È mia intenzione limitarmi a descrivere brevemente il contesto e il
significato della Dichiarazione Dominus Iesus, mentre gli interventi
successivi illustreranno il valore e l'autorità dottrinale del Documento,
ed i suoi contenuti specifici, cristologici ed ecclesiologici.
1. Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il
Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l'idea che
tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di
salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti
teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell'opinione pubblica
cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall'orientamento
culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore
di essere smentiti, con la parola: relativismo.
La cosiddetta teologia del pluralismo religioso in verità si era già
affermata gradualmente fin dagli anni cinquanta del secolo XX, ma soltanto
oggi ha assunto un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana.
Naturalmente le sue configurazioni sono molto diverse e non sarebbe giusto
voler omologare tutte le posizioni teologiche che si rifanno alla teologia
del pluralismo religioso in uno stesso sistema. La Dichiarazione pertanto
non si propone nemmeno di descrivere i tratti essenziali di tali tendenze
teologiche né tanto meno pretende di rinchiuderle in una formula unica.
Piuttosto il nostro Documento segnala alcuni presupposti di natura sia
filosofica sia teologica che stanno alla base delle pur diverse teologie del
pluralismo religioso attualmente diffuse: la convinzione della
inafferrabilità e inesprimibilità completa della verità divina;
l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che
è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale
tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il
soggettivismo esasperato di chi considera la ragione come unica fonte di
conoscenza; lo svuotamento metafisico del mistero dell'incarnazione;
l'eclettismo di chi nella riflessione teologica assume categorie derivate da
altri sistemi filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza
interna, né alla loro incompatibilità con la fede cristiana; la tendenza
infine a interpretare testi della Scrittura, al di fuori della Tradizione e
del Magistero della Chiesa (cf. Dich. Dominus Iesus, n.4).
Qual è la conseguenza fondamentale di questo modo di pensare e sentire in
relazione al centro e al nucleo della fede cristiana ? E' il sostanziale
rigetto dell'identificazione della singola figura storica, Gesù di
Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente. Ciò che è
Assoluto, oppure Colui che è l'Assoluto, non può darsi mai nella storia in
una rivelazione piena e definitiva. Nella storia si hanno soltanto dei
modelli, delle figure ideali che ci rinviano al Totalmente Altro, il quale
però non si può afferrare come tale nella storia. Alcuni teologi più
moderati confessano che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, ma ritengono
che a causa della limitatezza della natura umana di Gesù, la rivelazione di
Dio in lui non può essere ritenuta completa e definitiva, ma sempre deve
essere considerata in relazione ad altre possibili rivelazioni di Dio
espresse nei geni religiosi dell'umanità e nei fondatori delle religioni
del mondo. In tal modo, oggettivamente parlando, si introduce l'idea errata
che le religioni del mondo siano complementari alla rivelazione cristiana.
È chiaro pertanto che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono
avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un
carattere assoluto e considerarli anzi come uno strumento per un incontro
reale con la verità di Dio, valida universalmente, significherebbe
collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare la
realtà infinita del Dio Totalmente Altro.
In base a tali concezioni, ritenere che vi sia una verità universale,
vincolante e valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù
Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie
di fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno
e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la libertà. Lo
stesso concetto di dialogo assume un significato radicalmente diverso da
quello inteso nel Concilio Vaticano II. Il dialogo, o meglio, l'ideologia
del dialogo, si sostituisce alla missione e all'urgenza dell'appello alla
conversione: il dialogo non è più la via per scoprire la verità, il
processo attraverso cui si dischiude all'altro la profondità nascosta di
ciò che egli ha sperimentato nella sua esperienza religiosa, ma che attende
di compiersi e purificarsi nell'incontro con la rivelazione definitiva e
completa di Dio in Gesù Cristo; il dialogo nelle nuove concezioni
ideologiche, penetrate purtroppo anche all'interno del mondo cattolico e di
certi ambienti teologici e culturali, è invece l'essenza del
"dogma" relativista e l'opposto della "conversione" e
della "missione". In un pensiero relativista dialogo significa
porre sullo stesso piano la propria posizione o la propria fede e le
convinzioni degli altri, cosicché tutto si riduce ad uno scambio tra
posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo
scopo superiore di raggiungere il massimo di collaborazione e di
integrazione tra le diverse concezioni religiose.
Il dissolvimento della cristologia e quindi dell'ecclesiologia, ad essa
subordinata, ma con essa inscindibilmente collegata, diventa perciò la
conclusione logica di tale filosofia relativista, che paradossalmente si
ritrova sia alla base del pensiero post-metafisico dell'Occidente sia della
teologia negativa dell'Asia. Il risultato è che la figura di Gesù Cristo
perde il suo carattere di unicità e di universalità salvifica. Il fatto
poi che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro con le
culture, come la vera filosofia dell'umanità, in grado di garantire la
tolleranza e la democrazia, conduce a marginalizzare ulteriormente chi si
ostina nella difesa della identità cristiana e nella sua pretesa di
diffondere la verità universale e salvifica di Gesù Cristo. In realtà la
critica alla pretesa di assolutezza e definitività della rivelazione di
Gesù Cristo rivendicata dalla fede cristiana, si accompagna ad un falso
concetto di tolleranza. Il principio della tolleranza come espressione del
rispetto della libertà di coscienza, di pensiero e di religione, difeso e
promosso dal Concilio Vaticano II, e nuovamente riproposto dalla stessa
Dichiarazione, è una posizione etica fondamentale, presente nell'essenza
del Credo cristiano, poiché prende sul serio la libertà della decisione di
fede. Ma questo principio di tolleranza e rispetto della libertà viene oggi
manipolato e indebitamente oltrepassato, quando esso si estende
all'apprezzamento dei contenuti, quasi che tutti i contenuti delle diverse
religioni e pure delle concezioni areligiose della vita fossero da porre
sullo stesso piano, e non esistesse più una verità oggettiva e universale,
poiché Dio o l'Assoluto si rivelerebbe sotto innumerevoli nomi , ma tutti i
nomi sarebbero veri. Questa falsa idea di tolleranza è connessa con la
perdita e la rinuncia alla questione della verità, che infatti oggi è
sentita da molti come una questione irrilevante o di second'ordine. Viene
così alla luce la debolezza intellettuale della cultura attuale: venendo a
mancare la domanda di verità, l'essenza della religione non si differenzia
più dalla sua "non essenza", la fede non si distingue dalla
superstizione, l'esperienza dall'illusione. Infine senza una seria pretesa
di verità, anche l'apprezzamento delle altre religioni diventa assurdo e
contraddittorio, poiché non si possiede il criterio per constatare ciò che
è positivo in una religione, distinguendolo da ciò che è negativo o
frutto di superstizione e inganno.
2. A questo proposito la Dichiarazione riprende l'insegnamento di
Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptoris missio: «Quanto lo Spirito
opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e
nelle religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica» (RM 29).
Questo testo si riferisce esplicitamente all'azione dello Spirito non solo
«nel cuore degli uomini», ma anche «nelle religioni». Tuttavia il
contesto pone questa azione dello Spirito all'interno del mistero di Cristo,
da cui non può mai essere separata; inoltre le religioni sono accostate
alla storia e alle culture dei popoli, dove la mescolanza tra bene e male
non può mai essere messa in dubbio. Quindi è da considerarsi come
praeparatio evangelica non tutto ciò che si trova nelle religioni, ma
soltanto «quanto lo Spirito opera» in esse. Da ciò segue una
importantissima conseguenza: via alla salvezza è il bene presente nelle
religioni, come opera dello Spirito di Cristo, ma non le religioni in quanto
tali. Ciò è del resto confermato dalla stessa dottrina del Vaticano II a
proposito dei semi di verità e di bontà presenti nelle altre religioni e
culture, esposta nella Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: "La
Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa
considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti
e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa
stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di
quella verità che illumina tutti gli uomini"(NA, 2). Tutto ciò che di
vero e buono esiste nelle religioni non deve andare perduto, anzi va
riconosciuto e valorizzato. Il bene e il vero, dovunque si trovi, proviene
dal Padre ed è opera dello Spirito; i semi del Logos sono sparsi ovunque.
Ma non si possono chiudere gli occhi sugli errori e inganni che sono pure
presenti nelle religioni. La stessa Costituzione Dogmatica del Vaticano II
Lumen Gentium afferma: " Molto spesso gli
uomini, ingannati dal Maligno, vaneggiano nei loro pensamenti, e hanno
scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto
che il Creatore" (LG, 16).
È comprensibile che in un mondo che cresce sempre più assieme, anche le
religioni e le culture si incontrino. Ciò non conduce soltanto ad un
avvicinamento esteriore di uomini di religioni diverse, bensì anche ad una
crescita di interesse verso mondi religiosi sconosciuti. In questo senso, in
ordine cioè alla conoscenza reciproca, è legittimo parlare di
arricchimento vicendevole. Ciò però non ha nulla a che vedere con
l'abbandono della pretesa da parte della fede cristiana di aver ricevuto in
dono da Dio in Cristo la rivelazione definitiva e completa del mistero della
salvezza, e anzi si deve escludere quella mentalità indifferentista
improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che "una
religione vale l'altra" (Lett. Enc. Redemptoris missio, 36).
La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le
culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della
dignità dell'uomo e allo sviluppo della civiltà, non diminuisce
l'originalità e l'unicità della rivelazione di Gesù Cristo e non limita
in alcun modo il compito missionario della Chiesa: "la Chiesa annuncia
ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è la via, la verità
e la vita (Gv 14,16) in cui gli uomini trovano la pienezza della vita
religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose" (Nostra
Aetate, 2). Nello stesso tempo queste semplici parole indicano il motivo
della convinzione che ritiene che la pienezza, universalità e compimento
della rivelazione di Dio sono presenti soltanto nella fede cristiana. Tale
motivo non risiede in una presunta preferenza accordata ai membri della
Chiesa, né tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel suo
pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero
Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa di unicità e universalità
salvifica del Cristianesimo proviene essenzialmente dal mistero di Gesù
Cristo che continua la sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa.
Perciò la Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella
evangelizzazione dei popoli. Anche nel contesto attuale, segnato dalla
pluralità delle religioni e dall'esigenza di libertà di decisione e di
pensiero, la Chiesa è consapevole di essere chiamata "a salvare e
rinnovare ogni creatura, perché tutte le cose siano ricapitolate in Cristo
e gli uomini costituiscano in lui una sola famiglia e un solo popolo" (Decr.
Ad Gentes 1).
Riaffermando le verità che la fede della Chiesa ha sempre creduto e tenuto
riguardo questi argomenti, e salvaguardando i fedeli da errori o da
interpretazioni ambigue attualmente diffusi, la Dichiarazione "Dominus
Jesus" della Congregazione per la Dottrina della Fede, approvata e
confermata certa scientia e apostolica sua auctoritate dal
Santo Padre stesso, svolge un duplice compito: da un lato si presenta come
un'ulteriore e rinnovata testimonianza autorevole per mostrare al mondo
"lo splendore del glorioso vangelo di Cristo" (2 Cor 4,4);
dall'altro indica come vincolante per tutti i fedeli la base dottrinale
irrinunciabile che deve guidare, ispirare e orientare sia la riflessione
teologica sia l'azione pastorale e missionaria di tutte le comunità
cattoliche sparse nel mondo.
Testo integrale della
Dichiarazione "Dominus Jesus"
Sintesi ufficiale della Dichiarazione