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«Vieni a mangiare con noi o fai la pausa più tardi?».
La voce di Carlotta sembrava piuttosto impaziente: si era già infilata la giacca, aveva preso la borsa e attendeva una risposta precisa dalla collega, mentre con le gambe accennava a muoversi verso l’uscita della stanza.
Sara guardò l’orologio: era già passata la una. «Adesso non ce la faccio – gridò – devo assolutamente finire almeno un’altra scheda entro due ore, se voglio chiudere in tempo la rubrica per la prossima settimana». Carlotta uscì senza neppure replicarle.
Sara prese in mano un elegante depliant, lo lesse con attenzione, cercò di riassumerne le frasi più significative. Poi smise di scrivere sul suo computer, si collegò a internet, digitò l’indirizzo web indicato in fondo al depliant che aveva in mano ed esplorò il sito visualizzato, guardando le foto e cercando qualche ulteriore notizia.
Nelle due ore successive ripeté un’infinità di volte queste operazioni: sfogliare depliant, consultare siti internet, scrivere, controllare carte geografiche, dare un’occhiata ai messaggi ricevuti in posta elettronica, scrivere di nuovo. Alla fine rielaborò le ultime informazioni raccolte, rilesse quanto aveva scritto, corresse un paio di frasi, inserì qualche aggettivo accattivante, ipotizzò un paio di titoli per il pezzo che aveva preparato e stampò il tutto.
Raccolse i fogli stampati, i depliant con le immagini più belle e un cd che conteneva numerose foto. Si alzò dalla scrivania, attraversò tutta la grande stanza in cui si ammassavano redattori e collaboratori del giornale e fece irruzione nell’ufficio di Alberto, il caporedattore.
Sara gli mise sotto il naso tutto il materiale. «Il pezzo sulla Provenza è pronto» disse sbrigativa.
Alberto diede una veloce occhiata e replicò: «E quello sulla costiera amalfitana?».
«Penso di farcela in un paio di giorni» rispose Sara innervosita.
Il caporedattore colse l’astio nelle parole della giovane. «Non prendertela con me, Sara. Sei tu che hai detto di voler chiudere quattro numeri della rubrica entro due settimane per poi andare in vacanza. Non sono certo io che ti obbligo a correre, per me potresti tranquillamente star qui a lavorare con tutta calma».
Sara si morse le labbra. Messe così le cose, il suo capo aveva anche ragione, in teoria. Lei si era impegnata a curare la rubrica “Viaggi e vacanze” per il settimanale femminile a cui collaborava da quasi due anni e il suo compito preciso era di consegnare ogni settimana una scheda dedicata a una meta italiana e una scheda dedicata a una meta estera.
L’impegno era di per sé già abbastanza gravoso, ma di solito riusciva a “chiudere il pezzo” nei tempi previsti senza troppi affanni. Così aveva pensato che c’era la possibilità di prendersi finalmente qualche giorno di vacanza; ma per assentarsi una decina di giorni dal lavoro avrebbe dovuto, nel giro di due settimane, consegnare non solo le solite quattro schede, ma anche le quattro per i due numeri successivi del settimanale. In pratica, per una quindicina di giorni si era trovata con il lavoro esattamente raddoppiato.
«Stai tranquillo. Per venerdì ti consegno la costiera amalfitana. Poi mi chiudo in casa nel fine settimana e ti preparo il Salento e il Garda, così entro giovedì ti faccio anche la California e le crociere nel Mare del Nord. E venerdì prossimo parto e me ne vado in vacanza» promise risentita Sara.
Alberto sorrise sarcastico. «Va bene, se ce la fai per me va bene. Comunque ricordatelo sempre: le vacanze non sono né un diritto né un obbligo. Sai benissimo che puoi partire quando vuoi, a patto che mi consegni il lavoro. Oppure che mi avvisi per tempo in modo che io possa farlo fare a qualcun altro».
Sara se ne andò con un cenno di saluto, evitando di sbattere la porta solo per una questione di educazione. “Il solito ricattatore” pensò. Certo, lei era una collaboratrice non assunta dal giornale, anzi non aveva neppure un vero contratto: consegnava i suoi articoli e veniva pagata in base a quanto avevano stabilito. Certo, lei poteva andare in vacanza quando voleva: peccato che la necessità di consegnare due schede ogni settimana non le lasciasse un momento libero. Naturalmente poteva avvisare per tempo e fare in modo che il caporedattore affidasse per un paio di settimane la rubrica a un’altra collaboratrice; solo che, al ritorno, avrebbe rischiato di sentirsi dire che la sua collaborazione non era più necessaria.
Si chiese se davvero ne valesse la pena: rovinarsi la vita (negli anni più belli della gioventù, per giunta) in cambio di quattro soldi e del sogno di diventare una giornalista vera. Poi pensò che, onestamente, quella vita l’aveva scelta lei: magari aveva sperato di trovare un lavoro più stabile e più interessante, ma poteva anche accontentarsi visto che era solo agli inizi. Infine si ricordò che, a parte tutto, era riuscita a sistemare le cose in modo da poter finalmente andare in vacanza.
E, di colpo, Sara smise di rovinarsi la giornata con i cattivi pensieri.


Quella sera, appena tornata a casa, Sara chiamò la sua amica Ombretta. Erano già passate le nove, e le sembrò opportuno rinviare a più tardi la cena, anche se i morsi della fame si facevano sentire, visto che in pratica aveva saltato il pranzo.
«È fatta! Partiamo venerdì prossimo, ci facciamo una decina di giorni e torniamo lunedì l’altro, così evitiamo anche il traffico del fine settimana» comunicò soddisfatta Sara all’amica che l’avrebbe accompagnata nell’agognata vacanza.
Ombretta avvertì con un certo divertimento il tono eccitato dell’amica. «Sara, non ti sembra di esagerare con l’entusiasmo? Da quanti secoli non ti concedi una vacanza?».
«Onestamente non me lo ricordo più. Da almeno cinque anni, credo», rispose Sara un po’ abbacchiata.
Effettivamente, era da tempo che non si concedeva una vera vacanza. Durante gli ultimi anni di università aveva alternato lezioni ed esami al corso biennale di giornalismo, che oltretutto prevedeva periodi di stage presso alcuni quotidiani, puntualmente organizzati in piena estate; in quei due anni non aveva neppure potuto prendere in considerazione l’ipotesi di un periodo di riposo. Appena discussa la tesi di laurea si era concessa un weekend a Parigi; era la fine di maggio, e pensava di godersi una lunga vacanza durante l’estate seguente. Improvvisamente, però, proprio quando stava per partire con un gruppo di amici, le era stata segnalata la possibilità di collaborare per qualche mese con il settimanale femminile per cui tuttora lavorava: aveva rinunciato al viaggio e si era tuffata nella nuova avventura, che da allora non le aveva lasciato un attimo di respiro.
Ombretta ridacchiò: «Ma come? Proprio tu, l’esperta di viaggi, la grande giornalista di turismo, non fai un vacanza da cinque anni?».
L’ironia di Ombretta era appropriata, ma era anche decisamente sgradevole. Sapeva benissimo che Sara non faceva vacanze da tempo immemorabile, così come sapeva che per l’estate Sara si era dichiarata indisponibile per il giro delle isole greche programmato dal loro gruppo di amici. Per Ombretta questa vacanza di fine giugno con Sara era solo l’antipasto delle lunghe ferie estive, mentre per l’amica rappresentava l’unica fuga dal lavoro che si sarebbe concessa durante tutto l’anno.
«Almeno hai scelto con cura il posto?» chiese ironica Ombetta, visto che aveva lasciato all’amica la scelta della destinazione e l’organizzazione del viaggio.
«Ho confermato oggi la prenotazione – rispose Sara – per quello splendido alberghetto sulle Dolomiti di cui ti avevo già parlato».
«Naturalmente lo conosci di persona» ironizzò ancora Ombretta. Sapeva benissimo che Sara, chiusa in redazione, non aveva modo di ispezionare le mete turistiche che consigliava nella sua rubrica.
Sara non diede peso alle provocazioni dell’amica. «Ne ho parlato in lungo e in largo in un pezzo che èuscito un paio di mesi fa. Non ci sono stata ma lo conosco benissimo: ho visto il depliant, la scheda di presentazione nel sito internet e ho confrontato con quello che ne avevano scritto altre riviste specializzate».
Era la normale procedura di lavoro di Sara. Riceveva valanghe di materiale pubblicitario, per posta o via e-mail, e quando doveva scrivere un articolo su una certa zona andava a recuperare tutte le informazioni, leggeva, cercava di farsi un’idea del posto guardando le fotografie, controllava le sue impressioni consultando qualche sito internet e qualche articolo della concorrenza, si costruiva un’immagine della località e la descriveva, completando il pezzo con tutte le informazioni pratiche che potevano servire al turista.
«E non dimenticare – concluse Sara – che, anche se non vedo personalmente i posti, posso sempre contare sul mio fiuto giornalistico e sul mio proverbiale intuito».


Le due amiche erano partite in auto in tarda mattinata, pensando che quello fosse l’orario migliore per non trovare traffico. Si erano fermate in autostrada, verso l’ora di pranzo, per fare una colazione abbondante, prima di lasciare il fondovalle e inerpicarsi verso la loro destinazione.
«Comodamente raggiungibile in meno di un’ora dall’uscita dell’autostrada percorrendo la strada statale dei Tre Passi» recitò sarcastica Ombretta. Quindi, letta la frase, ripiegò sulle ginocchia l’articolo di Sara in cui si parlava della loro meta e della strada per raggiungerla.
In realtà da quasi due ore stavano arrancando lungo una strada trafficatissima, con pullman, trattori, vecchie auto pilotate da incerti contadini, code di fuoristrada dei non pochi turisti che avevano invaso la valle. L’attraversamento dei due centri turistici più noti, posti un po’ più in basso rispetto al paese verso cui si dirigevano, era avvenuto praticamente a passo d’uomo. Sara era troppo impegnata a guidare per rispondere alle ironie dell’amica.
Finalmente entrarono nel paese. Lo attraversarono rapidamente, giacché si trattava di un pugno di case disposte a cavallo della statale, continuarono la salita prendendo una curva secca verso sinistra e quasi subito incrociarono un vistoso cartellone che recava il disegno di un albergo e una imperativa freccia verde: “Agriturismo Il Prato - 50 metri”.
Accostarono l’auto sul ciglio della carreggiata e guardarono perplesse. Una sassosa stradicciola sterrata si arrampicava per una cinquantina di metri attraverso un prato spelacchiato, per terminare davanti all’ingresso di un alberghetto dall’apparenza carina ma non entusiasmante.
Scesero dall’auto, la chiusero per prudenza e si incamminarono faticosamente lungo il ripido sentiero. Giunte alla porta dell’albergo, entrarono con cautela e attesero l’arrivo della proprietaria.
«Buongiorno – esordì Sara – abbiamo prenotato una camera doppia non matrimoniale…». La signora chiese i loro nomi, si fece consegnare i documenti e, con fare sbrigativo, consegnò le chiavi di una camera.
«È una doppia matrimoniale. Abbiamo solo doppie matrimoniali. Probabilmente non ci siamo capite bene per telefono» spiegò spiccia.
Sara sfoderò un foglio di carta: era la stampata della mail che aveva inviato all’agriturismo per confermare la prenotazione, con relativa risposta. «Veramente non ci siamo parlate per telefono. Questa è la richiesta che vi ho inviato, con tanto di ok da parte vostra per la doppia non matrimoniale».
La signora stava per spazientirsi. Ombretta capì la situazione e intervenne scherzosa: «Dai, Sara. Non ti vergognerai mica a dormire con me! Lo abbiamo fatto tante volte fin da ragazzine». Per Sara era una questione di principio, ma preferì non insistere per non iniziare subito la vacanza con il piede sbagliato.
«Piuttosto – proseguì Ombretta squadernando il giornale con l’articolo di Sara – qui si dice che c’è un “comodo parcheggio adiacente” al vostro albergo. Dove si trova, che così ci piazziamo e scarichiamo l’auto?».
La signora si avvicinò alla finestra da cui si vedeva la strada. «Quella è la vostra auto?» chiese. Ottenuta conferma, indicò loro una spianata poco più avanti, sulla sinistra della carreggiata, appena alle spalle delle case del paese. «È lo spiazzo davanti alla scuola elementare. D’estate, quando le scuole sono chiuse, lo possiamo usare come parcheggio».
A conti fatti, si trattava di percorrere un centinaio di metri a piedi, metà dei quali lungo la ripida erta sassosa, per andare dal “parcheggio” all’albergo. Le due amiche si guardarono perplesse, ma ancora una volta inghiottirono il boccone senza protestare.
Rimaste sole davanti all’ingresso, Sara e Ombretta si guardarono intorno e videro qualcos’altro che non le rese felici. La strada sottostante, lungo la quale avevano parcheggiato l’auto, continuava per un centinaio di metri, poi piegava verso destra con un brusco tornante e risaliva la montagna passando proprio alle spalle dell’albergo; tra il retro dell’albergo e la statale si resero conto che vi erano non più dieci o quindici metri.
“Splendido agriturismo immerso nel verde”, recitava il depliant pubblicitario che Sara aveva ripreso pari pari per descrivere l’albergo nel suo articolo. Guardò la foto che aveva scaricato dal sito internet dell’agriturismo “Il Prato”. Era scattata dalla strada, e sembrava che la costruzione sorgesse nel bel mezzo di un isolatissimo prato alle cui spalle si stagliava un imponente bosco. L’abile gioco della prospettiva aveva reso invisibile la fenditura disegnata dalla strada che correva tra l’albergo e il bosco; a ben guardare, la foto doveva anche essere stata ritoccata, perché non si scorgevano le sagome dei paracarri che punteggiavano lo sfondo reale alle spalle dell’agriturismo.
Sconsolate, tornarono all’auto, la parcheggiarono davanti alla scuola, scaricarono i bagagli e li trascinarono faticosamente lungo la ripida salita fino all’ingresso dell’albergo, e da qui nella loro stanza.
Si resero subito conto che la camera non era posizionata in modo particolarmente felice: era al primo piano, sul retro della costruzione, e la finestra dava giusto sulla statale, che veniva in pratica a trovarsi esattamente all’altezza della loro stanza. Quindi, niente “splendida vista sulla vallata”, ma solo l’incombente presenza del bosco.
Per di più, la stanza era veramente angusta, con il letto nel centro, due mensoline al posto dei comodini, un armadio a muro senza grandi spazi, una sedia, un minuscolo bagno in cui si allineavano appiccicati tra loro il lavabo, il water e la doccia; non c’era neppure il bidet, osservarono con disgusto.
“Eleganti camere con tutti gli spazi essenziali a disposizione dei visitatori” recitava il solito depliant. «Spazi davvero molto essenziali» commentò Sara, seccata per essersi lasciata ingannare dall’uso di questa parola dall’ambiguo significato, che poteva indicare “tutto ciò che serve” come, ed era questo il loro caso, soltanto “lo stretto indispensabile”.
Ombretta rise di gusto. Si levò le scarpe e si buttò sul letto, mentre Sara iniziava furente a disfare le valige. Dopo pochi minuti le due amiche si guardarono in faccia: «Meglio che facciamo prima di tutto una bella doccia – concordarono – altrimenti, sudate come siamo, rendiamo subito irrespirabile l’aria di questa spaziosa e arieggiata cameretta».
Dopo essersi ripulite e cambiate d’abito, Sara e Ombretta scesero al piano terra e si sedettero sulle due poltroncine che stavano di fronte al banco della reception.
«Quest’angolo deve essere la “accogliente host per ricevere gli ospiti” di cui hai parlato nel tuo articolo, vero?» riprese subito a provocare Ombretta, scomodamente incassata nella stretta poltrona. «Forse dovevo precisare “salvo che per amiche alte e rompiscatole”» replicò Sara, sogghignando di fronte allo spettacolo delle lunghe gambe che Ombretta aveva contorto in modo innaturale per evitare che le ginocchia si ritrovassero all’altezza del mento.
La loro intenzione era quella di bloccare la proprietaria dell’agriturismo per chiedere qualche informazione e qualche consiglio. La donna transitò davanti ai loro occhi un paio di volte, con un’aria indaffarata e un’espressione ingrugnita che scoraggiarono qualsiasi domanda. Dopo un po’ arrivò un giovane sui vent’anni, piccolo e muscoloso, che dalle battute scambiate con la donna capirono essere il figlio della proprietaria. Le amiche decisero di rivolgersi a lui.
«So che non fate servizio di pensione completa e che non avete ristorante. Vendete per caso qualche prodotto tipico?» chiese educatamente Sara.
«No» rispose timido e spiccio il ragazzo.
Intervenne la madre, che passava da quelle parti: «Guardi che non abbiamo né orti, né coltivazioni, né animali nostri» tagliò corto.
Sara si stupì. “Tipico agriturismo di montagna” prometteva infatti il depliant propagandistico. «Scusi – osò dire – ma se siete un agriturismo dovreste avere dei vostri prodotti, dei campi o delle stalle da visitare».
La proprietaria rispose con sgarbo, ma quasi divertita da tanta ingenuità: «Guardi che forse non conosce bene la legge. Per ottenere la qualifica di agriturismo è solo necessario avere un’altra attività economica, di tipo agricolo o forestale, prevalente rispetto a quella alberghiera. E la nostra famiglia è per l’appunto proprietaria di tutti gli ettari di bosco che vede estendersi qui sopra fino a dove iniziano le pietraie. La nostra attività prevalente è la produzione di legname».
Digerita l’ennesima delusione, le giovani scesero in paese. Non avevano molta voglia di cenare, nonostante avessero già saltato il pranzo. Si rifugiarono in una gelateria reclamizzatissima, dove cercarono di saziarsi con due enormi coppe di gelato accompagnato da cialde e cioccolata. Non furono particolarmente soddisfatte, perché il gelato non era certamente di quello artigianale, ma erano troppo stanche per far polemiche e pagarono senza fiatare l’esorbitante conto, nel quale era certamente compreso il prezzo del prezioso panorama sulla passeggiata serale dei villeggianti lungo i marciapiedi che costeggiavano la statale.
Con lo stomaco vuoto, stanche e deluse dal primo impatto, le due amiche guadagnarono ben presto la loro cameretta dove, dopo aver letto un po’ di giornali che si erano portate, si addormentarono.


Stavano ancora dormendo profondamente quando entrambe si ritrovarono a sobbalzare spaventate. A destarle bruscamente era stato l’imperioso e ripetuto suono di un clacson bitonale, che si ripeté pochi secondi dopo, con identica violenza.
Sara e Ombretta notarono che dalle persiane filtrava una luce ancora incerta; guardarono la sveglia e videro che erano le sei e mezza.
Poco dopo, mentre si erano appena riappisolate, furono scosse da un festoso scampanio della vicina chiesa, il cui campanile distava poche decine di metri in linea d’aria. Quindi, a distanza di qualche minuto, fu la volta di un nuovo concerto del clacson bitonale, sempre con doppia esecuzione. Rinunciarono a tentare di continuare a dormire.
La giornata non poteva iniziare peggio, ma quando si fecero spiegare dal figlio della proprietaria come stavano le cose, il loro nervosismo aumentò ulteriormente. Ogni mattina, intorno alle sei e mezza, passava il pullman che saliva lungo la statale verso il passo e, affrontando ciascuno dei due tornanti che circondavano l’albergo, segnalava rumorosamente la propria presenza a eventuali automobilisti in discesa verso valle. Dopodiché le campane chiamavano i valligiani a raccolta per la quotidiana messa delle sette. Infine, il pullman che scendeva lungo la statale, poco dopo le sette, ripeteva le operazioni acustiche di segnalazione fatte prima dal collega che procedeva in senso inverso. Volendo resistere a questa prima ondata di rumori, bisognava mettere in conto un’altra scampanata per la messa delle otto e un paio di pullman in transito, quasi simultaneo, poco dopo; a seguire, sarebbe iniziato il traffico di auto private, che non era meno fastidioso.
«Dopo un po’ ci si fa l’abitudine» spiegò con indifferenza il giovane. “Dopo un po’ la vacanza sarà già finita” pensarono Sara e Ombretta.
Il loro cattivo umore peggiorò quando entrarono nella sala apparecchiata per la colazione. Sul tavolo al centro della stanza alcuni bricchi contenevano caffè solubile, orzo solubile e un tè dall’incerto colore paglierino; accanto erano allineati i vassoi con brioches confezionate, merendine confezionate, tortine confezionate, una scatola di biscotti confezionati.
Speravano, almeno per la colazione, di trovare marmellate caserecce, burro locale, latte appena munto, qualche dolce tipico del luogo sfornato di fresco. Fecero presente la loro delusione al figlio della proprietaria, che mugugnò qualcosa di incomprensibile, si strinse nelle spalle e se ne andò borbottando.
Stavano ancora commentando sfavorevolmente il servizio e la scarsa cortesia del ragazzo, quando nella sala fece irruzione una giovane donna bruna, piccoletta, grassoccia, ma dal sorriso contagioso e dalla parlantina sciolta.
«Sono Rosy – si presentò affabile – la figlia della proprietaria. In realtà sono io che mi occupo dell’accoglienza dei visitatori, ma ieri non ci siamo conosciute perché ero in città per richiedere certi permessi». Poteva avere circa venticinque anni, quindi era quasi loro coetanea. Sara e Ombretta pensarono di aver trovato finalmente una presenza amica, che le avrebbe aiutate a scovare gli aspetti positivi della loro sistemazione.
«So che vi siete lamentate per la colazione – proseguì – ma purtroppo devo dirvi che siamo obbligati per legge a servire solo prodotti confezionati. Gli agriturismi che non fanno servizio ristorante non possono, per regolamento, servire alimenti freschi neppure a colazione».
Ombretta guardò con aria interrogativa Sara, che si ricordò improvvisamente di aver già sentito parlare di questa regola, di cui si era però dimenticata al momento di prenotare quell’agriturismo che offriva solo pernottamento e prima colazione.
La ragazza proseguì parlando quasi senza prendere fiato, sempre tenendo stampato sul viso il suo sorriso di ordinanza. Spiegò che era diplomata alla scuola alberghiera, che aveva rimodernato lei l’albergo razionalizzando gli spazi (“ovvero dimezzando l’ampiezza delle camere”, pensò Sara, che un pochino sapeva interpretare certe frasi fatte) e trasformando l’antica struttura familiare in un agriturismo “rustico ma confortevole”, come lo definì riprendendo pari pari le parole scritte nel depliant pubblicitario.
Sara la interruppe: «Sei tu che ti occupi di inviare ai giornali il materiale pubblicitario e che curi il sito della vostra azienda, vero?». Le era venuto spontaneo passare al “tu”, vista la coinvolgente complicità con cui si proponeva la sua interlocutrice.
«Sì, certo. Avete consultato il nostro sito? Vi è piaciuta la presentazione?» rispose con compiacimento Rosy, fiera di aver accalappiato due clienti con la sua abilità di venditrice telematica.
Sara cominciò a intuire di avere di fronte la responsabile dei tanti equivoci che avevano avvelenato le loro prime ore di vacanza. Sotto l’apparenza amichevole quella ragazza nascondeva probabilmente l’animo di una scaltra illusionista, abilissima a giocare con le parole per trasformare la realtà in accattivanti miraggi. Sara, ormai sospettosa, decise di metterla alla prova.


Le due amiche avevano pensato di trascorrere il sabato in totale relax, evitando gite in macchina o camminate lungo sentieri battuti, supponendo che durante il fine settimana avrebbero corso il rischio di trovarsi imbottigliate dal traffico automobilistico o di passeggiare nei boschi gomito a gomito con centinaia di escursionisti.
Sara, approfittando della situazione, prese in mano il depliant pubblicitario dell’agriturismo e mostrò a Rosy la parte che magnificava “Servizi e attrezzature per il corpo come in una beauty farm. La struttura dispone di una spa e offre la possibilità di sedute di idroterapia, elioterapia, bagni di fieno”.
Chiese alla ragazza di visitare le strutture per la salute. «Pensavamo proprio di passare la giornata qui e ci piacerebbe vedere gli spazi che avete approntato per la cura del corpo».
Saltellando entusiasta, Rosy condusse le due amiche nel prato che si trovava sulla destra della costruzione. «Ecco qui, tutto a vostra disposizione!» esclamò soddisfatta. Sara e Ombretta videro soltanto un paio di sdraio, un angolo di praticello rasato all’inglese, una vasca poco più grande delle piscinette gonfiabili per bambini, una specie di carro senza ruote ricolmo di fieno.
«Francamente pensavo ci fossero dei locali attrezzati, delle strutture un po’ più curate» protestò Sara. «Qui non vedo la possibilità di fare tutte le terapie che avete elencato. E poi la spa dove sarebbe? Non dovrebbe avere a che fare con le cure termali?».
Rosy sorrise. «Qui si può prendere il sole, sdraiarsi nel fieno, fare il bagno in piscina. Tenete presente che ogni quarto d’ora produciamo un flusso d’aria che simula gli effetti dell’idromassaggio. Non è niente di più né niente di meno di quanto promesso».
Sara si rese conto che ancora una volta si era lasciata ingannare da parole che, a rigore, dovevano avere un preciso significato, ma che nella pratica del gergo turistico erano ormai passate a indicare opportunità molto generiche. Si sorprese a pensare a tutti quei posti che aveva consigliato nella sua rubrica per l’idroterapia o l’elioterapia, e le parve di sentire le maledizioni dei visitatori ridotti a prendere il sole su un fazzoletto di prato o a bagnarsi in una minuscola piscina da giardino.
Rassegnate, le due amiche si sedettero sulle sdraio, senza neppure svestirsi; avrebbero riposato un po’ cercando almeno di far abbronzare il viso e le gambe.
Ombretta non risparmiò la frecciata all’amica: «Certo che sei bravissima a farti fare fessa da queste pubblicità. Abbocchi proprio a tutto quello che ti lasciano credere».
«Sono sicura che di solito le cose non vanno così. È questa ragazza che è una furbacchiona e una truffatrice. Ha giocato con le parole e mi ha fregato, ma di solito quando uno va in giro trova quello che gli è stato promesso» replicò Sara, temendo però che questa risposta servisse più a convincere se stessa che l’amica.
Dopo un’oretta lo “spiazzo della salute” fu invaso da un gruppetto di bambini pestiferi, che cominciarono a schizzarsi l’acqua della piscina e a saltare sul carro di fieno lanciando urla e inseguendosi bellicosamente. Alle spalle, intanto, il traffico sulla statale cominciava a farsi intenso e l’odore dei gas di scarico prometteva di sottoporre le amiche a un tipo di terapia che non era certo stata reclamizzato dall’astuta Rosy. Decisero di andarsene.
Passarono il pomeriggio a visitare una piccola frazione, distante pochi chilometri dal paese in cui risiedevano. La località, secondo l’articolo scritto da Sara, doveva essere un “centro dell’artigianato tradizionale del legno”, ma vi trovarono un unico negozietto, peraltro affollatissimo, che vendeva oggetti in legno di chiara fabbricazione industriale. Il proprietario spiegò loro che in effetti nessuno, nella valle, lavorava più manualmente il legno, e che gli oggetti in vendita erano in realtà ispirati alle antiche produzioni artigianali locali, ma venivano realizzati in alcune fabbriche austriache o persino dell’Est Europa. Ombretta non se ne ebbe a male, e riuscì a godersi perlomeno l’architettura delle vecchie case in pietra e legno, davvero suggestive; Sara, invece, continuò a rimuginare la sua delusione per il mancato acquisto di un pezzo di autentico artigianato e si sentì in colpa per questa ulteriore indicazione approssimativa che aveva dato ai suoi lettori.
Per cena, nel tentativo di ricostruirsi una credibilità, Sara trascinò Ombretta nel più famoso ristorante della valle, pubblicizzato da tutte le riviste e segnalato dalle guide gastronomiche. Anche lei ne aveva scritto, definendolo “un locale in cui la sapiente rivisitazione delle tradizioni gastronomiche della valle si sposa con una ricerca di raffinate soluzioni al passo con l’alta cucina innovativa”.
Ombretta, che era una buona forchetta, passò la serata a lamentarsi delle porzioni minuscole che venivano loro servite e dell’inconsistenza dei piatti. In effetti, le portate erano più belle a vedersi che gustose, presentate con raffinatezza estetica ma caratterizzate da improponibili accostamenti che mescolavano i forti sapori della cucina locale con delicati ingredienti esotici.
Le due amiche uscirono dal ristorante affamate, poco convinte di quello che avevano assaggiato, ma in compenso ampiamente alleggerite dopo aver pagato un salatissimo conto. Sulla via del ritorno all’albergo non aprirono bocca; arrivate in camera si infilarono frettolosamente nel letto, augurandosi a mala pena la buona notte.


Il mattino successivo, nonostante il solito rumoroso risveglio, le due amiche cercarono di vedere le cose con una maggior dose di ottimismo.
Dato che si erano alzate molto presto e visto che la giornata prometteva di essere splendida, decisero di approfittarne per una bella passeggiata in alta quota. Oltretutto, essendo domenica, sembrò loro decisamente preferibile evitare di infilarsi nel caos dei frequentatissimi paesini, verso i quali facevano rotta anche i gitanti provenienti dalle città del fondovalle. Inoltre, anche se questo non se lo confessarono apertamente, le due giovani pensavano che immergendosi nella natura incontaminata avrebbero ridotto il rischio di imbattersi in qualche nuova sgradevole millanteria propagandata furbescamente da albergatori, ristoratori e negozianti locali.
L’articolo di Sara non era, in questo caso, di grande aiuto per la scelta della meta. Il pubblico per cui scriveva era di solito interessato soprattutto agli indirizzi alla moda, ai centri estetici o salutisti, allo shopping, mentre era meno affascinato dalle proposte relative a faticose attività sportive.
“Punto di partenza ideale per le escursioni verso le mete più suggestive della valle” si limitava a riferire il depliant de “Il Prato”, parlando della collocazione dell’albergo. Mentre ruminavano le loro stantie brioches preconfezionate, Sara e Ombretta chiesero lumi al silenzioso figlio della proprietaria.
«Ci sono sentieri che partono da qui verso l’alta montagna?» domandò Sara. «Sì, quello per il Rifugio di Pietra parte al di là della statale, sul retro dell’albergo» informò, sbrigativo come sempre, il ragazzo.
Perfettamente attrezzate con i loro scarponi e gli zaini, le giovani dopo pochi minuti si inerpicavano lungo il sentiero, ben segnalato, che partiva dove aveva indicato il giovane. La strada era tutta in salita, costantemente ripida, e attraversava lo sterminato bosco. Purtroppo, anziché snodarsi tra gli alberi, il sentiero procedeva a zig-zag seguendo l’unica lingua di terra brulla e pietrosa che tagliava il bosco, nel punto in cui si trovavano i pali della teleferica che, evidentemente, era stata costruita per portare i viveri dal paese al rifugio.
Presto il sole si affacciò impietoso oltre le cime delle montagne circostanti e iniziò a picchiare sulle teste delle giovani. L’ascesa, sempre più faticosa, durò per più di due ore, fino a quando, oltre una balza, le escursioniste cominciarono a vedere nitidamente il tetto del rifugio, la loro agognata meta. Sorrisero solevate, perché la fatica e il caldo insopportabile stavano ormai per costringerle alla resa, e avevano temuto di dover rinunciare alla loro impresa.
Affrettarono il passo e in pochi minuti furono alla balza che avevano intravisto dal basso. Si trovarono su una spianata in terra battuta, quasi interamente occupata da decine di automobili parcheggiate. Anziché continuare a seguire i pali della teleferica, che piegavano verso sinistra, le due giovani attraversarono lo spiazzo scendendo verso destra, raggiungendo in breve la strada asfaltata, anche piuttosto ampia e ben tenuta, da cui continuavano a giungere auto.
Guadagnarono l’ingresso del rifugio e a fatica trovarono un tavolino libero in una stanzetta all’interno, perché la terrazza soleggiata e i locali più ampi e panoramici erano già invasi da torme di turisti che prendevano il sole o si divertivano in chiassose comitive. Erano tutti ovviamente freschi e riposati, perché erano giunti fin lì con le loro auto.
Affrante, Sara e Ombretta chiesero spiegazioni al gestore del rifugio, che si era premurosamente occupato subito di loro, vedendo le penose condizioni in cui erano ridotte. Seppero così che da un paio di anni era stata aperta la comoda strada asfaltata che avevano intravisto, che la si prendeva proprio dal paese in cui alloggiavano seguendo la statale dei Tre Passi e svoltando a sinistra dove indicato, che il sentiero da loro percorso era quello della vecchia teleferica, ormai in disuso da quando gli approvvigionamenti arrivavano al rifugio ogni giorno attraverso la strada asfaltata.
«Tutti vengono qui in macchina – concluse il rifugista – per godersi il panorama. Chi ama camminare viene in macchina e poi parte da qui per splendide passeggiate tutte in alta quota, che si snodano ai piedi delle vette più elevate e che sono in gran parte pianeggianti, perché girano intorno alla conca dei nevai».
Questa volta, appena l’uomo si fu allontanato, Ombretta aggredì verbalmente l’amica. «Se ti andava tanto l’idea di venire in montagna, potevi almeno informarti sulle passeggiate e sulle strade! Già ti fai prendere in giro da albergatori e ristoratori, e passi; ma che tu mi faccia anche scarpinare due ore sotto il sole a picco, in salita, per arrivare con la lingua fuori e le vesciche ai piedi dove gli altri arrivano in macchina, questo è veramente troppo!».
Ombretta era furiosa, anche perché a lei la montagna non interessava più di tanto. Aveva accettato di fare questa vacanza giusto per l’amicizia che la legava a Sara e perché pensava di riposare un po’. Ma, fin lì, tutto avevano fatto meno che riposare e godersi la tranquillità del paesaggio alpino.
Le due giovani ridiscesero a piedi per il sentiero, silenziose e procedendo a una certa distanza l’una dall’altra. Arrivarono all’albergo con i muscoli induriti e, dopo una doccia, Ombretta si mise a dormire, nonostante fosse pieno pomeriggio.
La sera, Sara pensò di farsi perdonare portando Ombretta in un ristorante di un paese vicino, che le guide segnalavano per la “cucina tipica”. Capì di aver nuovamente sbagliato tutto quando lesse il menu, che proponeva polenta bergamasca, risotto alla milanese, tortellini alla bolognese, spaghetti al pomodoro, tagliolini al salmone, cotoletta, mozzarella, salumi vari, calamari ripieni e persino la pizza.
«Mi scusi, ma che “cucina tipica” sarebbe, questa?», domandò polemica Sara al cameriere. Il quale, educatamente, le spiegò che la zona era frequentata da molti turisti tedeschi, i quali, passata la frontiera, volevano gustare la cucina tipica italiana, senza far troppa distinzione tra le specialità delle varie regioni.
Mangiarono malvolentieri il cibo dozzinale che il ristorante rifilava agli ignari ospiti stranieri, pagarono un conto per fortuna non stratosferico e si prepararono per una nuova notte, senza più rivolgersi la parola.


Per un paio di giorni le cose continuarono ad andare allo stesso modo. Sara non risparmiò i tentativi di riscattarsi, ma non fece che peggiorare la situazione.
Così – sempre basandosi sul suo articolo, sui depliant pubblicitari, sui materiali che aveva raccolto in internet, sulle riviste della concorrenza – continuò a trascinare Ombretta in improbabili visite: un rinomato centro sportivo che si rivelò essere niente più che una squallida palestra affiancata da un breve tratto di un tumultuoso torrente in cui alcuni pazzi si lanciavano con i gommoni tra massi e rapide; un prestigioso maneggio che diede loro modo di essere messe in groppa a un cavallo per uno stentato giro nella periferia della cittadina più rinomata, per essere scaricate dopo neppure mezz’ora di passeggiata per la quale pagarono una fortuna. E poi continue delusioni da ristoranti troppo cari o troppo scadenti, da località molto più caotiche di quanto avessero immaginato, da “negozietti tipici” che proponevano prodotti facilmente rintracciabili su qualunque bancarella di un mercato cittadino.
Stremate dalle levatacce provocate dai pullman e dalle campane, tentarono anche di cambiare albergo. Sara portò l’amica in uno sperduto paesino fuori dai circuiti turistici più battuti, alla ricerca di un boutique hotel di cui aveva letto magnificenze. La località era stupenda, ma l’antica costruzione era davvero fuori mano. Il suo splendore stava nel fatto di essere un’antica casa in pietra i cui interni erano stati riadattati con uno stile e un arredamento modernissimi. Le stanze erano ancora più minuscole di quelle del loro agriturismo, ma in compenso i prezzi erano esattamente triplicati. Rinunciarono all’idea di cambiare sistemazione, e si rassegnarono ad altre sveglie anticipate.
Ombretta ormai nemmeno mugugnava più. Sembrava aver accettato il suo ruolo di vittima e seguiva passivamente i tentativi di riabilitazione di Sara, evitando di commentarne i risultati. La giornalista, sempre più ferita nel suo orgoglio, si incupiva di fronte a ogni fallimento, diventava sempre più intrattabile e, paradossalmente, sembrava quasi rimproverare all’amica il suo silenzio, come se avesse preferito pagare le proprie sconfitte con una giusta dose di rimproveri.
Alla fine, a forza di insistere con le sue iniziative disastrose, Sarà riuscì a provocare la reazione furiosa dell’amica.
Accadde il martedì pomeriggio, quando erano ormai arrivate a metà della vacanza ed entrambe cominciavano a sognare il giorno del rientro a casa. Quella mattina Sara si era leggermente stortata una caviglia, nel tentativo di imparare le tecniche del free-climbing in una improvvisata palestra di roccia organizzata da un maestro di sci che durante la stagione estiva si inventava istruttore di alpinismo. Per il pomeriggio, Sara aveva in programma una visita a un paese piuttosto lontano, e chiese a Ombretta di guidare lei l’automobile, visto che il piede le faceva ancora male.
Lasciata ben presto la strada statale, Ombretta si inoltrò per alcuni viottoli, dapprima stretti e quasi completamente avvolti dal verde, ma asfaltati, che poi si trasformarono in tratturi pietrosi, lungo i quali il passaggio dell’auto sollevava nubi di polvere bianca e dove bisognava prestare una continua attenzione per evitare le buche e i sassi più grandi, procedendo a passo d’uomo. Guidò in queste condizioni per una ventina di chilometri, prima di raggiungere l’agognata meta.
Qui, il motivo della visita programmata da Sara era un ecomuseo che prometteva di presentare una fedele ricostruzione della vita dei montanari alla fine dell’Ottocento. Entrarono in un’abitazione ristrutturata di recente, all’interno della quale una camera era stata lasciata con i muri scrostati, il pavimento in terra, il soffitto con travi a vista; nella stanza erano esposti alcuni attrezzi da lavoro, un costume tradizionale dei valligiani e un anonimo plastico che riproduceva la struttura di una antica casa contadina. L’ecomuseo era tutto lì.
Ombretta, distrutta dalla fatica che aveva fatto per guidare su una strada in quelle condizioni, finalmente esplose. Urlò in faccia a Sara tutto quello che pensava sulla sua capacità di giornalista e sul suo proverbiale fiuto, le intimò di non azzardarsi mai più a trascinarla in avventure simili, la coprì di insulti e per finire le piazzò in mano le chiavi dell’auto, rifiutandosi categoricamente di mettersi al volante per il ritorno.
Toccò perciò a Sara affrontare le piste polverose e le mille curve della strada verso l’albergo, procedendo pianissimo per non sollecitare di continuo, con accelerazioni e frenate, la caviglia che le doleva.
Quando arrivarono al parcheggio, Ombretta scese dall’auto, sbatté con violenza la portiera e si avviò verso l’agriturismo senza neppure voltarsi. Sara non osò seguirla: approfittò della presenza di una fontanella e di un secchiello dimenticato da qualche bambino per lavare approssimativamente la vettura, togliendole almeno lo spesso strato di terra che si era depositato sulla carrozzeria.
Finita l’operazione, Sara si inerpicò verso l’albergo e, giunta all’ingresso, incrociò Ombretta che, già ripulita e cambiata, stava uscendo.
«Stasera io ceno da sola, il posto me lo cerco io e decido io come passare la serata» affermò secca Ombretta, calcando bene il tono della voce tutte e tre le volte che pronuciò la parola “io”. Sara rispose «va bene» con un filo di voce, tanto da non essere nemmeno udita dall’amica che tirò dritto per la sua strada.


Avevano litigato diverse volte, Sara e Ombretta, durante quella vacanza e non si erano risparmiate battute e frecciate. Ma era la prima volta, da quando erano partite dalla città, che si separavano. Sara si sentiva colpevole e sapeva che per cinque giorni l’amica aveva assecondato tutte le sue iniziative, quasi sempre disastrose. Eppure, non riusciva ancora a rassegnarsi all’idea di aver sbagliato tutto.
Inizialmente Sara pensò di infliggersi un digiuno punitivo e di restare mestamente chiusa in camera, magari cercando di addormentarsi prima del ritorno di Ombretta. Ma era troppo inquieta, e i morsi della fame si facevano sentire, sicché decise di scendere in paese per mangiare qualcosa. Si infilò in un frequentatissimo bar, una specie di paninoteca con annessa sala giochi. Mangiò un panino e bevve una birra, mentre intorno a lei aumentava di minuto in minuto la massa di giovani e ragazzini che si accalcava ai videogames e alle slot-machine. In breve il fumo e il rumore erano diventati insopportabili, così decise di tornare verso l’agriturismo.
Sara si trascinò lungo la salita che portava all’albergo, soffrendo per il dolore alla caviglia messa a dura prova durante la guida del pomeriggio. Si sedette su una panca all’esterno della costruzione e si lasciò avvolgere dall’aria fresca, perdendosi nella contemplazione del cielo. Cominciò a pensare a mille cose, che non avevano nulla a che fare con quella vacanza, e finalmente riuscì a distrarsi e a togliersi di dosso quel senso di oppressione che si portava appresso da giorni.
Restò in quella posizione per un tempo interminabile, totalmente assorta nei suoi pensieri, tanto che si avvide dell’arrivo di Ombretta solo quando l’amica era a pochi passi da lei e aveva ormai completato la salita.
Ombretta sembrava tranquilla. Si sedette silenziosa accanto a Sara, le diede per scherzo un piccolo pugno sulla spalla e quindi le scompigliò i capelli con una mano. Non sembrava affatto arrabbiata, ma Sara esitava a rivolgerle la parola.
Fu Ombretta a rompere il ghiaccio: «Peccato che tu non sia venuta con me, stasera». Quindi raccontò a Sara di come avesse scovato una piccola trattoria, nella parte bassa del paese, dove terminavano le case, in cui aveva finalmente gustato alcune specialità locali: niente di raffinato, ma roba genuina, in quantità ragionevoli e a un ottimo prezzo. Poi, continuò a raccontare Ombretta, era stata attratta da una taverna nel piazzale della chiesa, piena di anziani del luogo che giocavano a carte e discutevano animatamente tra loro usando incomprensibili espressioni dialettali; aveva sorseggiato una grappa, gustando il profumo di legno che emanavano gli antichi arredi del locale.
Ombretta appariva davvero soddisfatta e rilassata. Sara si sentì ancora una volta una stiupida, ripensando alla sua serata in sala giochi.
«Ho capito – disse a Ombretta – che da adesso in poi ci conviene fare sempre quello che decidi tu. Io sono proprio una frana».
L’amica la guardò con affetto, stupita che Sara non avesse ancora capito. «Niente affatto, Sara. Noi decideremo sempre insieme che cosa fare. Io mi fido di te: ma di te, Sara, non dei tuoi articoli o degli appunti che raccogli per il tuo lavoro. Da adesso, inizia la nostra vacanza: e sceglieremo noi quello che ci piace fare e che ci ispira».


La seconda parte della vacanza fu ben diversa dalla prima. Purtroppo restavano solo cinque giorni, ma da quel martedì sera le due amiche cominciarono davvero a godersi ogni attimo del loro soggiorno in montagna.
Nascosero in valigia articoli, guide, riviste, depliant e stampate dei siti internet, per tenere sotto mano solo una dettagliata cartina della valle, che riportava con chiarezza tutte le strade e i sentieri, e iniziarono a girare lasciandosi guidare dall’istinto. Un po’ si fecero consigliare dalla gente del posto o da villeggianti che da anni frequentavano la zona, un po’ si affidarono al loro intuito e al colpo d’occhio. Girando in questo modo, scoprirono angoli bellissimi, fecero splendide escursioni nella natura, cenarono in locali caratteristici gustando i piatti della cucina locale, individuarono dei mercatini in cui riuscirono a scovare pezzi di artigianato e prodotti tradizionali, ebbero l’occasione di fare nuove amicizie, di parlare con le persone, di concedersi ore di riposo a prendere il sole su prati verdissimi e poco frequentati.
Persino le levatacce causate dai pullman e dalle campane non furono più un problema. Tante erano le cose da fare nelle poche giornate di vacanza che restavano, che alzarsi prestissimo la mattina era diventato per loro un piacere, perché così avevano più tempo a disposizione.
Nonostante fosse in vacanza, Sara non aveva del tutto dimenticato di essere una giornalista. Alla sera, quando Ombretta faceva la doccia, tirava fuori di nascosto un quadernetto su cui prendeva appunti, elencando i posti visitati, e poi riordinava il materiale raccolto in una cartelletta in cui infilava i biglietti da visita e le ricevute dei locali dove si erano fermate. Pensava che il tutto le sarebbe potuto tornare utile per scrivere un vero articolo su questa bellissima zona, consigliando alle sue lettrici soltanto i posti che aveva personalmente sperimentato.
La domenica pomeriggio, alla vigilia del ritorno a casa, si diressero verso un paese poco noto, che si trovava in una corta valle laterale, seguendo il consiglio di un ragazzo austriaco, conosciuto casualmente, che da anni frequentava quelle montagne.
Superato il piccolo centro abitato, una stretta strada asfaltata, fortunatamente pianeggiante, le condusse verso un avvallamento, all’interno del quale si trovava un gruppuscolo di costruzioni, che probabilmente in passato formavano una grande cascina, o addirittura una frazione del paese. Una casetta su due piani era stata riadattata ad albergo, anche se poteva ospitare all’interno solo poche stanze. Accanto, una costruzione bassa era utilizzata come bar e ristorante, con molti tavolini all’aperto. Appena più in là si estendeva l’orto, oltre il quale spiccavano le inconfondibili strutture di un paio di stalle, dalle quali si sentivano provenire i muggiti dei bovini; altre mucche e una coppia di cavalli pascolavano tranquillamente sul prato che chiudeva la valletta.
Le due amiche esplorarono accuratamente l’insieme. Da un contadino ottennero il permesso di entrare nelle stalle, poi si fecero accompagnare da una cameriera a visitare le camere dell’albergo, che erano splendide, ampie e arredate in stile rustico. Quindi si sdraiarono sul prato a prendere il sole e, rimpiangendo di non aver scoperto prima un posto così incantevole, decisero che si sarebbero fermate per la cena.
La cucina fu all’altezza di tutto quanto avevano visto. Gustarono salumi e formaggi locali, si abbuffarono con minestre di verdure e pasta lavorata a mano, si concessero un piatto di carne e un assaggio dei dolci fatti in casa. Erano tutti piatti meravigliosi, preparati secondo le ricette della tradizione e facendo uso di prodotti freschissimi, presumibilmente provenienti dalle stalle e dall’orto che stavano giusto di fianco al ristorante.
Terminata la cena, mentre assaporavano un liquore alle erbe preparato artigianalmente, Sara chiese alla cameriera se, cortesemente, poteva farla parlare con il proprietario. La cameriera, una ragazzona alta e bionda che si muoveva instancabile tra i tavoli, rispose con gentilezza, ma sembrò abbastanza preoccupata dalla richiesta. Si allontanò rapidamente per ritornare subito dopo in compagnia di un uomo altrettanto imponente, che aveva la pelle del viso e delle mani quasi cotta dal sole.
«Ristorante e albergo – spiegò la ragazza con una certa timideza – sono a gestione familiare. Se ci sono problemi per il servizio o per la cucina potete dire a me, ma se desiderate parlare proprio con il proprietario, allora potete rivolgervi a mio padre» concluse, indicando con un cenno della mano l’uomo abbronzato.
Questi insistette subito con tono apprensivo: «Qualcosa non vi ha soddisfatto? Ci sono dei problemi di cui volete lamentarvi?».
Sara sorrise per fugare subito ogni dubbio. «Assolutamente no. Anzi, era tutto davvero splendido e ci possiamo solo complimentare per la bellezza del luogo e per la bontà della cucina».
L’uomo e la ragazza ringraziarono sollevati. Sara proseguì il discorso, presentandosi come una giornalista esperta di turismo, raccontando brevemente il loro soggiorno e ponendo infine la domanda che la tormentava.
«Vedete – disse ai due – io per lavoro ricevo moltissime segnalazioni di alberghi, locali, negozi e attrazioni. Inoltre consulto molte guide e riviste, oltre a guardare i siti internet. Ero curiosa di sapere come mai, da nessuna parte, ho trovato notizie del vostro splendido albergo e del magnifico ristorante, che meritano davvero di essere segnalati e pubblicizzati».
L’uomo rise di gusto, e anche la ragazza accennò a un timido sorriso quasi con imbarazzo.
«La ringrazio – rispose l’uomo con garbo – ma noi non amiamo farci pubblicità. In verità sono passati da queste parti un paio di giornalisti e, qualche anno fa, siamo stati citati in alcuni articoli di riviste non molto diffuse e in una piccola guida dedicata esclusivamente a questa valle. Ma poi, con il tempo, la stampa si è del tutto dimenticata di noi. Sinceramente, la cosa non ci dispiace. So benissimo che per andare sui giornali bisogna fare costosi depliant propagandistici, e spesso si viene segnalati solo se si acquistano anche degli spazi pubblicitari. Noi non ne abbiamo bisogno. Lasciamo che a farsi pubblicità siano quelli che devono attirare clienti sconosciuti, mentre noi siamo sempre al completo, perché chi viene da queste parti poi torna a trovarci e, con il passaparola tra amici, finisce sempre per mandarci qualche nuovo visitatore. La nostra qualità ci basta per farci conoscere e apprezzare. Non le pare?» concluse l’uomo guardando negli occhi Sara.
Le amiche annuirono. Poi si guardarono intorno e osservarono con attenzione le facce soddisfatte delle persone sedute agli altri tavoli, ripensarono al ragazzo austriaco che le aveva spedite in questa valletta delle meraviglie, e conclusero che l’uomo aveva perfettamente ragione.


   

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