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Dalla finestra entrava una luce fioca, troppo debole per far pensare che il sole fosse già sorto. Il pesante panno che faceva da tenda oscurava quasi del tutto l’apertura, ma di solito i raggi provenienti da oriente riuscivano a far breccia e a illuminare almeno in parte la stanza.
Nonostante il buio persistesse, Juan smise di rigirarsi nel letto e si alzò. Era sveglio da tempo, anzi, si può dire che non si fosse mai addormentato. Andò vicino al letto di suo fratello maggiore e guardò la vecchia sveglia che teneva appoggiata di fianco, sul pavimento. Non erano ancora le sei: Juan constatò che in definitiva si era alzato solo un’ora prima del solito. Pensava peggio.
A quell’ora, in quella stagione, non avrebbe dovuto essere così buio. Juan uscì dalla grande camera da letto e passò nell’altra stanza, dove si svolgeva tutta la vita quotidiana della casa, prima di andare a letto. Scostò la tendina leggera che schermava la finestra e guardò fuori: il cielo era quasi interamente coperto da nuvoloni neri che salivano veloci, spinti dal vento proveniente da ovest. Ecco perché la casa era ancora avvolta dal buio; il sole era sorto, ma non era riuscito a squarciare la massa delle nubi.
Suonò la sveglia e, dopo qualche minuto, Juan vide spuntare dalla camera da letto i suoi due fratelli più grandi, Pedro e Jaime. Avevano solo qualche anno più di lui, ma ormai erano loro i primi a recarsi nei campi a lavorare, mentre il padre, ancora giovane ma pieno di acciacchi, cercava di limitare le sue fatiche di contadino e si preoccupava soprattutto di andare a vendere il raccolto nei mercati.
Pedro si rivolse bruscamente a Juan: «Che cosa fai già in piedi? Dovresti essere ancora a letto a quest’ora!». Juan rispose timidamente, quasi vergognandosi: «Ero un po’ agitato. Oggi vengono a trovarci a scuola i nostri amici dall’Europa».
I tre si sedettero intorno al tavolo. Pedro prese la tortilla che la loro madre aveva preparato la sera prima, ne staccò un pezzo per sé e uno per Jaime; ne avanzò poco più di metà, che doveva bastare per tutto il resto della famiglia. I due ragazzi che lavoravano nei campi avevano giustamente diritto a una razione maggiore, pari almeno a quella del padre. I due mangiarono silenziosamente, a testa bassa, mentre Juan li osservava pensieroso.
Quando Pedro e Jaime fecero per alzarsi, Juan rivolse loro una domanda: «Per favore, posso usare io l’acqua per lavarmi? Vorrei essere pulito e in ordine, quando conoscerò i nostri amici europei». Pedro rispose con una specie di grugnito che Juan interpretò come un cenno di assenso; in effetti, per andare a lavorare nei campi non c’era certo bisogno di lavarsi come se si dovesse andare a una festa.
Così, appena i due fratelli più grandi furono usciti di casa, Juan prese il pesante secchio in cui era raccolta l’acqua che la sera prima sua madre aveva pompato dal pozzo. Ne versò una parte in un catino di plastica e si lavò con cura la faccia e il collo.
Era ancora molto presto. Juan prese un piccolissimo pezzo di tortilla e la masticò lentamente, per farla durare più a lungo. Poi, per ingannare l’attesa, cominciò a vestirsi e a preparare la sacca per la scuola.

Fuori aveva incominciato a piovere. Anzi, si era scatenato un vero diluvio, uno di quei temporali che in America Centrale possono durare per qualche ora come per intere giornate, e che finiscono per allagare le strade, devastare i campi e, qualche volta, danneggiano anche le abitazioni meno solide.
Visto il tempo, Juan prese le scarpe più pesanti che aveva, delle specie di scarponcini che gli andavano ormai molto stretti, ma che erano le uniche calzature adatte ai giorni di pioggia. Si infilò la tuta verde e gialla che gli avevano regalato a scuola: era abbastanza pesante per resistere al freddo, e poi gli faceva piacere indossarla perché quasi tutti i suoi compagni ne avevano una uguale. Per proteggersi dalla pioggia preparò un telo di plastica, che avrebbe potuto usare per avvolgere la testa e le spalle.
Una volta vestito, prese la sua sacca di tela e vi infilò il grande quaderno su cui disegnava e scriveva durante le lezioni. La maggior parte dei suoi compagni lasciava i quaderni in classe, ma a lui piaceva portare a casa il suo strumento di lavoro, anche perché era il primo della famiglia ad andare a scuola, e ci teneva a far vedere ai genitori e ai fratelli che non stava perdendo il suo tempo.
Preparate le sue cose, Juan si risiedette, perché nonostante avesse fatto tutto con calma era ancora molto presto.

Venne finalmente il momento di incamminarsi verso la scuola. Nel frattempo, anche il resto della famiglia si era alzato dal letto. Il padre, appena levatosi, si era accorto che in un angolo della casa gocciolava dell’acqua filtrando attraverso il tetto; si era perciò subito incamminato verso la casa di un amico, per farsi prestare certi attrezzi da usare per un’improvvisata riparazione.
La madre aveva incominciato a fare alcuni mestieri, e soprattutto si era presa cura del piccolo Felipe, che non aveva ancora due anni.
Le gemelle Magda e Marta erano state le uniche a condividere l’eccitazione di Juan per lo straordinario appuntamento che lo attendeva a scuola. Le due sorelline avevano otto anni, solo uno meno di Juan, e dimostravano sempre un grande interesse per le avventure scolastiche del fratello. Il loro sogno era di poter andare anch’esse a scuola, e avevano strappato una mezza promessa ai genitori: l’anno successivo, quando Felipe sarebbe stato in grado di badare a se stesso, forse anche Marta e Magda avrebbero ottenuto il permesso di studiare.
Juan, salutata la famiglia, uscì di casa, e vide che stava smettendo di piovere. Per viaggiare più speditamente, ripiegò allora il telo di plastica e lo infilò nella sacca, pronto per l’uso in caso di emergenza.
Partì spedito verso la scuola, con le gambe che si muovevono rapide, quasi frenetiche, per assecondare il desiderio di arrivare in fretta al grande appuntamento. Era ormai da un mese che se ne parlava: la scuola di Juan avrebbe finalmente ricevuto la visita di un gruppo di studenti europei, un pochino più grandi, con i quali intratteneva ormai da due anni una fitta corrispondenza, in cui i bambini centroamericani e i ragazzi europei si raccontavano le rispettive esperienze scolastiche e qualche vicenda relativa alle comunità in cui vivevano.
Dopo una decina di minuti Juan giunse in quello che lui e i suoi familiari chiamavano “il villaggio”, ma che altro non era che un gruppo di quattro case disposte ai lati della strada principale. Juan si sedette su una pietra di fronte a una di queste abitazioni e si mise ad aspettare pazientemente la sua amica Isabel. Facevano sempre la strada insieme, perché erano gli unici ad abitare a sud della collina che circondava il paese più grande, quello dove si trovava la loro scuola.
Isabel era la figlia di un personaggio a suo modo famoso, perché si trattava di un bravo artigiano che sapeva costruire e riparare gli attrezzi agricoli, e tutti i contadini della zona, prima o poi, avevano bisogno di rivolgersi a lui. In realtà la famiglia di Isabel era ancora più povera di quella di Juan, perché il padre era tanto bravo nel lavoro quanto poco deciso nel farsi pagare, e spesso si lasciava impietosire accettando compensi molto inferiori a quanto avrebbe meritato e a quanto gli sarebbe servito per vivere. Oltre a essere buono, il padre di Isabel era anche intelligente, e aveva voluto a tutti costi mandare la figlia a scuola, anziché costringerla a lavorare per portare a casa qualche soldo; pensava che solo studiando Isabel avrebbe avuto un futuro migliore e che forse anche la famiglia ne avrebbe tratto vantaggio.
Isabel vide dalla finestra che Juan la aspettava seduto su una pietra. Uscì velocemente dalla casa, salutò l’amico, e insieme si incamminarono attraverso la campagna.
La strada che portava al paese era abbastanza larga, ma come tutte le strade di quella regione, e come la maggior parte delle strade di quella nazione, era poco più di un sentiero in terra battuta, dal fondo sconnesso, reso ancora più irregolare dai solchi lasciati dal passaggio dei pesanti carri che trasportavano il raccolto dei campi.
La pioggia appena caduta aveva formato centinaia di pozzanghere, ma soprattutto il fondo stradale era ridotto a un ammasso di fango. Juan trascinava faticosamente i pesanti e stretti scarponi, che a ogni passo sprofondavano nella melma. Isabel sembrava procedere più agilmente, perché calzava dei sandaletti di gomma tenuti insieme da una corda sottile; i suoi piedi nudi, però, si ricoprirono ben presto di uno spesso strato di terriccio.
Nonostante le difficoltà, i due bambini cercarono di accelerare il passo, procedendo silenziosamente per risparmiare il fiato. Faticarono moltissimo a raggiungere la costa della collina che dovevano valicare, perché in salita le loro gambe scivolavano all’indietro quasi a ogni passo. Finalmente, arrivati sulla sommità, videro come ogni giorno stendersi davanti a loro la vallata in cui sorgeva il paese più importante della zona.
Avrebbero voluto correre lungo la discesa, ma dovevano prestare molta attenzione perché rischiavano continuamente di cadere, trascinati dal fondo melmoso, o di scivolare sui sassi resi viscidi dalla pioggia. Quando raggiunsero la pianura aumentarono ancora il passo, anche perché stava ricominciando a piovere.
Juan e Isabel coprirono di corsa gli ultimi metri che li separavano dall’abitato, sperando di anticipare l’arrivo del temporale. Raggiunsero così la scuola in perfetto orario, appena prima delle nove, giusto in tempo per l’inizio delle lezioni. Avevano camminato per quasi un’ora, come tutti i giorni.

I bambini si radunarono all’interno dell’aula. Erano una ventina, con una netta prevalenza di maschietti, ed erano tutti presenti, cosa che poteva essere considerata un evento davvero straordinario.
La maestra – una ragazza di neppure vent’anni che era nata nella casa di fronte a quella di Isabel, ma che si era trasferita a vivere in città per studiare – sembrava più stanca del solito, ed era anche insolitamente poco curata, con gli abiti sgualciti e i capelli completamente spettinati. Spiegò ai bambini che aveva dovuto dormire in classe, restando lì dal giorno prima, perché il pullmino che di solito passava a prenderla in città per portarla alla scuola sarebbe dovuto rimanere a disposizione degli attesi ospiti.
Per alcuni dei bambini questa spiegazione fu del tutto superflua. Molti tra quelli che abitavano distanti dal paese, infatti, venivano anch’essi prelevati solitamente dallo stesso pullmino; quel giorno, invece, avevano dovuto venire a piedi, alcuni camminando anche per più di due ore. La scuola era frequentata da bambini che vivevano sparpagliati nei villaggi di un’area piuttosto vasta; a parte quei pochi che abitavano in paese, gli altri dovevano ogni giorno affrontare un duro viaggio, ben più lungo e faticoso di quello di Juan e Isabel.
La maestra fece ancora una volta tutte le raccomandazioni del caso, le stesse che aveva fatto praticamente ogni giorno nell’ultima settimana. Ricordò che avrebbero dovuto essere gentili con gli ospiti, che avrebbero finalmente conosciuto di persona quei ragazzi dai quali due o tre volte all’anno ricevevano pacchi di bellissime lettere, alle quali rispondevano inviando brevi pensieri e coloratissimi disegni. Raccomandò loro di non essere timidi, di raccontare quello che facevano a scuola, perché certamente, attraverso la corrispondenza, gli ospiti conoscevano ben poco della loro vita. Parlò dell’importanza di avere amici che vivevano in una realtà completamente diversa e sottolineò il valore di questo incontro.
Quello che la maestra non raccontò, anche se lei lo sapeva bene, era che la scuola esisteva grazie all’aiuto di ragazzi come quelli che sarebbero arrivati tra poco. Si trattava infatti di una scuola messa in piedi da un’organizzazione internazionale grazie ai contributi raccolti in diversi Paesi europei, versati da famiglie, gruppi, associazioni, aziende. I ragazzi che venivano in visita rappresentavano appunto la delegazione di una scuola che ogni anno raccoglieva una somma piuttosto significativa per donarla all’organizzazione che aveva creato la scuola e la faceva funzionare.
Grazie ai soldi raccolti era stato possibile costruire il piccolo edificio che li ospitava, era stato acquistato il pullmino che ogni giorno trasportava la maestra e gli alunni più lontani, erano stati acquistati penne, quaderni e qualche libro, erano state regalate ai più bisognosi quelle tute verdi e gialle che quel giorno quasi tutti i bambini indossavano. In qualche caso, i soldi erano anche serviti per aiutare economicamente le famiglie, così da convincerle a non mandare i bambini a lavorare, permettendo invece loro di frequentare la scuola.
Tutte queste cose, la maestra non le raccontò, come non le aveva mai raccontate; le sembrava importante che i bambini considerassero la scuola come un loro diritto, e non come il frutto di una beneficenza fatta da qualcuno. Su questo punto, d’altra parte, sapeva bene che erano d’accordo anche i responsabili dell’organizzazione e gli insegnanti che avrebbero accompagnati i ragazzi europei in visita. Ai ragazzi, che sapevano bene come stavano le cose, era stato raccomandato di non fare nessun cenno alle donazioni, di non atteggiarsi a benefattori, di non aspettarsi ringraziamenti. La visita doveva essere solo un incontro tra amici lontani.

 La maestra parlava, ma i bambini erano sempre meno attenti. Qualcuno accennava persino ad addormentarsi, perché si era dovuto alzare molto presto e aveva camminato per ore prima di arrivare a scuola.
A conciliare il sonno contribuiva anche il clima. Fuori continuava a piovere e l’aula in cui erano radunati era semibuia, immersa in un torpore profondo e avvolta dall’umidità.
I bambini erano contrariati. La pioggia li avrebbe costretti a ricevere gli ospiti in classe, mentre avrebbero preferito incontrarli stando nel prato, sotto quella specie di patio naturale formato da alcuni alberi dove si svolgeva la maggior parte delle lezioni. Il più delle volte, infatti, la maestra faceva lezione all’aperto, e tutto sembrava più bello e più allegro.
L’attesa si prolungava. I bambini si accorsero che c’era un’altra novità che li disturbava: avevano fame. Di solito, il pullmino portava delle razioni di latte, un po’ di pane o di riso, qualche tortilla; in questo modo i bambini facevano a scuola quella colazione che a casa non si potevano permettere. Ma quella mattina il pullmino non era arrivato, e neppure la loro colazione.
Nonostante gli sforzi della maestra, il buio, la pioggia, il freddo, la fame e il sonno stavano per avere la meglio. L’entusiasmo che animava tutti i bambini quando erano arrivati a scuola era ormai scemato.

 Il pullmino aveva dovuto affrontare un viaggio davvero impegnativo, per salire dalla città fino al paesino tra le montagne. Terminata la strada asfaltata, aveva incominciato a inerpicarsi lungo le carrettiere di campagna invase dall’acqua e dal fango, rischiando di impantanarsi a ogni curva. Era stato un viaggio avventuroso e pericoloso: per fortuna, gli assonnati ospiti stranieri si erano appisolati subito dopo la partenza, e la maggior parte di loro non si era quasi resa conto delle difficoltà affrontate.
Poco dopo le undici, strombazzando il clacson per annunciarsi, il pullmino superava le ultime case del paese e piombava nella spianata di fronte alla scuola.
I bambini uscirono di corsa dall’aula, improvvisamente ridestati, inseguiti dalla maestra che aveva rinunciato all’idea di riportare la calma. Aveva nuovamente smesso di piovere, ma tutto il prato era allagato, come la spianata di fronte all’ingresso.
Il primo a scendere dal mezzo fu Quique, l’autista, che era un giovane nato nel paese, ma che lavorava per l’organizzazione. A causa del lavoro, la sua vita era in un certo senso organizzata a rovescio; dormiva in città, arrangiandosi con un materasso che stendeva in ufficio, e alla mattina tornava verso casa, trasportando la colazione, la maestra e gli alunni che raccoglieva lungo il percorso. Si riposava nella sua abitazione e, terminata la lezione, tornava a valle verso la città, per trascorrere la serata facendo qualche lavoretto nella sede dell’organizzazione.
Dopo Quique scese Ana, la responsabile locale dell’organizzazione, che era una giovane laureata, molto simpatica, che i bambini avevano visto solo poche volte. Quindi scesero un paio di adulti, che dovevano per forza essere gli insegnanti accompagnatori dei ragazzi stranieri: un uomo calvo, molto magro e piuttosto basso, con degli occhialini tondi, e una donna bionda, non molto giovane ma inaspettatamente dinamica, quasi frenetica.
Per ultimi scesero i ragazzi, e fu una mezza delusione. Erano solo una decina, cinque maschi e cinque femmine, perché poche famiglie avevano accordato il permesso di portare i loro figli in un viaggio dall’Europa a uno sperduto paesino tra le montagne del Centro America. Inoltre apparivano imbronciati, scontrosi, poco disposti a rispondere agli spontanei festeggiamenti dei bambini; provati dal lungo viaggio, assonnati, infreddoliti, non cercavano nemmeno di simulare entusiasmo per lo storico incontro.
Gli insegnanti delle due scolaresche cercarono subito di favorire la comunicazione, facendo domande, stimolando i ragazzi, tentando di provocare curiosità. Ottennero uno scarso successo. L’unica cosa che fece nascere una simpatia reciproca fu il fatto che ragazzi e bambini scoprirono, quasi con sorpresa, che davvero parlavano la stessa lingua, o meglio, parlavano quella lingua che ai bambini centroamericani veniva insegnata a scuola, e che non era certo quella che parlavano abitualmente in famiglia. Furono contenti di poter parlare, capire e farsi capire, perché un po’ tutti, chissà per quale motivo, si erano convinti di ricevere gli uni dagli altri una corrispondenza che veniva fatta tradurre dagli insegnanti.
Faticosamente, il ghiaccio si stava sciogliendo. Bambini e ragazzi si stavano avviando verso l’edificio scolastico, quando videro che Quique, aperto il portellone posteriore del pullmino, stava scaricando dal bagagliaio un enorme pacco regalo, incartato e infiocchettato. Il pacco attirò l’attenzione di tutti, e le due scolaresche si misero a saltellare accodandosi all’autista che, non senza fatica, trasportava lo scatolone all’interno dell’aula.

 Il gruppo si trasferì in massa nella piccola aula umida e buia. Su sollecitazione degli insegnanti, i ragazzi europei e i bambini centroamericani cercarono di mescolarsi un po’, mentre prendevano posto sulle scomode panche.
Per la verità, non si mischiarono molto. I bambini apparivano in soggezione, nonostante le raccomandazioni della maestra, e ora, dopo l’iniziale entusiasmo, la timidezza stava prendendo il sopravvento. Avevano paura di far brutta figura, di dire cose sciocche e infantili, poco interessanti per quei ragazzi certamente molto più maturi (dovevano avere dodici o tredici anni, per quanto gli era stato detto, e c’erano quindi solo tre o quattro anni di differenza; ma a loro sembravano decisamente molto più grandi).
I ragazzi europei erano invece un po’ perplessi: non credevano di trovarsi di fronte a gente così rozza e malmessa. I maschi sembravano più accondiscendenti, forse perché invidiavano le comode tute, che consideravano un abbigliamento ideale per andare a scuola; trovavano però ridicoli quei bambini scuri, con i capelli neri schiacciati sulla fronte e quei lineamenti strani, con quegli zigomi alti e gli occhi tagliati che li facevano sembrare dei piccoli orientali. Le femmine erano sinceramente disgustate dalla trasandatezza delle bambine, con quei capelli arruffati, quei vestitini improponibili e sporchi, e, vero orrore, ai piedi quegli scarponi da montanaro o quelle ciabattine infangate da mendicante.
Fu Ana, la responsabile dell’organizzazione, a fare le presentazioni ufficiali, a ricordare il motivo di quell’incontro e a riassumere brevemente la storia del rapporto di amicizia epistolare tra le due scuole. Parlò con parole semplici, senza enfasi, cercando di mettere tutti a proprio agio.
Quindi toccò alla maestra parlare. Iniziò col presentare la classe e proseguì parlando dello svolgimento delle attività scolastiche, degli orari, delle materie. Dopo pochi minuti fece però in modo di accorciare il suo intervento, precipitando le conclusioni. Anche per lei, la timidezza aveva prevalso, soprattutto perché si era resa conto di aver infilato un paio di gravi errori grammaticali nel suo faticoso intervento in spagnolo (che, per quanto avesse studiato un po’, non era la sua vera lingua), suscitando l’ilarità dei ragazzi ospiti e due sdegnate occhiatacce della collega professoressa che li accompagnava.
Quando fu il turno degli ospiti, parlò per primo il professore, che disse di chiamarsi Jordi, raccontò qualche particolare divertente su Barcellona (la città da cui provenivano) e cercò di sbrigarsela rapidamente. Anche lui, stranamente, sembrava imbarazzato.
La sua collega, che si presentò come Blanca, iniziò invece con baldanza un discorso lunghissimo e complicato, pieno di paroloni che i bambini non capivano assolutamente e che sembravano in parte oscuri anche ai suoi allievi. Parlò di “intercultura”, di “mediazione”, di “sperimentazione sul campo”, di “mondialità”, di “educazione allo sviluppo” e di tante altre cose di cui quasi nessuno capì il senso, tranne forse la responsabile dell’organizzazione, che peraltro appariva anche lei spazientita.
Le scolaresche sembravano comunque disinteressate ai discorsi, perché gli occhi di tutti erano concentrati sull’enorme pacco regalo che troneggiava appoggiato sul banco della maestra (che non era una cattedra, ma un tavolaccio di legno scuro come quelli degli alunni). I bambini non vedevano l’ora di scoprire quale sorpresa era stata loro portata dalla lontana Europa. I ragazzi non vedevano l’ora che i bambini scoprissero cosa conteneva lo scatolone.
Gli alunni della scuola centroamericana, in maggioranza, speravano che l’enorme involucro contenesse decine di quaderni, matite, pennarelli, per poter scrivere e disegnare liberamente. Alcuni immaginavano che all’interno vi fossero tanti libri, e speravano che fossero libri illustrati, pieni di belle immagini colorate che li aiutassero nello studio.
Con gli occhi fissi al banco della maestra, Juan era letteralmente rapito dalla coloratissima confezione del pacco, ben diversa da quei freddi imballaggi tutti bianchi che avvolgevano i pochi regali che aveva ricevuto per la prima comunione o che aveva visto girare per casa quando era stato battezzato il piccolo Felipe. Gli piaceva tantissimo quella confezione, perché l’insieme di colori gli ricordava le borse di sua madre e certi mantelli bellissimi che aveva visto indossare in paese nei giorni di festa. 
Mentre la professoressa Blanca continuava il suo incomprensibile e sempre più entusiastico discorso, il pacco regalo era ormai diventato l’assoluto protagonista delle attese di tutti i presenti. E, prima sommesso, poi sempre più nitido, il chiacchiericcio dei bambini centroamericani e dei ragazzi spagnoli cominciò a salire dal fondo dell’aula.

 Finalmente la professoressa Blanca concluse il suo discorso, proclamando trionfante, come se fosse una sorpresa, quell’ovvia verità che già tutti conoscevano: «per questo, cari amici della scuola di San José, vi abbiamo portato da Barcellona un regalo!».
Tutti si scossero, come percorsi da una scarica elettrica. Inginocchiandosi sulle panche o appoggiandosi sui banchi, i bambini cercavano di guadagnare spazio per vedere meglio quale meraviglia sarebbe spuntata dal grande pacco imballato. Non stavano più nella pelle dalla curiosità.
Il professor Jordi stracciò senza troppi complimenti la carta colorata. Quindi, con un coltellaccio prestatogli da Quique, fece a pezzi la parte superiore del cartone bianco che conteneva il regalo. Aprì lo scatolone e lentamente iniziò a disporre sul banco della maestra alcuni cavi arrotolati, legati e infilati in sacchettini di plastica trasparente.
Infine, aiutato dalla professoressa Blanca che con due mani teneva bloccato lo scatolone, estrasse dall’alto la parte più importante: un grande schermo scuro che si prolungava all’indietro in una struttura di plastica dura, dalla forma simile a quella del muso di un cane. Lo appoggiò delicatamente sul banco e, da ultimo, gli affiancò una specie di cassa metallica, piena di buchi.
L’oggetto sembrava bellissimo, nuovo, imponente e vistoso con il suo colore grigio chiaro. Nell’aula scoppiò un fragoroso applauso: più convinto da parte dei ragazzi spagnoli, più incerto e sbalordito da parte dei bambini che non avevano ancora ben compreso che cosa fosse quella meraviglia.
Uno di loro, improvvisamente, esclamò esultante: «La televisione!». A lanciare il grido di giubilo era stato Gabriel, che era andato un paio di volte in città a trovare dei cugini emigrati dal villaggio e aveva visto qualche bar con il televisore.
I ragazzi spagnoli risero forte. «Ma no! È un computer!» esclamarono in coro, un po’ meravigliati dell’ignoranza dei loro piccoli amici.
I bambini ebbero un attimo di incertezza. In effetti non sapevano bene a che cosa servisse un computer, e soprattutto per che cosa potesse servire a loro. Però ne avevano sentito parlare, sapevano che si trattava di una cosa moderna, di una meraviglia della tecnica. Si rendevano conto che i loro amici avevano portato un regalo davvero importante, qualcosa di assolutamente inaspettato e rivoluzionario.
Se tra i bambini della scuola prevaleva un felice sbigottimento, mentre i ragazzi spagnoli apparivano orgogliosi della loro generosità, ben diverse furono le reazioni degli adulti.
Apppena vide il computer, l’autista Quique, quasi nascondendosi, si coprì gli occhi con un gesto di disappunto, e si allontanò di qualche passo rivolgendo ai professori spagnoli uno sguardo di riprovazione.
La maestra e la responsabile dell’organizzazione erano ammutolite e restavano di fianco al banco rigide, con un’aria imbarazzatissima.
Il professor Jordi si guardò intorno e ben presto assunse un’espressione dubbiosa, mentre solo la sua collega continuava a parlare estasiata, alzando sempre più il tono della voce come se volesse suscitare una reazione entusiasta.
Rivolgendosi al collega, la professoressa Blanca lo esortò decisa a mostrare il grandioso regalo in tutto il suo splendore: «Avanti Jordi, fai vedere ai bambini come funziona il computer!».
Il professore scosse la testa, sconsolato: «Blanca, mi sa proprio che abbiamo sbagliato tutto».
«Come sarebbe a dire che abbiamo sbagliato tutto?» reagì inviperita la professoressa, pensando che il collega avesse dimenticato qualche pezzo, o si fosse scordato qualche dettaglio tecnico.
Intervenne allora, con pacatezza ma con voce molto triste, Ana, la responsabile dell’organizzazione: «Scusi professoressa Blanca, il suo collega vuol farle notare che in questa scuola, come in tutto il paese, non c’è la corrente elettrica. Non abbiamo nessuna presa a cui attaccare il computer, e non possiamo accenderlo né farlo funzionare».

 Nell’aula scese un silenzio di tomba e l’atmosfera si raggelò completamente.
I più delusi sembravano essere i ragazzi spagnoli, fino a un attimo prima tanto fieri del loro ruolo di benefattori dell’umanità. Guardavano muti il computer, e di fianco la scatoletta del modem, che avevano aggiunto al regalo per far collegare i bambini di San José a internet e dar loro la possibilità di scambiare quasi ogni giorno delle e-mail di saluto. I più svegli si chiesero se almeno le linee telefoniche arrivavano in quello sperduto angolo di mondo.
I bambini non avevano capito bene quale fosse il problema, perché pochi di loro sapevano che cosa fosse la corrente elettrica. Però, avevano compreso benissimo che lo splendido regalo era assolutamente inutile, e non sapevano se essere più dispiaciuti per se stessi o per i loro amici spagnoli, che sembravano davvero affranti.
A bassa voce, un po’ spiaciuta e un po’ risentita, la professoressa Blanca si rivolse alle altre due donne: «Mi rincresce, ma davvero non credevamo che questa scuola fosse così povera».
Le rispose seccamente la giovane maestra: «Non è la scuola a essere povera, non sono i bambini a essere poveri; è il nostro Stato che è povero, e ancora di più lo sono paesi e villaggi delle campagne».
Nell’imbarazzo generale, Quique rimise il computer nello scatolone, e quindi appoggiò il tutto a terra, in un angolo seminascosto della classe. Per sdrammatizzare la situazione disse: «Magari, un domani, quando arriverà la corrente elettricà», ma la sua frase cadde nel vuoto.
Improvvisamente, mentre Quique raccoglieva i sacchettini dei cavi e il modem, dal fondo della classe si alzò educatamente la mano di Maria, una bambina molto timida che viveva in una casupola appena fuori dal paese.
«Scusa maestra, posso prendere io i fili?» chiese la bambina.
«I fili? Vuoi dire i cavi del computer?» intervenne la responsabile dell’organizzazione.
«Sì – rispose Maria – mi scusi se non se bene come si chiamano. È che siccome in casa siamo in dodici, mia mamma ha sempre tante cose da lavare. Pensavo che quei fili potrebbero servire per stendere i panni ad asciugare».


   

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