RICORDI APPESI A... UN PELO

  

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                          Il racconto che da tanto tempo avevo in animo di scrivere ha avuto una sua prima , travagliata nascita nel 1988. A quell’epoca si chiamava “PELO”, che era il titolo più ovvio da dare ad un libro di memorie di un partigiano che aveva come nome di battaglia, appunto, “Pelo”.            Mettere sulla carta, dapprima a mano e poi ricopiare a macchina, due anni di vita partigiana, mi costò circa tre mesi di duro lavoro.
(...)              Aderendo a quanto io ritengo sia la verità, mi sono permesso ad un certo punto di correggere quanto è stato scritto, in una sua opera, da un’amico:(Giorgio Pedracchi “Al tempo che la Berta” editore Mursia) gli errori nei quali egli è caduto (alcuni hanno ben poca importanza) non sono da addebitare a lui ma piuttosto al fatto che egli non era con noi in quel periodo.

            Comunque, e questo è il punto, quando mi trovassi a dover giurare sulla verità di alcune delle mie asserzioni, sentirei il dovere di rifiutare

                                                                                              Aldo Battaglini detto “Pelo”


           
Per  fortuna nostra e delle popolazioni della nostra zona, il nostro comandante (Manrico Ducceschi, detto Pippo) non era uno sprovveduto soldatino levatosi ad un rango che non gli apparteneva, ma un’ufficiale dell’esercito che evidentemente aveva idee chiare sul come deve essere combattuta la guerriglia partigiana. Anche noi occupavamo una nostra zona, ma nascostamente; avevamo dei piccoli presidi posti a guardia dei punti fondamentali per l’accesso e, all’interno della zona da questi delimitata, un luogo (capanne di pastori abbandonate) nel quale risiedeva il comando.

            I distaccamenti erano diversi e posti difesa dei punti più importanti, come passi obbligati e punti dominanti. E, da quanto riesco a ricordare, distaccamenti volanti che risiedevano un giorno in un luogo, l’altro in altro luogo, spostandosi continuamente.

            Da queste basi partivamo per le nostre imprese.

            Questa era la situazione prima che la formazione, così chiamavamo la nostra banda, si spostasse in Emilia a seguito di informazioni che davano per sicura una sostanziosa incursione delle truppe nemiche. Erano giunti gli alpini (tedeschi) a Bagni di Lucca, truppe scelte e noi eravamo ben coscienti della nostra debolezza (numero di uomini e addestramento, armi, munizioni, viveri) e del grosso rischio al quale avremmo esposto tutti gli abitanti nella zona e gli innumerevoli paesi posti lungo il  perimetro. Tutta gente che ci aveva dato quanto poteva e di buon grado.     

* * *

            Pelo. Era il suo soprannome.

            Gli era stato attribuito dai suoi nuovi compagni non appena questi avevano avuto occasione di vederlo a torso nudo. Ché aveva il petto e la schiena, in parte questa, coperte da un fitto, folto, spesso vello . Donde il nome di battaglia. Pelo.

            Quasi tutti avevano un nome di battaglia: il Piccolo (era il più giovane), Garibaldi (difficile indovinare le sue idee politiche), Balistite (meglio non stuzzicare), Bellezza (il più brutto) e poi Modena, Leone, il Fiorentino, Torello, Capretto e tanti e tanti altri. Fra i quali Cefas (Salvatore, di Cefalù), il Vecchio e Pippo, il comandante.

              Era stato assegnato al distaccamento della Foce. La Foce di Campolino. La Foce per antonomasia: la più alta, la più rude, la più forte, la più panoramica. La più; la Foce!

             Ed era ormai diventato un  vero partigiano; ne aveva i vestiti logori, gli scarponi  sdruciti, la barba ispida e, forse, anche l’aspetto duro, deciso. Questo gli derivava, oltre che dalla vita che era costretto a condurre,  dal fatto che si era trovato finalmente a combattere dalla parte giusta, contro i nemici veri, quelli di sempre. Dal fatto, di conseguenza, che ora combatteva spinto da un’ardore feroce.

            Pelo si sentiva un vero partigiano, un bandito, come dicevano i fascisti ed i tedeschi.

             Ed era diventato uno degli  uomini che godevano della piena fiducia di Pippo.

             Un  giorno,  come faceva rischiando ogni qual volta gli era concesso, era tornato e solo per alcune ore, al tranquillo paese sulla carrozzabile.

            Per rivedere Rina, per andare dal barbiere, per lavarsi.

            Certo non poteva  più permettersi il lusso di fare il gradasso  passeggiando in divisa,  unica autorità del posto, sulla strada statale. Come faceva mesi addietro. Allora aveva una divisa che, se non lo coinvolgeva intimamente, ma lo teneva relativamente protetto. Ora non poteva permettersi di passeggiare sulla strada; doveva percorrere i sentieri nascosti e farsi vedere meno possibile.

          Quel giorno, su un sentiero nascosto, incontrò un giovane che conosceva.

          Seduti su una pietra, all’ombra dei castagni, si informarono reciprocamente sulle cose della vita del momento. Fumando una sigaretta.

           Parlarono di Santina, naturalmente, e di Luciana; poi della disgrazia del momento, tedeschi e fascisti, della grossa trota che Guido aveva pescato e di altre cosette.

           Avvenne, parlando dei nemici, che il giovane gli disse che egli aveva deciso di andare in montagna, insieme ad alcuni amici.

            “Come dobbiamo fare?

            “Facile: basta venire su. Però è meglio se io ne parlo prima  al comandante  e  sento quale decisione egli prende. Solo dopo potrete venire con noi.

            Decisero: Pelo sarebbe partito subito, diretto ai monti, al comando e avrebbe parlato al capo, a Pippo. Poi sarebbe tornato giù e si sarebbero ritrovati il giorno dopo

a notte fatta e pronti  ad  una  immediata partenza,  vicino  a quel castagno, sito al limite del Pian del Geppe, il pianoro subito sopra al paese. Che era poi il castagneto nel quale erano in quel momento.

              Presso il castagno essi avrebbero atteso: se Pelo non fosse giunto nel volgere di un’ora, voleva dire che la risposta di Pippo era stata negativa. Si salutarono e partì.

            Quella  che lo aspettava era una lunga camminata, ma ora  era ben allenato e inoltre conosceva la strada  da percorrere passo  per passo: ne conosceva tutte le curve, tutti i  sassi,  i tornanti,  le  asperità, le scorciatoie e sapeva  dove  prepararsi alla salita o alla discesa. Sapeva dove attraversare il torrente, anche al buio trovava le pietre che potevano facilitare il  guado e  sapeva  dove deviare per evitare la capanna  del  pastore  del quale era meglio non fidarsi.

            Andò dal capo e gli parlò ed egli chiese qualche informazione  sull’amico che voleva unirsi a loro e su coloro che poteva  presumere  sarebbero stati i suoi compagni.  Acconsentì all’arruolamento del nuovo gruppetto; però voleva prima un colloquio con loro. Percorse nuovamente la strada conosciuta, in discesa questa volta, e si indirizzò al luogo dell’appuntamento. 

            Non si fidava molto di questi appuntamenti presi con tanto anticipo, in luoghi così ben definiti, ad ore precise: si prestavano a  troppe sorprese e le sorprese erano sempre brutte. Per questo era  sul luogo con due ore di anticipo, era ancora giorno, e per  questo, invece  di fermarsi vicino alla pianta stabilita, si mise ad  una certa  distanza da questa, con alle spalle la macchia che poteva offrirgli una sicura via di fuga. Naturalmente non prima di aver esaminato con  cura  gli immediati  dintorni  e averli trovati assolutamente deserti.

            Pioveva. Seduto su un grosso sasso si preparò alla lunga attesa. Poi (quanto  possono essere lunghe due ore)  sentì nel buio i passi attutiti di alcune persone che si  avvicinavano. Erano non più di quattro o cinque, lo capiva anche se non li poteva vedere, ed era gente che conosceva  bene il posto: camminavano nel buio con passo sicuro,   senza urtare una pietra o una  radice, silenziosamente e silenziosamente lo attesero sotto il castagno. Quel comportamento da  gente che conosceva  perfettamente i luoghi  gli  dette la sicurezza di cui aveva bisogno.

            Si sollevò dalla fredda e dura pietra, finalmente, e si avvicinò al  gruppetto in attesa nel buio, sotto la pioggia leggera, fredda, insistente. Con un breve fischio si fece sentire: rispose  il giovane col quale aveva fissato l’appuntamento e da lui si fece  dire i nomi di coloro che lo accompagnavano. Nomi  che  già conosceva, anche se non tutti conosceva personalmente, ragazzi del paese sparso sullo stradale ed erano cinque in tutto, compreso l’uomo che aveva stabilito il contatto.

            Scusandosi con loro per la precauzione, si accertò, perquisendoli velocemente, del fatto che nessuno di loro possedesse un’arma. Tranquillizzato, ripose la  pistola che teneva in  mano e disse  brevemente:

            “Andiamo”.

            Si  incamminò, a capo della breve fila, prendendo la strada lunga, per evitare il paese poco più sopra, i suoi troppi cani ed i suoi troppi pericoli: prese la strada (lassù le chiamano strade ma sono solo sentieri, a volte ampi, comodi, pianeggianti, altre

volte larghi appena quanto è largo un piede e  aspri,  sassosi, scoscesi) che saliva lentamente lungo il torrente e ogni rumore era coperto dal fragore dell’acqua che precipitava, indifferente a  tutto, di sasso in sasso. Più in alto deviò e prese direttamente   attraverso la macchia e poi nel castagneto, diretto alla strada alta, quella che dal  paese che aveva evitato con quel lungo giro, portava al passo e, trovatala, la  seguì. Era una salita impervia, dura, sassosa e per niente agevole, specialmente di notte, col freddo e ormai bagnati come pulcini bagnati. Teneva un buon passo, malgrado l’oscurità, e gli altri  lo seguivano abbastanza facilmente, sempre in fila, a brevissima distanza l’uno dall’altro e sempre silenziosamente.

            Gente che sapeva camminare e che conosceva la strada che stavano percorrendo.

             Rallentò  solo  quando  si rese conto  di  essere  a  breve distanza  dal  posto di guardia che sorvegliava  il  sentiero  ed avvertì  gli altri del fatto che presto sarebbero  stati fermati. Poteva essere pericoloso, poteva costare la vita avvicinarsi incautamente,  di  notte, ad un posto di guardia sui monti: gli uomini erano sempre all’erta e nervosi e poteva bastare poco per prendersi una pallottola nella pancia.

            Lanciò un breve richiamo al  quale rispose immediatamente lo scatto di due Sten che venivano armati e, un’attimo dopo, una voce che chiedeva, sommessamente, chi fossero.

            “Sono io, Pelo.”

            Erano, questi, ragazzi che conosceva, con i quali aveva già passato tanto tempo e si avvicinò tranquillamente.  Naturalmente  gli chiesero chi fosse con lui e quanti e dove  andavano a quell’ora, con quel tempo e chiesero anche se qualcuno avesse da fumare  e da qualche parte venne fuori un pacchetto di sigarette che furono offerte a tutti. Uno dei cinque, proteggendolo con la  mano, accese un  fiammifero:  un lampo di luce gli permise  di vedere in faccia, per un breve momento, uno dei compagni di quella notte: il volto teso di un giovane biondo, forse diciotto anni,  madido di pioggia. La luce illuminò e fece  brillare una grossa  goccia che in quel momento si stava staccando dal suo naso.

            Il giovane stava guardandolo, ma non sapeva, Pelo, cosa vide,  non  sapeva cosa  provò nel trovarsi per la prima volta e in quella  insolita circostanza, di fronte ad un bandito. Lui, un vero partigiano, un bandito, un’uomo con la taglia sulla testa! Già: allora davano un premio  in  denaro o in sale a chi aiutava nella  cattura  di un ribelle e gli par di ricordare che il premio ammontasse alla bella cifra  di duemila lire: tanto valeva la vita di un uomo, allora!

            Era comunque una bella cifretta, tale da trarre in  tentazione tante persone di pochi scrupoli. Ci fu una breve conversazione con i due uomini di guardia: il freddo della notte, la pioggia, cose così e ripartirono. Ancora pochi minuti ed erano al coperto nella Marginetta della foce. Era questa una cappellina poco più grande della norma, forse tre metri per tre, salde mura e pavimento in pietra e,  sul  fondo, un’altarino  con una semplice figura di Madonna.

            Opere  semplici, queste delle  Marginette,  costruite anni  e  anni  addietro  da semplici uomini pieni di fede.

            Entrò,  seguito dagli altri e dette subito disposizioni perché qualcuno andasse a prendere un pò di legna (ce ne era tanta dietro la parete dell’altare) e quelli andarono, li sentiva muoversi nel buio,  li sentiva ma non li vedeva, andarono a tentoni e tornarono con due buone bracciate di legna secca ma bagnata dalla  pioggia. Non fu facile accendere il fuoco con quella legna bagnata ma finalmente il difficile compito riuscì e fu un grande piacere vedere una timida fiammella spuntare nel mucchio e, mano a  mano  che si asciugava la legna  intorno,  ingrandirsi, farsi viva, allegra, tiepida prima e poi calda.

            Si sedettero sulla pietra intorno cercando di farsi più vicini possibile e tendendo le mani per scaldarsi meglio. Gli abiti bagnati cominciarono piano piano ad asciugare e fumigavano di un tiepido vapore biancastro e cominciavano a stare bene, al caldo tepore  del fumante, crepitante, fiammeggiante mucchio di legna ardente.

            Egli, mentre si scaldava, guardava le facce intorno: oh, non erano belle da vedere  in quel momento e, del resto, neppure lui  doveva essere bello, ancora bagnato e fumante.

            Cinque  uomini  giovani, cinque tipi diversi,  cinque  facce bagnate e ancora livide per il freddo. A parte uno di forse trenta anni, alto, asciutto, scuro di pelle e dalla faccia scolpita, gli altri erano giovani dai diciotto ai ventidue, ventitré anni. Uno, quello che  aveva intravisto nella luce del fiammifero,  il  più giovane,  era  poco  più che un ragazzo, una faccia da paffuto bambino viziato.

            Si sorprese a pensare: questo non ce le farà. Un’altro era un ragazzo dal viso lentigginoso, lo conosceva  bene e lo sapeva un ragazzo dalla battuta  pronta, sempre  allegro, vivace, scattante, occhi vispi e faccia scarna.

            Poi c’era,  anche questo conosceva  bene e anche per lui nutrì dei dubbi,  un giovanotto grassottello, di statura intorno alla media, piuttosto timido, carnato roseo: da ragazzo doveva somigliare molto ad  un bel porcellino quasi pronto per la griglia. Ultimo  l’amico che aveva  preso  il  contatto con lui. In quel momento sembrava quello che aveva risentito di più della durezza della  fatica e del  freddo e la cosa gli causò una certa sorpresa  perché  lo aveva  ritenuto, da quando lo conosceva, un tipo piuttosto duro. Vedremo!

            Venne  il momento di coricarsi (eufemismo), dopo aver ben caricato il  fuoco, che li scaldasse tutta  la  notte:  “se qualcuno si sveglia, nella nottata, si alza e esce per andare  a prendere altra  legna”,  si  distese sulla pietra  (la  pioggia crepitava  sul tetto) e si addormentò. Non bastavano  certamente la pietra e la mancanza di un cuscino per tenerlo sveglio!

            Dormì tutta la notte: al risveglio notò subito che il tempo  era cambiato, il sole entrava dall’arco senza porta, il fuoco era spento. Nella Marginetta era solo: gli altri erano usciti.

            Si levò dalla dura pietra ed uscì a sua volta: erano seduti al sole su un poggetto lì vicino. Si guardavano intorno.

            “Buongiorno, ragazzi. Come va?

            “Male! Siamo stati svegli tutta la notte.

            “E perché?

            “Era  freddo e sulla pietra io non riesco a  dormire e neanche gli altri.”  La concisa  affermazione veniva dal più giovane.

            Il sole, ancora basso, metteva in risalto i lineamenti, ne forzava le rilevanze.

            La sua luce era ancora fredda, le ombre, lame taglienti, davano risalto al quadro composto da quei cinque giovani variamente appoggiati o seduti sulle pietre del muretto. A fare da sfondo un breve pascolo in leggera salita, verde umido e brillante.

            “Posso farti qualche domanda? Era  il  più  anziano  che parlava, ora.

            “Certo.

            Fu un fuoco di fila di domande e risposte.

            “Come si dorme, lassù, dove siete voi voglio dire?

            “Be, dipende. Alcuni distaccamenti  hanno capanne per tutti, altri  no. Dove sono io, per esempio, ci sono due capanne con il posto per diciotto o venti persone e noi  siamo  in  trenta. Qualcuno dorme dentro, a turno, gli altri fuori.

            “All’aperto? Lassù, a millenovecento metri è freddo!

            “In genere quelli che debbono dormire all’aperto hanno una o due coperte.

            “E se piove?

            “Cerchiamo di stringerci e di fare posto per tutti.

            “E coperte? Di coperte ce ne sono per tutti?

            “Non so come stanno a coperte gli altri distaccamenti.  Dove sono  io ci sono coperte per tutti quelli che dormono fuori e  ne avanzano  alcune  per quelli che possono dormire dentro. Io, in genere, insieme ad altri, mi copro con un paracadute.

            Si rese improvvisamente conto di aver dimenticato di dire ai ragazzi di portarsi una coperta. Ma ormai era fatta!

            “E da mangiare?

            “I viveri sono sempre pochi. Si mangia quando  qualcuno  scende nei  paesi e rimedia qualcosa. A volte c’è pochissimo! Ora  è un periodo  in cui si mangia una volta al giorno, una sola volta  ma tutti i giorni. Una fetta di polenta al giorno. Fatta con farina vecchia e senza sale.

             “E  cosa c’è da fare?

             “C’è la guardia alle capanne, c’è da procurarsi la legna, da fare  la  guardia alla Foce e le pattuglie sui crinali.  E ogni tanto bisogna  andare nei paesi più lontani, la  nostra  zona è molto grande, per cose varie. Poi uno deve andare tutti i  giorni al comando. La cosa più importante è la guardia alla foce e ai sentieri che conducono alla foce. Se un giorno vengono i tedeschi, è da lì che arrivano. Ma io non so dove vi manderanno: forse uno o due alla foce, gli altri probabilmente saranno divisi fra qui, Granaglia, o la foce a Troghi, o le Mancinelle, o forse al comando. Deciderà Pippo. E’ comunque da tener presente il fatto che noi non siamo lassù per mangiare, oprendere il sole, o fare passeggiate sui crinali; la ragione prima è la lotta ai fascisti ed ai tedeschi; a volte capita di doverli affrontare.

            Questo dovrebbe essere uno dei discorsi più lunghi che Pelo ha fatto nella sua vita, ma era assolutamente necessario il farlo. Bisognava che quei ragazzi capissero

            “E negli altri posti si sta meglio o peggio?

            “In alcuni meglio, in altri peggio. Io sto bene alla foce.

            “E quei due ragazzi che abbiamo trovato sulla strada, da dove vengono?

            “Da quelle capanne là dietro.

            “Dove sono non c’è protezione. Sono già bagnati come pulcini. E con questo freddo...!

            Erano perplessi e pensosi. Lo guardavano. Poi il più anziano  disse che avevano bisogno di parlare un momento fra loro.  Li lasciò allontanandosi di qualche passo. La decisione la presero alla  svelta: gli si fecero intorno e dissero subito che loro preferivano tornare a casa. Se era possibile!

            La prova della  sera,  la lunga  camminata nel buio sotto la pioggia, sull’aspro sentiero, la nottata insonne erano stati troppo, per loro. E le prospettive sull’immediato futuro non erano certo state allettanti.

            Ancora erano troppo legati alla vita serena del tranquillo paese tutto disteso sulla statale, al loro comodo letto, al calduccio del focolare. Alla polenta accompagnata da fumanti fagioli o dalle saporite salsicce. Ancora non erano stati toccati dalle disavventure della guerra, ancora le impetuose spinte del dovere non avevano aperto bene i loro occhi. Ma un seme è stato gettato: sono in tempo a cambiare e tornare.

 

            Li  riaccompagnò fino al posto di guardia: i  due  ragazzi che avevano trascorso tutta la notte sul sentiero, senza coperte, senza  impermeabile,  sotto  la  pioggia,  al  freddo, senza  il conforto di un bel fuoco, guardavano. Nel loro sguardo c’era una inespressa e sorpresa domanda.

            Se ne andarono: il ragazzo biondo, il più giovane, prima di sparire dietro la prima curva del sentiero, si voltò ed alzò le braccia in segno di saluto. 


RITORNO

            E’ necessario premettere che questo vuole solo essere un racconto  di ciò che è successo nei giorni in cui la formazione, dopo essersi portata in Emilia, nel suo viaggio di ritorno, si trasferì da Canevare alla Foce a Giovo. 

           Ma, scrivendo, ho dovuto seguire una cronologia dei fatti che fosse il più possibile aderente alla verità. Ho scoperto  che non è una cosa facile ed in alcuni punti ho dovuto rinunziare perché i lontani ricordi affondati nella memoria non coincidono assolutamente con quanto è scritto nella “relazione militare” e neppure con quanto esposto dall’amico Pedracchi nella sua opera (Al tempo che Berta filava).

            Ho avuto l’impressione che chi ha scritto la “relazione militare” si sia sentito in dovere di ingigantire molti episodi, allo scopo di far fare una migliore figura alla formazione tutta.

            Grazie, ma io personalmente sono del parere che le cose debbono essere raccontate così come sono successe e poi non c’è alcun bisogno di ingrandire un bel niente. Quello che è stato fatto basta e avanza. E se ci fossero dubbi metteremo sul piatto i nostri sacrifici e quello supremo dei nostri tanti morti!

            Sono convinto del fatto che Pedracchi ha raccontato le cose nella maniera più esatta possibile, ma egli si è dovuto contentare della memoria di tanti vecchietti, ché ormai tanti vecchietti siamo. E alcuni gli hanno raccontato cose che non hanno nessuna rispondenza con la verità. In tutta buona fede, ma traditi dalla memoria.

            Un’esempio?

            Un buon amico, con noi combattente, è nella ferma convinzione che Silvano (ferito al ventre, portato a S. Marcello e poi nascosto nella zona di Pian degli Ontani) sia stato ferito nelle Strette di Cocciglia. Nossignore: Silvano è stato colpito alle Fabbriche di Casabasciana, in una piana sopra le vasche della cartiera. Io ero a pochi metri da lui e sono assolutamente sicuro! Nella stessa occasione e nello stesso luogo venne ferito alla coscia Leo, di S. Cassiano di Controni.

            Ma Pedracchi ha la mia comprensione perché ha dovuto mettere insieme tanti fatti, tante memorie, diverse l’una dall’altra e cercare di ricostruire le cose come si sono svolte. Compito molto difficile, specialmente se non si ha la conoscenza dei luoghi e si è così lontani nel tempo.

            I nomi che ho usato nel testo sono quelli reali: non credo che, a oltre 50 anni di distanza , alcuno possa risentirsi. E non ne vedrei la ragione.

            Saputo che gli alpini tedeschi ci avrebbero attaccato e che, soprattutto, avrebbero colpito e distrutto tutti i paesi della zona ed ucciso i loro abitanti (innumerevoli casi sono a dimostrare quanto sarebbe successo), fu deciso di andare altrove ad evitare grossi guai.

            Meglio andare, in modo che i tedeschi non trovassero alcuno, e poi tornare. A cose fatte e finite.

(...) 

            Canevare. Io del piccolo paese sotto il Cimone e sopra  Fanano, non conservo il minimo ricordo. Non so se era solo un gruppo di capanne di pastori o se erano case civili. Non ricordo se era un paese arido o se era piuttosto immerso nel verde di frondosi alberi. Non ricordo niente. Solo che era una splendida giornata di sole.

            Come ho detto non ricordo che giorno fosse, ma forse posso risalirci: la buona volontà non mi manca e neppure il tempo.

            Dunque (so che non si comincia una frase col dunque: ma mi piace); il 31 di luglio mi era stata fatta la carta di identità falsa, firmata dal commissario prefettizio di Fiumalbo. Quel documento che mi aveva salvato la vita il giorno dopo (uno agosto, martedì) quando una pattuglia tedesca mi aveva sorpreso. La conservo ancora, gelosamente!

            E continuano a mancarmi due o tre giorni!

            Ricordo le facce sparute dei miei compagni e Pippo che nel frattempo aveva vissuto la brutta esperienza del calcio di un mulo in pieno volto. Ne portava le tracce evidentissime attorno all’occhio destro (se ben ricordo): l’impronta violacea di un ferro da mulo che interessava la parte bassa della fronte, scendeva all’altezza del naso  attraversando la parte alta della gota e risaliva alla fronte lambendo l’occhio. Fortunato!

            Disteso su una scala, infrebbrato, la ferita e la testa doloranti, era stato portato dai suoi uomini fino a quando non si era ripreso. Fibra robusta! E buona tempra.

            Al momento in cui li avevo finalmente incontrati, nel paese di Canevare, stavano facendo una sosta nel loro viaggio di ritorno verso le nostre terre.

            Ci deve essere stata un’adunata e debbono essere stati impartiti degli ordini.

Io tornai a far parte del plotone di Capretto (vecchio fanfarone, rodomonte, spaccamontagne) ed ebbi la mia nuova arma: fucile mitragliatore Bren, (una curiosità: Bren da BRno e ENnfield) calibro 7,65, caricatore curvo con 28 cartucce. Un po’ lento nel tiro ma sicuro e, soprattutto, molto pesante.

            Me lo misi in spalla e non lo abbandonai fino a quando non giunsero gli americani. Armi più efficaci e molto più leggere.

            Ebbi anche un corpetto di tela con tre caricatori di scorta. Un bel peso!

            Partimmo. Non ricordo a quale ora, ma ricordo su quale strada.

            Anche se non ricordo il giorno esatto, ho un’altro riferimento: il lago della Ninfa.

Siamo passati dal lago della Ninfa durante la notte, e doveva essere una bella notte di luna perché il laghetto splendeva di riflessi vari, immobile nella notte. Noi passavamo col nostro esausto passo, una silenziosa fila di silenziosi uomini che nella notte andavano da qui a la’. Passando vicino alla sponda del laghetto.

            Ho misurato sulla carta: in linea d’aria da Canevare al laghetto ci sono tre chilometri: un’ora di cammino, forse, in quelle condizioni, un’ora e mezzo.  Ne deduco che abbiamo lasciato il paese a sera inoltrata, quasi notte.

            Il laghetto nel buio era splendido Tutto circondato dai faggi, neri nel buio. Non l’ho più visto, quel laghetto, e non ho alcuna intenzione di andare a vedere come è stato rovinato. Voglio ricordarlo come era: chiazza di luce nel silenzioso  buio e faggi neri tutto intorno. E una colonna di silenziosi disperati che camminano.

            Silenzio.

            Passi silenziosi. Una lunga fila si muove con circospezione sul sentiero terroso. Non dobbiamo fare rumore, non dobbiamo disturbare la pace del bel laghetto. Gli passiamo vicino, a pochi passi dalla sponda, ed egli neppure se ne accorge. Io lo guardo affascinato, e continuo a camminare silenziosamente.

            Non ricordo assolutamente come abbiamo trascorso il resto di quella notte. Forse ci siamo fermati a riposare. Forse abbiamo camminato tutta la notte. Non ricordo.

            Ho fame. Non un  piacevole appetito: fame. Di quella vera, di quella che ti distrugge, ti abbrutisce. Quella fame per la quale saresti disposto ad uccidere. Tutti avevamo fame.

            Una lunga fila di disperati che, più che camminare, si trascinavano lungo un viottolo di montagna. Accanto a noi, nelle sue vesti lacere e chiassose, camminava la Fame. Gridava, per avvertire gli eventuali passanti che stavamo arrivando noi: gli Affamati.

            Ma sulla strada che conduceva al Cimone non c’erano viandanti. Non c’era nessuno. Neppure altri affamati, disperati come noi.

            Ora è giorno.

            Sulla nostra strada, una capanna. L’apriamo: dentro un bel vitello ed un agnello. La salvezza! Addio alla fame, per qualche giorno. In un bel vitello c’è tanta carne da poter togliere le grinze dallo stomaco a tante persone. Io già sentivo l’acquolina in bocca. Già mi vedevo rizzare le forcelline di faggio intorno al fuoco di legna secca.  Che bruci piano piano senza fumo (i tedeschi non debbono vedere) lasciando un bello strato di brace rossa. Già coglievo il profumo della carne che arrostisce. Senza sale né altri condimenti.

            Una voce: “Vedete in giro se vi riesce trovare il padrone”.

            Perché noi siamo stupidi fatti così: in una Italia di ladri, in un’Italia di affamati che rubano da tutte le parti, noi no! Se vogliamo mangiare il vitello dobbiamo prima trovare il padrone e pagare. Perché noi non rubiamo! Quello che mangiamo lo dobbiamo pagare!

            Alla faccia della signora dalle vesti accese che cammina al nostro fianco. Chi se ne frega delle sua grida, che ce ne importa dei suoi lamenti. Prima dobbiamo trovare il padrone e trattare con lui l’acquisto del grasso, saporito, appetitoso animale.

            Gli uomini tornano, prima uno poi l’altro. Uno è andato avanti, lungo la strada, uno indietro, verso il paese e uno di qua e uno di la. Nessuno ha trovato il padrone dei due succulenti animali. E allora si da’ finalmente ascolto allo schiamazzare strepitoso della brutta signora e si prendono i due animali. Dobbiamo in qualche maniera toglierci la fame. E lo faremo con queste due povere bestie.

            Ci incamminiamo e con noi l’agnello e il vitello. Ma non  muoviamo che pochi passi quando un’uomo ci raggiunge di corsa. Poteva correre, lui, non aveva la debolezza della nostra fame. Ci raggiunge e dice che l’agnello e il vitello servono a lui. Noi diciamo che vogliamo pagare gli animali: che ci dica quanto vuole, che’ noi paghiamo. E poi gli parliamo della nostra fame e forse non è necessario dire che abbiamo tanta fame. Si vede che non mangiamo da tanto tempo, si vede che soffriamo, che proprio non ce la facciamo più. Ma non c’è niente da fare: il vitello serve a lui e forse anche lui ha ragione, forse anche lui ha delle bocche da sfamare e conta sul vitello. L’agnello no, quello ce lo regala. Forse per dimostrare che proprio non può fare altrimenti. L’agnello ce lo regala.

            Io già immaginavo l’agnello morto e spellato. E lo vedevo tagliato in tanti pezzetti, quasi cento porzioni per quasi cento affamati: dieci chili di agnello! Levata la pelle, gli intestini e qualche altro pezzetto che è impossibile mangiare, restano circa sette chili.

Comprese le ossa, tolte le quali il peso utilizzabile si riduce a circa tre chilogrammi.

            Lo so: mi sono informato. Dal macellaio!

            E tre chili diviso cento vengono 30 grammi di carne a testa. Una bella mangiata per una persona che non tocca cibo da qualche giorno!

            Camminavamo. Ci trascinavamo, per essere più precisi. Inciampando, barcollando, bestemmiando, andavamo avanti piano piano per la nostra strada. E uno di noi, non ha importanza chi fosse, portava sulle spalle il bianco, lanoso, tenero agnello. Tre o quattro chilogrammi di succosa carne. Da dividere, non appena giunti sul posto, una radura fra i faggi poco più avanti, da dividere in circa cento porzioni da distribuire a circa cento affamati ragazzi. E ogni porzione possibilmente uguale alle altre novantanove.

            Quasi impossibile. A qualcuno la sorte farà spettare un pezzetto di coscia, altro avrà un pezzetto d’osso con intorno un po’ di grasso.

            Camminando, soffrendo il sopportabile e l’insopportabile, passo passo, arrivammo alla radura nella quale era nostra intenzione abbandonarci al festino. A quel punto colui che sulle spalle portava il succulento nostro pasto, ancora rivestito di pelle e lana, ancora ben vivo e per niente disposto a lasciarsi mangiare, quel giovane che portava l’agnello se lo lasciò sfuggire.

            Correva, il povero agnello, fuggiva disperatamente ed era il nostro povero pasto che scappava nella radura. Il tenero batuffolo di lana bianca correva fino a quando arrivava al limite della radura,  girava bruscamente e riprendeva la corsa in altra direzione, per trovarsi nuovamente il bosco davanti. Nuovo dietro-front e nuova velocissima corsa.

            Io non potevo correre, non ce la facevo. Mi sedetti. E ridevo: ridevo dall’avvilimento, ridevo dalla debolezza, ridevo per la strana, inconsueta scena offerta da quasi cento affamati che rincorrevano il fuggente pranzo. Inciampavano, cadevano, alcuni ridevano, altri piangevano. Non potevamo sparare (i tedeschi potevano essere vicini): Pippo gli tirò la pistola e fu così che ruppe il fodero. Era una pistola tutta particolare: sul  fodero di legno si poteva incastrare l’arma che così poteva essere imbracciata come un fucile. Una bella arma. Con un prezioso fodero che in quella occasione si ruppe.

            Poi, con un prodigioso tuffo da provetto portiere uno di noi lo prese. Fu uccisa, la povera bestiola, e spellata e buttate le zampucce e qualche altra cosa immangiabile. E divisa coscienziosamente in cento bocconcini, o quanti eravamo. Mi spettò una noce di carne ed un pezzetto di osso, buono anche questo perché dentro contiene il midollo che può essere succhiato ed è buonissimo. Ci dividemmo in tanti piccoli gruppi ed ogni gruppetto accese il suo focherello. E intorno al focherello vennero disposte le forcelline di faggio e sulle forcelline il boccone di carne infilato in una bacchetta. Con le dita la bacchetta viene fatta girare pian piano e le dita cuciono prima dell’agnello e il profumo si diffonde nell’aria fortunatamente immota.

            Fortunatamente perché le montagne di allora erano piene di affamati e si stava con la paura che altri potessero sentire il profumo ed accorrere. Rischiando di essere accolti a fucilate perché il nostro copioso pranzo non può essere diviso con altri!

            Quando è quasi cotto lo si mette in bocca, non c’è bisogno di sbranare, non c’è niente da mordere o dividere, è un solo boccone: lo si mette in bocca e si mastica. Lentamente, che duri più a lungo possibile. E si ha la sensazione di aver mangiato. Non, purtroppo, quella di essersi saziati.

            Dopo cinque minuti la fame è la stessa di prima. Vien quasi fatto di pensare che la povera bestia sia stata sacrificata per niente. Una morte inutile! Ho fame come prima e mi chiedo se è vero che ho mangiato oppure no. Qualche fortunato si accende una sigaretta come se fosse alla fine di un pranzo e avesse gustato anche un buon caffè ed un liquorino!

            Dieci minuti di riposo, la digestione deve essere facilitata, e si riprende il cammino.

            Ora so’ dove siamo diretti: ci terremo molto in alto sul versante a nord del monte Cimone, passeremo da S. Michele e scenderemo al ponte per poi attraversare la statale, la Giardini, come la chiamano da quelle parti.

            Io sanMichele lo conoscevo, e conoscevo il ponte. C’ero stato giorni addietro per andare a trovare una donnina che sapeva fare le chiarate. Perché ero caduto e mi ero preso quella che sul momento credetti fosse una storta e che ho poi scoperto essere stata una frattura. Strana sorte del mio malleolo sinistro rotto una prima volta per correre incontro alla bella ragazzina della quale ero pazzamente innamorato e, pochi mesi dopo, una seconda volta per rincorrere una forma di pecorino che mi era caduta e scappava in discesa lungo il prato. Era correndo dietro alla forma di formaggio che, messo male un piede, ero caduto procurandomi la lesione. Curata dalla donnina di San Michele e dalla gioventù. Un bastone per aiutarsi nel camminare e via!

            Ed ora ero diretto nuovamente a San Michele, proveniente dalla parte opposta ed in ben altre condizioni.

            Passammo dal paese Michele a notte alta e poi la colonna si fermò. Pippo chiamò Emilio che era di Pievepelago e conosceva bene i posti, e gli disse:

            “Scendi fino al ponte e vedi se tutto è tranquillo. Poi torna da noi”.

            Emilio! Ogni nome richiama un episodio. O più episodi.

            E di episodi che vedono coinvolto Emilio ce ne sono tanti. In questo momento lo ricordo a Bagni di Lucca (stavamo godendoci un breve periodo di riposo dal fronte) quella sera in cui, al Circolo dei Forestieri, ci fu la grande cazzottata fra noi, alleati con gli americani, a volte succedeva il contrario, contro gli inglesi che volevano partecipare alla festa e tentavano di entrare di prepotenza.

            Io ero seduto sul bancone del bar e combattevo a colpi di bottiglia dati sulle teste che mi capitavano. Emilio combatteva nel mezzo del salone, insieme ad un gigantesco infermiere americano il quale colpiva con il suo enorme pugno quanti inglesi gli giungevano a tiro. Emilio si incaricava di portarli fuori. Un successone!

            Dopo pochi giorni gli inglesi si vendicarono: invitarono ad una festa in un paese di montagna Emilio ed il suo amico infermiere, li riempirono di botte e li spedirono indietro legati sul basto di un mulo.

            Emilio andò al ponte e tornò. “Tutto tranquillo. Al ponte non c’è nessuno”.

            Pippo formò una pattuglia, non alcune come detto nella relazione ufficiale e nel libro di Pedracchi, della quale chiamò a far parte: il prezioso Emilio,  Antonio (lo slavo), Capretto, il sottoscritto col suo Bren e sei russi.

            Disse Pippo: “Voi andate al ponte, attraversate la statale, poi vi dividete in due parti e vi disponete una parte sopra strada  verso valle e l’altra verso monte, per proteggere la colonna quando arriveremo alla strada.”

            Partimmo, in dieci e andammo al ponte. Ma le cose, nel frattempo, erano molto cambiate perché avevamo appena passato il ponticello sul rio quando una voce che gridava qualcosa in tedesco ci fermò.

            Immediatamente dopo un colpo di fucile. Ta-pum!

            Non poteva sperare di colpire qualcuno, con quel buio, il tedesco. Guardai in alto, alla strada lontana forse trenta metri e vidi la fiammella di un’altro colpo. Ta-pum! E se il tedesco avesse lanciato una bomba a mano? Eravamo nel fosso e una bomba poteva provocare una strage.

            Intravedevo la sagoma di un’autocarro e contro quella vuotai tutto il caricatore: ventotto colpi in pochi secondi. Vicino a me qualcun’altro stava sparando. Forse era Capretto con la sua pistolina. Beretta automatica calibro 9 corto. Colpire un’uomo a dieci metri con quell’arma è un colpo di fortuna! A cosa serve a trenta metri? A niente.

            Immediatamente dopo arrivò la colonna tedesca. Non era partita su allarme da Pievepelago, era già li, a forse cento metri, quando c’era stata la sparatoria.

            La relazione dice che la colonna si era partita dietro l’allarme provocato dalla sparatoria. Ma il ponte è ad un chilometro e duecento metri dall’inizio del paese, 850 metri in via d’aria (come si dice). Supponiamo che quelli dell’autocarro abbiano potuto dare l’allarme per via radio: non credo che tutti gli autocarri tedeschi avessero una radio, ad ogni modo sull’autocarro c’erano tre uomini e due erano morti mentre uno era ferito tanto gravemente che, portato all’ospedale di Fiumalbo, trovò la morte il giorno dopo. Notizie sicure, provenienti dalla Gianna e dalla Elia. Della quale Elia ero tanto innamorato!

            Come hanno dato l’allarme?

            Ma seguiamo la supposizione di cui sopra; i tedeschi danno l’allarme per radio. Chi lo raccoglie deve comunicarlo al comandante della colonna al quale spetta prendere decisioni e dare ordini. Bisogna riunire gli uomini e poi caricarli e nel frattempo mettere in moto e poi partire. E percorrere un chilometro e duecento metri. Supponiamo che il tutto richieda solo dieci minuti. Ma gli autocarri non sono giunti dopo dieci minuti, sono arrivati dopo dieci secondi! E hanno cominciato immediatamente a sparare. Con tutti i mezzi: fucili, mitragliatrici, qualche colpo di cannoncino, bombe a mano. E noi eravamo ancora nel fosso.

            Un finimondo!

            Non ci fu una reazione da parte nostra, non ci fu un’ordine di ritirata. Ci fu la fuga! Una fuga disordinata. Si salvi chi può!

            Bisogna riconoscere che contro una tale forza armata noi non potevamo adottare altra tattica. Solo la fuga potevamo impiegare contro quella colonna di autoblinde, carri armati, centinaia di uomini. Truppe dirette al fronte attraverso il Passo dell’Abetone e comandate da un’ufficiale che sapeva prendere le precauzioni adatte contro il rischio di un’assalto di sorpresa da parte dei banditi che numerosi battevano quelle zone.

            Egli inviava avanti un’autocarro con l’ordine di occupare e difendere il prossimo incrocio. Ed una vettura con l’incarico di effettuare la stessa operazione sull’incrocio successivo. Ed un’altra ancora per quello più lontano.

            E quando Emilio era giunto alla strada nella sua esplorazione, l’autocarro non era ancora arrivato. Ma c’era quando siamo giunti noi. Era arrivato in quel momento, evidentemente. E la colonna non era ferma a Pievepelago, no, era a cento metri, in movimento e pronta a difendersi e ad attaccare, alla bisogna.

            Noi, sicuri del fatto che sulla strada non esistesse pericolo alcuno, eravamo giunti al ponte senza prendere precauzioni. E ci eravamo trovati di fronte alla bella sorpresa. Siamo stati fortunati: se la colonna giungeva mentre noi eravamo sulla strada, non so immaginare cosa sarebbe accaduto. O forse lo immagino molto bene!

            E’ scritto da qualche parte che lo scontro durò circa un’ora. Non è vero, lo scontro durò solo il tempo di vuotare un caricatore di Bren, 28 colpi ed il Bren ne sparava 450 circa al minuto. A voi lo scoprire quanto può essere durato il tutto!

            Poi la fuga. Disordinata. Nella notte mi trovai davanti un ragazzo immobile, in piedi, nel mezzo della sassaia. Paralizzato dal terrore. Non so chi fosse: certo non Antonio, non Emilio ne Capretto. Un russo, ma non so quale. Le pallottole grandinavano intorno a noi, picchiavano sui sassi e rimbalzavano ruggendo. Il ragazzo non reagiva alle mie grida, alle mie imprecazioni, neppure agli spintoni. Reagì ai calci, potenti calci nel didietro che riuscirono a muoverlo dalla sua paralisi e metterlo finalmente in fuga.

            Fra i sassi prima, nel bosco poi, fuggivamo in salita, scivolando, ansimando, bestemmiando, fino a quando giungemmo tanto lontani da sentirci al sicuro. Dopo pochi minuti eravamo riuniti al resto della formazione che attendeva sotto S. Michele.

            La brutta, povera verità è questa e non quella delle “Relazioni sull’attività militare eccetera”:

            Dopo alcune ore di sosta per esplorare il terreno vengono inoltrate pattuglie oltre il      fiume con il compito di attestarsi al monte della nazionale n. 12  tuttora pattugliata      da carri armati e da truppa tedesca, al fine di proteggere il passaggio degli uomini e          delle salmerie. Nonostante tutte le misure di precauzione, una pattuglia viene   avvistata da sentinelle tedesche,. Viene aperto il fuoco da ambo le parti e ne deriva        uno scontro così violento da destare l’allarme in tutti i presidi tedeschi circostanti.

                        Dal presidio di Pievepelago parte immediatamente una colonna di carri              armati e truppa, che, giunta sul posto, rende difficilissima la ritirata verso il gruppo di alcune pattuglie in condizione di inferiorità. (....) il comando fa aprire il fuoco delle        armi automatiche nel tentativo di proteggere lo sganciamento e il ritorno delle             pattuglie. Dopo circa un’ora di fuoco intenso, le pattuglie riescono (.....). Eccetera.

            Giusto Petracchi: “ Quando la formazione giunse a passare la via Giardini nei pressi di Fiumalbo, l’avanguardia sostenne uno scontro a fuoco con un’autocolonna tedesca sopraggiunta nel frattempo”.

            Anche se è necessario ogni tanto allontanarsi dal filo del racconto, non per dare vita a polemiche (assurde, dopo tanto tempo) ma al solo scopo di  ristabilire la verità nuda come piace a me e cercando sempre di non perderci nelle strane trame delle relazioni ufficiali, torniamo al nostro racconto.

            Scaricati i muli e caricatici delle loro some, riprendiamo la strada verso la montagna dalla quale eravamo scesi speranzosi poco prima; il sorgere del giorno ci trovò a nord di Fiumalbo, sul crinale che scende dall’Alpicella del Cimone.

            Ancora più stanchi, sempre più affamati. E ora anche assetati. Forse perché non avevamo acqua e non potevamo muoverci per cercarla. Eravamo distesi sul crinale, con la testa sporgente sopra Fiumalbo, 400 metri più basso. Sotto a noi una parete rocciosa, in fondo alla parete una copiosa sorgente. A forse 50 metri.

            Acqua usciva da una fenditura nella roccia, formava una luminosa pozzanghera e poi prendeva il suo cammino dando vita ad un piccolo rio scendente verso Fiumalbo. Così bella, fresca, viva e irraggiungibile! Perché poco più sotto era ben visibile una batteria contraerea e per chiunque si fosse azzardato a muoversi verso l’acqua sarebbe stata la morte.      

            La fresca dissetante acqua dobbiamo contentarci di guardarla.

            Tutti fermi sul crinale, dunque, e la sete ce la teniamo. Insieme alla fame.

            Tàntalo! Eroe della mitologia greca. Cerca di fondere i due piani del divino e dell’umano, sia portando agli uomini i cibi degli Dei (nettare e ambrosia), sia facendo mangiare agli Dei carne umana. Donde il castigo di Zeus: Tàntalo è condannato alla fame ed alla sete eterne.

            Cento Tàntalo soffrono la fame e la sete, avendo da bere a pochi passi e da mangiare poco più sotto: a Fiumalbo nessuno ci avrebbe rifiutato da mangiare. Ma nel paese c’è un reparto della Flak (come cavolo si scrive?), ed un ospedale militare e un’altra batteria antiaerea è sull’altro lato della valle, sopra la Dogana, e chissà quanti soldati e noi non possiamo scendere in paese. Dobbiamo starne lontano.

            Il sole. Il sole è alto nel cielo, è sorto quando noi già eravamo sul crinale, tramonterà quando noi ci prepareremo alla partenza per cercare un’altra volta di attraversare la statale. Nella notte, ovviamente.

            E’ una palla infuocata, rovente, ci guarda dall’alto, ci sovrasta.

            Non un’alito di vento, quel giorno. Non una nuvola nel cielo. Non una goccia di pioggia. Sole. Sole e basta. Un’astro fiammeggiante, rovente, e  siamo a 1400 metri di quota, proprio dove, all’epoca, aveva termine lo strato di limo atmosferico ed il sole lo si sentiva meglio.

            Brucia sulla testa, quel sole, arroventa la pelle, distrugge il fisico, demolisce il morale, abbrutisce l’individuo. Implacabile! E noi, come tanti girasole, siamo sul crinale e ce lo godiamo tutto. Senza una goccia d’acqua. Ci è concesso vederla, l’acqua, ma non berla, non rovesciarne secchiate sulla testa, non bagnarne i nostri poveri panni.

            Ci fosse un pomodoro da poter mangiare. Un po’ di sete la toglierebbe. Ma non ci sono pomodori, non ci sono cocomeri e neppure c’è una qualsiasi altra cosa da mangiare, così come non abbiamo niente da bere. E poi chissà parché mi viene in mente un pomodoro!

            Quando mi sono arruolato tra i partigiani ho pensato al pericolo al quale mi esponevo. Ho pensato che avrei potuto morire combattendo, che correvo il rischio di essere catturato, torturato, fucilato, impiccato, decapitato, bruciato, ammazzato a bastonate, inchiodato ad una porta con la baionetta (povero Bruno). Ma che avrei potuto soffrire la sete, sul nostro Appennino così ricco di acque, questo non me lo aspettavo!

            Ruscelli nascono dalla roccia,  sgorgano nei prati, torrentelli debbono essere saltati o guadati ad ogni passo. Nelle faggete, nei castagneti, nelle nere abetaie, sugli alti pascoli, sui crinali e nel profondo delle valli. Ovunque è acqua. Limpida, fresca, cristallina. E noi, nel bel mezzo dell’Appennino, stiamo soffrendo la sete, con le labbra che si sgretolano, con la lingua che piano piano si va gonfiando. E, come Tàntalo, l’acqua è a pochi metri da noi, la vediamo scorrere fluente, scintillante, ma non possiamo berla!

            Sopra le nostre teste il sole imperversa, palla di fuoco che non conosce pietà. Amico di sempre, ma terribile nemico oggi. Oh, avere un’ombrello, un’albero, un tetto, un muro, un qualcosa da interporre tra la mia testa e le fiamme.

            Il tempo passa, lentamente, dolorosamente, ma passa. Arriverà la sera, il sole se ne andrà sul suo carro di fuoco trainato dai quattro cavalli, scenderà nel suo notturno rifugio. E mi lascerà finalmente in pace! “Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto” come dice il divino.

            Scende la sera e noi ci incamminiamo: affamati, assetati e ora anche bruciati dal sole. Con armi e bagagli dovremo scendere nella notte verso Fiumalbo, aggirarlo tenendoci sulle pendici del Cimone, poi attraversare la valle, passare la statale e finalmente salire sui nostri monti, verso le zone che conosciamo meglio, tornare a quella che un tempo era la nostra base, la sede della nostra formazione.

            Il sentiero che seguivamo quella notte mi era completamente sconosciuto.

            Impervio, stretto, scosceso, tutto immerso nella fitta macchia di faggio. Pieno di radici sporgenti e fitto di grossi sassi rilevati, tutti assolutamente sconosciuti; ed ogni radice una bestemmia e ogni sasso un moccolo. Il Bren che portavo sulle spalle, ad ogni pié sospinto rimaneva attaccato ad un ramo sporgente; nelle maniere più strane. Ed ogni ramo sporgente mi costringeva ad una breve sosta. Quelli dietro spingevano bestemmiando sottovoce. Io, sommessamente bestemmiando, cercavo di liberare l’ingombrante arma dagli arbusti che lo trattenevano.

            Fra brevi arresti, brevi corse per raggiungere quelli che nel frattempo erano andati avanti, il cammino proseguiva, nel buio più fitto, nella notte più nera.

            Sempre accompagnati dalla fame che ormai era diventata un pesante fardello. La sete no. Quella ce la eravamo tolta al primo rio che sciabordando avevamo guadato. L’avevo risalito di qualche metro, nel buio, quel rio. Per non bere il fango sollevato dai nostri scarponi. Mi ero inginocchiato nel bel mezzo della corrente e avevo bevuto. A sazietà, fino ad essere completamente appagato, fino a quasi affogare. Quasi. E poi mi ero bagnato la faccia e la testa tutta. Acqua avevo gettato, con la coppa formata dalle mani, sulla testa, sulle spalle, sul petto.

            E ora, tolta la sete, rimaneva la fame e tremavo dal freddo.

            Cominciavo ad essere depresso, abbacchiato, demoralizzato. Quel lungo, faticoso, scomodo, sentiero mi stava distruggendo. Insieme alla fame, naturalmente. I cui morsi sentivo sempre più acuti.

            E  torrenti e torrentelli da guadare, buche che si spalancavano improvvisamente sotto i piedi. Scivoloni, ruzzoloni.

            Poi un largo torrente nel quale, anche se poco  profondo, le acque correvano veloci e turbinanti. Del torrente  non si  vedeva  niente, ma si indovinavano le pietre per  la  leggera luminescenza dovuta ai vortici che si formavano intorno ad esse e si saltava di pietra in pietra e ogni tanto si udiva un tonfo,  a volte  accompagnato da una sorda bestemmia: qualcuno aveva  messo un piede su una pietra che non c’era.

            Avevamo  con noi un’uomo di età assai più  avanzata della  nostra, forse cinquanta,  cinquantacinque  anni,  o forse sessanta, non so. Aveva le mansioni del  cuoco, quando  c’era qualcosa da cuocere (il suo lavoro con noi non  era certo impegnativo) e portava sempre con sé i  suoi arnesi: una grossa pentola di rame, tenuta in spalla  con il  braccio infilato nel manico e un insieme di altre  pentole  e padelle,  legate tutte insieme con un cordino e quando  camminava faceva un bel po’ di chiasso.

            Questo uomo era davanti a me quella  notte,  quando attraversammo il  torrente e mise un piede in fallo e cadde in acqua. Cadde disteso nell’acqua gelida con gran rumore di pentole e io che lo seguivo e il compagno che ci  precedeva  entrammo nell’acqua e lo tirammo fuori: grondava da tutte  le parti, naturalmente e si lamentava della sorte che lo perseguitava e bestemmiava, imprecava, malediceva.

             Ho un vasto repertorio di bestemmie, io, e molte le ho imparate da lui quella notte.

             Come  fortuna volle arrivammo tutti dall’altra parte del torrente e anche dall’altra parte della strada. Ora eravamo nella nostra zona, ancora alcune ore di cammino e avremmo raggiunto  la nostra meta.

             Eravamo  nuovamente  su  strade,  sentieri,  mulattiere  che conoscevamo perfettamente e camminavamo spediti, anche se era ancora  notte fonda e la fame continuava a tormentarci, a  farsi sentire acutamente.

            Fu, quella, la notte dell’assalto al melo. Quel melo vicino al quale ci trovammo a passare (eravamo nei  terreni coltivati vicino al paese) e che qualcuno, malgrado il  buio, riuscì in qualche modo a vedere. Il melo era carico  di frutta  e, in silenzio e non so come potessero farlo, due o tre ragazzi in  un momento erano sulla pianta e gettavano di sotto tuttele mele che capitavano fra le loro mani: mele mature,  mele acerbe, buone,  cattive,  marce anche.  E noi,  di  sotto, raccoglievamo  il tutto,  brancolando nella notte e ad  ognuno toccarono due o tre  mele. La manna  piovuta  dal cielo,  una mangiata incredibile.

 (...)

Spogliato il  melo di tutte le sue mele, riprendemmo il nostro cammino,  arrancando nel buio fitto.

            Quella notte, abbiamo poi sentito dire a Fiumalbo, avvenne un fatto insolito, strano e assolutamente singolare. Se è vero! Ma, in una guerra come quella, tutto può essere vero. E tutto può essere il contrario di vero.

            Era stata posta una batteria contraerea, sopra la Dogana. Una batteria della Flak (ma come diavolo si scrive!): noi l’avevamo veduta dall’assolato crinale sopra Fiumalbo, ma forse non avevamo ben capito dove si trovasse.

            Camminavamo lungo il sentiero che doveva condurci alla nostra meta. E non ci rendevamo conto del fatto che il sentiero passava a breve distanza dalla batteria. Camminavamo più silenziosamente possibile, ma un po’ di chiasso era inevitabile farlo.

            I tedeschi sentivano innumerevoli piedi che si muovevano nella notte, scarponi e scarponi che nel buio pestavano la terra, inciampavano nei sassi. E, si racconta, vennero presi dalla paura. E’ forse una colonna che ci sta circondando? Forse sono migliaia di banditi che si preparano all’assalto. Presto saremo tutti morti, e quelli che si salveranno dall’assalto verranno scannati e lasciati morire dissanguati. Orribile.

            Fuggirono, ignominiosamente, vergognosamente scapparono andando a rifugiarsi nelle case del paese. Abbandonando armi e munizioni, cannoni, tende. Tutto!

            Noi non sentimmo niente, niente vedemmo. Lo venimmo a sapere alcuni giorni dopo. E si rise tanto!

(...) 

            Camminammo tutta la notte ed era giorno fatto quando giungemmo ad affacciarci sulla valle del Rio delle Tagliole, a quota 1522, sul crinale che divide le Pozze dalle Tagliole, sulla strada del Duca (come è chiamata sulle carte dell’I.G.M.).

            La strada del Duca si stacca dalla strada che da Faidello conduce alle Pozze in località Case Coppi e va verso la foce al Giovo.

            Non ricordo quale percorso abbiamo seguito quella notte, ma non siamo certamente andati al Lagadello e tanto meno a Rotari.

(...)

            Mastico, mastico pazientemente, diligentemente, la bocca piena dell’aspro, disgustoso sapore della vecchia, dura carne. Che, già dura di natura, non è stata frollata e non è stata condita con un pizzico di sale. Solo condimento, la fame. Mastico, mastico e poi inghiotto. Ho inghiottito un pezzo di carne cotta o un pezzo di legno? C’è da domandarselo.

            Un secondo boccone e tutto è finito. Ho scoperto comunque, tutte le esperienze servono a qualcosa, che un boccone di vecchio montone è meglio di un boccone di tenero agnello. Perché costa tanta fatica il masticarlo e poi il digerirlo che si può avere l’impressione di aver fatto un lauto pranzo.

            Da  “Al tempo che Berta filava” di Giorgio Petracchi:

            “I sentieri furono perduti, poi ritrovati dallo stesso Pippo, che guidò la formazione alla casermetta dell’Ospedaletto. Qui, dopo tanti giorni, fu imbandita la mensa: spezzatino di pecora con patate, ciliege amarasche per frutta; lo stucchevole odore dello spezzatino si diffuse nel raggio di un miglio.”

            Ma, scusa Petracchi, chi ti ha raccontato queste cose?

            Poi fummo alla Foce a Giovo e Pippo chiamò da parte me e Capretto e disse:

            “Ora voi andate  (intendeva Capretto e il suo distaccamento) nella zona di Vico Pancellorum. Io con il resto della formazione, vado nella zona del Bacchio Nero, sopra Coreglia. Non dite a nessuno dove siamo. I collegamenti teneteli voi e nessun altro”.

            Noi ci incamminammo verso Vico ed egli, con tutti gli altri, andò verso il Bacchio Nero. Fù così che per me cominciò una nuova vita.

   


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