Il signor Carlo Porta
(Milano 1775-1821)
Dalla madre, Violante Gottieri, che perse a soli dieci anni di età, ebbe
una prima educazione strettamente religiosa; dal padre,
Giuseppe, cassiere della Tesoreria, impiegato solerte,
rispettoso della legge, onestissimo, seppur da giovane non ne apprezzasse la parsimonia, acquisì un preciso senso del dovere.
Nato in una famiglia numerosa di cui però sopravvissero solo i tre maschi, conservò sempre
affetto grandissimo per i due fratelli Baldassarre e
Gaspare, specie per quest'ultimo.
Compì i suoi primi studi nel Collegio dei gesuiti a Monza, poi al Seminario
di Milano che ben presto abbandonò, sia per mancanza
di vocazione, sia per intervento del padre che lo mandò
ad Augusta, in Germania, a imparare la mercatura.
Ma neppure questa era la sua strada e tornato a Milano
trovò impiego all'Intendenza di Finanza. Da Milano
passò all'archivio della Finanza di Venezia col fratello
Baldassarre (1798-99). Qui fece vita beata, sempre a
corto di quattrini, sempre tenuto a stecchetto dal padre,
sempre in lagnanze col fratello Gaspare. Vi conobbe
gente di lettere, tra cui il poeta dialettale Lamberti.
Porta aveva fatto i primi passi nella poesia dialettale milanese
componendo un almanacco (El lava piatt del Meneghin
ch'è mort, 1792), traducendo l'Ode a Silvia (1795) di
Parini e provando a usare anche il veneziano.
Intanto si era innamorato d'una bella vedova, Adriana Corner, e
l'abbandonarla per tornare a Milano e riprendere
l'impiego alla Finanza gli costò dolore. A Milano fu
ammesso all'Accademia letteraria (1800).
Dopo alcune traversie dovute al ritorno dei Francesi e un'esperienza
di attor comico, nel 1804 riprese la vita impiegatizia, che
nel 1814 lo portò al culmine della carica come cassiere
generale al Monte Napoleone. Aveva intanto sposato
(1806) Vincenzina Prevosti, vedova del ministro della
Cisalpina Raffaele Aranco, e ne ebbe tre figli che amò
teneramente, al pari della moglie, come amò gli amici,
che accoglieva felice nella sua casa di via
Montenapoleone e coi quali formò la cosiddetta
Camaretta.
La Milano culturale si riuniva lì, nelle stanze
di quello che era e che sarebbe stato il più acuto,
umanissimo poeta dialettale. Vi andavano tra gli altri T.
Grossi, G. Berchet, A. Manzoni, G. Torti, V. Monti, G.
Cattaneo, L. Rossari, E. Visconti e, a volte, anche U.
Foscolo.
Porta visse tutta la sua breve vita in comunione
con gli spiriti più aperti, in lunghe conversazioni serali, in
meditazioni e in creazioni poetiche durante le lunghe ore
di ufficio, spesso dietro uno sportello, osservatore
attento della Milano che gli passava davanti, indagatore
acuto, rievocatore saporito di un'umanità che soppesava,
analizzava ma non giudicava, neppure quando
apparteneva a quel clero così spesso protagonista della
sua satira, dei suoi versi, che si erano persino cimentati
nella traduzione della Divina Commedia (1804-07).
Non cercò elogi, non protezioni; visse nel cuore della
sua Milano senza incensare potenti, senza chiedere
favori o privilegi. Si accontentò di pochi viaggi, neppure
lunghi, dei soggiorni estivi in Brianza e non gli
sfuggirono i grossi rivolgimenti politici e ideologici,
partecipò ai secondi non ai primi e sopportò la lunga
sofferenza della podagra che lo portò a morte.
Precedette la critica maligna dedicando l'opera al figlio
Giuseppe con parole che chiarirono il senso della sua
moralità, che era quella di partecipare alle sofferenze di
quell'umanità ch'egli ritraeva senza falsi pudori, ma con
animo sgombro da ogni pregiudizio.
Eppure non riuscì a
salvarsi dagli zelanti, dai benpensanti, perché la prima
edizione delle sue poesie (1817) presso l'editore
Cherubini di Milano subì tagli, emendamenti di amici,
parenti e persino dell'editore stesso. Così fu per le
successive raccolte postume, e bisogna arrivare
all'edizione critica del 1955-56 curata da Dante Isella per
ritrovare nelle 165 poesie ivi raccolte, con abbozzi e
frammenti, il verso integro di Porta.
La sua complessa
esperienza letteraria trae materia da un retroterra in cui
si collocano l'immediatezza della tradizionale "bosinata"
milanese e le intenzioni realistiche della poesia dialettale
di Maggi e di Passeroni. Porta vede il dialetto come un
compiuto strumento di comunicazione di un'autonoma
visione del mondo. Egli vi scopre in sostanza una nuova
forma e un nuovo contenuto che lo inseriscono a pieno
titolo nell'esperienza del romanticismo italiano ed e
europeo.
Il suo nome diventa popolare nel 1812 con la
pubblicazione delle Desgrazzi de Giovannin Bongee, il
primo dei monologhi in cui si possono ravvisare i
capolavori della poesia portiana. La miseria dell'uomo,
aggravata da un cattivo ordinamento politico-sociale,
trova in Porta un cantore acutissimo, i suoi personaggi,
rappresentativi del popolo, diventano creature a tutto
sbalzo per potenza realistica, comica, simbolo di una
classe che soffre il sopruso, da cui è schiacciata, ma da
cui non esce distrutta la sua umanità potente che è quella
eternamente viva, aspra, eppur rasserenante del popolo.
Giovannin Bongee è l'espressione di quella diffidenza
verso il potente che è esperienza di una condizione
materiale dove l'ingiustizia è immancabile. Egli è vittima
di quegli ufficiali e di quei gendarmi francesi una volta
salutati come liberatori, ma che non possono fare a
meno di essere "quei prepotentoni dei frances" che
spadroneggiano per Milano al pari della ronda dei
"Crovatt" (si legga austriaci).
Ancora pittura di un mondo in cui l'umile è dannato a soffrire e vivere
l'amarezza della sua condizione di diseredato dalla sorte,
dalla vita e dalla natura. Così è della Ninetta del Verzee
(1814), del Lament del Marchionn di gamb avert
(1816), del Meneghin biroeu di ex monegh (1820), in
cui il lamento dei vinti è raccolto dalla pietà dell'autore,
mentre una satira a tutto tondo irride il potente e lo
accusa per la trascuratezza che lo tiene lontano
dall'uomo.
Gioca intanto l'ironia, che lascia pur spazio a commossa
commiserazione, su un clero che spesso appare come
una grossa fetta tagliata via a sua volta dal popolo. È
questo un capitolo importante della poesia di Porta.
Ancora una volta egli non si sente di condannare tutto
un mondo e non coinvolge tutto il clero nella sua satira. È
satira. È la scarsa vocazione su cui egli irride e mette a
fuoco l'avarizia, il peccato di gola, la sete di una vita
godereccia, senza dimenticare che Napoleone aveva
ridotto il basso clero a mendicare messe, pranzi in casa
di nobili (quei nobili ch'egli mette egualmente alla
berlina: si veda la figura della marchesa Paola Traversa,
di Donna Fabia Fabbron de Fabrian), prebende, a
lucrare su successioni con intrighi, artifici, malevolenze.
Ne nascono odi straordinarie, si veda Fra Diodatt, On
miracol, Fra Zenever (1813-14), One funeral (1817)
più nota dal 1821 come Miserere (con salmi brontolati
in alternanza ritmica di lamenti funebri e parole evocanti
le ghiottonerie della mensa), La nomina del cappellan
(1819), La guerra di pret (1820).
Di pretesti caricaturali, satira, invenzione narrativa la poesia di Porta è
ricchissima. Il suo è un mondo corposo, è il popolo
pieno di sofferenza, ma con una voglia pazza di vivere
più che di sopravvivere, perché dentro di sé porta una
certezza, quella di essere migliore di quanto appare.
L'ingiustizia gli fa tenere il capo chino, ma se un giorno
riuscirà a buttare il potente nella polvere la sua risata
esploderà come una liberazione e un canto alla vita.
Bibliografia