ma in merito non esiste alcuna certezza; da una lettera di Giovanni all’amico urbinate Andrea Corneo sappiamo che ancora nel 1489 il mirandolano si dilettava a scrivere poesie, benché non le giudicasse perfezionate a sufficienza e altre più importanti fatiche letterarie incombessero. Manteniamo pure il 1483 come limite di composizione estremo delle elegie; non per questo la loro importanza diminuisce, poiché esse illuminano lati ancora oscuri della personalità del nostro. Nessuno le ha mai tradotte in linguaggio moderno, nessuno le ha ancora esaminate con la necessaria cura. Questa scarna antologia intende essere un primo contributo in tal senso. Per quanto non siano di altissima qualità, le poesie in questione mostrano un Pico ardente d’amore, assai versato in astrologia e, soprattutto, perfettamente capace di intessere componimenti nuovi e originali utilizzando una fitta trama di citazioni classiche, adattate con maestria ai suoi scopi.

Elegia Quarta

Del sonno che gli riporta l’amica

La notte è gradita agli uomini ed alle fanciulle

a cui la dolce Venere soffia, propizia all’amore.

L’uomo bramoso di notte corre dalla bramata fanciulla,

la fanciulla di notte accoglie l’uomo che ha scelto.

Da qui si vede che si lamentano entrambi,

perché Febo tuffa in ritardo i cavalli anelanti nell’Ibero mare,

perché Cinzia smette di vestire di tenebre il mondo

e fiaccamente incita i tori, i suoi lenti e tardi tori.

Anche a me la notte, per altra ragione, giunge gradita,

a me, oppresso dall’impietoso fanciullo che orecchio non ha.

Agli altri una vera gioia è concessa, a me gioie vane,

e tuttavia anch’esse mi aiutano un poco.

Infatti, quando il sonno in silenzio mi ruba lo sguardo,

piegando le palpebre stanche del pianto pesante,

il viso amato mi giunge con il sogno più caro,

un sogno che nasce per scacciar la tristezza.

Mi appare il volto più bello di tutti,

e la bellezza che è ricca in tutto quel volto.

Nulla ho, eppure sembra che la meta sia colta,

mentre un’immagine falsa inganna i miei occhi.

La fanciulla allora amor non respinge,

la fanciulla mi cade spossata sul grembo.

Posso toccarle le dita, toccare il suo seno,

che infine si lascia strettamente abbracciare.

Così dò inizio, mi pare, alla dolce battaglia,

mentre ella, lasciva, fa mostra di opporsi.

È incredibile: alla massima gioia spesso giungiamo

e ascolto il rumore del letto che ondeggia.

Ahi, misero: è un fantasma la Venere mia,

una parvenza, di una forma che immagino l’ombra.

Non appena ella fugge, e il sonno con lei,

una pena più grave invade il mio corpo.

E io, folle, per trattenere l’immagine vana

spesso nel pianto ho gridato: Ferma il tuo piede, Pleona.

Ferma il piede. Or dove fuggi, mia vita?

Perché distruggi l’amante?

Non fuggire, Pleona. Pleona, ferma il tuo piede.

Non fuggire, che almeno un bacio io ti dia,

che almeno io possa mormorare un addio.

Ma ella svanisce d’incanto nel tenero soffio dell’aria,

del mare Ellesponto ancora più sorda.

Aurora, tu che presaga allontani la notte cerulea,

con le rosee mani ingemmate di rugiada brillante,

perché tanto rapida sorgi dal talamo, e sfidi lo sposo?

Di Titone l’argentea vecchiaia è danno per noi.

Tu rinnovi i lamenti, rinnovi il dolore,

e la luce mi arriva senza luce vegliando.

Quel che è tormento il sogno non finge;

sol quel che piace è vano, e con le tenebre fugge.

Ma l’Amor che crudele mi trionfa nel cuore

sia pur, nell’attesa di una notte pur vera.

Il motivo del sonno e del sogno è certamente ancestrale e universale. Giovanni si raccorda innanzitutto all’elegia di epoca latina: ‘‘Era notte e il sonno aveva avuto ragione dei miei occhi stanchi; ed ecco che questi sogni riempirono di paura il mio cuore...’’ racconta Ovidio (Amores, III, 5); ‘‘Già la Notte con la nera quadriga aveva percorso la volta celeste e aveva bagnato le ruote nell’onda cerulea... allora un tardivo riposo chiuse i miei occhi stanchi. Ed ecco un giovane, le tempie coronate d’alloro, mi sembrò che ponesse piede nella stanza...’’ recita Tibullo (Elegie, libro III, 4); ‘‘Ti vidi in sogno, mia vita, mentre, spezzata la nave, muovevi le braccia stanche nelle acque dello Ionio...’’ ricorda Properzio (Elegie, libro II, XXVI A). Ma l’incontro con presenze che si muovono al di fuori della vita reale, siano esse ingannevoli o veritiere, appartengano al regno dei sogni oppure a qualche ordine oltremondano di cui ci è concessa la visione, corrisponde ad un tema ricorrente nella letteratura italiana del medioevo e del rinascimento. Celebre è l’episodio che inaugura la Vita Nuova dantesca: ‘‘E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione... una figura d’uno segnore di pauroso aspetto...’’ Amore manifesta la propria potenza in molti modi, e lo stato di sonno o di svenimento riassume in modo perfetto la forza della passione e il desiderio di rivedere l’immagine dell’amata. Tralasciando l’Amorosa Visione di Giovanni Boccaccio, che tanti punti di affinità presenta con l’Hypnerotomachia, rammentiamo piuttosto alcuni versi del Canzoniere petrarchesco (RVF 22, 31 - 33): ‘‘Con lei foss’io da che si parte il sole, / e che non ci vedess’altri che le stelle, / sol una nocte, et mai non fosse l’alba.’’ xyzGiovanni, qui come altrove, accentua del sogno la componente sensuale, spingendosi fino alla descrizione realistica dell’unione erotica. Si sofferma poi sul versante illusorio della medesima esperienza, nel dissolversi di ogni ombra vana all’arrivo dell’Aurora, usando accenti che ancora dipendono dagli Amores di Ovidio: ‘‘Lasciato l’annoso marito, sopraggiunge ormai, sorvolando l’oceano, la bionda dea che porta il giorno sul carro coperto di brina...’’ (libro I, 13). Particolarmente struggente è il grido dell’innamorato che cerca di impedire la fuga del fantasma di Pleona. È un passo ricco di reminiscenze classiche, ma singolarmente partecipe. Non ci sembra forzato accostarlo alla pagina conclusiva dell’Hypnerotomachia, in cui viene rievocata l’inopinata e rapidissima sparizione di Polia: ‘‘... heu me, amorosi lectori, tutto indolentime per il forte stringere de quella beata imagine et foelice praesentia et veneranda maiestate, lassantime et deserentime tra mira dolcecia et intensiva amaritudine, quando dal’obtuto mio se partirono quel iocundissimo somno et quella diva umbra...’’

Elegia Quinta

Al fratello Galeotto in armi, affinché militi al servizio di Marte così come io faccio al servizio di Amore

O Galeotto, se pur il fulgente campo

di variopinte insegne da casa ti separa,

non credere di mia vita tu, parte preziosa,

che io qui conduca un’esistenza pigra.

Anche sopra me comanda di guerra legge ferma,

benché la sorte mia della tua sia assai più dolce.

Tu segui Marte, io seguo d’Amor le armi,

tu guidi crudeli guerre, io guerre cortesi.

Tu cerchi il nemico in armi e compatte schiere,

io inseguo una ninfa inerme e nuda.

Un possente ordigno ti abbatte bronzee porte,

a me basta la voce per spalancare il varco.

Vuoi di forza prender ricchezze ancor lontane,

il desiderio mio una fanciulla incontra.

Il cuneo e il sentiero buio il nemico inganna,

nelle trappole mie lei mai non cade.

La tromba di guerra ti mette in fuga il sonno,

un canto melodioso mi sospinge al sogno.

Sulla dura terra riposi, o Pico, se pur riposa

chi sul nudo suolo le sue membra stende;

l’amomo dell’Oronte mi profuma il letto,

mi tiene il tenero seno dell’amica dolce.

Nessun’ombra allevia l’ardore del tuo sole,

la mia signora stende la veste e mi protegge.

Ed anzi quando l’astro a mezzogiorno infuria,

sei costretto a correre intrepido la pugna;

sotto l’albero le cui chiome odorose d’aria

muove un soffio, io il carme alto intono.

Mentre il freddo Borea e il crudele Euro tuona

e il nuvoloso Austro raduna torrenziali piogge

tu devi spesso portar le schiere in lotta

senza temere il gelato scroscio e il Noto.

Ma se io scorgo vapori densi in cielo

subito corro a casa della dama mia

e lo splendore dalla schiera tolto delle nubi fitte

l’amica rende, la luce stessa, con gli occhi suoi.

Tu feroce assali e affochi le città nemiche,

la dolce fanciulla mi segue con l’amorosa face.

Fratello, un duro elmo di bronzo t’opprime,

i serti di Bacco circondano il mio capo.

Una corazza temprata nel Lambro ti affatica,

una toga di color Sidonio mi riscalda.

La tua destra tiene l’asta, la mia un’asticella;

questa screzia il foglio, quella ferisce l’uomo.

Sangue, stragi, e furiose risse ti sconvolgono,

io mi diletto di danze, giochi e altre dolcezze.

Quando cinto d’elmo vai contro il nemico in armi

il tuo fato e il suo sono ugualmente tristi.

Ma ogni volta che io inseguo la mia diletta,

nulla temo per me, né lei per sé.

Ella lasciva morde con il dente bianco il braccio,

e sulla bocca mia lascia lividi segni.

Baci a mia volta stampo sulle rosee labbra

e volentieri infiammo quelle purpuree guance.

Così noi combattiamo; ed ella cede,

non reputando indegno da me essere vinta.

Così, o Pico, sebbene le tue guerre

daran maggiori trionfi alla tua fama,

preferirei che nelle mie armi fossi,

per guerreggiar con la consorte cara.

È problematico definire la data delle campagne di guerra a cui si riferisce l’elegia, ed è quindi difficile risalire al momento esatto della sua stesura. Galeotto (1442 - 1499) era fratello di Giovanni. Nel 1467, alla morte del padre Gianfrancesco, egli ereditò il governo di Mirandola, posizione rafforzata grazie al matrimonio con Bianca d’Este, figlia naturale di Niccolò III. Ma il ruolo del maggiore dei Pico venne continuamente messo in discussione, non tanto da Giovanni, che aveva presto rinunciato ad ogni pretesa dinastica, quanto dall’altro fratello Anton Maria (1444 - 1501), sposo di Costanza Bentivoglio. L’esistenza di Galeotto fu avventurosa. Alleato naturale di Ercole d’Este, si destreggiò fra i molti schieramenti che frammentarono la politica italiana nella seconda metà del Quattrocento. Assai interessante è il suo rapporto con Firenze: sostenitore nel 1467 dei Pitti e degli Acciaioli contro i Medici, cambiò completamente partito quando avversò per conto di Venezia la congiura dei Pazzi, divenendo sostenitore di Lorenzo il Magnifico. Quest’ultimo fu poi, insieme a Ludovico il Moro, punto di riferimento costante della sua vita. Valente condottiero, Galeotto fu coinvolto nel 1479 nella disfatta di Poggio Imperiale; in tale occasione venne catturato e imprigionato, insieme a Rodolfo Gonzaga, dalle truppe papaline e napoletane. Miglior fortuna gli arrise nel 1487, quando partecipò alla conquista di Sarzana, che i fiorentini riuscirono a strappare alla Repubblica di Genova.

Per quanto riguarda il versante letterario dell’elegia, occorre ricordare che il rapporto fra Giovanni e Galeotto fu a lungo buono e forte: ne è testimone anche la Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, dove i due probabilmente appaiono insieme. Lo svolgimento del carme deve molto alla sezione nona del primo libro degli Amores ovidiani; tuttavia, risulta notevole la serrata e alquanto ironica contrapposizione fra i diversi stili di vita del guerriero e dell’intellettuale. Molto accentuata è la componente erotica della narrazione, che si conclude in un tono di malcelata ansia per le sorti del fratello combattente, a cui giunge il consiglio affettuoso e partecipe del poeta.

Delle origini di Mirandola

Euride, figlia di Costanzo Imperatore,

nascostamente sposò Manfredi illustre;

il timore a Partenope li spinse, al lido di Ravenna;

nella valle boscosa rimasero, sotto mentite spoglie.

Una vecchia e due servi accompagnavano

con la moglie Euride il cavaliere; dopo lungo vagare

giunsero ai giunchi di una palude. Da una parte

videro di Modena i confini, dall’altra di Lepido la terra.

Restarono fra i pastori, le greggi e gli armenti,

celandosi insieme in quella vita agreste,

seguendo un governo di tal senno

da esser proclamati entrambi re di quel luogo.

Il fiero Manfredi poi in aiuto dell’Imperatore accorse,

e da lui ebbe ricompense grandi per le gesta;

prima fu cavaliere, poi come grato dono

prese le terre che stanno tra la Secchia e il Po.

Ma Cesare con un dolce abbraccio accolse Euride,

che ubbidiente all’ordine giunse stringendo i figli;

concesse loro castelli e campi, e chiamò Miranda la madre

per la ricca prole: di tal nome Mirandola è erede.

Due volte quattro dal matrimonio nacquero,

e crebbe la buona prole e vennero nipoti;

quaranta furono i maschi, che diedero alla patria mura:

da qui venne il nome di Quarantola, la corte.

La posterità amò in meraviglioso modo

la stirpe di Manfredi. I sovrani antichi e i re

diedero a lei insigni onori. Li accrebbe Matilde,

Matilde la ricca, celebre al mondo per le sue imprese.

Kristeller recupera il curioso componimento dal Codice 1198 della Biblioteca Palatina di Parma. Un anonimo ricopiò il poemetto facendolo precedere dall’intestazione Versi di Giovanni Pico nell’origine sua, ma ignoriamo se l’attribuzione sia corretta. In ogni caso, l’autore racconta una leggenda ben nota: la stirpe dei Pico sarebbe discesa da Manfredi o Manfredo, cavaliere della Corte Imperiale che si innamorò della figlia dell’Imperatore e con lei fuggì. Le false etimologie di Mirandola e di Quarantoli destano il nostro interesse in relazione alla bizzarra favola riportata nella seconda sezione dell’Hypnerotomachia: qui, in modo analogo, un nobile romano entra in contatto con le genti di un altro territorio padano - Treviso e il suo circondario - e pone le radici di una famiglia illustre. In realtà, sia i Pico che i Pio trarrebbero la propria origine da un Manfredo vissuto - ma le ricerche danno esiti diversi - tra il nono e l’undicesimo secolo dopo Cristo, in rapporto con Carlo Magno o con Matilde di Canossa. Così, entrambi i rami dell’unica stirpe presero il nome di figli di Manfredo.

Elegia Seconda

Giustificazione rivolta ad un amico, per la colpa di amare

Perché mi chiami dissoluto? Perché definisci ozioso

colui che una bella fanciulla soggioga e governa?

Amico, perché dici che il mio ingegno è franto,

e la giovinezza adatta a più alte imprese?

Perché non cerco una grande meta, una guerra grande,

e la poesia mi fiacca malinconicamente?

Brucio d’amore, ammetto; è questa la mia battaglia,

e non posso, e non voglio celare la sua fiamma:

se amare è un delitto, di certo è anche il mio.

Ma osserva: altri più di me di questo ha colpa.

Siamo costretti, una forza sovrana lo impone,

una forza che nega l’arbitrio a ciascuno.

Una forza che ci fa violenza dal cielo,

e tiene il pensiero sotto il suo giogo.

Esiste un corso del fato, un ordine fisso,

esistono norme, e una via è sbarrata.

Fin dall’inizio il patto è scritto, firmato,

per sempre il dio gli ha dato forza di legge.

Se questa vita seguo, è perché devo farlo;

la mia stella mi travolge a piacimento suo.

Mentre nascevo, con le scintille ha acceso un fuoco,

così che qualcosa io sempre ami, con tutto il cuore.

Infatti, quando l’anima scese dal cielo adatto

e si manifestò nelle fattezze ancor terrene,

la Bilancia apparve nell’aura dell’etereo raggio,

sollevando splendida e lucente il capo.

Accanto stava lo Scorpione, figlio di terra,

e Marte sanguinario era nella sua sede.

Le frecce tessale del Sagittario correvano in casa terza,

e fra queste serpeggiava la coda del lungo Drago.

Giove occupava la parte più bassa della reggia terrestre,

insieme all’umido Capricorno che dà inizio all’inverno.

Vicino stava il fanciullo che riempie le grandi coppe divine,

Acquario che prende nome dalla gelida acqua;

ugualmente Saturno e Mercurio Cillenio pronto al volo

abitarono quell’eccelsa parte del cielo.

Il Sole purpureo e Venere illuminata dalla luce amica

brillarono insieme ai Pesci nella sesta casa.

Poi, come settimo, insinuò da lungi le corna

l’Ariete che solca le onde, scorta della fuga di Frisso.

Ma i luoghi che annunziano il nostro destino,

quelli la candida Luna tingeva con le chiome stillanti,

insieme al Toro che attraverso i flutti e il mare profondo

trasportò come preda Europa, figlia di Agenore;

seguiva la cara concordia dei due Gemelli

che da sempre vive in mutua alternanza.

In alto, in cima all’Olimpo, si insinuava il Cancro,

che bagnò le frecce crudeli di Ercole, l’eroe tebano.

Stava accanto a lui il Leone dal fulvo muso,

che per suo merito dimora nei lucenti astri.

Infine, la Vergine Astrea giacendo sul letto

diede, lei amica, la vita come dono divino.

Giudichi, chi le stelle conosce per l’arte assira,

se era guerra il mio fato, se non mi è lecito amare.

L’ultima elegia che proponiamo è la più interessante e sorprendente, per almeno tre motivi diversi. Rivolgendosi ad un amico che gli rimprovera di trascorrere la giovinezza in vani sogni d’amore, Pico risponde tracciando in pochi versi il proprio oroscopo. Ci troviamo così di fronte ad un raro componimento che dimostra fino a qual punto la pratica astrologica era consueta negli ambienti intellettuali e nobiliari del Quattrocento. Sappiamo che Giovanni era nato a Mirandola, il 24 febbraio 1463, poco tempo dopo il tramonto. Conosciamo inoltre il suo quadro astrale grazie al Codice Gianni 46 dell’Archivio di Stato di Firenze. Tale manoscritto contiene il Vocabolarium di Girolamo Benivieni, amico fraterno del nostro, che sembra essere anche l’estensore dell’importante diagramma, vergato dopo la morte del filosofo. A sua volta, il celebre astrologo Luca Gaurico riportò nel Tractatus Astrologicus, stampato a Venezia nel 1552, un genetliaco di Pico che offre dati leggermente contrastanti. In ogni caso, la seconda elegia elenca puntualmente le cuspidi delle dodici case e la posizione nei segni di tutti i pianeti noti all’epoca, chiarendo addirittura che la Coda del Dragone, ovvero il Nodo Lunare Discendente, si collocava in Sagittario. Giovanni Pico è un Pesci ascendente Bilancia, con Sole in casa sesta e Luna in ottava opposta a Marte, configurazione abbastanza nefasta per la salute, che giustificava timori di morte precoce. Possiamo oggi aggiungere che il suo Urano si trova in Vergine, in dodicesima, Nettuno in Bilancia, in prima, e Plutone in Leone, in undicesima. La predisposizione passionale, che non viene spiegata nell’elegia, deriverebbe dai pianeti in quinta casa, da una volubile Venere in Pesci e dalla presenza di Marte nel suo domicilio notturno, lo Scorpione.

Ma il carme ha una seconda caratteristica straordinaria: è in completo e stridente disaccordo con le posizioni finali del mirandolano, che negli anni novanta si oppose assolutamente alla superstizione astrologica, ultimando nel 1493 una voluminosa opera intitolata appunto Disputationes adversus astrologiam divinatricem, in piena sintonia con il dettato savonaroliano. Non intendiamo entrare nel merito di un problema più volte affrontato dagli studiosi, e mai in maniera definitiva. È comunque indiscutibile che il saggio attirò le ovvie e furiose critiche di molti specialisti del settore; alcuni giunsero ad affermare che egli si fosse scagliato con tale veemenza contro gli astri proprio perché era stata prevista una sua morte improvvisa in età ancor giovane, cosa che puntualmente avvenne (e che nella poesia in esame viene ricordata dalle struggenti parole Ma i luoghi che annunziano il nostro destino, / quelli la candida Luna tingeva con le chiome stillanti).

Accantonando le polemiche, ci limitiamo a notare come l’elegia provi l’iniziale interesse di Giovanni per la materia e la rapida evoluzione delle sue idee. Sorprendenti appaiono i versi stat fati series, stat non mutabilis ordo, / stant leges, vetita non licet ire via, scritti da un uomo che avrebbe fatto del libero arbitrio il pilastro del suo pensiero e della sua stessa esistenza. D’altronde, l’intero cammino percorso dal Conte di Concordia si traduce in una ricerca appassionata di quel che sta al di là, al di là dei legami, dei preconcetti, della medesima sapienza antica. Nulla viene però trascurato: la libertà sembra fondarsi sulla conoscenza, e quest’ultima non può prescindere da qualunque nozione offerta dagli antichi, per quanto infima, per quanto secondaria.

Infatti, il terzo elemento che ci preme sottolineare è la finissima tessitura mitologica del componimento, un vero tour de force di riferimenti, talora sibillini. Ci stupisce la profondità e l’ampiezza delle letture, distorte a vantaggio di un intento dimostrativo. Pico rivela qui una delle sue qualità fondamentali: divorare il già detto, fissare nella memoria intere frasi significative, disporle in modo diverso rispetto alla fonte originaria, raggiungendo così un ordine inedito del discorso, che utilizza tutto un sapere per affermare qualcosa di nuovo. Ben si comprende quanto egli venisse turbato dalle leggi degli astri, che sembrano sintetizzare al più alto grado il conflitto eterno fra la necessità divina e l’autonoma disposizione dell’individuo. In particolare, l’onnipossente Venere appariva ai suoi occhi come quella stella che occorreva trasformare da tiranna impetuosa in guida celeste, verso le più elevate mete dell’intelletto e del cuore.

Bibliografia

Raffaella Castagnola, Milano ai tempi di Ludovico il Moro, in Schifanoia - 5, Ferrara, 1988

P. O. Kristeller, Giovanni Pico della Mirandola and his sources in L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, Firenze, 1965

Publio Ovidio Nasone, Amori, traduzione di Ferruccio Bertini, Milano, 1993

Giovanni Pico della Mirandola, Carmina Latina, a cura di W. Speyer, Leiden, 1964

Giovanni Pico della Mirandola, Sonetti inediti, a cura di F. Ceretti, Mirandola, 1894

Giovanni Pico della Mirandola, Sonetti, Torino, 1994

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