Sangha a Milano


CHANDRAVIMALA CANDIANI

 


Il vero apprendimento affiora
quando cessa lo spirito di competizione.
J. Krishnamurti


Circa quattro anni fa, alla fine di un ritiro, ero alla stazione di Venezia, per tornare a casa, quando vidi Antonella, una partecipante al ritiro, andarsene tutta sola, con una valigia sul carrello, verso i treni.
Dimenticandomi di essere timidissima, urlai: "Antonella!", lei si girò subito e con lei molti sconosciuti: già, al cuore dei ritiri non importa del nostro carattere, urla. Finimmo per fare insieme il viaggio di ritorno. Salutandoci sul treno, a Milano, le dissi: "Dammi il tuo numero di telefono, magari vengo a Torino a praticare". Lei sembrava un po' incredula, ma due giorni dopo squillò il telefono: "Ciao, sono Antonella. Se vuoi, io e una mia amica possiamo venire qualche volta a Milano per praticare insieme". "Oh! - risposi io - e noi a Torino!".
Così nacque per un anno uno strano Sangha itinerante: una volta al mese a Torino, per una giornata di pratica, un'altra a Milano. Eravamo al massimo in sei, spesso in quattro. Ma funzionava. I viaggi volavano. Le giornate erano appuntamenti d'amore.

A un certo punto, Antonella mi presentò delle persone a Milano che, unite a Dip e Sanata, i miei più antichi compagni di meditazione, formarono uno stabile piccolo Sangha. Sono passati tre anni, qualcuno se ne è andato, altri sono arrivati. Qualcuno torna, qualcuno va, liberamente. L'unica cosa che so è che io, salvo diversa decisione dell'esistenza, sono determinata a restare.
Durante un colloquio con Corrado, all'inizio di questo esperimento, mi ricordo che gli dissi: "Anche se una domenica non ci fosse nessuno, io siederei lo stesso, e sentirei anche la cassetta del discorso di Dharma, e farei tutte le camminate, come se non ci fosse niente di diverso". Corrado mi raccontò che una volta, Larry Rosenberg era in un monastero Zen, e, avvicinandosi il Natale, tutti i meditanti se ne andarono a casa, a celebrare il Natale in famiglia. Lui, essendo ebreo, non sapeva bene cosa fare e chiese al Maestro se doveva andarsene. "No, - disse il Maestro - farai la sesshin da solo, compresi i canti dei Sutra" e così fece. Allora, Corrado concluse: "Certo, puoi farlo anche tu!". Be', non è mai successo, ma sono pronta.
Una cosa è già successa: il numero dei partecipanti non conta quasi niente. Mi sembra che il sostenere l'attenzione sia non solo uno sforzo personale, ma anche collettivo, che ci sia una sorta di contagio nel reggere il filo dell'attenzione, soprattutto durante i momenti di passaggio, o i pasti, o il riposo. Nello stesso tempo, questo sforzo mi sembra molto simile all'entrare in relazione con una farfalla.

Ho vissuto per due anni in una comunità in campagna e mi ricordo che spesso me ne andavo nei boschi, per riposarmi dalle tensioni umane. E in primavera osservavo le farfalle. Le osservavo a lungo. E mi accorgevo che bastava un mio pensiero di troppo, o troppo intenso, per farle volare via. Se solo volevo capirle, o facevo paragoni e metafore, erano già in volo. Sembrava proprio che avvertissero la presa del pensiero raziocinante, la sua pesantezza. Sembrava che potessero vivere di sola poesia, che è una forma di riflessione, ma leggerissima e del tutto inaspettata. E così mi sembra sia il lavoro con la concentrazione, l'amicizia con una sensibilissima farfalla.

Se stringi troppo, vola via o potresti ferirla, se non la circondi e non la custodisci, anche in questo caso finirebbe per andarsene o per morire di delicatezza.
Così, in quanti bisogna essere per posare una farfalla? Per lasciarla volare libera, ma curata? Per non spaventarla, né annoiarla? Be', non è certo una questione di quantità, ma di sintonia, di unanime leggerezza nello sforzo, di non distrazione, di impegno preciso e amichevole, di enorme delicatezza.
Il nostro piccolo Sangha non è esemplare. Ecco, un'altra cosa che amo, non di noi in particolare, ma dell'occasione che ci unisce: non rende esemplari. Siamo tutti principianti, tutti sappiamo di aver bisogno di ascoltare ogni tanto, il più spesso possibile, un insegnante di Dharma, ma tutti insieme ci siamo anche presi la responsabilità di essere soli. Certo, il cuore della giornata di meditazione è la cassetta col discorso, alle due del pomeriggio. Ma fondamentalmente siamo soli.

Veniamo anche da esperienze diverse, talvolta molto diverse, talvolta ai bordi del conflitto. Oscilliamo: tra il conflitto etnico e il rigore di una libertà che è soprattutto rispetto per l'altro. Non siamo esemplari, può succedere che litighiamo e può succedere che ci chiediamo scusa. È un Sangha che non ha niente di speciale, nel bene e nel male. Alla fine della giornata, viene naturale abbracciarsi, lasciare il corpo tra le braccia dell'altro, con fiducia, insieme abbiamo lavorato tutto il giorno a non farci del male, a smettere la guerra, lasciando essere il conflitto, se già c'è.
E ci sono anche le regole: per esempio, a ogni fine seduta o camminata, la campana la suona a turno una persona diversa. Sembra una sciocchezza, ma la mente umana può proiettare anche sul suonatore di campana un qualche oscuro potere o arcana autorità e passandoci il potere a turno è come un gioco collettivo, un tintinnare di responsabilità senza ruolo.

C'è un orario: il Sangha quindicinale della domenica pratica tutto il giorno. Solo due persone, che vivono in situazioni fisiche o esistenziali che non permettono di fare diversamente, vengono per mezza giornata. Mi dicono che è difficile arrivare alle due, suonare e vedersi aprire il portone senza una voce, entrare e trovare tutti silenziosi e concentrati su di sé. È difficile anche per noi non dare il benvenuto, non accogliere, non mettere a proprio agio. Ma è una disciplina del cuore, per entrambi.
È come dire: benvenuto, o benvenuta, alla tua solitudine, qui non veniamo per incontrarci convivialmente, ma per essere soli insieme, per il calore di una solitudine partecipata, che è forse uno dei pochi modi per non aggrapparsi gli uni agli altri, elencandosi sofferenze o proponendosi sempre e di nuovo di andare altrove, di fare altro. No, per oggi, qui, insieme, in silenzio, in un luogo non ideale e non perfetto, scegliendo non idealmente, ma concretamente, di dedicare tutta la giornata a questa strana arte di essere soli in compagnia. È davvero una perdita per la convivialità? O è un modo più responsabile e cosciente di entrare in relazione?

Io sono una persona dolorosamente segnata, dalle difficoltà dell'infanzia, nella capacità di relazionarmi. Ma, come tutte le sofferenze, questa mi rende lucida nell'indagare cosa davvero significhi entrare in relazione. Siamo consapevoli che incontrare un altro è incontrare un universo? E se cogliere un fiore ha un effetto sulla stella più lontana, cosa dire di due esseri umani che si parlano? So cosa sto facendo, quando entro nella vita di un altro, so cosa gli sto portando, e cosa gli sto chiedendo? Siamo miliardi sulla terra, e ci sentiamo tutti soli. Ogni volta che incontriamo qualcuno, non è quello l'Incontro, e ogni volta che siamo in qualche posto ne ricordiamo o sogniamo un altro. Vorrei essere capace di non relazionarmi con ogni donna come se fosse mia madre e con ogni uomo come se fosse mio padre. Oh, sorprendimi cuore mio, lasciami vedere lo Zen del giornalaio e la sofferenza inevitabile del Maestro Zen.

Dunque, ci sono le regole. Quando dico a qualcuno: "Mi dispiace, o vieni per tutta la giornata o niente, a meno che sia davvero una cosa molto importante", sento il loro sentirsi rifiutati. E ho notato che, spesso, dove ci sono delle regole ci sentiamo meno amati. Ma io vengo da anni di disciplina artistica nella poesia, so che solo nelle regole si è davvero liberi, non consegnati al caso, e che un amore o un'opera adulti hanno regole. La non regola, non la regola, crea potere. Senza orario, sei in balia del desiderio dell'altro.
È facile vedere in una situazione senza regole una forma di amore incondizionato, mentre finisce spesso per essere un incondizionato caos, o una richiesta di amore infantile.
La scelta di praticare tutta la giornata chiede di mettere in gioco le proprie priorità: non è detto che vada sempre bene scegliere di praticare, può davvero essere più importante andare in montagna, parlare con un'amica, o dormire, l'importante è mettersi in gioco, scegliere. Inoltre, ci sono già molti posti dove poter assaggiare la pratica e pochissimi dove poterla approfondire.

E ora il punto di fuoco: il famoso tè parlato. Arriva alle 17, dopo sei ore e mezza di pratica silenziosa e dura fino alle 18 e 15, quando torniamo nella stanza di meditazione per un congedo silenzioso, cioè, di nuovo seduti in silenzio, torniamo a lasciar incontrare quello che di noi è assoluto.

Certe volte, la situazione mi è sembrata semplicemente disperante. Sono le volte che ho sentito salire in me, impettito e infuocato, un galletto saccente e compiaciuto di sé, l'ho visto essere certo di essere nel giusto, l'ho sentito snocciolare opinioni e punti di vista come fossero una nuova marca di granoturco, e l'ho scorto lottare in modo idiota con tutti e con nessuno. Mah! Mistero! Da dove arriva? Qualche volta, durante i lunghi ritiri, quando la personalità preme e teme di sparire, mi sussurro: "Sii passero tra i passeri", che non ricordo se è la frase di un Lama tibetano o di un Maestro indiano, ma ho trovato spesso utile per sparire nel Sangha, nella pratica collettiva di essere nessuno.
E poi di colpo, senza soluzione di continuità, da passero a galletto. A quel punto, l'unica cosa che funziona è dirmi che anche questa è pratica, che la consapevolezza abbraccia anche i galletti e sa aspettare, silenziosa, che un po' spennacchiati se ne vadano a dormire da soli.
In un'altra occasione, provai ad ascoltare gli altri come fossero uccelli. Certo ero stordita, ma stordita dai versi degli uccelli, non è male.

È facile vivere il tè parlato come quando da piccoli, nei giochi di movimento, si gridava: "Ari-vivis!" e "Ari-mortis!". Ari-mortis segnava una pausa nel gioco, un'assenza di regole, ma anche una caduta di tensione. "Ari-vivis!" e il gioco ricominciava, intenso, ma isolato. E invece no. Posso sentire che sto solo cambiando forma di pratica, postura, situazione, ma la pratica è la stessa? Che è un rinnovato, eterno ari-vivis? Che non c'è un punto finale, una sensazione, un pensiero, una situazione, una relazione, un dolore, che quello proprio sono io, che da lì ho osservato finora e adesso ari-mortis e mi dispero o ari-mortis e mi innamoro o litigo o telefono.
Oh, voglio telefonare in ari-vivis, litigare, dubitare, innamorarmi, disperarmi in ari-vivis! E cioè: che sorga, che passi. Che non sorga, che non passi. Se proprio devo essere qualcuno, allora sono il campo, non quello che lo attraversa. Eppure, è solo sbagliando che imparo, è sbagliando che il galletto diventa anatra e impara a galleggiare. È solo smettendo di voler essere esemplari che il tè parlato diventa uno spazio in cui imparare a essere secondi, come dire né primi né ultimi.

Mamma mia, quanta strada ancora! Ma spaventarsi sarebbe come se uno, vedendo davanti a sé il sentiero che si snoda nel bosco, dicesse "No, è troppo lungo" e tornasse nel traffico della città. Oh no, basta allungare il passo, che non vuol dire andare in fretta, ma non trascurare niente, non dividere la vita, abbracciare tutto con l'attenzione amorevole e sbagliare e perdonarsi e coltivare un cuore allegro. Auguri a tutti i Sangha del mondo, a quelli che ci sono stati e sono finiti, a quelli che devono ancora nascere, a quelli invisibili, a quelli di tutti i mondi, auguri!

 

 

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