PASSO DOPO PASSO
(Vita da staffetta)

    

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            Avevamo fatto ritorno nella nostra zona.

            La formazione venne divisa in pochi, piccoli gruppi: il comando aveva la sua sede nella zona della Porcata e di Bacchio Nero (sull’Appennino, sopra Coreglia), un distaccamento nella zona di Foce a Troghi e un secondo distaccamento sul Colle Mezzano (tra Limano e Vico Pancellorum).

            Io facevo parte di questo ed ero colui che teneva il collegamento con il comando.        C’era una piazzola, larga forse tre metri e lunga dieci. Dal lato verso valle era delimitata da alcuni striminziti faggi, oltre i quali il terreno scendeva ripido verso il torrente. Di fronte, dall’altra parte della ristretta valle, i piani del Balzo Nero, verdi pascoli sempre pieni di brucanti pecore, tre o quattro capanne di pastori, alcuni frondosi faggi.

            E una ricca sorgente di freschissima acqua.     

            Più a destra le precipiti pareti  del Balzo Nero, sovrastate in alto dalla nera e nuda roccia che dà il nome al monte; più in basso, sotto le pareti, i ghiaioni o ravaneti, come li chiamano da quelle parti. E poi la strada, per meglio dire l’aspro sentiero che dal paese di Vico Pancellorum conduce ai Piani e al Caligi. E alle montagne intorno.

            A sinistra della piazzola il sentiero in arrivo dal fondo valle e, più oltre, gli aspri pendii di Colaperto, culminanti nel crinale del Faggio Scritto. Nella piazzola, vicino al bordo verso valle, un rudimentale tavolo (quattro grezzi gambi infissi nel terreno e un’altrettanto primitivo e grossolano piano costituito da innumerevoli, piccoli e dritti rami di faggio posti l’uno accanto all’altro). Intorno al tavolo un’altrettanto grossolana panca.

            Alle spalle della piazzola, la grotta che costituiva il nostro rifugio: larga forse dieci-dodici metri, profonda quattro, altrettanto alta all’ingresso.  Sui lati, le pareti, pressoché verticali, come verticale il fondo, alto forse un metro e mezzo. Questa limitata altezza del fondale, nei confronti dell’accesso, faceva si che il soffitto spiovesse notevolmente dall’ingresso verso il fondo. Col risultato, senz’altro poco piacevole, che, quando pioveva, e in quel periodo pioveva spesso, l’acqua scendesse lungo il soffitto e bagnasse tutto, comprendendo nel tutto anche noi che tentavamo di dormire sui nostri lettucci di frasche ed erba, senza altro tetto che quello, percorso dall’acqua, del soffitto della grotta.

(...) 

            Non avendo orologio non so a quale ora mi svegliassi al mattino; forse appena si levava il sole, alle cinque, o alle sei. Non so!

            E il sole si affacciava sopra i Piani del Balzo, proprio davanti all’imboccatura della grotta. E con il sole arrivava la prima luce del giorno e il tepore. Era piacevole il primo calduccio, dopo una nottata passata praticamente all’aperto, esposti al freddo dei mille metri di altezza.

            A quell’ora avrebbe fatto piacere una bella tazza di latte e caffè, con qualche fetta di buon pane tostato e imburrato. Come quelle che la mamma mi preparava tutte la mattine. Prima che arrivassero le penurie imposte da questa schifosa guerra. Non c’era latte, e nemmeno pane e figuriamoci il burro! E allora non rimaneva che incamminarsi a stomaco vuoto.

            Un passo dopo l’altro, dopo forse dieci minuti di cammino nella macchia di faggio   ero alle Terre Rosse, la piccola foce tra il Monte Cimo ed il crinale che saliva al Faggio Scritto. Alla focetta affioravano gli scisti ferrosi, rossastri, soffici.  Il piede, sugli scisti, era leggero, morbido e silenzioso. Il panorama chiuso dai monti intorno: davanti a me, al di la della valle della Coccia di Limano, vedevo  il Monte Limano e, più a nord, la dorsale boscosa che mi separava dalla valle della Scesta. Più a destra il crinale roccioso che dal Faggio Scritto va al Caligi e poi la ripida discesa sui piani del Balzo Nero, visibile poco più a destra.

            Nei Piani, oltre ai pastori e alle pecore, c’erano i cani. Fra i cani c’era Pola, vecchia amica e fidata collaboratrice di Abramo. Era straordinaria, Pola! Spesso, nel mio viaggio di ritorno, quando giungevo alle Terre Rosse e il mio piede camminava silenzioso sugli scisti, Pola mi sentiva, dall’altra parte della valle, a circa 800 metri di distanza e sentivo il suo abbaiare festoso. Perché, oltre a capire che qualcuno stava arrivando, aveva anche riconosciuto il passo e sapeva che era il passo di un’amico, che era il mio passo!

(...)   

            Dietro ogni anfratto poteva essere nascosta una pattuglia nemica e potevo essere prudente quanto volevo, tenere le orecchie tese e gli occhi spalancati, camminare con piede leggero e arma pronta. Quando il caso mi avesse fatto incontrare il nemico, sarebbe stata finita, per me. 

            Dietro, la relativa tranquillità; davanti otto o nove ore di rischioso cammino solitario. Io ero di gamba svelta e conoscevo bene i luoghi ed ero anche considerato un’uomo fidato; per questo quei collegamenti erano affidati a me.

            Idealmente il mio viaggio era diviso in più tratte da alcuni punti fissi.

            La focetta delle Terre Rosse, le capanne del Cavallino, la foce di Granaglia.

poi i Tre Fiumi, il Chiappo Rosso, la Foce a Troghi e, subito sotto, Campagnaia. Da qui a Ospedaletto avrei dovuto salire sul colle, poi scendere nella valle , salire al col delle Prada, scendere in un’altra valle e finalmente salire alla casermetta di Ospedaletto dopo la quale mi aspettava il tratto più esposto e pericoloso e lungo, fino a Foce a Fobi.

            Alla Foce a Fobi avevo davanti un sentiero in discesa che mi avrebbe portato alla relativa sicurezza della zona nella quale era situato il comando. Ero quasi arrivato ed erano finiti i rischi più grossi.

            Non sempre percorrevo la stessa strada: a volte, giunto al Metato Bruciato, preferivo salire fino alla Rafanella e da li andare direttamente alla Foce di Troghi, oppure prendere il sentiero alto che mi avrebbe portato sulle Tre Potenze e poi, sempre tenendomi molto in alto, andare alla Foce a Fobi.

            Le varianti erano innumerevoli e io sceglievo a seconda dell’umore del momento, delle condizioni meteorologiche (con la nebbia in alto ero più sicuro, con la pioggia ero protetto anche sulle strade basse) e del tempo a disposizione (le strade alte richiedevano più tempo).

            Non credo che alla sede del distaccamento o al comando qualcuno si rendesse ben conto del pericolo al quale ero esposto in quelle lunghe, solitarie marce. Non credo che qualcuno pensasse seriamente al fatto che io potevo, in un punto qualsiasi del cammino,  piombare nelle braccia amorevoli di una pattuglia tedesca o morire in un breve scontro.

            Io ci pensavo, mi rendevo perfettamente conto del rischio che correvo.

            Ma non ho mai pensato alla possibilità di farmi sostituire e rimanere nella grotta mentre un’altro si esponeva in mia vece.

(...)   

            Al Cavallino sorgevano le capanne nelle quali abitava Nandone con la sua famiglia.

            Ricordo bene Nandone, robusto uomo dei monti, ricordo meno la sua famiglia che mi sembra fosse numerosissima. La moglie, minuta, esile; le figlie Iole e Rina e poi una nidiata di bambini, non ricordo quanti.

             Tutti ospitati nelle capanne di pietre, legno e zolle erbose: tre o quattro capanne. Più il recinto per le pecore e alcuni cani. Il tutto all’ombra dei grossi castagni. Ai rami più bassi dei castagni erano appesi diversi ganci, in legno la maggior parte, che servivano a sostenere la pentola della polenta, o quella nella quale veniva preparato il latte per fare il formaggio e la ricotta. Altri ganci, più in alto, tenevano fuori dalla portata dei gatti e dei cani il salame, il prosciutto, il sacco della farina, il sacchetto del sale, il quarto dell’ultima bestia macellata. Qualcosa protetto da semplici zanzariere.

            Anche la giacca e il grembiule, quando non servivano, erano appesi ai ganci sotto i castagni.

            Impossibile, per me, passare davanti alle capanne del Cavallino senza fermarmi  per quattro chiacchiere. Sul tempo, la qualità e quantità della lana, la salute delle pecore, l’andamento della guerra. E poi il paracadute.

            Nandone era convinto che per me fosse facile avere un paracadute, uno di quelli che gli americani e gli inglesi lanciavano, a suo parere, tutte le notti con appesi viveri in quantità, e armi, e munizioni. Ne voleva uno, di quelli di seta, forse per farsi una camicia, e un vestito per la moglie e le figlie e chissà cosa altro.

            Ma io di paracadute non ne avevo e non potevo fare altro che promettergli di portargliene uno non appena mi fosse stato possibile.

(...)             

            Quaranta minuti di comoda strada pianeggiante e all’ombra dei castagni mi conducevano a Granaglia, alla grande capanna di Betto, pastore e fratello di Nandone.

            All’arrivo in Granaglia, prudenza consigliava la massima attenzione, perché Granaglia si trova sulla strada più diretta fra la bassa valle della Lima e Siviglioli. Cioè fra la più vicina base tedesca ed il nostro comando. Usavo fermarmi nell’ombra degli ultimi alberi, a volte sul sentiero, a volte sopra o sotto il sentiero, e trascorrere qualche minuto in attenta osservazione di ciò che andava succedendo nella radura e intorno alla casa.

            Mai ho avuto la sorpresa di trovarla occupata dai nemici ma  prudenza suggeriva che .........!

            La vecchia casa, lunga, stretta, bassa, in pietrame a  secco e  con il tetto in lucide lastre di ardesia, sorge nel centro  di una  piccola  radura  scistosa, in lieve pendenza.  Su  di  essa  si protende  protettrice la fitta ombra di un secolare faggio i  cui rami  bassi servono per appendere un po’ di tutto, dalla giacca al  pentolame. Ad uno viene appeso, mediante un gancio in  legno, il  paiolo per la polenta.

            Verso valle la radura  è circoscritta dai  faggi,  in  alto è chiusa, invece, da un  ripido  pendio  di scisti rossastri ai piedi dei quali corre la mulattiera. Siamo usciti dalla capanna, io e il mio amico pastore, perché dentro si cominciava  a stare male: troppo caldo, troppo fumo.

            Siamo usciti alla ricerca di aria fresca, pulita e ci siamo seduti, con le gambe incrociate, su due bassi ciocchi di castagno, le spalle  poggiate al muro, al centro del lato lungo, quello volto verso la valle  e verso il sole.

            La mia testa è pesante, confusa: respiro a  pieni polmoni  e mi godo il silenzio nel quale siamo immersi. Il  cane, disteso  a terra a breve distanza, ci guarda con  occhi  acquosi, ansimante e con la lingua penzoloni.

(...)   

            Ancora una strada: è quella che conduce al Faggio scritto e da qui al Pian degli Ontani. Poi c’è quella, tutta in ripida discesa, che porta nella Scesta, il torrente che scorre a fondo valle.

            La più importante è quella che dovrò percorrere io.

            Un’ora circa di agevole, pianeggiante, comoda strada che mi condurrà al Metato Bruciato o ai Tre Fiumi (questa località gode del privilegio di avere due nomi). E’ un sentiero di circa un metro e mezzo di larghezza, in quasi tutta la sua lunghezza ricoperto di tenera erbetta che a sua volta copre uno stato di morbida terra. niente pietre, nessun sasso, nessun ostacolo al quale girare intorno. E protetta dall’ombra dei grossi, vecchi castagni che la costeggiano.

            Qui ci si trova nel regno del verde: verde erba sulla strada, erba ai lati, fogliame sopra. E’ veramente piacevole!

(...)   

            Per evitare il pericolo di brutti incontri a volte, invece della comoda strada, scelgo i sentieri più alti, disagevoli, scomodi, tortuosi, sassosi, ma molto più sicuri.

            Ce ne è uno che scavalca il crinale forse cento metri prima della Foce e mi accompagna fino ai Tre Fiumi sempre tenendosi un centinaio di metri più alto della strada. Entra nel profondo di tutti i torrenti che incontra, scavalca grossi sassi e vecchi tronchi marciti, si inerpica brusco sulla paretina che sale al crinale e scende rovinoso dall’altra parte.

            Divertente ma scomodo. E lungo. Però è un sentiero tranquillo, nascosto. Non credo che i tedeschi conoscano una strada come questa, conosciuta solo dai pastori e dai boscaioli della zona. Credo che neppure sia segnato sulle carte, questo sentiero abbandonato.

            Certamente mi sento assai più tranquillo e protetto su questo sentiero, purtuttavia lo percorro raramente.

(...)   

            Un passo e poi un’altro: la strada percorsa è sempre più lunga, quella da fare è sempre più corta.

            Ancora il comodo sentiero coperto di fresca e tenera erba, ancora l’ombra dei castagni, ancora  strada larga, pianeggiante, comoda. Poi, bruscamente, il cambio.

            Nelle ultime centinaia di metri.

            Sulla sinistra, verso valle, finiti i castagni, si apre improvviso il panorama sulla parte alta della vallata della Scesta culminante nel crinale delle Tre Potenze. Ben visibile, oltre le faggete e i pascoli, la Foce di Campolino, dove, con il distaccamento del quale facevo parte, ho trascorso circa un mese e mezzo.

(...)   

  Continua il mio andare. Finito il bosco comincia improvviso il ghiaione: non più ombra di castagni, non più terra morbida coperta dall’erba. Il sentiero si è fatto stretto, sassoso, pende verso la valle, cioè verso la sinistra. E’ scomodo. E’ duro e scoperto.

            Poi, sulla destra, un ciuffo di castagni. Fra i castagni quello che rimane di un vecchio metato: alcuni tronconi di mura sbrecciate, annerite dal tempo e dal fuoco che distrusse la piccola costruzione. Il Metato Bruciato.

            Poco oltre il sentiero gira sulla sinistra e attraversa, a guado, un piccolo torrente.

 (...) 

            Poco dopo le capanne di Beppe la strada, seguendo l’andamento del terreno, gira verso destra e poi ancora a destra e si infila nella stretta valle della Lugiana, salendo.

            E’ ora uno stretto e piuttosto disagevole sentiero che si inerpica sassoso lungo il fianco della montagna, tenendosi a pochi passi dal fondo della vallatella. Questo è un suolo arido, petroso. La valle è ristretta e povera.

            Povera di verde, povera di acque, ristretta di panorama

            Ho un ricordo povero di questa povera valle. Non ricordo uno strillo di bambini, non ricordo un’amicizia di pastore, non ricordo un viso di bella ragazza, non un allegro scorrere di acque.

            Solo un volto è nei miei ricordi fra le povere capanne dei pastori di Lugiana: quello di un’anziano signore con la barba bianca: è l’onorevole Mancini, sfollato in questi reconditi luoghi. E’ un nostro amico ed io, quando il caso me lo fa incontrare, mi fermo volentieri a fare due chiacchiere.

            Vorrebbe essere informato sulle cose della guerra, l’amico onorevole. Ma io non sono al corrente. Non so dove sono gli americani. Non so cosa sta’ facendo il fascismo. Ben poco gli posso dire! Solo cosa succede nel piccolo dello stradale, cosa facciamo noi, come sta Pippo, dove sto andando. E da dove vengo. Poco altro!

            Lo lascio. Con lui lascio le povere capanne di Lugiana e riprendo la mia strada.

            Poco dopo comincia l’aspra salita che conduce a Foce a Troghi. Un viottolo stretto, tortuoso, ripidi tornanti si alternano uno a destra, uno a sinistra. I mulattieri, quando giungono con i muli carichi all’inizio della salita, si fermano e dimezzano il carico. Faranno due viaggi, mezzo carico per volta. Tanto è ripida questa salita!

(...)   

            Foce a Troghi!

            Il luogo è blando, fresco, verde, ricco di acque. A pochi minuti, e ben visibile dalla Foce, la parte alta dell’Orrido di Botri. Pareti di nera roccia, nido di aquile, scrosciare nel profondo di profonde acque.  
 


(...)     
Foce a Troghi. Crocevia dei monti.

            Davanti il sentiero che mi guiderà alla meta. Sulla destra il sentiero, è appena una traccia, bisogna conoscerlo quel sentiero, che conduce (la salita è aspra, ruvida, esposta) attraverso i pascoli più alti, al Pian Cavallaro e poi alla Foce di Campolino e  al Pian degli Ontani.

            Un’altro sentiero sulla destra porta al crinale delle Tre Potenze. Uno sulla sinistra va verso Montefegatesi, il Monte Mosca e il prato Fiorito (splendido in primavera, panoramico, aperto e ricco di colori). C’è anche, ovvio, una strada che porta verso l’Orrido ma questa è bene percorrerla solo se la si conosce bene. Conduce nell’anticamera dell’inferno, nel nero rumoroso racchiuso fra pareti rocciose sprofondanti nell’acqua precipitante.

(...)   

            Camminare. Dalle Fabbriche di Casabasciana vado alla Croce a Veglia, combatto e torno. Da Crasciana vado a Faidello, consegno un messaggio e torno.

            Parto da Montefegatesi e cammino fino alla Scaffa. Torno. Riparto per la Scaffa e non trovo più i miei.

            Cammino sempre. I miei piedi, avvolti in brandelli di pezze, dentro gli scarponi sdruciti, hanno la pianta ricoperta da un’unica,  insensibile  callosità.

            Cammino. Cammino sempre: dalla foce al comando, dal comando alla foce. Dalla foce a Fiumalbo e ritorno. E poi via al Pian degli Ontani e all’Abetone. Una corsa fino alla statale per prendere un fascista. una corsa nella notte per assalire un convoglio tedesco.

            Questa è stata la mia grande avventura, racchiudente nel suo interno una miriade di avventure. Giorni e giorni. Mesi e mesi. Paura, fame, sonno, pidocchi, pulci, scabbia.      La Foce di Campolino con il suo umore sempre cangiante, con i suoi giorni di burrasche, il suo perenne vento, le fredde nottate trascorse all’aperto a quasi 1900 metri.

(...)   

            Oggi piove. Mi piovono addosso gocce dal cielo scuro e dagli alberi. Il sentiero scavato dal correre delle acque è un piccolo rio nel quale diguazzo con le mie scarpe  sdrucite, ormai fatte di buchi..

            Il panorama è scuro, chiuso: non c’è un panorama!

            Tutto è avvolto dalle nuvole, dalla nebbia. Gli alberi piangono, i cespugli piangono. Io grondo acqua; i capelli incollati al cranio, la camicia incollata alla pelle, i pantaloni, bagnati e pesanti, incollati alle gambe. Faticosamente, tristemente, tediosamente, cammino. Un pesante passo segue  un passo pesante.

            Un giorno partii dalla Foce a Troghi diretto   all’Acqua  Marcia,  la  grande   foce   sopra Cutigliano. Pioveva.

             La  salita  sul  sentiero verso  il  Pian Cavallaro,  ripido, pietroso, scivoloso, poi  la  camminata, nella triste  atmosfera  di  quel giorno,  sulla lunga pianeggiante mulattiera che, correndo  sotto il  crinale, porta alle Mancinelle e ancora la discesa  verso  il Sestaione, sotto  i  faggi  gocciolanti  e  sul   terreno viscido,  poi la salita verso il crinale al di là del  quale si snoda la statale dell’Abetone, Pioveva,  la fitta gelida pioggia di quelle altezze e  si  andava verso il pomeriggio inoltrato. Avevo ancora davanti a me  l’attraversamento  della  statale, la discesa  verso  la  Lima, e la lunga risalita sulla strada che mi avrebbe portato alla grande foce.

     Ancora ore e ore di cammino! E ininterrottamente, torrenzialmente pioveva.

     Giunsi  guardingo  alla strada,  silenziosamente,  sotto  la pioggia  e mi sporsi cautamente dal poggione. Dalla sassosa via giungeva un rumore di passi: uomini e  animali, muli e soldati. Una lunga, interminabile fila di muli e di alpini sbucava  dalla curva a valle e sfilava lentamente sotto di me, quattro  metri  più  in  basso. Venne  notte.  Disteso  sotto  un cespuglio  di  faggio, a un metro dal ciglione,  in  pantaloncini corti  e  camicia, attendevo che il passaggio di  muli  e  uomini avesse fine. Era, il loro, un passare continuo, ininterrotto; senza un intervallo.

             La  pioggia  cadeva gelida, avevo fame  ed  ero stremato  dalla  stanchezza: Nei miei piani avrei  dovuto  essere alla foce con il sopraggiungere del buio ed invece ero ancora lì, inchiodato,  incastrato da quella sottile, interminabile fila  di uomini armati e di bestie. E dalla instancabile, interminabile pioggia.

            Pioggia, fame. freddo, stanchezza.

            Cominciavo  a pensare che quella notte sarei morto.  Poi  la sfilata   si  interruppe:  scivolai  lungo  il  poggio   fangoso, attraversai di corsa la strada e ripresi il mio cammino con passo malsicuro  e lento: fra l’altro ora non avevo più alcuna  ragione che  mi  spingesse a far presto, a rispettare l’orario prefissomi,  era ormai troppo tardi. Tremavo dal freddo, il mio corpo era percorso da lunghi, paurosi brividi. Poi  una  casa. Inaspettata, buia,  silenziosa.  La  pioggia cadeva  sul  tetto e gorgogliava nelle  grondaie. 

Io,  tremante, guardavo  bramoso,  voglioso  di un fuoco  acceso,  di  un  pasto qualsiasi, di un’ora di riposo e di ristoro. Non seppi resistere: mi  avvicinai  e  bussai. Pochi momenti ed una  voce  chiese  chi fosse: un viandante bagnato, infreddolito e affamato.

            Quella notte in quella casa, trovai gente che mi asciugò e mi ristorò.

            E forse fu la mia salvezza!

(...)   

            Dal Fontanone, dopo un breve, meritato riposo, riprendevo il cammino: un’ora di salita e sarei giunto a Foce a Fobi dove mi si ripresentava, capovolta, la situazione della piccola foce delle Terre Rosse. Dietro a me, ormai compiuto, il lungo, faticoso, rischioso cammino che mi aveva condotto fino a lì. Davanti ancora due ore di discesa e sarei arrivato alla relativa tranquillità offerta dalla zona occupata dal nostro comando. E una copiosa cena.

            Il Sardo preparava, alla sera, una saporosa zuppa della quale immaginavo gli ingredienti: carne di pecora, verdure varie (fagioli, cavolo), pane secco e non so cosa ancora. Una gustosa, ricca, calda scodella mi attendeva ed io me la gustavo dopo che avevo conferito con il capo.

            Mi sedevo su un ciocco e pianamente, tranquillamente, un cucchiaio dopo l’altro, vuotavo con calma la grande scodella. E poi andavo a vedere se era possibile averne ancora. Perché a quel tempo, quando facevo la staffetta fra il distaccamento ed il comando, in pratica mangiavo il mio piatto di calda zuppa (due se mi riusciva) quando arrivavo al comando e poi rimangiavo quando vi facevo ritorno, due giorni dopo.

(...)   

Pattino ed il sole si levava quando io ero già in cammino. Percorrendo la sua rotta nel cielo, era già alto quando giungevo dalle parti di Foce a Troghi. Lui camminava sfolgorante nel cielo, io camminavo  sudante sui monti. Scendeva verso il suo riposo notturno ed io ancora camminavo. Giungeva al tramonto mentre io arrivavo al Bacchio Nero , dopo aver attraversato Pretina, la Ca’ Bruciata, Piazzana.

 


di A. Battaglini - Tutti i diritti riservati