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Qualcuno dice che pochi poeti come Antonio Porta possiedono la capacità di restare fedeli ai presupposti iniziali trasformandoli e trasformandosi incessantemente. La necessità di scrittura che sta alla base di un fare poesia protratto per oltre trent'anni, dal giovanile Calendario (1956) alle ultime righe del romanzo incompiuto ''Los(t) Angeles'' dell'89 coincide con il bisogno di misurare sulla parola un rapporto conflittuale con la realtà.: da una parte la parola-sguardo che carica fino all'angoscia i confini del vedere e del conoscere, dall'altra un continuo interrogarsi sul senso della comunicazione verbale che si confronta con l'atrocità e la violenza di un potere disumanizzante, di una realtà in cui cerca disperatamente una sia pur utopica possibilità di dialogo.
Parola-sguardo, materia verbale. Nessuna concessione all'intimismo per entrare in contatto con questa poesia dinamica, così intensa, cade la centralità del soggetto-individuo cui la tradizione lirica, sino all'ermetismo, affidava il compito di interpretare il mondo.
Porta condivide con i poeti della neoavanguardia l'avversione per il poeta-io, quello che ci racconta la sua storia, lo scrive in un breve saggio in cui sostiene l'importanza dell'evento esterno che coinvolge la comunità e non solo la persona del poeta isolato. Contro lìautonomia del letterato emerge quindi la figura del poeta oggettivo che eliotianamente "si confessa togliendosi di mezzo e versando il suo impegno più segreto nell'affondare di taglio la luce sui personaggi e sugli oggetti" ( Giuliani nella prefazione ai ''Novissimi'').
"Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte……..a me interessa solo la ricerca di una forma radicata in ciò che io ero e sono e posso diventare nella e per mezzo della poesia, nel fare poesia trasformandomi per intero nell'opera, l'unica che conta", scrive di sé A. Porta nel 1985 ricostruendo il suo cammino quattro anni prima della morte.
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