da CENTO ANNI A CENTO - IL
"PESO" DELLE BILANCE NEI SECOLI di GIOVANNI
TASSINARI
Bilancia a due piatti
Museo Archeologico Nazionale Napoli
(particolare)
La scoperta e la diffusione della bilancia rappresenta
una tappa significativa nell'evoluzione dell'umanità. Pesare, come
misurare, sono espressioni di una cultura che denota un sistema di
relazioni tra individui complesse e articolate. In qualche modo segna il
passaggio da una civiltà primitiva dove ogni singola comunità famigliare
vive a spese della natura utilizzando le risorse disponibili fino
all'esaurimento e spostandosi quando queste vengono a mancare, a una
cultura più evoluta, di aggregazioni dotate di senso socio-politico ed
economico, con un proprio ordinamento e con esigenze di scambio dove la
primordiale pratica del baratto non è più sufficiente a garantire equità
per le parti. L'introduzione della bilancia e la prassi della pesatura
vista come naturale successione del contare e misurare presuppone il
raggiungimento di conoscenze tecniche e pratiche che dimostra il livello
civile, culturale ed economico raggiunto. Da tutti i popoli se ne attribuisce
l’invenzione a divinità o a personaggi mitici: così gli Egizi ne fanno inventore il Dio Thot, i
Cinesi, il filosofo Lyng-Lung (2638 a.C.), gli Ebrei Caino e Mosè, i
Greci Ermes e i Romani Mercurio.
In diversi passi del Corano si accenna ad una bilancia destinata a pesare le
azioni di ogni uomo, la quale, secondo i commercianti mussulmani, sarebbe
stata portata dall’arcangelo Michele a Noè (2400 a.C.) perché la
trasmettesse ai suoi nuovi discenti. Il fatto stesso che la bilancia sia compresa fra i
segni dello Zodiaco (Libra) basta a provare che essa è conosciuta fino
dalla più remota antichità.
Dalla pratica del trasporto
l'idea della bilancia:
il giogo.
L'idea del bilanciamento è verosimilmente associata
all'utilizzo dei gioghi per il trasporto di merci e la bilancia è lo
sviluppo naturale del medesimo pensiero tant'è che la bilancia, nel suo
schema più antico, è una leva a bracci uguali liberamente sospesa o
imperniata nel punto di mezzo alle cui estremità sono sospesi due
piatti. La Babilonia e la Assiria sono ritenute la culla del più
antico sistema di misura e se ne conserva memoria nel carattere delle loro
iscrizioni, cioè nella scrittura cuneiforme, che risale all’anno 3.000
a.C.,al tempo cioè di Guidea, vice-re Sumerico di Lirponla, presso Uhr,
patria di Abramo. Qui appunto sono state trovate due statue acefale, in
diorite del re stesso ora conservate nel Museo del Louvre, secondo l’età di questi pesi, si può dunque ritenere che la bilancia
esista per lo meno da oltre 5.000 anni. È importante notare che tra i pesi
trovati nelle rovine delle più antiche città sud-babilonesi ed assire,
alcuni portano l’iscrizione «Così è soltanto mina dei re», segno
questo che essi erano pesi-campione legali.
Molti pesi sono stati
rinvenuti tra le rovine dei palazzi reali e del tempio, dove i pesi
campione erano conservati e custoditi, come sacri, da appositi sacerdoti
funzionari statali. I campioni erano fatti di marmo, illustrati con
sentenze sacre in caratteri cuneiformi babilonesi, e avevano come segno
distintivo della loro precisione il nome del sacerdote. I pesi usuali
erano di ferro o di leghe metalliche. L’esistenza di pesi porta di
necessaria conseguenza la simultanea presenza degli strumenti da
pesa, dei quali non ci è rimasto nessun esemplare o disegno. Numerosi sono
invece i documenti che ci parlano di operazioni di pesatura, e fra questi
specialmente notevoli le scritture cuneiformi su tavolette e cilindri
d’argilla, scoperti fra le rovine dei palazzi reali di Nivive e Babilonia,
nei quali si trovano atti di vendita e di acquisto, di affitto, ecc.
Questi documenti, redatti da uno scrivano, erano sottosegnati da testimoni
con l’impronta delle loro unghie.
Mentre, come ho scritto, non ci è rimasto nessun esemplare o ricordo
grafico di strumenti per pesare babilonesi o assiri, numerosi sono invece
i disegni che ci mostrano la costruzione e l’uso della bilancia in
Egitto. Presso gli Egizi si tratta esclusivamente di bilance a
bracci uguali, di cui le migliori rappresentazioni si hanno in diversi
papiri funerari, risalenti a circa 2000 anni a.C., e specialmente nel
papiro del 1350 a.C., conosciuto sotto il nome «Rituale dei morti»,
conservato nel Museo britannico. Ciò si deve al fatto che, secondo le
credenze religiose dell’antico Egitto, e specialmente nella dottrina di
Osiride, il valore dell’anima umana, al momento della morte, viene
determinato per mezzo della bilancia, e pertanto tale giudizio viene
rappresentato frequentemente nei papiri mortuari trovati nelle fasce delle
mummie.
Il tribunale divino:
al cospetto di Osiride il cuore
del defunto veniva rapportato
con una piuma simbolo di Maat...
In tali testi religiosi la
rappresentazione usuale della bilancia è quella di un giogo a braccia
uguali girevole intorno ad un asse fisso su un piedistallo. In qualche
disegno, dall’estremo superiore del supporto pende un filo a piombo, per
il collocamento in posizione perfetta della bilancia. Non solo nei testi
religiosi, ma anche nei testi civili e nei monumenti è ricordata la
bilancia. Presso gli Egizi, nella grande piramide di Saccarab, uno dei
bassorilievi rappresenta un uomo che, tenendo una bilancia a bracci
uguali, pesa delle derrate, mentre un’altra persona, di fronte a lui,
annota i risultati delle pesate. Del resto è evidente che la bilancia
doveva avere una parte importantissima nel pagamento delle imposte degli
antichi re. È da notare che presso gli Egizi si avevano funzionari preposti
alla verifica delle bilance, detti «guardiani della bilancia».
Quanto
all’esattezza ed alla sensibilità di tali bilance, possiamo farcene un’idea
di base dal valore minimo dei pesi adoperati: così, poichè in un papiro
contenente ricette di medicamenti, è indicato un peso (pek)
corrispondente a grammi 0,7, si può arguire che, almeno nelle bilance di
costruzione più accurata, si poteva raggiungere una notevole esattezza di
pesatura.
Numerosi sono nei libri sacri
degli Ebrei i riferimenti alla bilancia, di cui non si ha però alcuna
descrizione. La bilancia usata presso gli Ebrei è da ritenersi fosse
esclusivamente la bilancia a bracci uguali, impropriamente denominata
«stadera» nella versione latina. I pesi venivano tenuti in un sacchetto
(sacculus), e sembra fosse abbastanza comune l’abitudine di tenervi pesi
esatti e pesi scarsi. I
pesi, almeno quelli del commercio minuto, erano di pietra. Non solo con la
sostituzione dei pesi si frodava, ma anche con l’alterazione della
bilancia si commettevano frodi. Di questi Ebrei frodatori con bilance
alterate e del modo stesso di alterarle si parla ripetutamente in diverse
scritture. Nel libro
primo dei Paralipomeni (due libri della Bibbia) al cap. XXIII si dice che
la soprintendenza sui pesi e sulle misure presso gli Ebrei era affidata ai
discendenti di Aronne: «I sacerdoti hanno la soprintendenza dei pesi e
delle misure». I campioni dei pesi (Sanac) si conservavano nel tempio ed
in base ad essi si verificavano quelli del commercio. L’importanza che
presso gli Ebrei si dava alla bilancia, risulta anche da vari passi del
Talmud (raccolta di dottrine ebraiche), e specialmente dalle norme ivi
contenute circa l’uso e la manutenzione della bilancia e dei pesi.
Riguardo alla sensibilità delle
bilance presso gli Ebrei, possiamo dedurla dal valore dei pesi: il peso
ebraico più piccolo,corrispondente alla 640a parte dello Schekel,
valeva 23 mg e quindi tale, o maggiore, doveva essere la sensibilità
delle bilance.
Presso i Greci la bilancia
era certamente conosciuta nel VI secolo a.C., come è provato da diversi
passi dell’Iliade di Omero, ma non ci è
pervenuto alcun esemplare di bilance e neppure di pesi; infatti l’unica
bilancia trovata a Corfù (ora al British Museum di Londra), sembra da
attribuirsi alla dominazione romana in quell’isola. In una tomba di
Micene si sono rinvenute due bilance in miniatura d’oro (conservate ora
nel Museo Nazionale d’Atene), che non hanno mai servito ad uso pratico
di pesatura né potevano servire; esse devono piuttosto riferirsi con ogni
probabilità, al mito della pesatura delle anime nell’oltretomba. Il
giogo è formato da una sottile verghetta d’oro, dalla quale, per mezzo
di lunghi fili d’oro, pendono piatti sottilissimi ornati con farfalle e
rosoni.
Pesatura del silfio alla presenza del re Arcelisao II
A parte questa
testimonianza, più che altro simbolica, le bilance greche ci sono note
quasi esclusivamente attraverso opere pittoriche. Una delle più
rappresentative è quella della celebre coppa di Arcelisao re di Cirene (VI
sec. a.C.) ove è ritratta una scena di mercato con il sovrano che assiste
alle operazioni di pesatura e imballaggio del silfio. La grande bilancia
che domina la raffigurazione è appesa a una trave per mezzo di un anello
che sostiene il giogo alle cui estremità penzolano i piatti fissati con
quattro funi ciascuno. Un’altra rappresentazione si ha in un vaso al Museo
dell’Eremitage a Pietroburgo, raffigurante una bilancia pure a bracci
uguali, sospesa ad un arco, appoggiato su uno zoccolo a due gradini, del
tutto simile ad una romana trovata negli scavi a Pompei e conservata nel
Museo Nazionale di Napoli. Ciò si spiega considerando che il vaso in
parola è del tempo della Magna Grecia. Ambedue questi disegni, in
conclusione, rappresentano strumenti imperfetti e ben lontani dalle
finezze di quelli egizi.
In Grecia la sorveglianza delle pesature era affidata ad
un corpo di quindici sacerdoti; ciò nonostante erano frequenti le frodi
con strumenti alterati. Un fatto riportato da Aristotele (364-322 a.C.)
nei «Problemi meccanici» sta a dimostrare la profonda conoscenza
della bilancia da parte di un frodatore. Si tratta di un negoziante di
porpora, il quale nella propria bilancia aveva spostato dal mezzo lo
sparto, cioè aveva spostato l’asse di rotazione ed aggiunto del piombo al
braccio più corto; i piatti li aveva ricavati uno dal tronco e l'altro
dalla radice dello stesso albero. Il piatto più pesante l'aveva applicato
dalla parte del braccio minore ottenendo così l'equilibrio del giogo
nonostante i due piatti avessero peso diverso.
Dagli Etruschi non ci è pervenuto nessun esemplare di
bilancia che possa con sicurezza attribuirsi loro; tanto le bilance
semplici del Museo Guarnacci di Volterra, quanto le stadere del Museo
Etrusco di Perugia sono indubbiamente da ritenersi romane. Si hanno anche
diversi disegni su specchi ed urne, ma tutti questi strumenti si
riferiscono a quelli romani col nome generico di «trutina»; si
dividevano in due specie: la libra e la stadera. Col nome «libra» si
intendeva la bilancia a due piatti e le bilance a bracci uguali.
Bilancina romana pesa metalli preziosi.
Consiste in una bilancia a bracci uguali, con sezione del giogo quadrata fulcro ad anello sostenuto
da un gancio in bronzo.
Su uno dei bracci, graduato, può
scorrere un peso; lo strumento può funzionare da bilancia e da stadera.
Numerosi e pregevoli esemplari di bilance romane ci sono
pervenuti in massima parte dagli scavi di Roma, di Pompei ed Ercolano, e
sono conservate nel Museo Nazionale di Napoli. Fra gli esemplari
giunti fino a noi, meritano speciale menzione due, che portano notevoli
modifiche nella costruzione della ordinaria bilancia semplice a bracci
uguali. Uno di essi, che si conserva nel Museo Archeologico di Firenze, è
una bilancia con un braccio ordinario, munito di un piatto; mentre l’altro
braccio porta un contrappeso fisso. Esso deve quindi servire per pesare, o
controllare pesate di valore costante. La seconda bilancia, proveniente
dagli scavi di Pompei consiste in una bilancia a bracci uguali, sospesa ad
un arco di sostegno, nella quale, su uno dei bracci, graduato, può
scorrere un peso; lo strumento funziona da bilancia e da stadera.
Con questa bilancia si profila già lo studio per una trasformazione alfine di
ottenere la stadera.
Non si ha alcuna prova della esistenza della
stadera prima dei Romani. Appunto perché sorta e comunemente usata in
Roma, da dove poi si diffuse nel mondo, tale stadera è conosciuta
sotto il nome di «stadera romana» od anche semplicemente «romana», mentre
«romano» dicesi il contrappeso mobile delle attuali stadere. Delle stadere
romane si hanno esemplari ad una o due portate, senza escludere però
che ne costruissero anche di più portate. Con tali stadere si pesava anche
fino a mille libbre (327 kg). Le aste ed i piatti di queste erano
generalmente di bronzo, spesso con artistiche decorazioni che erano
vere opere d’arte. I Romani nelle stadere raffiguravano per lo più busti
di dei e di eroi o teste di donne e bambini.
Altro tipo di stadera era sprovvista di «romano». L’asta
graduata di detta stadera si spostava entro il corrente della trutina di
sospensione. Da una parte ha una massa fissa a foggia di testa di leone e
all’altro estremo è munita di ganci per la pensione. Dopo la prima
guerra mondiale questo tipo di pesatura è stato applicato in Italia ad
apparecchi pesatori, in cui si sfilano anche tre aste. Alcuni esemplari di
stadere portano impresso, sulla testa, il nome e l’anno di regno
dell’imperatore o quello del console in carica, con l’indicazione «exacta
in Capitolio». La stessa iscrizione si riscontrava su varie misure di
capacità e pesi; ciò stava ad indicare che la stadera, la misura ed i pesi
erano stati confrontati in Campidoglio, con il relativo campione e
dovevano quindi ritenersi esatti. Il confronto coi campioni veniva
eseguito, come ho detto, in Campidoglio nel «poderarium» del tempio
di Giove, ove si conservano i pesi campione. Per tale ragione la misura
originale era detta Capitolina. La conservazione e la custodia dei pesi
era affidata ai «Quaestores urbis ex senatus consulto», la verifica veniva
eseguita dai «Pensores» e dai «Mensores». I fabbricanti di pesi, qualche
volta confusi coi verificatori, dicevansi "Saconari". I pesi erano di
forma e di metalli diversi; generalmente di marmo tirati a superficie
speculare: la forma più comune era quella sferoidale appiattita agli
estremi di un diametro: ne risultavano così due facce piane circolari, di
cui una portava l'indicazione del peso e altre indicazioni, e l'altra,
inferiore, aveva un diametro alquanto maggiore ed era generalmente senza
alcuna indicazione.
Le indicazioni del valore dei pesi erano fatte in
lettere, in numeri romani e più comunemente a puntini. I pesi
maggiori erano per lo più muniti di due
anelli ad anse di ferro, fissati con piombo nella parte superiore; quelli
intorno a 10 libbre avevano un solo anello, mentre quelli inferiori
ne erano sprovvisti. La facile perdita degli anelli o la sostituzione di
essi con altri di peso arbitrario, fa sì che della massima parte degli
esemplari pervenutici si possa difficilmente dedurre il valore
originale del peso. Oltre ai pesi di pietra, si avevano anche pesi di
ferro o di bronzo di varie forme; nel Museo di Napoli si ha un’intera
serie progressiva in bronzo, con la marca del valore in argento, incassata
nel bronzo stesso. Tutti i pesi metallici però, per la maggior
alterabilità della materia, sono in condizioni di conservazione
peggiore di quelli di pietra. Notevoli sono le serie di pesi di forma
tronco-conica, cavi, rientranti l’uno dentro l’altro, come gli odierni
pesi a ciotola. Il peso romano più piccolo era la «siliqua» eguale a
1/1728 della libbra, cioè 0,187 g, e da questo possiamo dedurre, per
quanto in modo approssimativo, la grande sensibilità e l’esattezza
richiesta alle bilance romane. Come dovunque, anche a Roma si avevano
pesi, bilance e misure alterati: il ricordo più famoso (e non certo a
vergogna dei Romani), è quello dei pesi falsi usati per pesare l’oro
versato ai Galli dopo la sconfitta della Allia (390 a.C.), conclusa col
famoso «Vae victis!» di Brenno. A parte questo ricordo storico, era
diffuso a Roma l’uso di bilance a pesi alterati a scopo di frode e, per
quanto la legislazione romana fosse a tale proposito abbastanza
severa e la repressione fosse affidata agli edili, ciò nonostante
(secondo quanto dice Ammiano Marcellino, sotto Valentiniano,361-375
d.C.) la frode con le bilance e coi pesi era cresciuta a tal segno
che questo imperatore ordinò al Pretestato, prefetto di Roma, che in tutti
i rioni si tenessero pesi e misure pubblici (pondera publica) coi quali
verificare quelli di uso comune. Simili ordini furono in seguito ripetuti
da Teodosio, da Onorio, da Giustiniano, ecc. L’imperatore Onorio affidò il
campione delle misure al Prefetto del Pretorio e quello dei pesi al Comes
Sacrarius, qualcosa come il «controllore generale delle finanze».
Giustiniano ristabilì l’uso di conservare i campioni nei luoghi santi ed
ordinò la verifica di tutti i pesi e misure e la conservazione dei
relativi campioni nella Chiesa principale di Costantinopoli. Egli ne
inviò dei simili a Roma, affidandoli al Senato, come ad un deposito degno
del massimo riguardo. Abbiamo visto che questa cura per la conservazione
dei campioni metrici è stata sentita da tutti i popoli fin dalle civiltà
più antiche.
Dopo la caduta di Roma si può dire che non fu fatto alcun
progresso nella costruzione della stadera e della bilancia. Con
l'invasione degli Unni,dei Vandali, dei Goti, dei Visigoti, degli
Ostrogoti, dei Bizantini, dei Longobardi e dei Carolingi, la bilancia non
servirà né giusta né ingiusta in quanto queste dominazioni frodavano su
ogni cosa, perciò non c'era la necessità di pesare né di misurare.
Solo verso l’anno 1000, con il sorgere delle Repubbliche
marinare, i Comuni di Milano e Firenze riprendevano i commerci con
l’Oriente e di nuovo furono necessarie la bilancia, la stadera e le
misure. Questi mercanti ricchissimi avevano grande potere,
governavano nel comune ed erano rigidissimi nell’esigere bilance
perfette e pesate esatte. Al tempo dei Comuni fra gli obiettivi principali degli
Statuti c’era quello di garantire la qualità del prodotto, il peso e
la misura nella vendita. A questo scopo ci si preoccupava di controllare
con grande severità i pesi e le misure, per impedire qualunque forma
di frode. A Milano i consoli mercanti verificavano costantemente che le
pese fossero del materiale prescritto: bronzo, oricalco, rame o ferro. E
poiché i venditori ricorrevano a parecchi sotterfugi per guadagnare sul
peso, fu stabilito che ogni compratore potesse mettere la merce sui piatto
della bilancia che preferiva e anche pesarla più volte sulle diverse
bilance esposte per il controllo. Potevano cambiare anche il piatto su cui
appoggiare la merce. A Firenze lo statuto dell’arte della lana stabiliva
che i pesi per la vendita avessero il sigillo dei consoli e che per
la misura dei panni si usasse la misura speciale dell’asta, la canna di
ferro di quattro braccia, che, ragguagliata al metro, corrispondeva a poco
più di due metri. Anche Firenze disponeva di tante bilance, sparse per la
città per il controllo del peso. Mentre di queste bilance niente è
rimasto, le misure, che erano fissate con muratura nelle facciate di
diverse chiese ed edifici governativi, oppure di palazzi e castelli,
esistono ancora. Nel 1300 sorsero in Italia molti Ducati, Principati e
Signorie, i quali crearono una gran confusione nei pesi e nelle misure.
Mentre i medesimi simboli di peso e di misura erano usati da molti, ogni
Signoria dava al peso e alla misura una quotazione diversa, questo per
avere una maggiore possibilità di frode.
Le straordinarie invenzioni e scoperte avvenute nei
secoli, apportarono una vera rivoluzione nel campo delle industrie ed
aprirono nuove e rapide vie di comunicazione, che facilitarono ed
accrebbero considerevoli scambi commerciali fra i diversi popoli. Nel 18°
secolo più vivamente si fece sentire la necessità di un sistema nazionale,
possibilmente universale, che dispensasse dai lunghi e laboriosi
calcoli di ragguaglio, e perché il sistema si imponesse ad ogni
altro, avrebbe dovuto essere nuovo ed ottimo sotto ogni aspetto. Secondo
il Delambre, scienziato di astronomia moderna, devesi a Gabriele Mauton di
Lione la prima idea di prendere come unità fondamentale di misura una
frazione del meridiano terrestre. Senonché il valore assegnato a
questa unità dal Mauton non era esatto, avendo egli preso a base dei suoi
calcoli una misurazione errata delle dimensioni terrestri. Altri ancora
prima di lui avevano già proposto di prendere la lunghezza del pendolo,
che fa un determinato numero di oscillazioni (2.304) in un’ora, oppure la
lunghezza dell’onda luminosa, corrispondente alla luce di una
determinata intensità. Può dirsi che nel campo pratico si entrò
effettivamente, allorquando Talleyrand fece adottare dall’Assemblea
Nazionale francese un decreto (18 maggio 1790) tendente alla
uniformità delle misure e dei pesi; egli istituì una apposita
commissione, di cui fecero parte gli accademici Lagrange - Borda - Laplace
- Monge - Condoret, con l’incarico di effettuare gli studi necessari per
stabilire l’unità naturale delle misure e dei pesi. E doveva essere unica,
inalterabile e verificabile in ogni momento. La Commissione, dopo aver
studiato a fondo l’argomento, rinunziò alla lunghezza del pendolo e decise
di adottare per unità fondamentale del nuovo sistema di misura una
frazione del meridiano terrestre. La misurazione del meridiano che
attraversa la Francia era già stata eseguita a più riprese da Picat,
da Cassini e da altri ancora e i risultati dei loro lavori, confermati
dalle altre osservazioni astronomiche, avevano dimostrato in modo certo
l’esistenza della depressione ai poli. Ma la Commissione, avendo ancora
qualche dubbio sulla esattezza delle cifre trovate, volle fare procedere
ad una misurazione del meridiano di Parigi, misurandone l’arco
compreso fra Dunkerque e Barcellona. Affidò l’incarico agli astronomi
Delambre e Mechain, i quali condussero a termine le loro operazioni nel
novembre 1798 e la quarantamilionesima parte del meridiano così misurato,
fu la parte aliquota scelta, cui fu dato il nome di «metro».
Dal metro furono derivate le misure di volume, la cui unità è il
metrocubo, il quale è un cubo di cui ciascuno degli spigoli ha un metro di
lunghezza; l’unità di peso, ossia il grammo, è il peso, nel vuoto, di
un centimetro cubo di acqua distillata alla temperatura di 4°C. Il
campione prototipo del metro a zero gradi, di platino, e quello del
chilogrammo, in platino, pesato nel vuoto, furono deposti negli archivi
della Repubblica francese il 22 giugno 1799. Però, qualche tempo dopo
l’adozione di questo sistema, fu riconosciuto esservi stato un errore
nella misurazione del meridiano. Lo stesso Mechain si era accorto (come
pure il Delambre, rifacendo i calcoli) che il metro campione già
depositato negli archivi, avrebbe dovuto prendersi alla temperatura di
80,56°C. anziché a zero gradi, perchè rappresentasse il valore esatto del
metro. Dopo di lui l’astronomo Bessel, riprendendo in esame i risultati
fino allora ottenuti, concluse che la lunghezza del quarto di meridiano,
stabilita per la determinazione del metro, doveva essere aumentata di
856 metri e quindi la lunghezza di esso è minore di quella risultante dai
suoi calcoli di millimetri 0,856 ossia 86 micron. Siccome, in pratica, la
correzione avrebbe prodotto gravi inconvenienti, si convenne di continuare
a ritenere, come base del sistema, il prototipo dell’anno 1799, a cui
venne dato il nome di «Metro Legale». I multipli di esso 10 - 100 - 1000 - 10000
vengono rispettivamente indicati premettendo al nome dell’unità le voci
derivate dal latino: deci, centi, milli; ed il complesso di tutte le
misure così derivate costituisce il sistema metrico decimale, che
venne imposto obbligatoriamente in Francia dal 1° gennaio 1840. Già quando venne imposto
in Francia il sistema metrico fu visto come una futura istituzione internazionale: i promulgatori
si ripromettevano - e il tempo darà loro ragione - di farlo accettare in tutti i paesi del mondo.
Doveva essere, secondo il linguaggio epico della Rivoluzione francese promotrice, un sistema
di misure "per tutti i popoli, per tutti i tempi".
Carlo Alberto di Savoia
Carlo Alberto di Savoia, con un
editto dell’11 settembre 1845, lo introdusse nel suo regno,
riconoscendo la necessità di far cessare la molteplicità dei pesi e
misure che tanto pregiudizio arrecavano al regolare svolgimento dei
traffici. In Piemonte entrò in vigore col 1° gennaio 1850. In seguito fu
esteso alle rimanenti regioni d’Italia, dopo il compimento dell’unità
nazionale. L’adozione del sistema metrico rappresentò il primo pilastro
per l’ulteriore sviluppo culturale, tecnico ed economico. Gli scienziati
ed i governi di tutti i paesi civili non tardarono a riconoscere
l’importanza della diffusione di questo sistema, e nell’anno 1867 fu
costituito a Parigi un comitato internazionale dei pesi e misure e delle
monete, sotto la presidenza dell’illustre Mathieu. Il Comitato, su
proposta del Presidente dell’Accademia delle scienze di Pietroburgo,
Iacobi, emise il seguente voto: "Il sistema metrico decimale è
perfettamente idoneo ad essere universalmente adottato in ragione dei
principi scientifici sui quali si fonda, per la semplicità e facilità
delle sue applicazioni nelle scienze, nelle arti, nelle industrie e nel
commercio."
L’unificazione dei pesi e delle misure, oltre a
fungere da potente catalizzatore nei rapporti fra le nazioni,
soprattutto nel settore degli scambi economici, e a contribuire in
definitiva al progresso civile dei popoli, ha offerto uno stimolo
decisivo al perfezionamento tecnico delle bilance, consentendo
soprattutto agli apparecchi per uso scientifico un salto di qualità di
enorme portata. Un salto di qualità di cui hanno goduto i frutti anche le
bilance del commercio che hanno potuto usufruire di tutti i miglioramenti
e le innovazioni tecniche di quelle sofisticatissime dei laboratori
di ricerca, toccando oggi un livello più che ottimale.